Nella rassegna stampa di oggi:
1) Messaggio di Benedetto XVI per la Quaresima 2009 - "Gesù, dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame" - CITTA' DEL VATICANO, martedì, 3 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo del Messaggio del Santo Padre per la Quaresima 2009 sul tema "Gesù, dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame" (Mt 4, 2).
2) Disastro doppio in Vaticano: di governo e di comunicazione - È questo il bilancio della revoca della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani. La solitudine di papa Benedetto, l'inettitudine della curia e i colpi a vuoto della segreteria di stato - di Sandro Magister
3) La Notte degli imbrogli - Autore: Gulisano, Paolo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 4 febbraio 2009
4) Silenzio - Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 4 febbraio 2009
5) ELUANA/ 1. Formigoni: la nostra resistenza all’eutanasia - INT. Roberto Formigoni - mercoledì 4 febbraio 2009 – Ilsussidiario.net
6) ELUANA/ 2. Una morte legale? Sì, come erano legali gli schiavi e le stelle gialle degli ebrei... - Assuntina Morresi - mercoledì 4 febbraio 2009 – IlSussidiario.net
7) COMUNISMO/ Cavalcare la speranza: le lettere di Vaclav Benda - Angelo Bonaguro - mercoledì 4 febbraio 2009 – IlSussidiario.net
8) UGANDA/ Inaugurato il Centro educativo intitolato a don Giussani: un’opera nata da un’amicizia - Redazione - martedì 3 febbraio 2009 – IlSussidiario.net
9) LO SAPPIANO IL SINDACO E QUEL MEDICO - IL TRADIMENTO DELL’ENERGIA, DELLA STORIA DI UN POPOLO - DUILIO CORGNALI – Avvenire, 4 febbraio 2009
10) INTERVISTA - il fatto La moglie del carabiniere assassinato in Iraq nel 2003 racconta il suo rapporto con la Englaro e con il padre «Rispetto Beppino e provo sempre affetto per lui, ma non è giusto quello che sta facendo» - Vi racconto Beppino ed Eluana - Parla la vedova Coletta: ragazza libera e senza alcuna cannula - DA ROMA PINO CIOCIOLA – Avvenire, 4 febbraio 2009
Messaggio di Benedetto XVI per la Quaresima 2009 - "Gesù, dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame" - CITTA' DEL VATICANO, martedì, 3 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo del Messaggio del Santo Padre per la Quaresima 2009 sul tema "Gesù, dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame" (Mt 4, 2).
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Cari fratelli e sorelle!
All'inizio della Quaresima, che costituisce un cammino di più intenso allenamento spirituale, la Liturgia ci ripropone tre pratiche penitenziali molto care alla tradizione biblica e cristiana - la preghiera, l'elemosina, il digiuno - per disporci a celebrare meglio la Pasqua e a fare così esperienza della potenza di Dio che, come ascolteremo nella Veglia pasquale, "sconfigge il male, lava le colpe, restituisce l'innocenza ai peccatori, la gioia agli afflitti. Dissipa l'odio, piega la durezza dei potenti, promuove la concordia e la pace" (Preconio pasquale). Nel consueto mio Messaggio quaresimale, vorrei soffermarmi quest'anno a riflettere In particolare sul valore e sul senso del digiuno. La Quaresima infatti richiama alla mente i quaranta giorni di digiuno vissuti dal Signore nel deserto prima di intraprendere la sua missione pubblica. Leggiamo nel Vangelo: "Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame" (Mt 4,1-2). Come Mosè prima di ricevere le Tavole della Legge (cfr Es 34,28), come Elia prima di incontrare il Signore sul monte Oreb (cfr 1 Re 19,8), così Gesù pregando e digiunando si preparò alla sua missione, il cui inizio fu un duro scontro con il tentatore.
Possiamo domandarci quale valore e quale senso abbia per noi cristiani il privarci di un qualcosa che sarebbe in se stesso buono e utile per il nostro sostentamento. Le Sacre Scritture e tutta la tradizione cristiana insegnano che il digiuno è di grande aiuto per evitare il peccato e tutto ciò che ad esso induce. Per questo nella storia della salvezza ricorre più volte l'invito a digiunare. Già nelle prime pagine della Sacra Scrittura il Signore comanda all'uomo di astenersi dal consumare il frutto proibito: "Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire" (Gn 2,16-17). Commentando l'ingiunzione divina, san Basilio osserva che "il digiuno è stato ordinato in Paradiso", e "il primo comando in tal senso è stato dato ad Adamo". Egli pertanto conclude: "Il 'non devi mangiare' è, dunque, la legge del digiuno e dell'astinenza" (cfr Sermo de jejunio: PG 31, 163, 98). Poiché tutti siamo appesantiti dal peccato e dalle sue conseguenze, il digiuno ci viene offerto come un mezzo per riannodare l'amicizia con il Signore. Così fece Esdra prima del viaggio di ritorno dall'esilio alla Terra Promessa, invitando il popolo riunito a digiunare "per umiliarci - disse - davanti al nostro Dio" (8,21). L'Onnipotente ascoltò la loro preghiera e assicurò il suo favore e la sua protezione. Altrettanto fecero gli abitanti di Ninive che, sensibili all'appello di Giona al pentimento, proclamarono, quale testimonianza della loro sincerità, un digiuno dicendo: "Chi sa che Dio non cambi, si ravveda, deponga il suo ardente sdegno e noi non abbiamo a perire!" (3,9). Anche allora Dio vide le loro opere e li risparmiò.
Nel Nuovo Testamento, Gesù pone in luce la ragione profonda del digiuno, stigmatizzando l'atteggiamento dei farisei, i quali osservavano con scrupolo le prescrizioni imposte dalla legge, ma il loro cuore era lontano da Dio. Il vero digiuno, ripete anche altrove il divino Maestro, è piuttosto compiere la volontà del Padre celeste, il quale "vede nel segreto, e ti ricompenserà" (Mt 6,18). Egli stesso ne dà l'esempio rispondendo a satana, al termine dei 40 giorni passati nel deserto, che "non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio" (Mt 4,4). Il vero digiuno è dunque finalizzato a mangiare il "vero cibo", che è fare la volontà del Padre (cfr Gv 4,34). Se pertanto Adamo disobbedì al comando del Signore "di non mangiare del frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male", con il digiuno il credente intende sottomettersi umilmente a Dio, confidando nella sua bontà e misericordia.
