domenica 8 febbraio 2009

Nella rassegna stampa di oggi:

1) 08/02/2009 12.20.38 – Radio Vaticana – Benedetto XVI all'Angelus: prego per tutti i malati, specie per coloro che non possono provvedere a se stessi. Appello del Papa per il Madagascar
2) URGENTE!!! Firmate l'appello a Napolitano!!! , dal sito CulturaCattolica.it
3) 7 Febbraio 2009 - ELUANA - Ora le hanno tolto cibo e acqua dal sito http://www.avvenire.it/Cronaca/eluana+7+febbraio.htm
4) "Mammallatte" - Autore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - sabato 7 febbraio 2009
5) Michele ed Eluana: due calvari paralleli, due epiloghi diversi - Autore: Riva, Sr. Maria Gloria Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - venerdì 6 febbraio 2009
6) Pacatezza ed equilibrio per la vicenda Englaro - La dignità della morte - di Lucetta Scaraffia – L’Osservatore Romano, 8 Febbraio 2009
7) Identità e ruolo di uno dei cardini della famiglia - Che cosa fa di un uomo un padre - È in libreria il volume In cerca del padre. Storia dell'identità paterna in età contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 2009, pagine 277, euro 20. Ne pubblichiamo l'introduzione. - di Giulia Galeotti – L’Osservatore Romano, 8 Febbraio 2009
8) Walt Whitman tra vitalismo e autoironia - Un duro dal cuore tenero - È appena uscita un'antologia di poesie di Walt Whitman - con una nuova traduzione - tratta da Foglie d'erba e intitolata Canto una vita immensa (Milano, Ancora, 2009, pagine 160, euro 13). Riportiamo ampi stralci della prefazione del curatore. - di Antonio Spadaro – L’Osservatore Romano, 8 Febbraio 2009
9) ELUANA/ La "stoffa" umana di chi ci governa - Roberto Colombo - domenica 8 febbraio 2009 – IlSussidiario.net
10) Eluana non è più alimentata: lo conferma ufficialmente il legale degli Englaro - Redazione - sabato 7 febbraio 2009 – IlSussidiario.net
11) LA GENTE NON CAPISCE - LASCIAR MORIRE DI FAME SARÀ FORSE COSTITUZIONALE? - MARINA CORRADI – Avvenire, 8 febbraio 2009
12) NON POSSO TACERE DOPO 23 ANNI DI ESPERIENZA - Priva di coscienza e parole Eluana capace di relazione - GUIDO CROCETTI – Avvenire, 8 febbraio 2009
13) «Sia nutrita per bocca». Parte un nuovo esposto - l’iniziativa - Il Coordinamento delle associazioni friulane al procuratore: «Protocollo non conforme alle decisioni della Corte d’appello di Milano» Ieri in centinaia davanti alla casa di riposo con bottiglie d’acqua e candele - DA UDINE – Avvenire, 8 febbraio 2009


08/02/2009 12.20.38 – Radio Vaticana – Benedetto XVI all'Angelus: prego per tutti i malati, specie per coloro che non possono provvedere a se stessi. Appello del Papa per il Madagascar
Nonostante faccia parte dell’esperienza umana, noi facciamo fatica ad abituarci alla malattia perché “essenzialmente” siamo “fatti per la vita”. Lo ha affermato Benedetto XVI all’Angelus di questa mattina in Piazza San Pietro, dedicando la riflessione al Vangelo di questa domenica che vede Gesù impegnato nella sua missione di guarire i malati. Il Papa ha concluso l’Angelus pregando per gli ammalati - specialmente per quelli, ha detto, “che non possono provvedere a se stessi” - e invocando il ritorno alla “convivenza civile” per il Madagascar, agitato da incertezze politiche e disordini sociali. Il servizio di Alessandro De Carolis:

Cristo medico dei corpi oltre che delle anime: è l’istantanea del Vangelo di questa domenica. Una città intera si accalca alla soglia della casa di Simon Pietro, dove Gesù ne ha appena guarito la suocera. “L’esperienza della guarigione dei malati ha occupato buona parte della missione pubblica di Cristo - ha osservato Benedetto XVI - e ci invita ancora una volta a riflettere sul senso e sul valore della malattia in ogni situazione in cui l’essere umano possa trovarsi”. E questo perché, ha soggiunto:
“Nonostante che la malattia faccia parte dell’esperienza umana, ad essa non riusciamo ad abituarci, non solo perché a volte diventa veramente pesante e grave, ma essenzialmente perché siamo fatti per la vita”.

Giustamente, ha proseguito il Papa, “il nostro ‘istinto interiore’ ci fa pensare a Dio come pienezza di vita, anzi come Vita eterna e perfetta”. Di conseguenza, ha detto, “quando siamo provati dal male e le nostre preghiere sembrano risultare vane, sorge allora in noi il dubbio ed angosciati ci domandiamo: qual è la volontà di Dio?” A questo interrogativo, ha affermato il Pontefice, “troviamo risposta nel Vangelo”:

“Gesù non lascia dubbi: Dio - del quale Lui stesso ci ha rivelato il volto - è il Dio della vita, che ci libera da ogni male. I segni di questa sua potenza d’amore sono le guarigioni che compie: dimostra così che il Regno di Dio è vicino restituendo uomini e donne alla loro piena integrità di spirito e di corpo. Si comprende, pertanto, perché la sua predicazione e le guarigioni che opera siano sempre unite: formano infatti un unico messaggio di speranza e di salvezza”.

Benedetto XVI ha ricordato la Giornata mondiale del malato di mercoledì prossimo e il suo incontro che avrà nel pomeriggio con gli ammalati nella Basdilica di San Pietro, al termine della Messa presieduta dal cardinale Javier Lozano Barragan. E come nel suo Messaggio per la Giornata del malato reso noto ieri, il Papa ha ringraziato di nuovo i testimoni della “carità fraterna”, in particolare le comunità cristiane che si occupano di curare i malati:

“È vero: quanti cristiani - sacerdoti, religiosi e laici - hanno prestato e continuano a prestare in ogni parte del mondo le loro mani, i loro occhi e i loro cuori a Cristo, vero medico dei corpi e delle anime! Preghiamo per tutti i malati, specialmente per quelli più gravi, che non possono in alcun modo provvedere a se stessi, ma sono totalmente dipendenti dalle cure altrui: possa ciascuno di loro sperimentare, nella sollecitudine di chi gli è accanto, la potenza dell’amore di Dio e la ricchezza della sua grazia che salva.

Questa preghiera del Papa è stata seguita, dopo la recita dell’Angelus, da un’altra che Benedetto XVI ha detto di voler condividere con i vescovi del Madagascar e la loro Giornata di preghiera in favore della “riconciliazione nazionale e della giustizia sociale”. Una preghiera scioltasi in un appello:

“Vivamente preoccupato per il periodo particolarmente critico che il Paese sta attraversando, vi invito ad unirvi ai cattolici malgasci per affidare al Signore i morti nelle manifestazioni e per invocare da Lui, per intercessione di Maria Santissima, il ritorno alla concordia degli animi, alla tranquillità sociale e alla convivenza civile”.



Il ghigno di chi non ama la vita - Autore: Riva, Sr. Maria Gloria Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 8 febbraio 2009
URGENTE!!! Firmate l'appello a Napolitano!!!

