giovedì 12 febbraio 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Una speranza più forte del dolore - Autore: Robert Schindler Sr e la famiglia di Terri Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: ilsussidiario.net - mercoledì 11 febbraio 2009 - Riceviamo e pubblichiamo in esclusiva la lettera che Bob Schindler senior, padre di Terri Schindler Schiavo, saputo della morte di Eluana, ha inviato a ilsussidiario.net, dopo la sua prima lettera di domenica scorsa indirizzata a Beppino Englaro.
2) 11/02/2009 17:50 – VATICANO - Papa: la vita non è un bene disponibile - Nella Giornata mondiale del malato monito di Benedetto XVI a circondare di premura e pazienza chi è nel dolore. Anche la sofferenza è misteriosamente “abbracciata” dal disegno divino di salvezza.
3) Catechesi di Benedetto XVI su San Giovanni Climaco - In occasione dell'Udienza generale del mercoledì
4) Il caso Englaro e la sofferenza del morire - di Tonino Cantelmi*
5) Mons. Fisichella: “Educare fa parte del DNA della Chiesa”
6) Cardinale Scheid: ogni malattia è un periodo di umiltà - Commenta la Giornata Mondiale del Malato
7) Il Cardinale Stepinac, testimone del martirio della Chiesa dell’Est Europa - Si batté coraggiosamente prima contro il nazismo e poi contro il comunismo - di Antonio Gaspari
8) Antonio Socci - Da Libero, 10 febbraio 2009
9) Il problema non è la teoria ma l'ideologia - di Marc Leclerc - Pontificia Università Gregoriana – L’Osservatore Romano, 12 febbraio 2009
10) INDAGINE/ 1. Vittadini: per risolvere la crisi aiutate Cenerentola - Giorgio Vittadini - giovedì 12 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
11) CONFRONTI/ Ermanno lo storpio ed Eluana, due diversi modi di accoglienza - Rino Cammilleri - giovedì 12 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
12) PER POI BUTTARCI A PESCE SUI REATI DEGLI IMMIGRATI - Se non smettiamo di difendere i figli che sbagliano - MARINA CORRADI – Avvenire, 12 febbraio 2009


Una speranza più forte del dolore - Autore: Robert Schindler Sr e la famiglia di Terri Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: ilsussidiario.net - mercoledì 11 febbraio 2009 - Riceviamo e pubblichiamo in esclusiva la lettera che Bob Schindler senior, padre di Terri Schindler Schiavo, saputo della morte di Eluana, ha inviato a ilsussidiario.net, dopo la sua prima lettera di domenica scorsa indirizzata a Beppino Englaro.
Siamo molto addolorati nel sentire di Eluana e pieni di tristezza per lei. Aveva solo 38 anni. Eluana è morta solo quattro giorni dopo che i medici hanno cominciato ad interrompere la sua alimentazione e idratazione, con l’intento di causarne la morte.
Tristemente, la morte di Eluana ci ricorda ancora le parole di Papa Giovanni Paolo II. L’averle tolto cibo e acqua, cioè l’assistenza di base, così da farla morire, è una cosa che riguarda tutti noi e il modo in cui ci prenderemo cura di quelli che hanno bisogno del nostro amore e della nostra compassione per continuare a vivere.
Per la nostra famiglia non passa giorno che noi non pensiamo alla nostra amata Terri e stiamo ancora soffrendo molto per una perdita così grande. Da quando Terri è morta, abbiamo deciso di portare avanti il suo lascito di vita e di amore, così che il suo sacrificio non sia avvenuto invano e, cosa più importante, che altri possano evitare lo stesso terribile destino.
Una cosa che sappiamo è che la questione non muore con Terri o Eluana, perché ci sono decine di migliaia di persone che vivono con lo stesso tipo di infermità. E le loro vite sono estremamente vulnerabili al crescente pregiudizio contro chi soffre di una infermità cognitiva.
Dopo la morte di Terri, la nostra famiglia ha dato vita alla Terri’s Foundation, per poter sostenere le persone con gravi danni cerebrali che sono in pericolo di essere uccise, in base a questa crescente tendenza a considerare la loro vita come “non degna di essere vissuta”.
Noi siamo profondamente addolorati per l’inutile morte di Eluana, ma siamo pieni di speranza che sempre più persone diventino coscienti di come viene trattato chi soffre di infermità come quelle di Terri ed Eluana, e che il nostro mondo cominci a dare valore alle loro vite, piuttosto che eliminarle.
Noi preghiamo perché il padre di Eluana e tutti quelli che hanno preso parte nella sua morte possano un giorno ridare valore alla vita e capire che tutte le persone sono state create con pari dignità e rispetto, non importa quale infermità possano avere.
Ciò che dà qualità e valore alla vita è l’amore. Amare ed essere amati è ciò che dà valore alla vita. L’amore è l’arbitro ultimo della vita. L’eutanasia è l’abbandono dell’amore. Dove c’è amore, c’è speranza.

Robert Schindler Sr e la famiglia di Terri


11/02/2009 17:50 – VATICANO - Papa: la vita non è un bene disponibile - Nella Giornata mondiale del malato monito di Benedetto XVI a circondare di premura e pazienza chi è nel dolore. Anche la sofferenza è misteriosamente “abbracciata” dal disegno divino di salvezza.
Città del Vaticano (AsiaNews) – “La vita dell’uomo non è un bene disponibile, ma un prezioso scrigno da custodire e curare con ogni attenzione possibile, dal momento del suo inizio fino al suo ultimo e naturale compimento”. E’ il monito espresso oggi da Benedetto XVI nella Giornata mondiale del malato, nel saluto rivolto a quanti nella basilica di San Piero, oggi pomeriggio, hanno preso parte alla messa celebrata dal cardinale Javier Lozano Barragán, presidente del Pontificio consiglio per la pastorale della salute.
“La vita – ha detto ancora il Papa - è mistero che di per se stesso chiede responsabilità, amore, pazienza, carità, da parte di tutti e di ciascuno. Ancor più è necessario circondare di premure e rispetto chi è ammalato e sofferente. Questo non è sempre facile; sappiamo però dove poter attingere il coraggio e la pazienza per affrontare le vicissitudini dell’esistenza terrena, in particolare le malattie e ogni genere di sofferenza. Per noi cristiani è in Cristo che si trova la risposta all’enigma del dolore e della morte”.
“Nel messaggio per l’odierna ricorrenza – ha ricordato poi - ho voluto porre in primo piano i bambini ammalati, che sono le creature più deboli e indifese. E’ vero! Se già si resta senza parole davanti a un adulto che soffre, che dire quando il male colpisce un piccolo innocente? Come percepire anche in situazioni così difficili l’amore misericordioso di Dio, che mai abbandona i suoi figli nella prova? Sono frequenti e talora inquietanti tali interrogativi, che in verità sul piano semplicemente umano non trovano adeguate risposte, poiché il dolore, la malattia e la morte restano, nel loro significato, insondabili per la nostra mente. Ci viene però in aiuto la luce della fede. La Parola di Dio ci svela che anche questi mali sono misteriosamente ‘abbracciati’ dal disegno divino di salvezza; la fede ci aiuta a ritenere la vita umana bella e degna di essere vissuta in pienezza pur quando è fiaccata dal male. Dio ha creato l’uomo per la felicità e per la vita, mentre la malattia e la morte sono entrate nel mondo come conseguenza del peccato. Ma il Signore non ci ha abbandonati a noi stessi; Lui, il Padre della vita, è il medico per eccellenza dell’uomo e non cessa di chinarsi amorevolmente sull’umanità sofferente”.
Benedetto XVI ha infine rammentato che Giovanni Paolo II ha voluto che la Giornata mondiale del malato coincidesse con la festa della Vergine di Lourdes. “In quel luogo sacro, la nostra Madre celeste è venuta a ricordarci che su questa terra siamo solo di passaggio e che la vera e definitiva dimora dell’uomo è il Cielo. Verso tale meta dobbiamo tutti tendere. La luce che viene ‘dall’Alto’ – ha concluso – ci aiuti a comprendere e a dare senso e valore anche all’esperienza del soffrire e del morire”. La luce di migliaia di candele che hanno fatto ricordare le processioni notturne di Lourdes ha accompagnato la benedizione di Benedetto XVI ai malati presenti ed ai loro accompagnatori.


Catechesi di Benedetto XVI su San Giovanni Climaco - In occasione dell'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 11 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della catechesi pronunciata questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale svoltasi nell'aula Paolo VI.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa, cominciando un nuovo ciclo di catechesi sui grandi Scrittori della Chiesa di Oriente e di Occidente del medioevo, si è soffermato su San Giovanni Climaco.