Troviamo la pratica del digiuno molto presente nella prima comunità cristiana (cfr At 13,3; 14,22; 27,21; 2 Cor 6,5). Anche i Padri della Chiesa parlano della forza del digiuno, capace di tenere a freno il peccato, reprimere le bramosie del "vecchio Adamo", ed aprire nel cuore del credente la strada a Dio. Il digiuno è inoltre una pratica ricorrente e raccomandata dai santi di ogni epoca. Scrive san Pietro Crisologo: "Il digiuno è l'anima della preghiera e la misericordia la vita del digiuno, perciò chi prega digiuni. Chi digiuna abbia misericordia. Chi nel domandare desidera di essere esaudito, esaudisca chi gli rivolge domanda. Chi vuol trovare aperto verso di sé il cuore di Dio non chiuda il suo a chi lo supplica" (Sermo 43: PL 52, 320. 332).
Ai nostri giorni, la pratica del digiuno pare aver perso un po' della sua valenza spirituale e aver acquistato piuttosto, in una cultura segnata dalla ricerca del benessere materiale, il valore di una misura terapeutica per la cura del proprio corpo. Digiunare giova certamente al benessere fisico, ma per i credenti è in primo luogo una "terapia" per curare tutto ciò che impedisce loro di conformare se stessi alla volontà di Dio. Nella Costituzione apostolica Pænitemini del 1966, il Servo di Dio Paolo VI ravvisava la necessità di collocare il digiuno nel contesto della chiamata di ogni cristiano a "non più vivere per se stesso, ma per colui che lo amò e diede se stesso per lui, e ... anche a vivere per i fratelli" (cfr Cap. I). La Quaresima potrebbe essere un'occasione opportuna per riprendere le norme contenute nella citata Costituzione apostolica, valorizzando il significato autentico e perenne di quest'antica pratica penitenziale, che può aiutarci a mortificare il nostro egoismo e ad aprire il cuore all'amore di Dio e del prossimo, primo e sommo comandamento della nuova Legge e compendio di tutto il Vangelo (cfr Mt 22,34-40).
La fedele pratica del digiuno contribuisce inoltre a conferire unità alla persona, corpo ed anima, aiutandola ad evitare il peccato e a crescere nell'intimità con il Signore. Sant'Agostino, che ben conosceva le proprie inclinazioni negative e le definiva "nodo tortuoso e aggrovigliato" (Confessioni, II, 10.18), nel suo trattato L'utilità del digiuno, scriveva: "Mi dò certo un supplizio, ma perché Egli mi perdoni; da me stesso mi castigo perché Egli mi aiuti, per piacere ai suoi occhi, per arrivare al diletto della sua dolcezza" (Sermo 400, 3, 3: PL 40, 708). Privarsi del cibo materiale che nutre il corpo facilita un'interiore disposizione ad ascoltare Cristo e a nutrirsi della sua parola di salvezza. Con il digiuno e la preghiera permettiamo a Lui di venire a saziare la fame più profonda che sperimentiamo nel nostro intimo: la fame e sete di Dio.
Al tempo stesso, il digiuno ci aiuta a prendere coscienza della situazione in cui vivono tanti nostri fratelli. Nella sua Prima Lettera san Giovanni ammonisce: "Se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come rimane in lui l'amore di Dio?" (3,17). Digiunare volontariamente ci aiuta a coltivare lo stile del Buon Samaritano, che si china e va in soccorso del fratello sofferente (cfr Enc. Deus caritas est, 15). Scegliendo liberamente di privarci di qualcosa per aiutare gli altri, mostriamo concretamente che il prossimo in difficoltà non ci è estraneo. Proprio per mantenere vivo questo atteggiamento di accoglienza e di attenzione verso i fratelli, incoraggio le parrocchie ed ogni altra comunità ad intensificare in Quaresima la pratica del digiuno personale e comunitario, coltivando altresì l'ascolto della Parola di Dio, la preghiera e l'elemosina. Questo è stato, sin dall'inizio, lo stile della comunità cristiana, nella quale venivano fatte speciali collette (cfr 2 Cor 8-9; Rm 15, 25-27), e i fedeli erano invitati a dare ai poveri quanto, grazie al digiuno, era stato messo da parte (cfr Didascalia Ap., V, 20,18). Anche oggi tale pratica va riscoperta ed incoraggiata, soprattutto durante il tempo liturgico quaresimale.
Da quanto ho detto emerge con grande chiarezza che il digiuno rappresenta una pratica ascetica importante, un'arma spirituale per lottare contro ogni eventuale attaccamento disordinato a noi stessi. Privarsi volontariamente del piacere del cibo e di altri beni materiali, aiuta il discepolo di Cristo a controllare gli appetiti della natura indebolita dalla colpa d'origine, i cui effetti negativi investono l'intera personalità umana. Opportunamente esorta un antico inno liturgico quaresimale: "Utamur ergo parcius, / verbis, cibis et potibus, / somno, iocis et arctius / perstemus in custodia - Usiamo in modo più sobrio parole, cibi, bevande, sonno e giochi, e rimaniamo con maggior attenzione vigilanti".