Sarà perché il riquadro ricorda lo schermo delle televisioni, sarà perché le immagini televisive se viste di rado restano più impresse, fatto sta che alcuni volti degli intervistati sulla vicenda di Eluana Englaro nel tg del 6 febbraio 2009 mi hanno rimandato prepotentemente ad un quadro di Bosch.
Non posso dimenticare il viso, ma dovrei dire il ghigno, dell’avvocato Campeis mentre snobba il decreto legge e si abbandona alla sicurezza della mancata firma di Napolitano. Non posso non associarlo a uno dei tre che confabulano proprio accanto alla bella Veronica con gli occhi chiusi, tutta presa dalla Imago Dei che tiene fra le mani.
Mi ha sconcertato la risata tronfia dell’avvocato! Quand’anche avesse ragione, quand’anche la condanna a morte di Eluana fosse del tutto giustificata e rappresentasse un atto altamente umanitario, come tentano disperatamente di farci credere, com’è possibile ridere così di fronte alla morte? Ricordo alcune anziane della mia infanzia, con i figli persi in guerra e le fedi d’oro bruciate nella furia bellica di Mussolini, parlare con sgomento della fine del Duce, in piazza, appeso e sfigurato alla mercé di scherni e insulti.
E come loro chissà quante migliaia di madri italiane, che pure avevano ragioni da vendere per gioire della “scomparsa” di quel “Duce” abbassavano gli occhi con vergogna di fronte alla morte ignominiosa. E non meriterebbe più rispetto la morte di una innocente come Eluana, colpevole solo di non avere tutte le funzioni cerebrali a posto?
Come non si può non vedere il grottesco ritratto dei nostri caroselli televisivi in questa tavola di Bosch? Eccolo là il notabile pensoso, dall’abito rosso e dal berretto nero, tutto chiuso nel freddo calcolo della ragion di Stato! E quell’altro un po’ più dietro che lo segue a muso duro col bastone della condanna in pugno. Con tutto il rispetto per il nostro Presidente e per il ruolo del Presidente in sé, con tutto il rispetto per il mio paese e le sue istituzioni e le sue cariche, come non si può vedere qui la caricatura di quanti troppo presi dalle ragioni di stato e di politica perdono il contatto vero con la realtà? Come non vedere nell’uomo dal cappello rosso, l’onorevole Fini, mentre misconosce la ragione che è al disopra di ogni altra ragione? Quella ragione e quella realtà, umana e semplice che vedono il buon ladrone, il Cireneo e la dolcissima Veronica.
Come non vedere in Eluana, la Veronica di Bosch? Lei che nella sua impotenza porta impresso nel suo lenzuolo l’immagine di Colui che è il Signore della vita. Lui Cristo, anche oggi, è il centro della storia. Anche questa storia impazzita e stanca, incapace di avanzare di un passo verso la vera civiltà, è dominata dalla Sua Presenza. Cristo domina in coloro che hanno gli occhi chiusi, e la mitezza degli indifesi, come la Veronica, come Eluana.
In Bosch anche Cristo ha gli occhi chiusi, ma li apre laggiù, nell’angolo della tavola, dentro al lenzuolo bianco della Veronica. Lì apre gli occhi e guarda questa umanità intontita. Chissà che il “buon” Beppino Englaro possa giungere a vederlo, sua figlia ne sarebbe contenta. Quel giorno sarà lui, davvero, come gli è stato detto da sinceri amici, a risvegliarsi dal coma.


7 Febbraio 2009 - ELUANA - Ora le hanno tolto cibo e acqua dal sito http://www.avvenire.it/Cronaca/eluana+7+febbraio.htm
19.00 - Appello a Napolitano per Eluana da personalità laiche e cattoliche. Un appello al presidente della Repubblica per salvare la vita a Eluana Englaro è stato lanciato un gruppo di personalità cattoliche e laiche tra le quali spiccano il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni, il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga, i parlamentari del Pd Paola Binetti e Guglielmo Vaccaro e il direttore di Avvenire, Dino Boffo.
"Signor Presidente - si legge nell'appello - la tragica fine che si prospetta per Eluana Englaro non lascia indifferente la coscienza civile dell'Italia. Eluana è portata a morte senza che sia stata accertata in maniera incontrovertibile la sua volontà, nè l'irreversibilità del suo stato vegetativo. Eluana rischia dunque di morire sulla base di una volontà solo presunta, e sarebbe l'unica persona a subire una tale sorte, poichè nessuna delle leggi sul fine-vita in discussione in Parlamento permetterà più questo obbrobrio". "Signor Presidente - è scritto - Le chiediamo fermamente di non permettere questa tragedia, che sarebbe un insulto sanguinoso alla storia, alla cultura, all'identità stessa del nostro Paese, convinti come siamo che nessuno deve essere costretto a morire per un formalismo giuridico". "Le chiediamo - si legge ancora - un intervento perchè di concerto con il Governo sia data una moratoria alla sospensione dell'alimentazione e idratazione cui è sottoposta Eluana, in attesa che il Parlamento - nelle cui fila si è già appalesata un'ampia maggioranza in sintonia con la maggioranza che vi è nel Paese - possa pronunciarsi su un'adeguata legge.Siamo certi che Ella non rimarrà insensibile al nostro appello".
Tra i primi firmatari sono presenti Giancarlo Cesana, Vittorio Feltri, Mario Giordano, Dino Boffo, Luigi Amicone, Giuliano Ferrara, Rocco Buttiglione, Fabrizio Cicchitto, Maurizio Gasparri, Gaetano Quagliariello, Renato Pozzetto, Mario Melazzini, Carlo Casini, Giampiero Cantoni.



"Mammallatte" - Autore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - sabato 7 febbraio 2009
Mi sono svegliata stamane pensando ad un episodio di molti ani fa, e il suo ricordo non mi vuole lasciare.
Era estate, eravamo in campeggio con i nostri tre figli, il primo campeggio della nostra famiglia e la mattina presto, molto presto, quando ancora l’umidità ricopriva la tenda, il sole aveva iniziato da poco a filtrare tra gli alberi di leccio, e noi avevamo ancora estremo bisogno di dormire, il più piccino dei nostri bambini che aveva poco più di due anni, sgusciava dal sacco a pelo, apriva la cerniera della tenda quel tanto che gli bastava per uscire a carponi, s’issava sulla sedia di plastica e stando in ginocchio, posava le sue paffute braccia conserte sul tavolo iniziando a dire senza sosta: “mammallatte, mammallatte, mammallatte” era impossibile ignorarlo, ficcare la testa sotto il cuscino, bisognava alzarsi e placare quel suo bisogno primario.

Mi è tornato in testa quel ritornello, pensando ad Eluana, alla sua impossibilità di dire: “mammallatte” o “mamma acqua”, e al nostro mettere la testa sotto il cuscino per fingere che si stia compiendo un gesto pietoso e non un orribile e devastante gesto mortifero.
Non posso non pensare a sua madre, ho letto ieri che è molto malata, non ha retto il dolore per quanto capitato a questa figlia alla quale aveva dedicato la vita, mi si spezza il cuore al pensiero di quella donna che oltre al dolore per quanto è capitato alla figlia deve lottare e combattere per vivere, una vita che forse per lei non ha più senso, nessuno deve e può giudicare il dolore e la solitudine di questa famiglia, lo sguardo vuoto di papà Beppino, che ripete come un mantra che nulla lo può più ferire, forse se avessero incontrato altri, se avessero percorso la strada del dolore con un’altra compagnia, Eluana dalla pelle di pesca, continuerebbe ad aprire gli occhi al giorno, a chiuderli di notte, a tossire e ad essere accudita, ma soprattutto loro potrebbero vivere con la consapevolezza che il loro immenso dolore può essere d’aiuto ad altri, può rendere la vita d’altri genitori, d’altri figli, meno sola, meno dura.

Perdonaci Eluana, se puoi perdonaci, perché la tua agonia ci fa tutti più cinici, il tuo lento morire cambia lo sguardo con cui guardare ai nostri figli.

Nessuno sa fino in fondo, nemmeno i luminari della scienza, se tu nel tuo profondo non stia implorando “mammallatte” e non hai che un colpo di tosse che tutti ignorano, per cercare di far uscire dalla prigione del tuo corpo quel grido, nessuno lo sa, ma nel dubbio, lasciarti morire è un'atrocità che ci rende tutti meno uomini.