* * *
Cari fratelli e sorelle,
dopo venti catechesi dedicate all’Apostolo Paolo, vorrei riprendere oggi la presentazione dei grandi Scrittori della Chiesa di Oriente e di Occidente del tempo medioevale. E propongo la figura di Giovanni detto Climaco, traslitterazione latina del termine greco klímakos, che significa della scala (klímax). Si tratta del titolo della sua opera principale nella quale descrive la scalata della vita umana verso Dio. Egli nacque verso il 575. La sua vita si sviluppò dunque negli anni in cui Bisanzio, capitale dell’impero romano d’Oriente, conobbe la più grande crisi della sua storia. All’improvviso il quadro geografico dell’impero mutò e il torrente delle invasioni barbariche fece crollare tutte le sue strutture. Resse solo la struttura della Chiesa, che continuò in questi tempi difficili a svolgere la sua azione missionaria, umana e socio-culturale, specialmente attraverso la rete dei monasteri, in cui operavano grandi personalità religiose come quella, appunto, di Giovanni Climaco.
Tra le montagne del Sinai, ove Mosè incontrò Dio ed Elia ne udì la voce, Giovanni visse e raccontò le sue esperienze spirituali. Notizie su di lui sono conservate in una breve Vita (PG 88, 596-608), scritta dal monaco Daniele di Raito: a sedici anni Giovanni, divenuto monaco sul monte Sinai, vi si fece discepolo dell’abate Martirio, un "anziano", cioè un "sapiente". Verso i vent’anni, scelse di vivere da eremita in una grotta ai piedi del monte, in località di Tola, a otto kilometri dall’attuale monastero di Santa Caterina. Ma la solitudine non gli impedì di incontrare persone desiderose di avere una direzione spirituale, come anche di recarsi in visita ad alcuni monasteri presso Alessandria. Il suo ritiro eremitico, infatti, lungi dall’essere una fuga dal mondo e dalla realtà umana, sfociò in un amore ardente per gli altri (Vita 5) e per Dio (Vita 7). Dopo quarant’anni di vita eremitica vissuta nell’amore per Dio e per il prossimo, anni durante i quali pianse, pregò, lottò contro i demoni, fu nominato igumeno del grande monastero del monte Sinai e ritornò così alla vita cenobitica, in monastero. Ma alcuni anni prima della morte, nostalgico della vita eremitica, passò al fratello, monaco nello stesso monastero, la guida della comunità. Morì dopo il 650. La vita di Giovanni si sviluppa tra due montagne, il Sinai e il Tabor, e veramente si può dire che da lui si è irradiata la luce vista da Mosè sul Sinai e contemplata dai tre apostoli sul Tabor!
Divenne famoso, come ho già detto, per l’opera la Scala (klímax), qualificata in Occidente come Scala del Paradiso (PG 88,632-1164). Composta su insistente richiesta del vicino igumeno del monastero di Raito presso il Sinai, la Scala è un trattato completo di vita spirituale, in cui Giovanni descrive il cammino del monaco dalla rinuncia al mondo fino alla perfezione dell’amore. E’ un cammino che – secondo questo libro – si sviluppa attraverso trenta gradini, ognuno dei quali è collegato col successivo. Il cammino può essere sintetizzato in tre fasi successive: la prima si esprime nella rottura col mondo al fine di ritornare allo stato dell’infanzia evangelica. L’essenziale quindi non è la rottura, ma il collegamento con quanto Gesù ha detto, il ritornare cioè alla vera infanzia in senso spirituale, il diventare come i bambini. Giovanni commenta: "Un buon fondamento è quello formato da tre basi e da tre colonne: innocenza, digiuno e castità. Tutti i neonati in Cristo (cfr 1 Cor 3,1) comincino da queste cose, prendendo esempio da quelli che sono neonati fisicamente" (1,20; 636). Il distacco volontario dalle persone e dai luoghi cari permette all’anima di entrare in comunione più profonda con Dio. Questa rinuncia sfocia nell’obbedienza, che è via all’umiltà mediante le umiliazioni – che non mancheranno mai – da parte dei fratelli. Giovanni commenta: "Beato colui che ha mortificato la propria volontà fino alla fine e che ha affidato la cura della propria persona al suo maestro nel Signore: sarà infatti collocato alla destra del Crocifisso!" (4,37; 704).
La seconda fase del cammino è costituita dal combattimento spirituale contro le passioni. Ogni gradino della scala è collegato con una passione principale, che viene definita e diagnosticata, con l’indicazione della terapia e con la proposta della virtù corrispondente. L’insieme di questi gradini costituisce senza dubbio il più importante trattato di strategia spirituale che possediamo. La lotta contro le passioni, però, si riveste di positività – non rimane una cosa negativa – grazie all’immagine del "fuoco" dello Spirito Santo: "Tutti coloro che intraprendono questa bella lotta (cfr 1 Tm 6,12), dura e ardua, [...], sappiano che sono venuti a gettarsi in un fuoco, se veramente desiderano che il fuoco immateriale abiti in loro" (1,18; 636). Il fuoco dello Spirito santo che è fuoco dell’amore e della verità. Solo la forza dello Spirito Santo assicura la vittoria. Ma secondo Giovanni Climaco è importante prendere coscienza che le passioni non sono cattive in sé; lo diventano per l’uso cattivo che ne fa la libertà dell’uomo. Se purificate, le passioni schiudono all’uomo la via verso Dio con energie unificate dall’ascesi e dalla grazia e, "se esse hanno ricevuto dal Creatore un ordine e un inizio..., il limite della virtù è senza fine" (26/2,37; 1068).
L’ultima fase del cammino è la perfezione cristiana, che si sviluppa negli ultimi sette gradini della Scala. Questi sono gli stadi più alti della vita spirituale, sperimentabili dagli "esicasti", i solitari, quelli che sono arrivati alla quiete e alla pace interiore; ma sono stadi accessibili anche ai cenobiti più ferventi. Dei primi tre - semplicità, umiltà e discernimento - Giovanni, in linea coi Padri del deserto, ritiene più importante l’ultimo, cioè la capacità di discernere. Ogni comportamento è da sottoporsi al discernimento; tutto infatti dipende dalle motivazioni profonde, che bisogna vagliare. Qui si entra nel vivo della persona e si tratta di risvegliare nell’eremita, nel cristiano, la sensibilità spirituale e il "senso del cuore", doni di Dio: "Come guida e regola in ogni cosa, dopo Dio, dobbiamo seguire la nostra coscienza" (26/1,5;1013). In questo modo si raggiunge la quiete dell’anima, l’esichía, grazie alla quale l’anima può affacciarsi sull’abisso dei misteri divini.
Lo stato di quiete, di pace interiore, prepara l’esicasta alla preghiera, che in Giovanni è duplice: la "preghiera corporea" e la "preghiera del cuore". La prima è propria di chi deve farsi aiutare da atteggiamenti del corpo: tendere le mani, emettere gemiti, percuotersi il petto, ecc. (15,26; 900); la seconda è spontanea, perché è effetto del risveglio della sensibilità spirituale, dono di Dio a chi è dedito alla preghiera corporea. In Giovanni essa prende il nome di "preghiera di Gesù" (Iesoû euché), ed è costituita dall’invocazione del solo nome di Gesù, un’invocazione continua come il respiro: "La memoria di Gesù faccia tutt’uno con il tuo respiro, e allora conoscerai l’utilità dell’esichía", della pace interiore (27/2,26; 1112). Alla fine la preghiera diventa molto semplice, semplicemente la parola "Gesù" divenuta una cosa sola con il nostro respiro.
L’ultimo gradino della scala (30), soffuso della "sobria ebbrezza dello Spirito", è dedicato alla suprema "trinità delle virtù": la fede, la speranza e soprattutto la carità. Della carità, Giovanni parla anche come éros (amore umano), figura dell’unione matrimoniale dell’anima con Dio. Ed egli sceglie ancora l’immagine del fuoco per esprimere l’ardore, la luce, la purificazione dell’amore per Dio. La forza dell’amore umano può essere riorientata a Dio, come sull’olivastro può venire innestato un olivo buono (cfr Rm 11,24) (15,66; 893). Giovanni è convinto che un’intensa esperienza di questo éros faccia avanzare l’anima assai più che la dura lotta contro le passioni, perché grande è la sua potenza. Prevale dunque la positività nel nostro cammino. Ma la carità è vista anche in stretto rapporto con la speranza: "La forza della carità è la speranza: grazie ad essa attendiamo la ricompensa della carità... La speranza è la porta della carità... L‘assenza della speranza annienta la carità: ad essa sono legate le nostre fatiche, da essa sono sostenuti i nostri travagli, e grazie ad essa siamo circondati dalla misericordia di Dio" (30,16; 1157). La conclusione della Scala contiene la sintesi dell’opera con parole che l’autore fa proferire da Dio stesso: "Questa scala t’insegni la disposizione spirituale delle virtù. Io sto sulla cima di questa scala, come disse quel mio grande iniziato (San Paolo): Ora rimangono dunque queste tre cose: fede, speranza e carità, ma di tutte più grande è la carità (1 Cor 13,13)!" (30,18; 1160).
A questo punto, s’impone un’ultima domanda: la Scala, opera scritta da un monaco eremita vissuto millequattrocento anni fa, può ancora dire qualcosa a noi oggi? L’itinerario esistenziale di un uomo che è vissuto sempre sulla montagna del Sinai in un tempo tanto lontano può essere di qualche attualità per noi? In un primo momento sembrerebbe che la risposta debba essere "no", perché Giovanni Climaco è troppo lontano da noi. Ma se osserviamo un po’ più da vicino, vediamo che quella vita monastica è solo un grande simbolo della vita battesimale, della vita da cristiano. Mostra, per così dire, in caratteri grandi ciò che noi scriviamo giorno per giorno in caratteri piccoli. Si tratta di un simbolo profetico che rivela che cosa sia la vita del battezzato, in comunione con Cristo, con la sua morte e risurrezione. E’ per me particolarmente importante il fatto che il vertice della "scala", gli ultimi gradini siano nello stesso tempo le virtù fondamentali, iniziali, più semplici: la fede, la speranza e la carità. Non sono virtù accessibili solo a eroi morali, ma sono dono di Dio a tutti i battezzati: in esse cresce anche la nostra vita. L’inizio è anche la fine, il punto di partenza è anche il punto di arrivo: tutto il cammino va verso una sempre più radicale realizzazione di fede, speranza e carità. In queste virtù tutta la scalata è presente. Fondamentale è la fede, perché tale virtù implica che io rinunci alla mia arroganza, al mio pensiero; alla pretesa di giudicare da solo, senza affidarmi ad altri. E’ necessario questo cammino verso l’umiltà, verso l’infanzia spirituale: occorre superare l’atteggiamento di arroganza che fa dire: Io so meglio, in questo mio tempo del ventunesimo secolo, di quanto potessero sapere quelli di allora. Occorre invece affidarsi solo alla Sacra Scrittura, alla Parola del Signore, affacciarsi con umiltà all’orizzonte della fede, per entrare così nella vastità enorme del mondo universale, del mondo di Dio. In questo modo cresce la nostra anima, cresce la sensibilità del cuore verso Dio. Giustamente dice Giovanni Climaco che solo la speranza ci rende capaci di vivere la carità. La speranza nella quale trascendiamo le cose di ogni giorno, non aspettiamo il successo nei nostri giorni terreni, ma aspettiamo alla fine la rivelazione di Dio stesso. Solo in questa estensione della nostra anima, in questa autotrascendenza, la vita nostra diventa grande e possiamo sopportare le fatiche e le delusioni di ogni giorno, possiamo essere buoni con gli altri senza aspettarci ricompensa. Solo se c’è Dio, questa speranza grande alla quale tendo, posso ogni giorno fare i piccoli passi della mia vita e così imparare la carità. Nella carità si nasconde il mistero della preghiera, della conoscenza personale di Gesù: una preghiera semplice, che tende soltanto a toccare il cuore del divino Maestro. E così si apre il proprio cuore, si impara da Lui la stessa sua bontà, il suo amore. Usiamo dunque di questa "scalata" della fede, della speranza e della carità; arriveremo così alla vera vita.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In italiano ha detto:]
Saluto con affetto i pellegrini di lingua italiana, in particolare i Vescovi venuti per gli incontri promossi dal Movimento dei Focolari e dalla Comunità di Sant'Egidio. Cari Fratelli nell’Episcopato, sono lieto di questa opportunità che vi è offerta per confrontare esperienze ecclesiali di diverse zone del mondo, ed auguro che questi giorni di preghiera e di riflessioni possano portare frutti abbondanti per le vostre comunità. Saluto i fedeli di Velletri e li esorto ad essere sempre più autentici testimoni di Dio e del suo amore per gli uomini. Saluto i Volontari vincenziani di Ugento-Santa Maria di Leuca, di Lecce e li incoraggio a proseguire con generosità nelle loro attività caritative in favore dei più bisognosi.
Saluto, infine, i giovani, i malati e gli sposi novelli. Oggi celebriamo la festa della Beata Vergine di Lourdes. Invito voi, cari giovani, ad affidarvi sempre alla materna protezione di Maria, affinché vi aiuti a conservare un cuore generoso, disponibile e pieno di entusiasmo apostolico. La Beata Vergine di Lourdes, alla cui intercessione ricorrono con fiducia numerosi malati nel corpo e nello spirito, rivolga su voi tutti, cari fratelli e sorelle ammalati, il suo sguardo di consolazione e di speranza, e vi sostenga nel portare la croce quotidiana in stretta unione con quella redentrice di Cristo. Maria accompagni voi, cari sposi novelli, nel vostro cammino, perché le vostre famiglie siano comunità di intensa vita spirituale e di concreta testimonianza cristiana.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]