Cari fratelli e sorelle, a ben vedere il digiuno ha come sua ultima finalità di aiutare ciascuno di noi, come scriveva il Servo di Dio Papa Giovanni Paolo II, a fare di sé dono totale a Dio (cfr Enc. Veritatis splendor, 21). La Quaresima sia pertanto valorizzata in ogni famiglia e in ogni comunità cristiana per allontanare tutto ciò che distrae lo spirito e per intensificare ciò che nutre l'anima aprendola all'amore di Dio e del prossimo. Penso in particolare ad un maggior impegno nella preghiera, nella lectio divina, nel ricorso al Sacramento della Riconciliazione e nell'attiva partecipazione all'Eucaristia, soprattutto alla Santa Messa domenicale. Con questa interiore disposizione entriamo nel clima penitenziale della Quaresima. Ci accompagni la Beata Vergine Maria, Causa nostrae laetitiae, e ci sostenga nello sforzo di liberare il nostro cuore dalla schiavitù del peccato per renderlo sempre più "tabernacolo vivente di Dio". Con questo augurio, mentre assicuro la mia preghiera perchè ogni credente e ogni comunità ecclesiale percorra un proficuo itinerario quaresimale, imparto di cuore a tutti la Benedizione Apostolica.
Dal Vaticano, 11 Dicembre 2008
BENEDICTUS PP. XVI
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
Disastro doppio in Vaticano: di governo e di comunicazione - È questo il bilancio della revoca della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani. La solitudine di papa Benedetto, l'inettitudine della curia e i colpi a vuoto della segreteria di stato - di Sandro Magister
ROMA, 4 febbraio 2009 – A distanza di qualche giorno dai fatti, la revoca della scomunica ai vescovi lefebvriani si manifesta sempre più in Vaticano come un doppio disastro, di governo e di comunicazione.
Nel disastro, papa Benedetto XVI si è trovato a essere il più esposto, praticamente solo.
In curia e fuori sono numerosi quelli che caricano sul papa la colpa di tutto. In effetti è stata sua, di papa Joseph Ratzinger, la decisione di offrire ai vescovi lefebvriani un gesto di benevolenza. La revoca della scomunica faceva seguito ad altri precedenti gesti di apertura, anch'essi personalmente voluti dal papa, l'ultimo dei quali era stato il motu proprio "Summorum Pontificum" del 7 luglio 2007, con la liberalizzazione del rito antico della messa.
Come già in precedenza, anche questa volta Benedetto XVI non aveva preteso niente in cambio, preventivamente, dai lefebvriani. Le sue sono state finora aperture unilaterali. I critici del papa hanno fatto leva su questo per accusarlo di ingenuità, o di cedimento, o addirittura di voler riportare la Chiesa a prima del Concilio Vaticano II.
In realtà, l'intenzione di Benedetto XVI è stata spiegata da lui con assoluta chiarezza in uno dei discorsi capitali del suo pontificato, quello letto alla curia romana il 22 dicembre 2005. In quel discorso, papa Ratzinger sostenne che il Vaticano II non segnava alcuna rottura con la tradizione della Chiesa, anzi, era in continuità con la tradizione anche là dove sembrava segnare una svolta netta rispetto al passato, ad esempio quando riconosceva la libertà religiosa come diritto inalienabile di ogni persona.
Con quel discorso Benedetto XVI parlava all'intero corpo cattolico. Ma nello stesso tempo anche ai lefebvriani, ai quali indicava la strada maestra per sanare lo scisma e ritornare all'unità con la Chiesa sui punti da loro più contestati: non solo la libertà religiosa, ma anche la liturgia, l'ecumenismo, il rapporto con l'ebraismo e le altre religioni.
Su tutti questi punti, dopo il Concilio Vaticano II i lefebvriani si erano progressivamente separati dalla Chiesa cattolica. Nel 1975 la Fraternità Sacerdotale San Pio X – la struttura nella quale si erano organizzati – non ubbidì all'ordine di scioglimento e si costituì in Chiesa parallela, con propri vescovi, sacerdoti, seminari. Nel 1976 il fondatore, l'arcivescovo Marcel Lefebvre, fu sospeso "a divinis". Nel 1988 la scomunica a Lefebvre e a quattro nuovi vescovi da lui ordinati senza l'autorizzazione del papa – a loro volta sospesi "a divinis" – fu l'atto culminante di uno scisma già in corso da anni.
La revoca di questa scomunica non ha dunque affatto sanato lo scisma tra Roma e i lefebvriani, così come la revoca delle scomuniche tra Roma e il patriarcato di Costantinopoli – decisa il 7 dicembre 1965 da Paolo VI e Atenagora – non ha affatto segnato il ritorno all'unità tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse d'Oriente. Nell'uno e nell'altro caso, la cessata scomunica ha inteso solo valere come un primo passo per ricomporre lo scisma, che resta.
A conferma di questo c'è una nota del pontificio consiglio per i testi legislativi, emessa il 24 agosto 1996. In essa si legge che la scomunica scattata nel 1988 contro i vescovi lefebvriani "ha costituito la consumazione di una progressiva situazione globale d’indole scismatica" e che "finché non vi siano cambiamenti che conducano al ristabilimento della necessaria 'communio hierarchica', tutto il movimento lefebvriano è da ritenersi scismatico".
Questo era lo stato dei fatti, su cui è intervenuta la decisione di Benedetto XVI di revocare la scomunica ai quattro vescovi lefebvriani.
Ma di tutto questo poco o nulla si leggeva e capiva, nel decreto diramato il 24 gennaio dalla Santa Sede.
Nella "vulgata" diffusa dai media, con questo decreto la Chiesa di Roma semplicemente sembrava accogliere nel proprio seno i lefebvriani.
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Ad aggravare l'incomprensione ci fu poi la clamorosa risonanza di un'intervista di uno dei quattro vescovi graziati, l'inglese Richard Williamson, nella quale egli sosteneva tesi negazioniste riguardo alla Shoah.
L'intervista era stata registrata da una tv svedese il 1 novembre 2008, ma fu diffusa il 21 gennaio, il giorno stesso in cui in Vaticano fu firmato il decreto di revoca della scomunica a Williamson e agli altri tre vescovi lefebvriani.
Nei media di tutto il mondo la notizia divenne quindi la seguente: il papa assolve dalla scomunica e accoglie nella Chiesa un vescovo negazionista.