Michele ed Eluana: due calvari paralleli, due epiloghi diversi - Autore: Riva, Sr. Maria Gloria Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - venerdì 6 febbraio 2009
Michele, 21 anni, si è spento ieri (5 febbraio 2009) come la fiamma di una candela cui è mancato l’ossigeno. Il suo calvario era incominciato a 8 anni: un tumore al cervello non prontamente riconosciuto. Tredici anni di vita vissuti con la fierezza di chi sa di esistere per la grazia di qualcun Altro. Proprio la notte in cui trasportavano Eluana a Udine, Michele si aggravava e noi lì, al suo capezzale. Guardare lui e vedere Eluana era quasi naturale. Due calvari paralleli, due epiloghi diversi.
La vita che passa nel corpo, in uno stato apparentemente vegetativo, la si indovina solo con gli occhi dell’anima, quelli che il nostro mondo sazio ha perduto.
Caro padre di Eluana, nel dolore dei genitori di Michele abbiamo visto e condiviso qualcosa del tuo dolore, ma quale drammatica differenza! A qualunque costo essi avrebbero tenuto il loro Michele per altri 13 o 26 o 39 anni, e lo avrebbero nutrito non col sondino, ma col loro sangue fosse stato necessario! Pur di sentirlo respirare, pur di assaporare il miracolo della sacralità di quella vita al di sopra di ogni valutazione o giudizio umano!
Davvero non si è padri o madri per generazione biologica, si è padri e madri solo nella generazione che fa vivere l’altro, che desidera che l’altro sia, anche nel dramma di un esistere doloroso.
Ieri sera Michele era in agonia e noi, a Vespro suonavamo le campane a morto, come ha chiesto il nostro vescovo di San Marino - Montefeltro, a denuncia di una cultura occidentale che, con Eluana, sta veramente morendo.
Cari assistenti alla morte presunta indolore della Englaro, vorremmo che il tocco di queste campane raggiungesse i vostri cuori e non li abbandonasse, vorremmo che si caricassero della eco delle testimonianze degli amici di Eluana, delle amiche della madre di Eluana, di Crisafulli che ha raccolto dalle labbra del Padre di Eluana confessioni sconcertanti.
Sì, vorremmo che queste voci rimanessero in voi, come la voce di una coscienza perduta. Dio non voglia che Eluana muoia per mano vostra, ma se dovesse morire rimanga il suo grido silenzioso nella memoria della nostra storia, come implorazione alla vita per migliaia di altri in condizioni analoghe alla sua.


Pacatezza ed equilibrio per la vicenda Englaro - La dignità della morte - di Lucetta Scaraffia – L’Osservatore Romano, 8 Febbraio 2009
Quest'ultima fase della penosa vicenda Englaro sembra essere quella della verità: la realtà sta prendendo infatti il sopravvento sulle versioni ideologicamente esasperate che hanno prevalso sui media sino a poco fa. Da una parte, chi diceva che Eluana in realtà era morta diciassette anni fa, e via con le solite tirate sulla vita - o morte? - dignitosa, e sulla libertà di ciascuno di disporre di sé e della propria vita. Dall'altra, in mezzo a tanti discorsi seri e sensati, a tante difese coraggiose e convincenti della vita di questa povera donna, anche toni un po' esaltati ed esibiti, talora con accenti eccessivi, proprio quando sono così importanti la pacatezza e l'equilibrio. Ma da quando Eluana è stata trasportata di notte da Lecco a Udine per morire, ecco che tutto cambia: si viene a sapere che per morire ci metterà da due a tre settimane, che sarà necessario somministrare dei sedativi - perché non possiamo essere sicuri che non senta dolore - e che ci vorrà un'équipe di medici e di volontari per assisterla. Allora, anche chi non aveva voluto informarsi seriamente, chi pensava che si trattasse semplicemente di un caso di accanimento terapeutico, comincia ad avere dei dubbi: il fatto che questa donna sia viva e non tenuta in vita da macchine, che non sia una paziente moribonda, balza finalmente agli occhi di tutti. Non sono più le parole di un medico contro un altro, ma è la realtà che parla. Così pure l'ammissione - anche da parte del neurologo Carlo Alberto Defanti, medico curante solidale con il padre - che non sappiamo se soffrirà o no, fa capire come in fondo, a proposito dei livelli di consapevolezza di Eluana, non si possa escludere nulla. Sempre in questi ultimi giorni, il tentativo del procuratore della Repubblica di Udine di riaprire il fascicolo relativo alla sentenza del tribunale lombardo che ha accettato la tesi di Beppino Englaro non ha avuto esito, ma è servito a dare voce a nuovi testimoni, non ascoltati nel procedimento, importanti e attendibili. In sostanza, emerge con chiarezza che la sentenza alla fine favorevole alle ragioni del padre sia, a dire poco, controversa. Questo fatto, naturalmente gravissimo, mostra come sia difficile, se non impossibile, appurare le intenzioni sulla propria vita non espresse per scritto, davanti a testimoni, in modo chiaro e indiscutibile. E senza aprire il problema - altrettanto delicato e reale - di un possibile cambiamento qualora ci si trovi in condizioni di malattia, già solo le difficoltà di accertamento della volontà fanno comprendere a quale fragile e inconsistente filo sia legata l'utopia della libertà di disporre della propria vita. Privata della protezione di una legge che la consideri essere umano anche nelle condizioni di stato vegetativo persistente, che non la lasci in balia dei desideri - se pure dolorosamente comprensibili - dei familiari provati dalla disgrazia, Eluana viene condotta a una morte che si avvicina molto più all'eutanasia che al rifiuto di cure sproporzionate. Questo caso, lacerando l'Italia e costringendoci a riflettere, ha messo in luce tutte le ambiguità che stanno dietro le ideologie, in apparenza pietose, della morte dignitosa e della libertà di disporre della propria vita. E fa capire, più di mille discorsi, quale può essere la deriva di una società che decide chi non è più "degno di vivere" promuovendone la morte, una società per cui la morte diventa un confine convenzionale e non naturale, quindi da definirsi attraverso leggi e pareri medici. Il tutto sempre velato dal mito della libertà individuale, che sembra raggiungere il suo apice nell'ottenimento del diritto di decidere della propria fine. Questo discorso risulta poi particolarmente fuori luogo, e giustificato solo dall'ideologia, se lo confrontiamo con il modo in cui si muore nelle nostre società occidentali: chiunque ha assistito un parente gravemente malato sa che fino all'ultimo al paziente viene celata la prossimità della morte, come se fosse qualcosa di indicibile e insopportabile, per lui e per le persone che gli stanno intorno. In genere, oggi si tende a circondare la morte di veli, facendo di tutto per ignorare che si sta per morire: e questa sarebbe la morte dignitosa? Dal momento che la morte è parte fondamentale della vita umana, questa sua rimozione, sulla quale sono state spese tante pagine di storici, sociologi e filosofi - senza però incidere sulla realtà del vissuto - costituisce una prova dell'abbrutimento culturale in cui viviamo. Se non si ha il coraggio di guardare negli occhi una persona cara che sta per morire, dicendo la verità e aiutandola, come si può parlare di morte dignitosa per Eluana? Come possiamo discutere di "disponibilità della vita"? È da lì che dobbiamo cominciare per pensare a una morte davvero dignitosa, senza lasciarci condizionare dalle ideologie di chi vorrebbe decidere per una persona debole, quando non è più in grado di difendersi.
(©L'Osservatore Romano - 8 febbraio 2009)