Il caso Englaro e la sofferenza del morire - di Tonino Cantelmi*
ROMA, mercoledì, 11 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Ma nei cosiddetti “stati vegetativi” la morte per disidratazione (o più banalmente per fame e sete) fa soffrire? Sì, secondo i genitori di Terry Schiavo, che hanno assistito alla incredibile agonia della figlia, anch’essa in stato vegetativo ed anch’essa condannata alla morte. Eluana Englaro è morta da sola, prima del previsto e non abbiamo narrazioni di quel momento.

La domanda sulla sofferenza del morire nello stato vegetativo può sembrare ingenua. In realtà ruota intorno ad un quesito drammatico. Chi versa in uno stato vegetativo (in una sorta di vita-morte indefinita) “prova” qualcosa, una emozione, una sensazione o una qualche imprecisata vibrazione dell’anima? Oppure vive in una sorta di totale sospensione, in una specie di buio dell’esistenza-non esistenza? Secondo la scienza la risposta è: non lo sappiamo. Non possiamo escluderlo e non possiamo affermarlo. Secondo il padre di Eluana, no, non “prova” nulla. Secondo i genitori di Terry Schiavo, sì. Secondo le suore che hanno assistito Eluana Englaro per 17 anni, sì. Secondo molti genitori che hanno in casa figli nelle stesse condizioni in cui era Eluana, sì.

Le testimonianze si susseguono in modo impressionante. I genitori, i fratelli, coloro che assistono le persone in stato vegetativo concordano nel dire che sì, una forma peculiare, sottile, magmatica di vita di relazione c’è. Il loro caro riconosce la presenza, si emoziona alle carezze, muove gli occhi per comunicare qualcosa, insomma “prova” qualcosa, c’è, è in relazione, partecipa alla vita della famiglia. Non c’è dubbio: si tratta di relazioni speciali, decodificabili solo all’interno di un amore indistruttibile, che spinge il caregiver a prendersi cura del malato riuscendo a riconoscerlo come persona e non come un corpo vivo-morto, oggetto solo di manipolazioni per tenerlo in vita.

In Italia sono circa 3000 le persone come Eluana Englaro, che spesso vivono in casa e, secondo i loro parenti, “partecipano” alla vita della famiglia ed al susseguirsi degli eventi. Se dunque anche nello stato vegetativo è possibile rintracciare una qualche forma di vita relazionale e percepire i segni di uno sconosciuto abisso emozionale, allora non c’è dubbio: anche in questo caso la morte per fame e per sete è una morte terribile, proprio come testimoniano i genitori di Terry Schiavo, una morte che si accompagna anche a reazioni fisiche che possono essere ricondotte a una sorta di “ansia”.

Non a caso è una morte che prevede la somministrazione di farmaci sedativi, in grado di spegnere anche l’ultimo barlume di reattività (o di vitalità?) della persona.