La tempesta che ne derivò fu tremenda. Dal mondo ebraico, ma non solo, non si contarono le proteste. Dal Vaticano si corse ai ripari affannosamente in più modi, con dichiarazioni ed articoli su "L'Osservatore Romano". La polemica si attenuò solo dopo che intervenne Benedetto XVI in persona, con due chiarimenti letti al termine dell'udienza generale di mercoledì 28 gennaio: uno sui lefebvriani e sul loro dovere di "riconoscimento del magistero e dell’autorità del papa e del Concilio Vaticano II", l'altro sulla Shoah.
La domanda sorge naturale: tutto ciò era proprio inevitabile, una volta posta la decisione del papa di revocare la scomunica ai vescovi lefebvriani? Oppure il disastro è stato prodotto da errori ed omissioni degli uomini che dovrebbero mettere in opera le decisioni del papa? I fatti propendono per questa seconda ipotesi.
Il decreto di revoca della scomunica porta la firma del cardinale Giovanni Battista Re, prefetto della congregazione per i vescovi. Un altro cardinale, Darío Castrillón Hoyos, è il presidente della pontificia commissione "Ecclesia Dei" che si occupa fin dalla sua costituzione, nel 1988, dei seguaci di Lefebvre. Sia l'uno che l'altro hanno dichiarato di essere stati colti di sorpresa, a cose fatte, dall'intervista del vescovo Williamson e di non aver mai saputo che egli fosse un negatore della Shoah.
Ma un approfondito esame del profilo personale di Williamson e degli altri tre vescovi non era il primo dovere d'ufficio dei due cardinali? Che non l'abbiano fatto appare inescusabile. Tale esame non era neppure difficile. Williamson non ha mai nascosto la sua avversione al giudaismo. Ha difeso in pubblico l'autenticità dei "Protocolli dei Savi di Sion". Nel 1989, in Canada, rischiò d'essere processato per aver esaltato i libri di un autore negazionista, Ernst Zundel. Dopo l'11 settembre 2001 aderì a tesi complottistiche per spiegare l'abbattimento delle Torri Gemelle. Bastava un clic su Google per rintracciare questi precedenti.
Un'altra grave falla ha riguardato il pontificio consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani. La ricomposizione dello scisma con i lefebvriani fa parte, logicamente, delle sue competenze, che comprendono anche i rapporti tra la Chiesa e l'ebraismo. Ma il cardinale che lo presiede, Walter Kasper, ha detto di essere stato tenuto fuori dalla delibera: cosa tanto più sorprendente in quanto l'emissione del decreto di revoca della scomunica è avvenuta durante l'annuale settimana di preghiera per l'unità dei cristiani e a pochi giorni dalla giornata mondiale di memoria della Shoah.
Non solo. È apparso del tutto carente anche il lancio mediatico della decisione. La sala stampa del Vaticano si è limitata, sabato 24 gennaio, a distribuire il testo del decreto, nonostante la notizia fosse già trapelata da alcuni giorni e su di essa già stesse montando la polemica accesa dalle dichiarazioni negazioniste di Williamson.
C'è un confronto che illumina. Il giorno precedente, 23 gennaio, la stessa sala stampa aveva organizzato con grande pompa il lancio del canale vaticano su YouTube. E pochi giorni dopo, il 29 gennaio, avrebbe lanciato, sempre con grande dispiegamento di persone e di mezzi, un convegno internazionale su Galileo Galilei in programma per la fine di maggio. In entrambi i casi l'obiettivo era di trasmettere ai media il senso autentico dell'una e dell'altra iniziativa.
Niente di simile, invece, è stato fatto per il decreto riguardante i vescovi lefebvriani. Eppure gli elementi per un suo lancio adeguato c'erano tutti. E anche i tempi erano quelli giusti. Era in corso la settimana di preghiera per l'unità dei cristiani; era imminente la giornata della memoria della Shoah; in Italia c'era stata pochi giorni prima, il 17 gennaio, la giornata per il dialogo tra cattolici ed ebrei. Il cardinale Kasper, il maggior responsabile della curia su entrambi i versanti, sarebbe stato la persona ideale per presentare il decreto, inquadrarlo nella persistente situazione di scisma, indicare le finalità della revoca della scomunica, ricapitolare i punti sui quali i lefebvriani venivano chiamati a riconsiderare le loro posizioni, dall'accettazione piena del Concilio Vaticano II al superamento del loro antigiudaismo. Quanto a Williamson, non sarebbe stato difficile circoscrivere il suo caso: restando fermo sulle sue aberranti tesi negazioniste, si sottraeva egli stesso al gesto di "misericordia" del papa.
Ebbene, se niente di questo è avvenuto, non è per colpa della sala stampa vaticana e del suo direttore, il gesuita Federico Lombardi, ma degli uffici di curia dai quali ricevono i comandi.
Uffici di curia che si riassumono nella segreteria di stato.
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Da Paolo VI in poi, la segreteria di stato è l'apice e il motore della macchina curiale. Ha l'accesso diretto al papa e governa la messa in opera di ogni sua decisione. La affida agli uffici competenti e ne coordina il lavoro.
Ebbene, nell'intera vicenda della revoca della scomunica ai vescovi lefebvriani, il segretario di stato, cardinale Tarcisio Bertone, pur di solito attivissimo e loquace, si è distinto per la sua assenza.
Il suo primo commento pubblico sulla questione è arrivato il 28 gennaio, in margine a un convegno romano nel quale era conferenziere.
Ma più che le parole, sono mancati da parte sua gli atti adeguati alla gravità della questione. Prima, durante e dopo l'emissione del decreto.
Benedetto XVI è stato lasciato praticamente solo e la curia è stata abbandonata al disordine.
Che papa Ratzinger abbia rinunciato a riformare la curia è ormai sotto gli occhi di tutti. Ma si ipotizzava che egli avesse sopperito a questa sua non scelta affidando la guida degli uffici a un segretario di stato dinamico e di polso, Bertone.