Identità e ruolo di uno dei cardini della famiglia - Che cosa fa di un uomo un padre - È in libreria il volume In cerca del padre. Storia dell'identità paterna in età contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 2009, pagine 277, euro 20. Ne pubblichiamo l'introduzione. - di Giulia Galeotti – L’Osservatore Romano, 8 Febbraio 2009
L'evoluzione della nozione di paternità in Occidente nell'arco temporale che va dalla Rivoluzione francese ad oggi è l'oggetto di questo studio. Una vicenda dai molti protagonisti e dalle numerose sfaccettature, risultato di piani complessi che variamente s'intersecano, a volte in anticipo altre in ritardo, alternando momenti di sintonia a stridenti contrapposizioni, l'ultima delle quali è forse solo agli inizi. La vicenda prende le mosse dall'impostazione romanistica che sino al Novecento, in assenza di indicazioni biologiche, ha cercato di risolvere l'incertezza della paternità affidandone l'individuazione all'ordinamento giuridico, che poggiava sulla volontà implicita o esplicita dell'uomo di essere padre, in uno schema sostanzialmente proprietario. Solo nel corso del xx secolo le analisi ematologiche prima e quelle sul Dna poi, sono state in grado di fornire elementi precisi, rendendo possibile superare l'antica presunzione giuridica. Si è trattato tuttavia di un punto d'arrivo ben presto superato, poiché le nuove tecniche di fecondazione assistita, attraverso l'inseminazione eterologa, hanno costretto a ridefinire la nozione di paternità a prescindere dal mero dato biologico. Ciò ha determinato un paradossale ritorno all'antico, riattribuendo al diritto - pur su basi nuove - il compito di individuare il padre. Già questa sintesi mostra le difficoltà di ricostruire un percorso in cui ambivalenze e contraddizioni sono in costante agguato, poiché ogni nuovo tassello risolve un problema ma ne crea di nuovi. E ciò, se è vero in generale, risulta amplificato nella vicenda della paternità che investe il momento più intimo e fondante delle relazioni umane. Fortemente radicata sul piano affettivo e domestico, la paternità è un termometro significativo dei mutamenti sociali, in cui si intersecano vissuti personali, disposizioni legali ed evoluzione scientifica in una dialettica elicoidale, fonte di drammi e di progresso. È una storia di esistenze concrete, di uomini che hanno avuto figli, negandoli o amandoli, dimenticandoli o rincorrendoli. Ma è anche la storia di quei bambini, e degli adulti che diventeranno; delle donne che li hanno partoriti e delle relazioni - spesso drammatiche - che hanno avuto con quei padri. (...). Nella vicenda il piano giuridico è stato sempre presente in tutte le sue sfaccettature. Il ruolo che il diritto ha esercitato si è però trasformato nel tempo, passando dalla funzione di attribuire o di negare la paternità, a quella più modesta di registrarla. E quale debba essere il suo ruolo oggi è questione aperta. Il passaggio non è stato facile. Il diritto non ha rinunciato di buon grado al suo compito. Né molti padri, reali e concreti, sono riusciti ad accettare e interiorizzare la rivoluzione copernicana di una paternità completamente sfuggita al loro controllo, e, quindi, alla loro volontà. Quanto alle conoscenze scientifiche, il dato di partenza, millenni prima dell'età contemporanea, era davvero scoraggiante: come ha scritto Marco Cavina, "la preistoria non conosceva i padri, anzi si potrebbe forse dire che la storia dell'uomo prenda inizio con la scoperta del padre" (estraneità non facilmente accettata, tanto che l'uomo tentò di rimediare ricorrendo, ad esempio, alla pratica della couvade). Una volta riconosciuto il ruolo maschile, sorse il problema di "quale maschio" avesse concorso a "quale nascita", un problema che ha caratterizzato la storia di tutte le civiltà patriarcali. Se nel Novecento i progressi scientifici hanno impostato su basi completamente nuove la ricerca del padre, oggi tutto questo sembra essere messo irreparabilmente in crisi dalla fecondazione eterologa. Nella misura in cui scienza e Dna risultano prescindibili, diventa preminente la questione del ruolo, il fatto cioè che l'uomo si comporti come un padre. Peraltro, nemmeno quest'enfasi sul ruolo parrebbe una novità, trattandosi - ancora una volta - di un ritorno all'antico. (...) Va da sé che, nella misura in cui si supera il dato biologico e genetico, il discorso sulla paternità indicata dalla natura e rivelata dalla scienza - a prescindere dalla volontà dell'uomo - salta completamente. Se si ricorre al seme altrui per diventare padre, per rendere il proprio compagno padre o per dare un padre al figlio, è evidente che la volontà diventa il deus ex machina dell'intero processo: è dall'incontro tra la scienza medica e la volontà dei soggetti coinvolti che nasce un bambino. (...) Siamo davvero davanti ad uno snodo molto delicato: orientarsi tra una paternità biologica e una paternità di decisione e di affetti non è più una questione astratta. E se è vero che viviamo in società in cui la scelta e la volontà acquistano un peso sempre più notevole in termini di vita e di morte, di nascita e di salute, occorre vedere se saremo in grado di assumerne, in termini innanzitutto sociali, le conseguenze. (...) Le pagine che seguono mettono in luce l'evoluzione sottesa all'implicito interrogativo del titolo: In cerca del padre intende evocare una duplicità di piani, richiamando un nodo esplicito ed immediato - chi sia il padre del nato - e uno più nascosto e vitale - cosa faccia di un uomo un padre. Già da queste prime considerazioni emerge tutta la complessità della figura in età contemporanea. Ad esemplificare il quadro, ci può aiutare un passaggio del romanzo di Philip Roth, Patrimonio. L'autore ascolta una telefonata tra il suo anziano genitore Hermann ("non era un padre qualunque, era il padre, con tutto ciò che c'è da odiare in un padre e tutto ciò che c'è da amare") e l'amica Lil. "Sentii che le diceva: "Philip è come una madre, per me". Rimasi sorpreso. Credevo che avrebbe detto "come un padre", ma la sua descrizione era, in realtà, più sottile delle mie banali aspettative, e al tempo stesso molto più flagrante, impassibile e invidiabilmente, spavaldamente schietta". Questo passaggio coglie il nocciolo del nostro tema.
(©L'Osservatore Romano - 8 febbraio 2009)