--------------
*Presidente dell'Associazione Italiana Psicologi e Psichiatri Cattolici


Mons. Fisichella: “Educare fa parte del DNA della Chiesa”


Tavola rotonda sull’emergenza educativa all’Università Europea di Roma
di Luca Marcolivio
ROMA, mercoledì, 11 febbraio 2009 (ZENIT.org).- L’emergenza educativa è un tema che chiama in causa ogni singolo soggetto della nostra società e richiede uno sforzo comune e una collaborazione da parte di tutti. Se ne è parlato il 9 febbraio all’Università Europea di Roma, in un incontro organizzato dalla Fondazione Universitaria Europea.
Prima di introdurre i relatori, il rettore dell’Università Europea, padre Paolo Scarafoni LC, ha fatto accenno al documento pontificio che ha dato lo spunto alla conferenza: la lettera sul “Compito urgente dell’educazione”, indirizzata da Papa Benedetto XVI alla Diocesi di Roma, il 21 gennaio 2008.
“L’educazione alla libertà – ha affermato Scarafoni – è sempre stata vista come una limitazione dell’intervento dell’autorità. Va invece cercato un equilibrio tra libertà e disciplina e servono educatori autorevoli che diano una testimonianza di vita”.
La professoressa Rosa Giannetta Alberoni, docente di sociologia generale allo IULM di Milano, editorialista e scrittrice, secondo la quale del relativismo etico sono responsabili tutte le agenzie educative e di socializzazione, dai genitori agli insegnanti, fino ad arrivare ai conduttori televisivi.
“I nostri figli – ha affermato la professoressa Alberoni – sono il prodotto del nostro modo di agire e del nostro fallimento educativo. Se manca la coscienza di ciò, non potremo mai rimediare al disastro formativo attuale”.
“La famiglia è la prima fonte d’educazione – ha proseguito la saggista –. I genitori tendono a controllare i figli fino a dieci, undici anni, dopodiché i ragazzi sfuggono loro di mano, rifugiandosi nelle comitive di amici, nelle loro ‘piccole tribù’ e nelle guide alternative (rockstar e simili) proposte dai mass media”.
Anche la scuola, secondo Rosa Alberoni, ha responsabilità enormi nello sfascio educativo, avendo trasmesso, dalla fine degli anni ’60 in poi, “l’idea che i bambini siano, in qualche modo ‘creativi’ e che ci si debba sempre e comunque ‘porre in ascolto’ dei figli fino alla maggiore età ed oltre. In compenso giungono all’università carichi di un’ignoranza abissale, ignorando persino i dieci comandamenti”.
Il punto di ripartenza non possono che essere i principi della civiltà giudaico-cristiana “i quali non dovrebbero essere oggetto di discussione, né di opinione, a partire dal quinto comandamento. Ognuno pretende il rispetto delle idee proprie ed altrui ma il punto è che le idee palesemente sbagliate non sono degne di rispetto”.
“La civiltà può evolversi e il sapere cumulativo va trasmesso – ha proseguito la Alberoni -. Tuttavia è ancora più importante insegnare e introiettare i valori cardine della nostra civiltà, validi in ogni tempo e nazione: questi principi dovrebbero essere la nostra ‘stella polare’”.
“Tutti questi valori dovrebbero essere trasmessi sin dall’infanzia. Nella società contadina ciò avveniva in quanto c’era una sana vigilanza sui più giovani. Non esisteva la retorica dell’ascolto del bambino: al contrario erano i figli che dovevano ascoltare i genitori e così dovremmo tornare a fare”, ha poi concluso.
La riflessione di monsignor Rino Fisichella, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, è partita dalla manipolazione di alcune terminologie legate ai fondamenti stessi della civiltà umana. “I bambini di oggi – ha osservato monsignor Fisichella – su quali concetti di Dio, di libertà, di verità, di uomo, di natura si confronteranno?”.
“La modernità – ha proseguito - ha voluto costruire un concetto di cultura in netto contrasto con quella dei secoli precedenti. Di fronte a luoghi comuni del tipo ‘mica siamo nel Medioevo’, a me viene da rispondere: magari tornassimo al Medioevo! Quell’epoca ha infatti visto la nascita delle prime università, della fioritura delle arti e dell’architettura: penso a grandi cattedrali o monasteri come Notre Dame o Chartres”.
“La postmodernità ha portato a una frammentazione del sapere che non potremo mai superare se non recuperiamo con spirito critico la nostra identità e le nostre radici. È trionfato un concetto di libertà, come valore superiore o indipendente dalla verità, quando entrambe dovrebbero camminare insieme”.
L’emergenza formativa, che ad avviso di Fisichella “fa parte del DNA della Chiesa” e dei cattolici, pone poi il problema della testimonianza e della coerenza. “Come disse una volta Paolo VI, l’uomo d’oggi ascolta più volentieri i testimoni che non i maestri, a meno che i maestri non siano anche dei testimoni”.
“È auspicabile che rinasca una circolarità formativa – ha proseguito il presule -. Famiglia, istituzioni, scuola e comunità cristiana devono collaborare per gli stessi obiettivi e su contenuti unitari. La famiglia può affidare l’educazione dei giovani alla scuola ma non può delegare questo compito”.
Altre chiavi della rinascita dell’educazione sono state individuate da Fisichella nel “rischio educativo”, auspicato anni fa da don Luigi Giussani, nel risveglio della “curiosità intellettuale” nei giovani e nel rifiuto della “teorizzazione della debolezza della ragione”. Tali assiomi devono andare di pari passo con una rivalutazione del ruolo pubblico della religione “Tanto più la vita religiosa è emarginata – ha osservato monsignor Fisichella – tanto meno progredisce la vita sociale”.
In definitiva “i giovani vanno allontanati dalla consuetudine e dall’ovvietà e vanno chiamati a rispondere alla sfida della verità”. “Il mito di Re Mida, che vede trasformarsi in oro anche ciò che mangia, ci insegna che vivendo di soli diritti si può morire e che, al contrario, la nostra vita è piena se c’è apertura all’altro”, ha poi concluso Fisichella.
La conferenza è stata completata da una testimonianza di carattere professionale, fornita da Gianluca Guida, direttore dell’istituto penale minorile di Nisida (Napoli). Guida ha analizzato il fenomeno della devianza giovanile, riscontrando come il fenomeno sia “radicato principalmente nelle grandi città e maggiormente percepito al Nord”, mentre al Sud prevalgono l’assuefazione e la rassegnazione che portano ad un numero limitato di denunce dei crimini.
La crisi di identità e il condizionamento del ‘branco’, si associano al “desiderio di apparire a tutti i costi, al punto che il compimento di un’azione deviante non è fine a se stessa ma strettamente legata al vedersi osservati mentre si delinque, come è successo per i baby-stupratori filmati dagli amici con il videofonino”. Si riscontra anche “una cura esagerata del proprio corpo e della propria immagine, dietro la quale c’è il vuoto più assoluto”.
Nella realtà degradata di Napoli e dintorni “la famiglia e le istituzioni sono in crisi come e più che altrove e il ruolo di aggregatore sociale è stato sostituito da un nuovo soggetto: la camorra. I boss della malavita locale costituiscono il vero modello, spopolano anche tra i giovani delle classi più agiate, trasmettendo il totale non-rispetto delle regole e un unico obiettivo: il proprio interesse”.
Sullo sfondo di questo scenario sconfortante “la detenzione carceraria svolge la funzione paradossale di rieducare al senso vero della libertà. Le regole non vanno viste più come imposizioni ma come strumenti utili a costruire la propria identità”. Dall’altro lato “i genitori hanno completamente perduto la credibilità e l’autorevolezza, quest’ultima intesa non come potere ma come legittimazione a trasmettere valori”.


Cardinale Scheid: ogni malattia è un periodo di umiltà - Commenta la Giornata Mondiale del Malato
RIO DE JANEIRO, mercoledì, 11 febbraio 2009 (ZENIT.org).- “Solo la fede può portarci ad affrontare la sofferenza in modo positivo, come una situazione che può essere feconda e liberatrice”, afferma il Cardinale Eusébio Scheid.
Nella Giornata Mondiale del Malato, che si celebra questo mercoledì, l'Arcivescovo di Rio de Janeiro ha scritto un messaggio ai fedeli, diffuso dal portale della sua Arcidiocesi, in cui riconosce che “apparentemente non riusciremo mai a sondare in profondità le ragioni della sofferenza”.
“La malattia è, di fatto, una tragedia, se la guardiamo solo in sé. E' una tragedia che fa parte della nostra quotidianità”.
Il porporato ha affermato che “pensare alla malattia come mezzo per la santificazione personale e per la redenzione del mondo è una cosa che sembra del tutto anacronistica in relazione al nostro tempo, l'era della produttività e dell'efficienza”.
“Ogni malattia è un periodo di umiltà, di umiliazione, che espone le nostre fragilità, facendoci dipendere da altri, incaricati di prendersi cura di noi – ha spiegato –. E' un momento per ritrovarsi faccia a faccia con la propria finitezza umana, di fronte al Dio vivo e vero”.
Secondo il Cardinale, “sperimentare le nostre limitazioni ci rende più umani, e proprio per questo più vicini a Dio”.
Dall'altro lato, sottolinea, “l'accettazione della sofferenza non può mai significare un conformismo masochista di fronte ai problemi. Dio ci ha dato la capacità di lavorare per la costruzione del mondo e la promozione dell'essere umano”.
In occasione della Giornata Mondiale del Malato, il Cardinale lancia un appello ai Governi e alle entità della società civile, “affinché le ricerche sulle malattie ancora incurabili, vere tragedie per l'umanità, ricevano priorità di risorse”.
“Le sperimentazioni non offendano la dignità umana, ma rispettino l'etica e la morale cristiane – ha chiesto –. E' disumano che si possa dare più enfasi ai progetti legati alla supremazia politica ed economica, come la tecnologia spaziale e bellica, che al miglioramento della qualità della vita della popolazione”.
Monsignor Scheid afferma che la questione sanitaria è “uno dei problemi più gravi” del Brasile, “in ambito federale, statale e municipale”.
“Non si può usare la malattia come trampolino per il potere o come risorsa di manovre politiche. Questo accade, purtroppo, e direi che è in un certo senso criminale perché ci sono leggi stabilite relativamente a ciò che si deve fare per assistere i malati. I pazienti, gli ospedali e i medici non possono essere burattini nelle mani di gruppi interessati solo al lucro, a qualsiasi prezzo”.
Ai professionisti della salute, l'Arcivescovo di Rio de Janeiro rivolge parole di stima e incoraggiamento. “Gesù stesso si è definito medico, dicendo che era venuto al mondo per coloro che avevano bisogno di lui, i malati (cfr. Mt 9,12)”.
“A suo esempio, quanti lavorano con i malati non sono solo professionisti. Esercitano una missione, a servizio della vita e della salute, del benessere corporeo, psicologico e quindi spirituale di coloro che sono affidati alle loro cure”.