Oggi anche questa ipotesi si rivela in difetto. Con Bertone la curia appare più disordinata che prima, forse anche perché egli non vi si è mai completamente dedicato, per curarne le disfunzioni. Bertone svolge la gran parte della sua attività non dentro le mura vaticane ma fuori, in un incessante giro di conferenze, di celebrazioni, di inaugurazioni. I suoi viaggi all'estero sono frequenti e densi di incontri e di discorsi come quelli di un Giovanni Paolo II in piena salute: dal 15 al 19 gennaio è stato in Messico e in questi giorni è in visita in Spagna. Di conseguenza, il lavoro che gli uffici della segreteria di stato dedicano a queste sue attività esterne è tutto lavoro in meno per il papa. O talvolta è un inutile raddoppio: ad esempio quando Bertone tiene un discorso sullo stesso tema e allo stesso uditorio al quale poco dopo parlerà il papa, con i giornalisti puntualmente in caccia delle differenze tra i due.
La personale devozione di Bertone a Benedetto XVI è al di fuori di ogni dubbio. Non così quella di altri ufficiali di curia, che continuano ad avere campo libero. Può darsi che alcuni avversino consapevolmente questo pontificato. Di certo, i più semplicemente non lo capiscono, non ne sono all'altezza.
La Notte degli imbrogli - Autore: Gulisano, Paolo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 4 febbraio 2009
Ricordate il Capitolo 8° dei Promessi Sposi? Era quello della notte degli imbrogli. Ieri sera Lecco è stata il teatro di una notte di incredibili imbrogli. Innanzitutto un imbroglio nei confronti di ciò che è la Medicina, l’Assistenza Sanitaria, la professione del prendersi cura dei malati.
Sono medico da oltre vent’anni, e mai avrei immaginato un giorno di assistere alla scena di cui sono stato testimone ieri sera: un’ambulanza della Croce Rossa Italiana che preleva una paziente disabile per portarla incontro ad un destino che dovrebbe essere quello della morte per inedia, per fame e per sete. Dico “dovrebbe” non solo perché continuo a sperare insieme alle migliaia di persone che sono vicine ad Eluana con tutta la loro solidarietà, ma anche perché- paradossalmente o forse ipocritamente—la struttura assistenziale di Udine che si è resa disponibile per procedere alla soluzione finale di Eluana ha dichiarato ben altri intenti. Il piano assistenziale formalmente dichiarato dalla struttura la Quiete e avallato dall’Asl di Udine infatti prevede, testualmente, di fornire adeguata assistenza alla persona di Eluana Englaro. Quale sarebbe dunque questa adeguata assistenza? La deprivazione di alimentazione e idratazione? L’inganno è anche far credere all’opinione pubblica che possano esistere delle zone franche del servizio sanitario dove le norme etiche e deontologiche che riguardano l’assistenza ai malati possano non valere.
La struttura La Quiete dovrà rispondere penalmente delle sue azioni.
La notte di ieri ha visto l’esito infelice di tanti altri imbrogli: quello di aver fatto a lungo credere che Eluana sia attaccata ad una spina, che Eluana sia una sorta di morta vivente, a dispetto delle testimonianze anche recentissime che parlano di una persona con gli occhi aperti, che respira autonomamente, in uno stato che persino il sanitario di riferimento degli Englaro, Defanti, ha definito “stato di vigilanza”, pur senza consapevolezza, aggiunge il Defanti, il che è in realtà tutto da dimostrare. L’inganno di aver spacciato per sedicente volontà di Eluana una frase buttata là nell’adolescenza riguardante le condizioni di coma, e come d’incanto ci si è ritrovati con una specie di testamento biologico espresso però da terzi, da chi afferma di dover adempiere ad un patto di sangue e onore, una terminologia che suscita di per sé orrore.
L’inganno verso le leggi della Costituzione italiana, verso la Carta dei Diritti del malato dell’ONU, oltrepassate con disinvoltura da giudici sordi a qualunque appello, a qualunque richiesta di prendere atto delle reali condizioni di una paziente disabile.
Ma accanto a tutto ciò, vorrei rendere testimonianza della straordinaria prova di coraggio civile di chi ieri sera ha affrontato la terribile serata fuori dalla Casa di Cura Beato Talamoni, persone che sono accorse spontaneamente non appena la notizia che Eluana sarebbe stata prelevata aveva iniziato a circolare; persone normali e Amministratori Pubblici l’uno affianco all’altro, chi a pregare, chi a reggere un cartello, chi ad abbracciare disperatamente il cofano del mezzo per impedire che portasse via Eluana, prima di essere trascinato via dalle forze dell’ordine, chi semplicemente a dire con la propria presenza che la vita umana è sacra e va rispettata.
La testimonianza più intensa e commovente è stata quella data da Giuseppe Colombo, 93 anni, il Maestro Colombo che tutti i lecchesi conoscono e hanno conosciuto, una delle figure più alte e nobili della nostra città. Alla 1,15, mentre l’ambulanza venuta da Udine stava per fare il suo ingresso nella Casa di Cura, l’anziano maestro ha risalito a passi lenti Via san Nicolò, e si è fatto avanti con il suo volto di gentilezza e di bontà tra i sostenitori della vita e gli agenti della Questura che avevano avuto l’ordine di far passare ad ogni costo il convoglio della morte. Questo uomo anziano e fragile che si è posto davanti al grosso automezzo della CRI ha mostrato tutto il coraggio civile, la forza, la dignità di chi sta dalla parte dell’uomo, e per un attimo la piccola figura del vecchio maestro ha ricordato a chi era presente il giovane cinese che oppose la sua persona ai carri armati di Piazza Tien an men, cercando di sbarrare la strage all’ingiustizia e all’orrore.
Chi ieri sera ha assistito a tutto questo, nella nuova notte degli imbrogli di Lecco, ha ricevuto una straordinaria lezione, che non dimenticherà e che - ci auguriamo - darà frutti in questa battaglia di civiltà per Eluana e contro l’eutanasia.