Walt Whitman tra vitalismo e autoironia - Un duro dal cuore tenero - È appena uscita un'antologia di poesie di Walt Whitman - con una nuova traduzione - tratta da Foglie d'erba e intitolata Canto una vita immensa (Milano, Ancora, 2009, pagine 160, euro 13). Riportiamo ampi stralci della prefazione del curatore. - di Antonio Spadaro – L’Osservatore Romano, 8 Febbraio 2009
"Con il suo vigore e con il grande respiro dei suoi versi, mi mette in uno stato mentale di libertà, pronto a vedere meraviglie; mi porta, per così dire, in cima a una collina o al centro di una piana; mi scuote e poi mi getta addosso migliaia di mattoni": queste le impressioni che lo scrittore Henry David Thoreau ricavava dalla lettura della poesia del suo contemporaneo Walt Whitman (1819-92). L'anno di esordio del poeta statunitense fu il 1855. A 36 anni Whitman a proprie spese pubblicava la prima edizione di Leaves of Grass (Foglie d'erba), l'opera poetica che lo avrebbe reso un gigante all'interno del canone letterario statunitense. Fu stampata presso "Rome Brothers" di Brooklyn, includeva 12 componimenti e occupava 94 pagine.
Cosa accadeva in quegli anni? Nasceva Pascoli, Carducci elaborava le sue Rime, e Baudelaire i suoi I fiori del male. Proprio in questi anni Whitman scriveva: "Gli Stati Uniti in sé, nella loro essenza, sono il più grande dei poemi. (...) Qui finalmente troviamo nell'umano operare qualcosa che risponde all'operare maestoso del giorno e della notte". Ad una prima lettura queste espressioni potrebbero comunicare l'idea di un orgoglio patriottico che scade nell'enfasi retorica. Dov'è l'intensità silente e meditabonda di tanta grande poesia? Dove il dramma della coscienza inquieta che trova la poesia nelle sfumature? Nulla del genere in Whitman e anzi, poco dopo l'uscita dell'edizione finale di Foglie d'erba (1892), c'era in Italia chi confidava che la "freschezza vitale" dei suoi versi fosse capace di liberare l'"asmatica e tisica nostra poesia" e di trasfondere in essa un po' di sangue.
Whitman canta l'America, cioè gli Stati Uniti, e sa che la vita di quella nazione "attende di essere trattata nel modo gigantesco e generoso che merita". Ci chiediamo: ad una coscienza che resta indignata, giustamente, anche dalla più sottile forma di egemonia o predominio culturale, è possibile tollerare oggi una poesia che parte da queste premesse? E, a maggior ragione: la sensibilità artistica cultrice del nulla, della crisi, del dubbio, della détresse della condizione umana potrà ascoltare le parole di questo poeta senza inorridire? È certa una cosa: l'onda d'urto della poesia whitmaniana, tra esaltazioni e denigrazioni, ha attraversato un secolo e mezzo, influenzando tutta la poesia americana successiva, ma anche quella che attinge ad altre radici: dal poeta gesuita Gerard Manley Hopkins ("Ho sempre saputo in cuor mio che la mente di Walt Whitman è simile alla mia più d'ogni altra") a Thomas Stearns Eliot, da Ezra Pound ad Allen Ginsberg, da Federico García Lorca a Jorge Luis Borges, Pablo Neruda, Rubén Darío, fino ai nostri Piero Jahier, Dino Campana (che chiude i suoi Canti Orfici con un verso di Whitman) e Cesare Pavese, che si laureò con una tesi su Whitman e da lui attinse l'ispirazione epico-descrittiva di Lavorare stanca. Con Emily Dickinson, Whitman è al centro del "canone" letterario statunitense. Chi intende occuparsi di letteratura, non solo americana, non può dunque evitare di fare i conti, prima o poi, con questo controverso scrittore.
Il poeta nacque in un villaggio di Long Island nel 1819. Whitman fu tipografo, maestro e giornalista e per quest'ultimo mestiere viaggiò da New Orleans a Chicago e New York, risalendo il Mississippi e i Grandi Laghi e scendendo lungo l'Hudson. Questo itinerario segnò profondamente la sua ispirazione, come anche il paesaggio urbano e industriale della sua città natale. L'opera poetica di Whitman è raccolta in un solo grande libro, Foglie d'erba, a cui lavorò per quasi quarant'anni e di cui uscirono ben nove differenti edizioni. La sua opera comprende anche altre prose di diseguale valore, delle quali le maggiori sono Democratic Vistas (Visioni democratiche) del 1871, un saggio sull'edificio democratico americano all'indomani della Guerra di secessione, e Specimen days (Giorni rappresentativi) del 1882, in cui leggiamo, tra l'altro, ricordi personali di guerra, vissuta dal poeta come infermiere volontario. Whitman chiede al suo lettore di accettare tutto, compresi i toni estatici o virulenti, passionali o dolci, che si susseguono nella sua opera. Occorre accettare tutto come da un veggente o da un profeta, senza pensare di avere davanti un'opera compiuta e coerente in tutte le sue parti. I suoi versi sono l'espressione di una radicale fiducia nelle forze dell'individuo. Il grande scrittore cattolico inglese Gilbert Keith Chesterton ha indagato con profondità il verso whitmaniano sotto questo aspetto. In un saggio del 1929, dal titolo L'umanesimo è una religione? così egli ragiona: "Ciò che apprezzavo era quella proposta di una nuova eguaglianza, che non consisteva in uno squallido livellamento, ma in un entusiastico guardare in alto; un grido di gioia sul semplice fatto che gli uomini erano uomini. (...) Ognuno di essi possedeva quella maestà e quella mistica propria degli dei, pur essendo nello stesso tempo franco e confortante amico". Ciascuno con la propria aureola: "La gloria apparteneva agli uomini in quanto tali". Così come "mai la Chiesa cattolica - prosegue Chesterton - riterrà che un idiota qualsiasi, o una persona qualunque, non valga la pena di essere salvata". Così ogni sguardo umano diventa "materia per poetare misticamente". Se molti poeti hanno valorizzato l'uomo, Whitman valorizzava gli uomini: centinaia di teste, ognuna con la sua aureola dorata e illuminata, secondo una sua espressione. Ma questa immagine, commenta Chesterton, in realtà è molto antica: vi sono molti quadri in cui le folle sono incoronate dalle aureole, per indicare che tutti hanno raggiunto la beatitudine. Qui si va alla radice, cogliendo un riflesso teologico profondo del messaggio whitmaniano: "Per i cattolici è un dato di fede fondamentale ritenere che tutti gli esseri umani, senza eccezione di alcun tipo, sono creati per un fine, sono formati e intagliati per essere frecce luminose, che puntano al bersaglio della beatitudine".
Il verso deve esprimere questa gloria. La "materia" dell'ispirazione è il common people, la gente comune con la sua "indescrivibile, spontanea freschezza": "Io canto il sé, la semplice singola persona, / E tuttavia pronuncio la parola Democratico, la parola En masse" (Dediche). Nell'edizione 1855 di Foglie d'erba Whitman si presentava così: "Walt Whitman, americano, uno dei duri, un kosmos, / Turbolento, fatto di carne e sensi...". Nelle successive edizioni il verso rimane ma perde l'espressione one of the roughs (uno dei duri). È un sintomo, forse. Perché questa cancellazione? Al di là di un puro motivo estetico e formale, si può intravedere qualche motivazione più sottile, profonda o inconsapevole? Il discepolo Edward Carpenter, che aveva immaginato il poeta come un personaggio eccentrico, instabile e rude, conoscendolo per la prima volta nel 1877 affermò di aver avuto l'impressione opposta: "Non avevo mai visto un essere più gentile, modi semplici, maggiore libertà da qualsiasi posa egoistica". Parlò anche di "tristezza" e di "un senso di remota distanza e inaccessibilità". Dobbiamo dunque credere veramente al Whitman che si proclama "un duro"? Per rispondere a questa domanda che riguarda la sua persona appare evidente la necessità di appellarsi al poema Canto di me stesso, che prese questo nome solo dal 1881, ma che era presente sin dalla prima edizione del 1855. Chi è il myself, il "me stesso" di cui si canta? Quando Whitman parla di sé in prima persona sostanzialmente distingue un my self da ciò che egli chiama real Me o Me Myself. Potremmo tradurre, semplificando, che il poeta distingueva il suo "io ideale" o la sua "maschera" (il my self), dal suo "io reale" (il real Me), cioè quello che realmente sentiva di essere. Quando Whitman canta di se stesso, canta del suo io ideale, identificandosi con i "duri", che poi sono i ragazzi di strada, gli schietti e robusti lavoratori che egli considerava la spina dorsale della terra americana e che egli incontrava sui marciapiedi affollati di Brooklyn e Manhattan. Se il "me stesso" che Whitman canta in Canto di me stesso è turbolento, duro, atletico e vigoroso, sensuale, il "me reale" che emerge chiaramente, ma forse meno visibilmente, dalla sua poesia è dolce, equilibrato, lirico, tendente a stare in disparte, elitario, oscuro: è il vero mistero, il "genio" poetico. Come Whitman scrive nei versi dell'edizione 1855 del Canto, tutto ciò che costituisce la sua vita ideale "non costituisce il mio Io (But they are not the Me Myself). / Ciò che io sono in disparte sta da quanto mi attira e trascina, / Se ne sta divertito, compiacente, compassionevole, inattivo, in sé conchiuso, / Guarda dall'alto in basso, eretto, o piega il braccio su un punto di impalpabile quiete, / Guarda col capo reclinato, curioso di ciò che accadrà, / Partecipe e fuori del gioco, osserva e stupisce".
È questo il ritratto perfetto di Whitman. Molte pagine autobiografiche di Giorni rappresentativi ci danno conferma della sensibilità del real Me whitmaniano, che emerge con forza dal 1876, cioè dopo che egli ebbe vissuto la tragedia della guerra civile e dopo che ebbe superato la fase peggiore di una paralisi da cui fu colpito nel 1873.
Alla luce di queste osservazioni, leggendo con attenzione l'opera di Whitman ci si rende conto che la vastità e l'"elettricità" delle immagini che escono dalla sua penna sono la proiezione viva di un desiderio. Essa è "vera" perché poetica e non perché biografica. I biografi, del resto, ci hanno sempre rivelato il poeta atletico e "duro" come una persona tendenzialmente lenta nei suoi movimenti, riflessiva, anche un po' pigra. Solo a partire dalla sua posizione di curiosa e stupita osservazione, dalla quiete inattiva e insieme compiacente, gli è stato possibile scrivere versi di vibrante epos e appassionato desiderio di identificazione. Vi è uno scarto tra la delicatezza del sentimento del sé e il corso travolgente della vita attiva degli uomini "duri". È proprio questo scarto a generare la mitologia poetica whitmaniana. Seguendo l'emergere dell'io reale, ecco che possiamo raccogliere passaggi di grande intensità, capaci di valutare anche le delusioni che l'io ideale è costretto a subire, come leggiamo in Relitti marini: "Deluso, abbattuto, con lo sguardo chino a terra, / Col cuore oppresso, perché ho osato aprir bocca, / Consapevole adesso che tra tanto chiacchiericcio, i cui echi ricadono su di me, non ho mai avuto idea di quel che io sia e chi io sia, / E che di fronte a tutti i miei superbi canti il mio vero Io (real Me) è ancora lì, ancora intatto, non espresso, del tutto inattinto". La poesia di Whitman dunque raccoglie due voci: una è quella del "bardo d'America", l'altra è quella che sembra parlare con le parole pascaliane del nostro Foscolo che leggiamo nell'Ortis: "Io non so né perché venni al mondo; né come; né cosa sia il mondo: né cosa io stesso mi sia. [...] Io non vedo da tutte le parti altro che infinità le quali mi assorbono come un atomo". È proprio nello spazio aperto tra il "me stesso" e il "me reale" che, a nostro giudizio, è piantato il seme dell'ispirazione whitmaniana. È un seme che ha prodotto frutto ben al di là di Foglie d'erba. Whitman infatti si fa capostipite di quei poeti e narratori - ed Hemingway primo tra tutti - che hanno mostrato attraverso la loro scrittura coraggio o spensieratezza, ma che insieme hanno vissuto un'intima dimensione di solitudine. Alla luce di queste considerazioni, come interpretare la visione del mondo e il ruolo della poesia che Whitman testimonia nei suoi versi più entusiastici? Risulta evidente che il quadro di riferimento di Whitman è quello di un nuovo paradiso terrestre. Esso risulta chiaro dai riferimenti alla figura di Adamo, alla freschezza ingenua e primitiva del nominare poeticamente le cose. L'impressione globale, anche proprio alla luce della distinzione fatta tra l'io reale e l'io ideale, è che la vera cifra per comprendere questa "Genesi Yankee", come la definì Clive Staples Lewis, non sia l'entusiasmo, ma l'attesa. I versi di Foglie d'erba attestano, se ben letti, l'attesa di una visione, il tendere inesausto verso una novità radicale, la profezia di un rapporto pieno tra l'uomo e la sua terra, di una fratellanza radicale tra gli uomini, di una laboriosità maestosa che sia reale con-creazione del mondo, l'attesa di una parola "vera" che dica la realtà e non resti solo appesa a fantasie. Ogni verso di Whitman vive dell'immagine realizzata di questo desiderio. Si fa riferimento all'Eden perché si riconosce in esso la condizione che l'uomo ha iscritto nel profondo di se stesso, originariamente. A questo punto le possibilità sono due: lasciar vivere quest'attesa e leggere Foglie d'erba come un libro che a partire dal presente dice un paradiso che sempre vivrà nel cuore dell'uomo, al di là di ogni realizzazione storica di quell'ideale; oppure leggere la raccolta come l'entusiastico e ingenuo strombettìo di un new age che cancella con una bacchetta magica tutto ciò che segna la pesantezza (e dunque la concretezza) della storia umana. È chiaro che le due possibili letture non possono che intrecciarsi, come si intreccia il reale e l'ideale, il già e il non ancora. Whitman forse si sarà talmente identificato con i suoi versi da credere realmente, in certi momenti, di avere in mano la spugna capace di cancellare il dolore, la morte, il peccato, il dramma; il che sarebbe inaccettabile perché espressione di una vanitas insanabile. A queste idee corrispondono i passaggi più deboli e retorici dell'opera whitmaniana. Se si decidesse però risolutamente di scegliere questa come ipotesi di lettura dell'intera raccolta di Foglie d'erba, a nostro parere, essa perderebbe la sua vera forza fino, in alcuni passaggi, a diventare parodistica. Il respiro poetico si risolverebbe in asma panteistica. Noi crediamo invece che il vero genio di Whitman, quello che genera le sue pagine migliori, non resti in queste secche ed esprima più il desiderio e l'attesa di una pienezza della vita umana, al di là di ogni compimento, che una cartolina oleografica di un paradiso terrestre ed attuale. Ma Whitman stesso, col passare degli anni, ha vissuto esperienze che, senza fargli abbandonare la tensione ideale, hanno purificato la sua ispirazione. Certamente l'esperienza della corruzione politica ha spostato il senso del suo inno agli Stati Uniti da proclama trionfale ad appello etico e ammonizione dura e appassionata. L'esperienza della guerra civile, quindi, lo segnò radicalmente e lo mise a contatto, nel ruolo di infermiere volontario, con tanti giovani che egli, con cure pazienti e sentite, aiutò a morire. Spesso leggeva loro la Bibbia, come egli stesso scrisse nelle sue note. La morte entrò così nella sua fantasia di poeta, producendo i versi di Rulli di tamburo e una parte delle prose di Giorni rappresentativi, che testimoniano una pietà intensa e amorevole, mossa dalla visione della sofferenza. I toni si modificano, le immagini cambiano, l'ispirazione modula versi che sono sì battaglieri, ma anche interrogativi: "Dovrò dunque mutare i miei canti trionfali? Mi chiesi, / Dovrò imparare a cantare le fredde nenie dei vinti? / E i cupi inni degli sconfitti?". Il poeta non demorderà mai: trasformerà, nel suo immaginario, i morti in "eroi" e la carneficina in "vittoria" finale. Ma adesso sa anche vestire i panni di Cristoforo Colombo e si inginocchia in una preghiera che è una delle sue più belle composizioni: "È prossima la mia fine, / Le nubi già si chiudono sopra di me; / Il viaggio è frustrato, il corso in dubbio e smarrito, / Io consacro le mie navi a Te. / Le mie mani, le mie membra si stanno infiacchendo, / Il mio cervello è tormentato, confuso: / Si sfasci pure la mia vecchia carcassa, io non mi sfascio, / Io mi abbraccio stretto a Te, o Dio, sebbene i flutti mi prendano a schiaffi; / Te, Te almeno so". E ancora: "La fine, che non so, riposa tutta in Te" (Preghiera di Colombo). Non è dunque un altro Whitman quello che scrive questi versi accorati e oranti: è lo stesso poeta entusiasta e fiducioso nell'evoluzione, ma dopo aver conosciuto il dolore collettivo della guerra e quello personale della paralisi. L'Eden è guardato con gli occhi d'attesa del Colombo morente. Adesso il poeta, più che percepire se stesso in forma di messia, è anche capace di riconoscere il volto di Cristo in un giovane colpito a morte: "Un viso né di fanciullo, né di vecchio, molto tranquillo, un viso sfumato di un bel tono d'avorio: / Giovane, io credo di conoscerti - credo che questo viso sia proprio il volto di Cristo, / Di Cristo, morto e divino; del fratello di tutti, che qui di nuovo giace". Tra le sue annotazioni troviamo anche le impressioni di una domenica del 1880 vissuta tra i malati di mente che assistevano al servizio religioso nel loro nosocomio. Il poeta ricava dai loro sguardi "la pace di Dio che supera ogni intendimento". Il riconoscimento del dolore e il discernimento di una pace che sorpassa la comprensione sono due testimonianze forti della sensibilità del poeta. Come leggere allora la poesia di Whitman? Forse è lo stesso poeta a suggerircelo: "I più grandi brani di poesia vanno accostati solamente a una certa distanza, a quel modo che talvolta cerchiamo di notte le stelle, non fissandole direttamente, ma spostando lo sguardo da una parte".
(©L'Osservatore Romano - 8 febbraio 2009)