Il Cardinale Stepinac, testimone del martirio della Chiesa dell’Est Europa - Si batté coraggiosamente prima contro il nazismo e poi contro il comunismo - di Antonio Gaspari
ZAGABRIA, mercoledì, 11 febbraio 2009 (ZENIT.org).- A Zagabria, martedì 10 febbraio, nella Sessione di apertura dell’incontro dei Cardinali e Presidenti delle Conferenze Episcopali dell’Europa centro-orientale, il Cardinale Josip Bozanic ha ricordato la figura del Cardinale Alojzije Stepinac, martirizzato sotto il regime di Tito.
Nell'illustrare il tema dell'incontro “la Missione della Chiesa nell’Europa Centro-Orientale a vent’anni dal crollo del sistema comunista (1989-2009)”, l’Arcivescovo di Zagabria ha spiegato di aver scelto come data il giorno della Festa del Beato Stepinac, per “ricordare insieme a lui tutte le vittime del regime comunista che ha seminato distruzione e morte nei nostri Paesi”.
Il porporato ha illustrato che la figura del Beato Alojzije Stepinac è unita in modo particolare a quella di tanti Pastori dei Paesi dell’Europa centro-orientale quali Jòzsef Mindszenty e Stefan Wyszynski, che sono stati perseguitati e hanno conosciuto il martirio.
A questo proposito il Papa Pio XII nella lettera apostolica ‘Dum maerenti animo’ (29 giugno 1956), rivolgendosi alla Chiesa perseguitata nell’Europa dell’Est, scrisse: “Ci rivolgiamo anzitutto a voi, diletti figli Nostri, cardinali di santa romana Chiesa, Giuseppe Mindszenty, Luigi Stepinac e Stefano Wyszynski, che noi stessi abbiamo rivestiti della dignità della romana porpora per gli insigni meriti da voi acquistati nel disimpegno dei doveri pastorali e nella difesa della libertà della Chiesa”.
“All’animo nostro addolorato – affermò il Pontefice Pio XII – è sempre presente quanto voi, ingiustamente allontanati dalle vostre sedi e dal vostro sacro ministero, avete sofferto e continuate a soffrire con fortezza per Gesù Cristo”.
La figura e la storia del beato Alojzije Stepinac sono leggendarie. Egli si batté coraggiosamente prima contro il nazismo e poi contro il comunismo. La sua opera di sacerdote e di Vescovo di Zagabria sono esemplari.
Fu nominato Vescovo coadiutore con diritto di successione alla sede arcivescovile di Zagabria il 30 maggio del 1934. Tutti i giornali europei lo indicarono come il più giovane presule al mondo.
Pur vivendo tempi difficilissimi, prima, durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale Stepinac si batté cristianamente per difendere i diritti fondamentali di ogni uomo e di ogni popolo, e si prodigò per difendere e proteggere tutti i perseguitati.
Fu calunniato, minacciato e rischiò più volte la vita, ma né la barbarie nazista né la dittatura comunista riuscirono a piegarlo. Salvò ebrei, serbi ortodossi, oppositori del regime. La sua opera di carità era riconosciuta da tutti.
Nonostante le calunnie che lo indicavano come vicino al movimento nazionalista degli Ustascia, già nella metà degli anni Trenta il giovane Arcivescovo di Zagabria denunciò la dottrina razzista di Hitler e organizzò l'aiuto agli ebrei profughi provenienti dall'Austria, dalla Germania, dalla Cecoslovacchia e dalla Polonia.
Hitler in persona si infuriò così tanto che chiese la testa di Stepinac, ma la sua popolarità era tale che il capo degli Ustascia, Ante Pavelić, non osò toccarlo.
Innumerevoli furono gli attestati e i messaggi di ringraziamento da parte di associazioni ebraiche nei confronti del Cardinale Stepinac, per quanto ha fatto in loro difesa durante la persecuzione.
Inoltre, sono stati pubblicati diversi libri in cui si documenta in modo dettagliato l'opera di sostegno agli ebrei dell'Arcivescovo di Zagabria. Alcuni degli ebrei salvati hanno inviato la pratica allo Yad Vashem per conferire al Cardinale Stepinac, l'onore di Giusto tra le nazioni.
Nell'immediato dopoguerra i comunisti di Josip Broz Tito presero il potere anche in Croazia, e non riuscendo a piegare Stepinac al disegno di separare la Chiesa locale dalla Sede di Roma, lo arrestarono. Era il 18 settembre del 1946.
Contro Stepinac fu messo in piedi un processo farsa. Dei 35 testimoni proposti dalla difesa che volevano testimoniare in favore di Stepinac, il tribunale ne rifiutò 27, tra loro alcuni serbi, ebrei e antifascisti.
Il regime di Tito ed i suoi simpatizzanti non potevano perdonare a Stepinac e alla Chiesa cattolica di aver avuto il coraggio e l'onestà di denunciare pubblicamente l'oppressione della libertà e la virulenta persecuzione contro la religione. Già nel 1946 erano stati uccisi più di 600 sacerdoti e religiosi, mentre migliaia erano i perseguitati.
Tito aveva proposto a Stepinac di separare da Roma la Chiesa cattolica, ricevendone un secco rifiuto.
Il noto scultore croato Ivan Mestrovic ha registrato nelle sue memorie un colloquio avuto con Milovan Djilas, in cui l'ex numero due del partito comunista di Tito riconosce l'innocenza di Stepinac e giustifica il processo intentato contro di lui perché “occorreva dare una soddisfazione ai serbi che erano stati perseguitati dal regime degli ustascia e ai partigiani croati combattuti dello stesso regime. Non avendo potuto mettere le mani su Pavelic, si decise di prendere come capro espiatorio Stepinac, quale più grande autorità morale del popolo croato“.
Nello stesso tempo si voleva decapitare la Chiesa cattolica incarcerando la sua più autorevole guida.
Lo stesso procuratore Generale Jakov Blazevic, che condusse l'accusa contro Stepinac, nel corso di diverse interviste ha raccontato che il processo era stato confezionato a Belgrado nei minimi particolari, e che egli riferiva ogni sera direttamente a Tito.
Il processo si concluse l'11 ottobre 1946: l'Arcivescovo Stepinac fu condannato alla detenzione e ai lavori forzati per 16 anni. Fu imprigionato a Lepoglava fino al 6 dicembre 1951, poi venne trasferito e tenuto nel domicilio coatto nel suo paese nativo di Krasic.
La condanna di Stepinac suscitò proteste da tutto il mondo libero. Protestarono i Capi di stato, i dignitari ecclesiastici, gli scrittori ed altri personaggi di rilevo.
La protesta fu tanto forte che lo stesso Presidente del governo della Repubblica di Croazia, Vladimir Bakaric, nel marzo del 1947 fece una visita ufficiale a Stepinac a Lepoglava affinché chiedesse la grazia.
Stepinac, non solo rifiutò la richiesta di grazia ma chiese la revisione del processo davanti a un tribunale indipendente.
Quando il 29 novembre 1952, il Pontefice Pio XII comunicò al mondo che lo aveva nominato Cardinale, il regime comunista di Tito si infuriò e il 17 dicembre 1952 ruppe i rapporti diplomatici con la Santa Sede.
Dopo questi avvenimenti la salute del Cardinale Stepinac cominciò inaspettatamente a indebolirsi. Nello stesso periodo due Vescovi croati vennero uccisi, e molti sollevarono il dubbio che si stesse avvelenando Stepinac.
L’Arcivescovo di Zagabria morì il 10 febbraio 1960 e nonostante l’evidente persecuzione, perdonò tutti coloro che gli avevano fatto del male e pregò per i suoi persecutori. Il 3 ottobre 1998 è stato beatificato da Giovanni Paolo II.