Silenzio - Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 4 febbraio 2009
L’inverno avanza implacabile ed è tornata la neve. Ha coperto i tetti e imbiancato gli alberi. È scesa in silenzio, ci ha costretti a rallentare almeno un po’ i movimenti quotidiani, quasi a ricordarci che non dipende tutto da noi, possiamo anche fermarci un po’. È un modo per tornare a una dimensione più umana, in cui la natura fa sentire il suo peso determinante. “Abbiamo fatto tardi perché c’è la neve!” ci scusiamo, ma la voce è gioiosa, allegra: è accaduto qualcosa di bello. Il particolare silenzio che l’accompagna è ciò che più mi piace della neve. È un silenzio greve che costringe ad alzare gli occhi al cielo e nello stesso tempo pieno di luce, misterioso. È forse il silenzio di cui avremmo bisogno nelle nostre giornate dense di frastuono. Oggi di fronte alla spaventosa, agghiacciante notizia del trasferimento a Udine di Eluana un grido è rimasto soffocato in gola, poi è calato un disarmato silenzio. Di cosa c’è bisogno ancora in giorni già tanto pieni di dolore, di odio insensato, di violenza gratuita? Non bastano gli stupri, il povero giovane indiano dato alle fiamme, le violenze di ogni giorno? Bisogna a tutti i costi cercare la morte di una donna indifesa, inerte? Cosa ce ne facciamo di paludate sentenze che odorano di disumanità, di disimpegno verso la vita sofferente? Il silenzio è lacerato da domande pressanti. Il medico di Udine che ha seguito Eluana in ambulanza ha detto che “Eluana è morta 17 anni fa”! Tutti i difensori della morte hanno in diversi frangenti tradito il loro animo, il problema di fondo, l’incapacità di accettare una realtà dolorosa che non risponde più a un progetto prefissato, perciò da eliminare. È una strada senza speranza quella percorsa da chi non riconosce la dignità della vita. Rileggiamo le parole del Papa all’Angelus. “Gesù soffre e muore in croce per amore. In questo modo ha dato senso alla nostra sofferenza, un senso che molti uomini e donne di ogni epoca hanno capito e fatto proprio, sperimentando serenità profonda anche nell’amarezza di dure prove fisiche e morali. La vera risposta non può essere infatti dare la morte, per quanto "dolce", ma testimoniare l’amore che aiuta ad affrontare il dolore e l’agonia in modo umano. Siamone certi: nessuna lacrima, né di chi soffre, né di chi gli sta vicino, va perduta davanti a Dio.” Sul fronte della giustizia l’avvocato R. Marletta (ilsussisidario.net) ha precisato che “benché le sentenze sul caso Englaro possano indurre a ritenere il contrario, non esiste nel nostro ordinamento alcun principio sul quale fondare legittimamente il ricorso a pratiche eutanasiche, né tanto meno un “diritto alla morte”. E’ curioso osservare che molti commentatori in genere così attenti a quanto accade al di là dei nostri confini nazionali (e in particolare negli ordinamenti più “avanzati”) puntualmente omettano di ricordare che l’inesistenza di un “diritto alla morte” è stata sancita a chiarissime lettere anche dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella sentenza 29 aprile 2002.” Di fronte al Mistero della vita sofferente resta lo spazio del silenzio. Riempiamolo di preghiera a Dio “dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome.”
ELUANA/ 1. Formigoni: la nostra resistenza all’eutanasia - INT. Roberto Formigoni - mercoledì 4 febbraio 2009 – Ilsussidiario.net
Nessuno, alla fine, ha potuto obbligare la Regione Lombardia a fare quello che non riteneva giusto fare. Nonostante questo, la triste capitolazione della vicenda Eluana Englaro rappresenta comunque, secondo il governatore Roberto Formigoni, una «sconfitta per tutti».
Ora Eluana è a Udine, alla clinica “La Quiete”, e lì passerà gli ultimi giorni. La lotta di chi ha fatto tutto quanto in proprio potere per evitare che questa tragedia arrivasse al compimento deve amaramente cedere il passo a una volontà diversa, su cui la sentenza della Corte d’Appello di Milano ha messo il timbro della liceità.
Presidente, qual è stata la sua prima reazione quando ha saputo che Eluana era stata portata a Udine?
Purtroppo la notizia era già nell’aria; nonostante questo, apprenderlo definitivamente ha comunque generato una grande amarezza, e un profondo dolore di fronte a una manifestazione di disumanità tanto grave. Nello stesso tempo, però, gli ultimi fatti non possono non portare anche a un’altra conclusione: la piena consapevolezza, cioè, che la Regione Lombardia ha fatto tutto quello che doveva fare, e che chi ha cercato in ogni modo di opporsi alle nostre decisioni non ha vinto sul versante su cui voleva vincere.
In che senso?
Volevano che noi fossimo complici, addirittura trovando la sede in cui far morire Eluana e operando secondo tutte le indicazioni date dalla sentenza della Corte d’Appello: ma non ce l’hanno fatta. Volevano che il servizio sanitario regionale e nazionale eseguisse la sentenza a morte di Eluana, e – ripeto – non ce l’hanno fatta. Quello che ora sta accadendo, infatti, è un’altra cosa, perché non è a carico del servizio sanitario, né nazionale né regionale.
Quindi, come Regione Lombardia, rivendicate tutto quello che avete fatto, nonostante la sentenza contraria del Tar?
Assolutamente sì. Abbiamo agito in piena correttezza dal punto di vista giuridico, e nessuno ci può rimproverare nulla, perché abbiamo rispettato la legge fino in fondo. E non ci siamo limitati ad agire semplicemente in modo corretto, ma abbiamo fatto di più: abbiamo cioè cercato di fare tutto il possibile per salvare una vita umana.
Sebbene gli ultimi fatti rendano ormai tutto superfluo, farete comunque ricorso al Consiglio di Stato per sostenere le vostre ragioni?