ELUANA/ La "stoffa" umana di chi ci governa - Roberto Colombo - domenica 8 febbraio 2009 – IlSussidiario.net
La statura delle donne e degli uomini di governo non traspare quando cavalcano l’onda dell’entusiasmo e del sentimento popolare, né quando affrontano le folle inferocite che urlano contro i palazzi del potere e ne chiedono le dimissioni. Dalle monarchie alle repubbliche, il rispetto più grande e l’apprezzamento per la loro umanità è stato riconosciuto a chi, chiamato a reggere le sorti di una nazione, ha saputo e voluto scegliere di obbedire alla propria coscienza piuttosto che al formalismo della legalità e della ritualità, rifuggendo da un facile consenso o da una resa incondizionata al furore dei propri avversari politici.
La ragione e la libertà, che si fondono nella coscienza di sé e del mondo – e, di conseguenza, della propria responsabilità coram Deo e coram populo – sono la stoffa di ogni decisione che chi governa è chiamato a prendere per il bene comune, quello di tutti i cittadini ma, ancor prima, quello di ogni singolo cittadino. Non vi è bene comune che possa prescindere dal bene anche di uno solo dei membri della comunità civile. La vita di uno solo di noi vale la vita di tutti, e non può essere sacrificata dallo stato per nessun fine sociale o politico.
Il coraggioso atto con il quale il Governo ha predisposto un disegno di legge per affermare che Eluana non può essere fatta morire privandola dell’acqua e dell’alimentazione per il volere di un padre e per il giudizio di una magistratura costituisce un gesto umanissimo, responsabile e di politicamente leale.
Un gesto umanissimo di chi si è ricordato di essere uomo prima ancora che statista, uno di noi, del popolo, che hanno una ragione e un cuore, costituiti di evidenze ed esigenze che li proiettano nel paragone con la realtà della vita al di là delle barriere istituzionali. Adesso li sentiamo più vicini a noi, queste donne e questi uomini di Palazzo Chigi, partecipi di una storia che non è fatta dal potere, ma, anzitutto, da chi vive ogni giorno il dramma quotidiano dell’esistenza.
Un mossa di grande responsabilità, di chi non ha chiuso gli occhi e non si è lavato le mani di fronte non solo ad una tragedia familiare, ma anche ad una gravissima frattura sociale tra l’esercizio del potere giudiziario ed il giudizio della ragione.
Infine, una atto di lealtà politica verso la sorgente della vita pubblica: la vita della persona, la nostra vita. Il bene fondamentale dell’uomo è la sua vita, al tempo stesso un bene individuale ed un bene sociale, di ciascuno e di tutti.
Il giudizio su coloro che ci governano spetta alla storia e, ultimamente, alla misericordia di Dio, non a noi. Ma il gesto compiuto per salvare Eluana resterà nella storia di questo Governo e non è sconosciuto agli occhi dell’Onnipotente. Un gesto che, da solo, varrebbe a riscattare molti errori di ieri e di domani. Chi ha tentato di ostacolarlo in nome dell’aderenza formale alle norme, fossero pure quelle costutuzionali, forse ha dimenticato che la legge è fatta per l’uomo e non l’uomo per la legge. Altri, in simili circostanze, hanno scelto di salvare l’uomo, non le norme.
Così è stato, tra gli altri, per il re Baldovino del Belgio, che nel 1990 abdicò al proprio ruolo ed ai suoi poteri per non firmare la legge sull’aborto, e per il granduca Henry di Lussemburgo che, nel dicembre scorso, si rifiutò di firmare una legge volta ad introdurre l’eutanasia nel suo paese. Non è accaduto lo stesso per il re Juan Carlos di Spagna di fronte al disegno di legge sul matrimonio omosessuale. Storie diverse, stature umane differenti.
La storia di civiltà e di amore alla vita, antica e recente, del popolo italiano, ci induce a sperare che chi più di tutti lo rappresenta non resti insensibile al grido che dal Paese si leva per strappare questa giovane donna ad una morte crudele e iniqua. Oltre alla Grazia che dal cielo la protegge in ogni istante della sua vita, osiamo sperare anche in una grazia umana che le può essere concessa da chi, per volere di Dio e del popolo, amministra supremamente la giustizia umana. Non è forse questo, quello della grazia ai condannati dal potere giudiziario, una delle prerogative del Capo dello Stato?