ELUANA E NOI… 12.02.2009 - Antonio Socci - Da Libero, 10 febbraio 2009
Una cosa è certa: abbiamo bisogno della “carezza del Nazareno”, come ha detto Enzo Jannacci. Senza di Lui siamo perduti, disperati… E preghiamo che Eluana sia stata abbracciata dalla Nostra Madre Il signor Beppino Englaro a “El Pais” aveva dichiarato: “la Chiesa non mi può imporre i suoi valori”. Ma la Chiesa non imponeva niente, esortava semmai a non imporre la morte a Eluana. Nessuno fino a ieri sera ha potuto affermare che l’ordinamento italiano, a partire dalla Costituzione, permetteva – come dice brutalmente Giuliano Ferrara – “l’eliminazione fisica di una disabile”.

Nessuno. E’ noto infatti che la legge punisce addirittura chi fa morire di fame e di sete un gatto o un cane (lo si è visto proprio in un caso dell’estate scorsa).

Ora però, a un essere umano, questa morte orribile è stata inflitta. Per legge? No. Non c’è nessuna legge che lo consenta. Meno che mai la Costituzione. E nessuno – dicasi nessuno – dei progetti di legge in discussione finora (neppure i più estremisti) prevede che un caso come Eluana possa finire con la morte per fame e per sete. Non solo, ma il disegno di legge del governo che salvava espressamente Eluana in Parlamento aveva una enorme maggioranza, più grande dello schieramento di centrodestra. E allora come è potuto accadere? Per un pronunciamento della magistratura? Tutto sembra surreale. Ognuno ha le sue responsabilità (compreso il Parlamento che ha aspettato fino all’ultimo).

Ma che spettacolo tragicomico quello di intellettuali che, mentre una giovane donna stava morendo, si sono messi a strillare contro il presunto attentato alla Costituzione da parte di Berlusconi. Qua si rovescia la frittata in modo plateale. A noi sembra che Berlusconi, coraggiosamente e generosamente, abbia cercato di rimettere le cose al loro posto, restituendo all’esecutivo le sue prerogative, derivanti dal mandato popolare e a Eluana i suoi diritti. Ci sembra che l’anomalia sia il ruolo assunto in questo caso dalla sentenza magistratura, diventata, per il veto pronunciato contro il governo dal presidente Napolitano, intangibile più del Corano.

Il quale Napolitano – detto per inciso – ha manifestato la sensibilità alla vita che può avere chi come lui viene dalla storia comunista, di dirigente del comunismo internazionale del Novecento. Questa tragedia però impone adesso una svolta alla politica italiana. E speriamo che Berlusconi non si fermi. Bisogna restituire la sovranità al popolo italiano e al governo eletto dagli italiani, per restituire a tutti i propri diritti: è questione vitale per questo Paese.

Ma, tornando alla tragica storia di Eluana, in quell’intervista il signor Englaro ha aggiunto, sempre in riferimento alla Chiesa: “non mi sono rivolto alla Chiesa, ma ai tribunali di giustizia. A loro non ho chiesto niente, né glielo chiederò”. Qui sorge una domanda: è proprio sicuro il signor Englaro di non aver chiesto niente alla Chiesa? Vorremmo capire meglio. La figlia Eluana non è stata forse accudita per circa 17 anni dalle affettuose e delicate suore misericordie di Lecco?

Non so se il signor Englaro le abbia mai ringraziate pubblicamente. Le suore che hanno amato Eluana come una sorella e una figlia sono state sempre silenziose, ma - sommessamente e umilmente – quando la situazione si è fatta pesante hanno chiesto che Eluana fosse lasciata a loro, che avrebbero continuato ad accudirla con tenerezza come hanno fatto per anni. Non so se siano state ritenute meritevoli di una risposta pubblica (io non ne ho viste). Queste suore sono testimoni importantissimi fra l’altro della situazione di Eluana, il cui stato era un mistero per la medicina. Infatti nessuno può dire fino a che punto veramente la giovane donna fosse assente, fino a che punto non abbia capito tutto.

Una di queste suore ha rivelato che la ragazza sembrava avere un respiro più affannoso e un battito più veloce quando nella sua stanza si parlava della controversia relativa a lei. Ci sono poi dei fatti strani accaduti in concomitanza con quel suo trasferimento che da Lecco, dove aveva vissuto per anni con le suore, l’ha portata alla casa di cura di Udine dove dovrebbe morire. Pare che chi ha viaggiato con lei sia rimasto molto impressionato dalla sua improvvisa e persistente tosse. La domanda che sorge spontanea è la seguente: Eluana ha cercato di comunicarci qualcosa?

Il sospetto non è affatto campato per aria. Ormai la medicina si interroga seriamente sulla condizione di queste persone. Tempo fa il “Sunday Times” riferiva di un nuovo studio medico secondo cui “il 40 per cento dei pazienti in coma in ‘stato vegetativo’ possono essere mal diagnosticati”. Cioè possono avere una certa coscienza di sé.

In realtà alcuni esperimenti lo hanno già dimostrato. La “Risonanza magnetica funzionale” del neurologo Adrian Owen dell’università di Cambridge, con Steven Laureys, del’università di Liegi, ha spalancato alla medicina nuovi orizzonti (vedi “Science”, settembre 2006) facendo clamore in tutto il mondo. Il professor Owen ha monitorato le parti del cervello che si attivano quando si rievocano certi ricordi o si chiedono certe azioni. Lo ha fatto in una ragazza di 23 anni in stato vegetativo a seguito di un incidente stradale in cui aveva riportato un grave trauma cranico. Con uno scanner per la risonanza ha scoperto che in lei vi era un’attivazione delle aree cerebrali identica a quella che accade in una donna in perfetta salute.

Ha dimostrato così che il cervello del paziente in “stato vegetativo”, finora ritenuto completamente disattivato, in realtà funziona. L’eccezionale scoperta di Owen prospetta addirittura la possibilità di mettersi in contatto con queste persone che continuano a mantenere un certo livello di coscienza, ma non riescono a dare ordini al corpo.

Finora la medicina aveva brancolato nel buio, perché resta misterioso il luogo in cui veramente risieda la coscienza. Adesso scopriamo che in realtà la coscienza può permanere (e la cosa è dimostrabile con l’attivazione del cervello), ma non riesce a comunicare.

E’ la Chiesa che – contrariamente ai luoghi comuni – esorta la scienza ad andare avanti in queste ricerche. Un primo passo è stato fatto quando, è cosa recente, la medicina ha deciso di non definire più “irreversibile” lo stato vegetativo. E in effetti sono tanti coloro che si sono risvegliati sconvolgendo le previsioni infauste. Che finora la medicina abbia sottovalutato quella condizione è provato anche da diverse testimonianze di persone che – pure in ospedali italiani (parlo per conoscenza diretta) - trovatesi in coma, in una condizione nella quale secondo i medici non potevano assolutamente sentire cosa veniva detto, hanno ascoltato precisamente i discorsi che intercorrevano fra i diversi dottori durante quelle ore e li hanno poi riferiti (al loro risveglio) per filo e per segno lasciando sconvolti quegli stessi medici.

Giuseppe Sartori, ordinario di Neuroscienze cognitive all’Università di Padova, tempo fa ha dichiarato: “Da quando è stato dimostrato che i pazienti in stato vegetativo possono mantenere qualche forma nascosta di consapevolezza dovrebbe valere il principio di precauzione: non possiamo far morire una persona che forse ci sta sentendo e capisce che cosa accade a lei e intorno a lei”.

Probabilmente Eluana in queste ore ha sopportato una sofferenza fisica enorme (tanto che si è dovuto sedarla), ma – se aveva un certo grado di coscienza (come i nuovi studi dicono) – chi può dire la sofferenza morale che ha vissuto? Ora la tragedia si è consumata. La Chiesa tanto vilipesa, la Chiesa che ha abbracciato Eluana in questi 17 anni con l’amore materno delle suore, ora invoca per lei “la carezza del Nazareno”, come diceva poeticamente Enzo Jannacci. Una ricompensa eterna alle sue sofferenze. Ma il nostro Paese? Un brivido ci corre nella schiena.

Antonio Socci - Da Libero, 10 febbraio 2009


Il problema non è la teoria ma l'ideologia - di Marc Leclerc - Pontificia Università Gregoriana – L’Osservatore Romano, 12 febbraio 2009
Il 12 febbraio 2009 il mondo fa memoria del bicentenario di Charles Darwin. Il grande naturalista inglese, che ha influenzato la storia delle scienze così come la comprensione che abbiamo della nostra stessa umanità, rimane per certi versi un personaggio enigmatico, oggetto, suo malgrado, di discussioni e di polemiche senza fine. Il suo contributo decisivo al trasformismo biologico, l'importanza della sua nuova teoria dell'evoluzione per via della selezione naturale, sono troppo noti per dovervi soffermare a lungo.
Certo, come per ogni teoria nascente, la sua rimaneva incompleta, oggetto di dibattiti scientifici, che la successiva costituzione della sintesi moderna, nel corso del ventesimo secolo, non chiuderà, anzi li intensificherà ancora, con l'aggiunta di molti elementi non previsti da Darwin, sia nel prolungamento o nella conferma delle sue ipotesi, sia, a volte, in senso diverso.
Tutto questo è nomale processo della ricerca scientifica, sviluppandosi senza fine assegnabile.