Da questo punto di vista bisogna innanzitutto precisare e confermare una cosa fondamentale, su cui già ci siamo espressi nei giorni scorsi: al momento il Tribunale Amministrativo non ci ha ancora trasmesso nessuna sentenza. Evidentemente, prima di decidere un eventuale ricorso al Consiglio di Stato io voglio avere la possibilità di leggere direttamente la sentenza, e non solo conoscerne i contenuti indirettamente attraverso anticipazioni di stampa. Quando tutto questo sarà possibile, allora leggeremo attentamente e faremo tutte le nostre valutazioni. La possibilità di ricorso è sempre aperta.
Tutta questa vicenda è segnata da un intreccio un po’ confuso di sentenze e di interventi politici: come ne esce secondo lei il rapporto tra magistratura e politica?
In maniera pessima. Come ho avuto modo di ricordare più volte, il potere di fare le leggi non è in mano alla magistratura, ma in mano al popolo, che lo delega al Parlamento. La magistratura ha altri compiti, ma non certo quello di fare le leggi e di sostituirsi al Parlamento. In questa vicenda, invece, è stato evidente che la magistratura ha voluto imporre qualche cosa che le leggi non contemplano. Per questo dico che il rapporto tra magistratura e politica esce ulteriormente compromesso, e il tutto è avvenuto a causa del comportamento delle diverse magistrature.
Ora però il potere legislativo ha deciso di prendere posizione in materia di testamento biologico: che cosa si aspetta dal dibattito su questo tema?
Qualunque cosa ci si debba aspettare, un dato è però chiaro fin da subito: nessuna delle proposte di legge, nemmeno se fosse approvata la più estrema, avrebbe permesso che venisse fatto ciò che ora sta per essere fatto a Eluana. Il trattamento che le viene inflitto, infatti, va al di là anche della più “aperturista” delle proposte di legge presentate in Parlamento. Questo è un punto di partenza sicuro, e dice chiaramente dell’aberrazione di ciò che viene compiuto su Eluana e contro Eluana.
Oltre a questo aspetto, qual è il suo giudizio sul disegno di legge presentato dal centrodestra?
Il ddl del centrodestra presenta certamente vari aspetti positivi. Ma a me preme comunque sottolineare un altro punto: il Parlamento può decidere di legiferare su questo, come sembra deciso a fare e come è suo pieno diritto; ma potrebbe benissimo anche decidere di non legiferare. Ci sono alcune materie che non devono essere necessariamente sottoposte alla legislazione, ma che possono essere lasciate alla valutazione del medico. Si è tanto parlato, a proposito del caso Englaro, di vuoto legislativo: ma non è assolutamente detto che, laddove manchi una legge, ci sia un vuoto. Detto questo, l’orientamento del Parlamento è ora quello di legiferare; l’importante è che si arrivi a una legge chiara, che garantisca quelle che sono le prerogative e le responsabilità del medico, e che prenda decisioni a favore della vita, e della volontà vera e accertata delle persone.
Un caso come quello di Eluana lascerà certamente un segno, e porterà con sé delle conseguenze: che cosa cambierà nella nostra società e nella nostra cultura, e a quali responsabilità nuove sarà chiamata la politica di fronte a questi cambiamenti?
Indubbiamente quanto sta accadendo ci dice che è in atto una grave deriva eutanasica; se non ci opponiamo, questa tendenza prenderà piede in maniera molto forte. I fatti di queste settimane, e soprattutto di questi ultimi giorni, sono dunque un chiaro campanello d’allarme: chiunque ritiene che l’eutanasia sia una sconfitta e un venir meno della solidarietà e della compassione che si deve alle persone deve intervenire e reagire. Se ciò non avvenisse, le porte verso ogni forma aberrante di eutanasia sarebbero aperte. Il compito della politica – e non solo della politica, ma anche della società, della cultura, delle menti libere che hanno a cuore le sorti dell’uomo – è quello di reagire a questa deriva negativa, che altrimenti si imporrebbe senza resistenza alcuna.
ELUANA/ 2. Una morte legale? Sì, come erano legali gli schiavi e le stelle gialle degli ebrei... - Assuntina Morresi - mercoledì 4 febbraio 2009 – IlSussidiario.net
C’è una guardia giurata al terzo piano della clinica “La Quiete” a Udine. Controlla che nessuno entri nella stanza di Eluana Englaro, la prima persona in Italia che morirà di fame e di sete con l’autorizzazione dei giudici.
L’hanno portata via da Lecco con un’ambulanza, a notte fonda, nel buio, come ladri, e sono entrati in clinica da un ingresso laterale.
I volontari che faranno morire di fame e di sete la donna in stato vegetativo – una donna che respira da sola, che dorme e si sveglia, apre e chiude gli occhi, che deglutisce, che ha le mestruazioni, di cui nessuno è veramente in grado di dire se e cosa pensa, se e cosa prova – hanno costituito un’associazione, si chiama “per Eluana”. Ne fanno parte Amato De Monte, primario, e altri medici e tecnici specializzati.
L’hanno costituita dal notaio nei giorni scorsi.
Giudici, avvocati, notai: la morte per fame e sete di Eluana Englaro cerca di coprirsi con il manto della legalità. Ma la legalità e la giustizia non sono la stessa cosa: erano legali gli schiavi, e anche le stelle gialle degli ebrei.
La morte di Eluana, se avverrà per fame e per sete come descritto dai giudici, sicuramente non ha niente a che vedere con la giustizia, ed ha anche molte ombre per come la sua volontà è stata ricostruita.
Troppe le testimonianze discordi con quelle raccolte dalla Corte di Appello di Milano: almeno tre amiche, sue compagne di scuola, hanno dichiarato di non aver mai sentito Eluana dire che sarebbe stato meglio per lei morire piuttosto che vivere in certe condizioni, così come anche due suoi insegnanti (uno è adesso Preside di Giurisprudenza a Piacenza); c’è poi una lettera mai messa agli atti che contraddice quanto invece dedotto dai giudici. Ma questi fatti, resi pubblici da luglio – sul quotidiano Avvenire – e raccolti da un esposto presentato alla Procura di Milano, sono stati finora bellamente ignorati da chi aveva invece il compito di accertare la verità.