Eluana non è più alimentata: lo conferma ufficialmente il legale degli Englaro - Redazione - sabato 7 febbraio 2009 – IlSussidiario.net
E' l'avvocato della famiglia Englaro Giuseppe Campeis, interpellato dall'agenzia Ansa, a darne conferma: l'alimentazione e l'idratazione di Eluana Englaro sono state completamente sospese come previsto dal protocollo definito al momento del suo ricovero.
Quelle che fino a pochi minuti fa erano solo ipotesi prendono quindi definitivamente corpo: Eluana Englaro non riceve più cibo né acqua.
Tuttavia le voci circolate fino alla serata parlavano di una decisione di modificare il protocollo, anticipando i tempi della sospensione dell'alimentazione, dovuta alla generale «gravità della situazione» e presa dagli stessi estensori: il neurologo Carlo Alberto Defanti, che da anni cura Eluana, e inoltre dal neurologo Gian Domenico Borasio, dell'università tedesca di Monaco, e l'anestesista Amato De Monte, dell'ospedale Santa Maria della Misericordia di Udine. In questo momento, quindi, ogni forma di alimentazione di Eluana Englaro è stata sospesa. Alla donna vengono somministrati, come previsto fin dall'inizio, sedativi per evitare sofferenza.
Il protocollo prevedeva inizialmente che alimentazione e idratazione rimanessero immutate nei primi tre giorni dal ricovero di Eluana Englaro nella clinica "La quiete" di Udine. Quindi da martedì 3 a giovedì 5 la sacca di nutrienti non ha subito alcuna variazione e la paziente è stata presa in carico nella nuova struttura di ricovero. Secondo il protocollo venerdì 6 sarebbe stato il primo giorno di riduzione, con il 50% in meno di nutrienti, e ulteriori riduzioni sarebbero avvenute nei giorni successivi. Ma questo protocollo è stato disatteso ed Eluana non riceve già più né cibo né acqua.
Proprio questa sera il padre di Eluana Englaro ha lanciato un appello a Napolitano e a Berlusconi perché vadano in clinica e si rendano conto di persona delle condizioni della donna. Lo ha reso noto l'avvocato della famiglia Englaro, Vittorio Angiolini.
Questo è il testo dell’appello:
«Sono il tutore di Eluana Englaro - così scrive Beppino Englaro - ma in questo momento parlo da padre a padre, rivolgendomi al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ed al Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, per invitare entrambi, ed essi soli, a venire ad Udine per rendersi conto, di persona e privatamente, delle condizioni effettive di mia figlia Eluana, su cui si sono diffuse notizie lontane dalla realtà che rischiano di confondere e deviare ogni commento e convincimento»


LA GENTE NON CAPISCE - LASCIAR MORIRE DI FAME SARÀ FORSE COSTITUZIONALE? - MARINA CORRADI – Avvenire, 8 febbraio 2009
Ma lasciare morire di sete e di fame una malata, è costituzionale? È una domanda semplice quella che si affaccia ai pensieri, in queste ore di scontro fra pote­ri istituzionali, e mentre a Udine si proce­de con il 'protocollo' – termine squisita­mente tecnico ad indicare la morte data a Eluana. È una domanda elementare quel­la che aleggia sull’incrociarsi di dichiara­zioni di onorevoli e giuristi e ministri. «Non è intervenuto alcun fatto nuovo che possa configurarsi come caso straordinario di ne­cessità e urgenza ai sensi dell’articolo 77 della Costituzione» si legge nella motiva­zione del 'no' al decreto legge fornita pre­ventivamente dal capo dello Stato. E qui molti – certo digiuni di diritto, e con scar­sa dimestichezza con i regolamenti – non capiscono. Non c’è necessità e urgenza? Ma quella donna sta andando alla morte; e la sua fine riguarda tutti noi; concerne il modo in cui, dopo Eluana, si guarderà ai malati senza coscienza, agli handicappati inguaribili, a quelli che vengono conside­rati «irrecuperabili» a salute ed efficienza. Ci si sente, davanti a certe spiegazioni, qua­si come Renzo Tramaglino quando Azzec­cagarbugli gli legge una grida spagnola, che pare fatta su misura per lui. E invece, affatto: «A saper ben maneggiare le grida, nessuno è reo e nessuno è innocente», fa dire con un sorriso amaro Manzoni al suo leguleio secentesco.
Le ragioni dell’affermata incostituziona­lità del decreto filano con apparente sciol­tezza. Alla fine però il risultato è che, in os­servanza di una sentenza, nemmeno di u­na legge, Eluana deve morire. E dunque il massimo del diritto, passato per almeno dieci aule fra tribunali e Corti d’appello e Cassazione, per una marea infinita di car­te, si risolve nella più assoluta delle ingiu­stizie: una morte atroce data a una donna che mai fondatamente l’ha chiesta. (Se in­vece che di vita si fosse parlato di disposi­zioni patrimoniali, sospettiamo che i giu­dici non avrebbero dato facilmente per ac­quisita quella presunta volontà di Eluana).
Summum ius, summa iniuria, dicevano gli antichi, che già s’erano accorti dell’a­gile duttilità della legge e della sua inter­pretazione, concetto ripetuto ieri, non a caso, dal Cardinale Vicario. Tutto in ordi­ne quanto alla forma, e niente a posto in­vece in quella clinica. Il governo ha rac­colto la domanda di quelli che guardano con sospetto a tanta nobile giurispruden­za, se poi serve a lasciare che una donna impotente venga fatta morire. «Vulnus i­stituzionale », «derive autoritarie», le ac­cuse volano. E sembra che il dramma di U­dine sia secondario, in una politica che o­stinatamente riferisce ogni fatto a se stes­sa, e dimentica che il suo vero fine è la po­lis, cioè la vita dell’uomo. La legge, già. Sia nella Dichiarazione uni­versale dei diritti dell’uomo sia nella Car­ta dei diritti fondamentali della Ue si af­ferma, nei primissimi articoli, il «diritto al­la vita». La Costituzione italiana parla di «diritti inviolabili». E dunque non è così strano se molti guardano attoniti a tanto di­ritto sapientemente sciorinato, il cui risul­tato è che una donna che respira autono­mamente, e ha bisogno solo di acqua e di cibo, venga uccisa. Sarà, questa morte, costituzionale? Se dav­vero lo fosse, ci sarebbe da avere paura di un tale Stato di diritto. Ma non può esse­re; tra una sentenza e l’altra, delle tante che hanno giudicato il caso Englaro, che qual­cosa si è inceppato, il favor vitae obliato. Il dramma di Eluana ha trovato un’abile re­gia «politica», e forse anche un favor mor­tis avanzante nella società ha conquistato i magistrati. (Dal 1999 al 2006 tutti i ricor­si di Beppino Englaro erano stati respinti come inammissibili. Solo dal 2006 la pre­tesa di Englaro di fare morire la figlia è sta­ta presa in considerazione, e anzi quello alla morte è diventato un «diritto»).
E ora, obbedendo a una sentenza, Eluana deve morire. Se è così, tutta la trama del no­stro raffinato ordinamento giuridico ha un buco come una voragine: ci si dimentica che il centro è l’uomo, e che il primo dei diritti è vivere. A Udine, il 'protocollo' va avanti.