Il dibattito attuale tuttavia non coinvolge solo il mondo scientifico, con l'argomentazione che gli è propria. Coinvolge ormai l'opinione pubblica, i media, le scuole, il mondo politico, le religioni e pure la Chiesa. La ragione sembra semplice: la teoria di Darwin, nelle varie interpretazioni che se ne possono dare, tocca all'intelligenza che l'uomo contemporaneo ha di se stesso.
Aldilà delle posizioni personali del suo autore - spesso ambigue, ma riconducibili alla fin fine ad una forma di agnosticismo aperto - buona parte della posterità ha capito l'applicazione della sua teoria all'origine della specie umana come una forma di "compimento della rivoluzione copernicana", anzi come una riduzione dell'uomo alla pura animalità, in una prospettiva esplicitamente materialista. Tale visione dell'uomo contrastava direttamente la concezione religiosa, cristiana in particolare, della creazione di un essere non solo corporeo, anzi pure spirituale, dove risplende, sotto il velo, l'imago Dei.
Una parte cospicua dei problemi viene dal fatto che molti, sia partigiani, sia avversari di Darwin, hanno confuso la sua teoria scientifica dell'evoluzione - da discutere a livello scientifico tra persone competenti - con la sua riduzione ad un sistema ideologico, ad una visione del mondo che per forza coinvolge tutti gli uomini, sentendosi profondamente messi in questione nella loro stessa identità, rivendicando quindi il proprio diritto a partecipare al dibattito.
Come scriveva giustamente l'allora cardinale Ratzinger, la polemica è nata non dalla teoria dell'evoluzione in quanto tale, ma dall'erezione indebita di alcuni suoi elementi a philosophia universalis, a "chiave d'interpretazione dell'intera realtà". In particolare, i due elementi di cui Jacques Monod farà il titolo stesso del suo famoso saggio, Il caso e la necessità (1970). Il carattere aleatorio di piccole mutazioni imprevedibili, associate alla necessità ineluttabile della selezione naturale e delle leggi della genetica votate a conservare le variazioni le più favorevoli, bastano, in questa visione riduttrice, a spiegare il mondo vivente in tutta la sua varietà, compreso l'uomo. Ed alcuni non esitano a generalizzarlo all'intera realtà, secondo la concezione democritea che Monod ha riportato sulla prima pagina del suo saggio: "Tutto ciò che esiste nell'universo è il frutto del caso e della necessità".
A queste confusioni si sono poi aggiunte tutte quelle nate dal così detto "darwinismo sociale", a volte presentato come "teoria scientifica" tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, volto in realtà a giustificare le più varie e meno giustificabili ideologie, specialmente attorno al concetto di guerra, di cui alcuni intendevano dimostrare la "necessità". Antonello La Vergata ha ben analizzato questo fenomeno nel suo libro Guerra e darwinismo sociale (2005): si tratta chiaramente di una pura strumentalizzazione senza alcun fondamento scientifico e con ben pochi legami con il pensiero e l'opera di Charles Darwin. L'autore de L'origine delle specie e de La discendenza dell'uomo applicava sì la sua teoria della selezione naturale all'emergenza della nostra specie, ma non al funzionamento delle attuali società umane, sottolineando invece come un carattere benefico per la specie l'acquisizione di facoltà morali e religiose che portano l'uomo a proteggere i più deboli, al contrario delle assurde pretese del darwinismo sociale.
Darwin si rivela quindi più umanista di parecchi suoi seguaci. Più aperto e più rigoroso, pure. Era uno scienziato, un osservatore acuto che su base delle proprie osservazioni faceva delle ipotesi, che si sforzava poi di controllare il più possibile. Ma, dopo di lui, c'è chi ha voluto fare del neodarwinismo un sistema rigido, chiuso su se stesso, onnicomprensivo e fuori discussione, la forma moderna della spiegazione materialista della realtà. In questo contesto si potrebbe capire l'origine delle reazioni, certo eccessive, di un creazionismo direttamente contrapposto a tale evoluzionismo.
Invece le realtà che possiamo riconoscere, ciascuna al proprio livello, come evoluzione e creazione, non presentano tra loro la minima opposizione, anzi si rivelano del tutto complementari. L'evoluzione biologica risulta per prima da un insieme impressionante di fatti convergenti, dell'ordine della paleontologia, della sistematica e della biologia molecolare. Le varie specie viventi hanno un'origine comune, costituiscono un immenso "albero" con infinite ramificazioni, derivando da specie più semplici e meno numerose, quanto i batteri o le alghe blu, formatesi più di tre miliardi e mezzo di anni fa - giacché se ne ritrovano i "fossili chimici" nelle più antiche rocce conosciute sulla terra. In secondo luogo, le teorie dell'evoluzione provano a descrivere i meccanismi essenziali tramite i quali le specie sono derivate le une dalle altre. Darwin ha proposto quello basilare della selezione naturale, che si mostra operante e verificabile a livello della microevoluzione, su tempi che ci sono accessibili. La sua applicazione alla macroevoluzione pone ancora qualche problema, e verisimilmente si dovranno aggiungere una serie d'altri meccanismi complementari, dove in particolare il ruolo della cooperazione, della simbiosi in sistemi molto integrati, non si lascia ridurre alla sola selezione naturale.
Ma si tratta qui, sempre, di meccanismi, sia conosciuti, sia da scoprire.
Tutt'altro è il piano della riflessione filosofica sul fatto dell'evoluzione come sulle sue teorie esplicative. Cosa significa l'evoluzione biologica, aldilà dei meccanismi che l'hanno permessa e che la scienza ha il compito di studiare? Qualsiasi siano i processi evolutivi, la questione della creazione rimane aperta, e toccherà ad una filosofia coerente provare a darle una risposta soddisfacente. Tale filosofia potrà a sua volta fungere da mediatrice tra dati e teorie scientifici da una parte, e pensiero teologico della creazione dall'altra. Di particolare importanza sarà la riflessione sul posto dell'uomo nell'evoluzione come nella creazione. L'uomo, come essere vivente, può trovare il proprio posto nell'evoluzione delle specie, che, in una rilettura post factum, ha preparato così a lungo la sua venuta. Ma l'uomo non può ridursi, senza contraddizione, al puro prodotto dell'evoluzione delle specie - in altre parole, l'uomo non è riducibile alla propria animalità. Perché nessun sistema formale può stabilire la non contraddizione dei propri assiomi (corollario del teorema d'incompiutezza di Gödel). Ora una buona critica filosofica mostra che l'uomo, invece, può giustificare i primi principi della sua conoscenza. L'essere umano dispone di una capacità di riflessione, di autocoscienza, di libertà che trascendono necessariamente la pura animalità, e che non possono essere il semplice prodotto dell'evoluzione. Come afferma giustamente la teologia cattolica, ogni persona umana è l'oggetto di un atto creatore singolare da parte di Dio, anche se s'inserisce naturalmente nella specie dell'homo sapiens, apparsa alla fine di un immenso processo evolutivo di cui si cominciano a scoprire alcuni dei segreti.
(©L'Osservatore Romano - 12 febbraio 2009)