NON POSSO TACERE DOPO 23 ANNI DI ESPERIENZA - Priva di coscienza e parole Eluana capace di relazione - GUIDO CROCETTI – Avvenire, 8 febbraio 2009
Non posso tacere. La mia attività professionale – di psicologo clinico alla Sapienza di Roma – mi impone di dare voce alle persone che ho accompagnato alla morte. Adulti e bambini. Lavoro dal 1986 con pazienti oncologici. Non porto dati scientifici, ma l’esperienza di un uomo di scienza. La vita vegetativa è una vita. Una delle tante possibili.
Ed è una vita di relazione. In quella condizione non sono disponibili gli strumenti comunicativi razionali, simbolici e verbali. Anche gli strumenti propri della comunicazione mimica sono ridotti, ma non assenti. Gli occhi possono essere aperti e, con la testa, possono muoversi; è presente il ciclo sonno­veglia; può essere presente la risposta ad alcuni stimoli dolorosi, ecc. La comunicazione, che crea la relazione, è dei corpi, dei canali sensoriali. Attivi ed attivanti nell’interlocutore risposte agite poi nel contatto. La sofferenza, ad esempio, quella che deve essere lenita con i farmaci, è un modo comunicativo che attiva, mantiene e conclude una relazione. Il dolore è del corpo, la sofferenza che scaturisce dal dolore è della relazione tra corpi, tra persone. In altre parole ogni interlocutore è talmente incluso nella realtà del paziente da essere lo strumento della sua stessa comunicazione esperienziale. Uno strumento che per essere tale deve essere vivo e disponibile. Consapevole di essere vivo. Non può cioè essere inficiato, ostacolato, alterato dalle angosce di morte che tolgono la coscienza di essere vivo.
Il morente è, banalmente, un essere umano vivo in lotta con la malattia e alle prese con il 'suo' passaggio estremo. È quello un momento in cui ha bisogno di essere tenuto in un abbraccio che comunica vita. Vita senza filtri e senza i tre fantasmi di morte. Terribili e insostenibili: la perdita del legame, l’abbandono nella solitudine, il rifiuto nell’odio. Quest’abbraccio non può essere preteso dal familiare coinvolto nella malattia estrema, disorientato e confuso. Le istituzioni di 'cura' devono dare ’cura’ e dunque quell’abbraccio che include, come utente il parente del paziente in stato vegetativo.
E allora io parlo con il morente. Parlo di tutto.
Esattamente come una madre fa con il suo bambino appena nato. Come lei so che non capisce le mie parole e, tuttavia, comunico con lui attraverso il tono della mia voce modulato dal suo stato attuale.
Veicolo, senza citarle, le emozioni e le motivazioni alla base del mio essere nella vita con lui in quel momento dell’incontro e con la consapevolezza di essere vivo. Se ho la morte dentro, se vivo inseguendo la vita e le sue seduzioni, invoco l’eutanasia; altrimenti mi relaziono e comunico con il mio corpo il mio essere vivo in lotta, a suo fianco, con la malattia, sua e mia, e la morte, sua e mia.
Nessun essere umano radicato alla vita e ai suoi processi generativi, trasformativi e ricreativi chiede l’eutanasia; chiede vita e si affida ad essa e ai suoi processi, anche dolorosi. E solo chi ha la morte nelle radici delle sue motivazioni a vivere chiede la morte. Ma è una richiesta d’aiuto. Esattamente la stessa del suicida. Con il suo gesto, il suicida, chiede comunque vita illusa oltre il gesto.
Eluana è una bambina priva di coscienza e di parole, come un neonato; ma non per questo incapace di attivare, mantenere e concludere una relazione condivisa e goduta. Come un neonato chiede un abbraccio nel quale la parola è solo un suono che evoca sensazioni diffuse e indefinite ma leganti.


«Sia nutrita per bocca». Parte un nuovo esposto - l’iniziativa - Il Coordinamento delle associazioni friulane al procuratore: «Protocollo non conforme alle decisioni della Corte d’appello di Milano» Ieri in centinaia davanti alla casa di riposo con bottiglie d’acqua e candele - DA UDINE – Avvenire, 8 febbraio 2009
Dubbi. Tanti, tantissimi sull’attuazione del protocollo di progressiva riduzione del cibo e dell’acqua. Il 'Coordinamento per Eluana e per tutti noi' ritiene che non vi sia conformità con quanto disposto dalla Cassazione e dalla corte d’Appello di Milano. Ed ecco un nuovo ricorso in procura a Udine. L’ha presentato Francesco Pomelli, medico, grastoenterologo per conto del Coordinamento. E il Movimento per la vita ha immediatamente fatto sapere che è disponibile una équipe medica per sostituire, in caso di sospensione del protocollo, i volontari che stanno portando Eluana alla morte. La conferma a margine della manifestazione silenziosa che numerose associazioni del mondo cattolico hanno tenuto, a cura del Coordinamento, ieri sera tra la Basilica delle Grazie e La Quiete, portando bottiglie d’acqua e candele accese all’ingresso della casa di riposo.
«L’esecuzione di un protocollo di disattivazione, senza rimozione, del sondino per alimentazione ed idratazione artificiali che non prenda nemmeno in considerazione la possibilità di alimentazione ed idratazione per bocca e condanni di fatto la paziente alla morte per disidratazione e inedia - spiega Comelli i contenuti dell’esposto - non appare conforme alla decisione della Corte di Appello di Milano, che ha solo autorizzato 'l’interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale' della signora Eluana Englaro' realizzato mediante alimentazione e idratazione con sondino naso-gastrico». Eluana Englaro vive uno stato ben diverso dalla morte cerebrale, che consente la respirazione autonoma ed è compatibile con la deglutizione.
«Coloro che hanno la cura di Eluana – insiste Comelli –, hanno l’obbligo, nel procedere alla disattivazione del sondino e ferma restando l’esclusione di qualsiasi accanimento terapeutico, di assicurarle comunque alimentazione ed idratazione per altre vie e di sperimentare la possibilità di alimentarla ed idratarla per bocca, previa sua rieducazione alla deglutizione, dopo aver sospeso la sedazione farmacologica e rimosso il sondino naso-gastrico, poiché tali presidi compromettono a priori qualsiasi possibilità di deglutizione autonoma». Il Coordinamento ritiene, invece, che sulla base delle informazioni dei media, sarebbe applicato un protocollo che escluderebbe qualsiasi alimentazione o idratazione e sarebbe finalizzato a produrre la morte della signora Englaro per disidratazione ed inedia.
«Una condotta di questo tipo non sarebbe proponibile né realizzabile in uno Stato che garantisca e rispetti 'i diritti inviolabili dell’uomo' secondo quanto disposto dall’art.2 della Costituzione», conclude Comelli. Il Cordinamento ha promosso, ieri pomeriggio, il primo atto di presenza davanti a 'La Quiete'. Centinaia i partecipanti da tutta la Regione, tra loro anche il deputato Angelo Compagnon, coordinatore dell’Udc. Al Coordinamento aderiscono i direttivi nazionali di Scienza e Vita, Forum delle associazioni familiari, Movimento per la Vita, Coldiretti, Azione Cattolica, Acli, Mcl, Retinopera, Centro Culturale Giovanni Paolo II di Tolmezzo, Codacons Fvg, Associazione Arco 92 Roma, Risveglio di Roma, Ass. Ve.Vi., Vita Vegetativa di Crotone, Famiglie per l’accoglienza, Sidat Fvg. Oggi il popolo di Eluana tornerà davanti a La Quiete con bottiglie e candele. Da domani il sagrato del Santuario della Madonna delle Grazie accoglierà un maxischermo che trasmetterà 24 ore su 24 l’opera teatrale del poeta Davide Rondoni recitata dall’attore Luca Ward. Il maxischermo, che sarà strumento di comunicazione di notizie o iniziative del Coordinamento, «sarà spento solo quando ci sarà la certezza che la vita di Eluana è salva o se il primo caso di eutanasia di una disabile in Italia dovesse malauguratamente arrivare a compimento».
Francesco Dal Mas