INDAGINE/ 1. Vittadini: per risolvere la crisi aiutate Cenerentola - Giorgio Vittadini - giovedì 12 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
La piccola impresa italiana è la Cenerentola del nostro sistema produttivo. Come la famosa protagonista della fiaba è stata trattata come una serva inutile dalle sorelle per molto tempo, salvo scoprire, dopo una bolla speculativa dell’e-commerce, un declino di molta parte della grande industria e una crisi finanziaria globale, che in realtà è di gran lunga la ragazza più bella della famiglia.
Tuttavia, anche quando si pensa a come ripartire, la si dimentica ancora: incentivi e finanziamenti sono pensati solo per le sorelle più protette, alcune grandi imprese, il sistema bancario...
Interventi sacrosanti e doverosi, perchè si dice, anche la piccola impresa, indotto di quella grande ne godrà i benefici.
Si dimentica però che il nostro sistema produttivo è molto più articolato di quel che sembri e che c’è una piccola impresa altamente competitiva, che non è semplice indotto della grande (si pensi ad esempio al nord –Est). Così, non solo non si pensa agli aiuti per aiutare Cenerentola, ma non si chiede neppure agli imprenditori che la animano cosa vogliano, di cosa abbiano bisogno.
Almeno questa ultima lacuna ha tentato di riempire il recente Rapporto “Sussidiarietà e… piccole e medie imprese” un indagine su 1600 aziende distribuite su tutto il territorio nazionale condotta dalla Fondazione per la sussidiarietà sotto la guida del prof. Carlo Lauro dell’Università Federico II di Napoli. Le risposte sono sorprendenti: i piccoli e medi imprenditori manifatturieri italiani dichiarano di non voler privilegi, nè aiuti clientelari a pioggia, ma piuttosto che sia loro concessa di nuovo quella libertà di azione, compromessa dai mille lacci e lacciuoli che ostacolano il loro lavoro.
Infatti il 54% degli intervistati vuole più semplificazione amministrativa e fiscale per favorire lo sviluppo; il 53% delle imprese vuole più decentramento; per l’85% il sistema economico non è sufficientemente liberalizzato e le imprese auspicano una maggiore eguaglianza nell’accesso al mercato.
Se questo avvenisse, dicono ancora gli imprenditori, la piccola impresa potrebbe sfruttare a pieno la sua migliore caratteristica: l’alleanza tra imprenditore e lavoratori considerati non come risorse umane o come entità da sfruttare in una lotta di classe ante-litteram, ma come uomini a tutto tondo, capaci se valorizzati di migliorare il profitto dell’impre­sa. Perciò, la gran parte degli intervistati è aperta al confronto con i dipendenti/collaboratori nella conduzione dell’impresa, è d’accordo o molto d’accordo a valorizzare le competenze del perso­nale, ritiene importante la cre­azione di un ambiente di lavoro confortevole anche se questo crea costi aggiuntivi per l’impresa.
E pur essendo le dimensioni spesso non elevate non ci si vuole isolare, impauriti dagli altri: la maggioranza delle PMI vuole collaborare maggiormente con fornitori, clienti competitor, associazioni di categoria perché o si risale insieme o si muore condannati dalla propria solitudine.
Mentre si moltiplicano gli appelli alla responsabilità, alla fiducia, alla collaborazione contro la crisi si dovrebbe guardare molto di più a come Cenerentola già le vive... senza aspettare che arrivi un improbabile principe azzurro a svelarla.
(Pubblicato su Il Riformista 12 Febbraio 2009)


CONFRONTI/ Ermanno lo storpio ed Eluana, due diversi modi di accoglienza - Rino Cammilleri - giovedì 12 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
Quando nacque, nel 1013, suo padre, il conte Wolfrat di Altshausen, lo prese come una punizione divina. Ermanno, infatti, fu detto «il contratto» perché era conciato, tanto per fare un esempio, come Michel Petrucciani, il famoso pianista jazz da poco scomparso. Uno sgorbio di natura, un disabile così disabile da sembrare non un uomo ma un tralcio contorto. Eppure, come Petrucciani, si rivelò un genio.
Si fece monaco benedettino nell’abbazia di San Gallo e poi a Reichenau, diventando un maestro di portata mondiale che papi e imperatori facevano a gara per incontrare. Per l’ecletticità delle sue opere fu chiamato miraculum saeculi e anche doctor marianus (per aver musicato il Salve Regina e l’Alma Redemptoris Mater). La sua disabilità non gli impedì di viaggiare moltissimo e di scrivere un numero stupefacente di trattati in ogni disciplina. Inventò anche un nuovo modo di notazione musicale e uno rivoluzionario per la storiografia (cioè, «scientifico», come lo si fa oggi). Morì a quarantadue anni nel 1054 e fu beatificato dalla Chiesa.
Il suo è solo un esempio tra i tanti che potremmo addurre per affermare che ogni vita (ripetiamo: ogni) è degna di essere vissuta. L’individualismo utilitaristico agnostico di origine illuminista che l’edonismo ha reso ormai di massa (potentissimamente aiutato - anzi, indotto - dai massmedia) ci spinge a dividere il nostro prossimo in due categorie, la seconda delle quali è costituita dagli «inutili». Chissà perché questi ultimi vorremmo trattarli peggio dei «dannosi», di cui le galere sono piene.
Il suicidio, caritatevolmente assistito o meno, era vietato nei tempi cristiani non solo perché immorale dottrinalmente parlando, ma anche per un motivo più spiccio: piaccia o no, siamo tutti sulla stessa barca e a nessuno è consentito “chiamarsi fuori”, perché costringerebbe un altro a remare per due.
Il recente «caso Eluana» ha visto non pochi sepolcri imbiancati chiedere, a giochi fatti, rispettoso silenzio. Invece lo grideremo sui tetti fino a farli diventate sordi, imitando il padre di Eluana che ha fatto di tutto per anni affinché il suo caso avesse risonanza mondiale. Si può comprendere, certo, la disperazione. Ma non il “contagio” volontario di essa. La vita non è un giocattolo, che quando non mi diverte più lo butto via. La vita è un compito, serio e severo, che si può svolgere anche stando immobilizzati su un letto. A Hollywood tutti vogliono fare le parti assegnate a Brad Pitt e pochi quelle di Danny De Vito. Tuttavia, il secondo ha più Oscar del primo. Perché quel che conta, nel dramma dell’esistenza, non è la parte che fai ma come la fai.


PER POI BUTTARCI A PESCE SUI REATI DEGLI IMMIGRATI - Se non smettiamo di difendere i figli che sbagliano - MARINA CORRADI – Avvenire, 12 febbraio 2009
Sono già stati scarcerati i quattro ragazzi che in provincia di Brescia hanno violentato una compagna tredicenne durante una festa, dopo averla ubriacata.
Il più ' vecchio', diciassettenne, è stato affidato a una comunità, gli altri, di 14 e 15 anni, sono agli arresti domiciliari, a casa, ma con il permesso di frequentare regolarmente la scuola. Lo stupro di Brescia è di una violenza tale, che non si può raccontarne i particolari. Se i colpevoli fossero stati degli stranieri, la quieta provincia bresciana sarebbe forse insorta, come la gente a Guidonia. Ma questi quattro – e altri compagni nemmeno imputabili perché non hanno ancora 14 anni – sono figli nostri. Allora, nessuna reazione pubblica. I genitori della vittima dicono: « Vorremmo essere abbracciati, e invece i vicini ci chiedono, curiosi, se quella dello stupro è proprio nostra figlia » .
Una terribile storia di paese, con i nomi dei protagonisti sussurrati di bocca in bocca. Fra pochi giorni quella ragazzina potrà incontrare sull’autobus o in piazza i suoi violentatori. Penserà che la violenza subita, per la legge, è un nulla. Forse, fuori dal carcere dopo appena 48 ore, anche i colpevoli saranno inclini a pensare la stessa cosa. Viene da chiedersi però se una società che libera in due giorni i violentatori di una tredicenne, fa davvero il loro bene. È come dire: non è successo nulla, è stata la sbronza, è stata una ragazzata.
È questa sorta di leggerezza che spaventa. Questi non sono extracomunitari cresciuti nella violenza e nell’abbandono. Questi, sono figli nostri. Vanno a scuola, studiano l’inglese, hanno una famiglia e una casa e soldi e vestiti alla moda.
Poi una sera, per ovviare alla noia, si fanno d’alcol o d’altra roba e si avventano su una compagna.
Qualcuno filma con il cellulare, per potersi vantare con gli amici.
Certo, un caso isolato, diranno gli ottimisti di natura, in mezzo a milioni di bravi ragazzi. Vero, ma è un caso isolato dopo l’altro caso dello straniero dato alle fiamme a Roma, e del clochard bruciato a Rimini, per gioco. Tre storie come queste in pochi mesi – storie di una gratuita brutalità che si accanisce sul debole – a noi invece incutono spavento.
È come se la soglia fra la ' bravata' e la ferocia si fosse abbassata. Come se questa soglia non fosse più nemmeno esattamente percepita. E quasi sempre, a casa, si trova un padre o una madre che difende questi figli. A Roma, la madre del sedicenne accusato di avere con altri arso vivo un uomo ha detto a un tg che suo figlio è un bravo ragazzo, e che se davvero ha fatto quelle cose è perché altri ce lo hanno trascinato.
Raramente abbiamo sentito dire da un padre: è vero, mio figlio ha fatto una cosa terribile. Forse perché, ammettendolo, bisognerebbe confessare a se stessi di avere, come padri, molto sbagliato.
Viene da chiedersi, ancora, se questa leggerezza fa del bene ai quattro di Brescia, e agli altri. Se è voler bene, di fronte a un adolescente alto ormai come un uomo, sminuirne ogni responsabilità. Se non è tempo invece di parlare chiaro: hai violentato una ragazza, hai dato fuoco a un povero Cristo, hai fatto una cosa terribile.
Apri gli occhi, guardati. E solo da questa piena coscienza riaccogliere, per ricominciare.
Magari quasi da zero: da un lavoro faticoso, dalla coscienza che già un pezzo di pane è un dono, e ancora di più lo è la faccia di un amico. Se questi figli ci stessero a cuore, lo faremmo. Ma è più facile una pacca sulle spalle, non farlo più, mi raccomando. Invece di ammettere un fallimento drammatico, invece di avere il coraggio di spendersi nella fatica grande e straordinaria che è educare.