Se eseguiranno il decreto della Corte di Appello, Eluana morirà, e diranno che sarà morta naturalmente. Ma se c’è una morte innaturale, è proprio quella per fame e per sete. Si muore di malattia, di vecchiaia, per un incidente, una caduta: i morti per fame e per sete stanno nei paesi dimenticati da Dio, colpiti dalle carestie o dalla guerra, e di solito è uno scandalo quando nessuno li soccorre. Ma questo succedeva prima. Adesso, nel mondo alla rovescia che ci circonda, la fame e la sete pare siano diventati un segno di civiltà. Con la benedizione dei giudici, dei benpensanti, dei media, di Repubblica e del Corriere.
La vicenda di Eluana sarà di fatto uno spartiacque per il nostro paese, comunque si concluderà, non solo per le lacerazioni ed il pesantissimo clima conflittuale che vediamo già crescere furiosamente in queste ore.
L’ostinazione con cui è stata condotta questa vicenda, l’insistenza con cui si è cercato di far morire Eluana in una struttura pubblica, soprattutto in questi ultimi mesi e giorni, va ben oltre la battaglia personale di suo padre. E’ un’azione per portare nel nostro paese una mentalità e soprattutto una legislazione eutanasica, senza il confronto con il consenso popolare – come è stato per il referendum sulla legge 40, o per i DICO – ma che si è servita dei giudici i quali, come è noto, non sono espressione della volontà popolare, e le leggi non dovrebbero farle, ma cercare di farle rispettare.
E’ un’azione per distruggere, nel nostro paese, un sentire popolare e un tessuto sociale che, nonostante tutto, ancora possono definirsi cristiani. Bisogna esserne consapevoli.
COMUNISMO/ Cavalcare la speranza: le lettere di Vaclav Benda - Angelo Bonaguro - mercoledì 4 febbraio 2009 – IlSussidiario.net
È riduttivo pensare che il dissenso, in Europa centrale come in URSS, sia stato un fenomeno che ha coinvolto esclusivamente personaggi del mondo culturale e politico "laico". Ciò impedirebbe di coglierne una delle componenti essenziali, quella religiosa. Anzi spesso sono stati proprio i credenti a corroborare le iniziative del dissenso e a dare significato a esperienze drammatiche quali il carcere o l'esilio, che agli occhi del "mondo" erano l'inizio della fine. Per questo la pubblicazione in Repubblica Ceca delle lettere dal carcere dell'allora dissidente cattolico Vaclav Benda (1946-1999), rappresenta un evento piccolo ma importante per non perdere quella lezione. L'edizione ceca, rispetto all'italiana pubblicata nell'81 da CSEO, ha il pregio di riportare anche le lettere della moglie e quelle inedite sequestrate dalla censura.
Nato l'8 agosto 1946 a Praga, laureato in filosofia e cibernetica teorica, attivo durante la Primavera del '68, Benda deve rinunciare alla cattedra universitaria per motivi politici. I suoi scritti di carattere filosofico-religioso sono diffusi tramite l'editoria clandestina. Dopo aver sottoscritto l'iniziativa civile Charta77 perde il posto di lavoro ed è costretto ad impiegarsi come fuochista. Dal matrimonio con la matematica Kamila Neubauerova nasceranno 6 figli. «Ero orgogliosa di mio marito - ricorda lei - che stava là nel reparto caldaie, e che per determinati princìpi aveva preferito rinunciare al suo vecchio lavoro». Nel '78 Benda è tra i fondatori del VONS, il comitato informale che svolge un compito indispensabile: assistere le famiglie di chi è stato condannato ingiustamente. Nel '79 è lui a finire in carcere per 4 anni per «sovvertimento della repubblica». Dopo la caduta del regime comunista, è leader dei democratici cristiani ed eletto presidente del parlamento cecoslovacco. Muore nel 1999.
Le lettere sono scritte in un linguaggio semplice e immediato, prendono spunto da episodi familiari per parlare di fede e cultura. Da una lettera inedita dell'aprile '80: «Credo che la salvezza non sia qualcosa di indefinito dopo la morte, ma prenda forma già qui e ora, ed è una componente essenziale, il frutto e il compimento della nostra vita». E altrove: «Quotidianamente riesco a dire “Se così deve essere, sono pronto, poiché Tu, nella Tua infinita misericordia, non provi mai nessuno al di sopra delle sue forze”. Però mi sono reso conto che questa affermazione non è così consolante come a prima vista potrebbe sembrare, poiché l'uomo può avere o ricevere molta forza, maledizione!». «Essere cattolico non significa decisamente essere uno stupido... Sarebbe così se consistesse in una virtù basata su precetti e puritana, ma questo non ha più valore per lo meno dal tempo del Nuovo Testamento». «Per essere veramente felice ho bisogno di un po' di inquietudine e di una punta di peccato e mi piace di più confidare nella infinità e imperscrutabilità della grazia». Il tono dominante è la serenità: «Mi sono avvicinato allo stato d'animo dell'autentica letizia. E così per il momento sono in uno stato d'animo smanioso e gaio e attendo con curiosità le cose che accadranno». Quante volte vorremmo poter ripetere con lui: «Aspetto con incredibile gioia il mattino»! Non mancano i battibecchi coniugali a distanza. Lui: «È da sempre che ti dico che salare i cibi e far funzionare una penna sono compiti al di sopra delle tue forze!». Lei: «Dato che in vita tua non mi hai mai fatto una foto, non so proprio dove poterne trovare una!».
Intanto l'appartamento al numero 18 di piazza Carlo a Praga era diventato, in sua assenza, un punto di riferimento per molti che, come scrive con ammirazione a Kamila, «guardano in un certo modo i tuoi figli e il lavoro e tutto il resto, e non dubitano di attingere da te gioia e incoraggiamento».
La preoccupazione costante di Vaclav è rivolta all'educazione dei figli, per i quali scrive alcune fiabe, diffuse anche fra i compagni di cella, e li esorta a comportarsi da veri "cavalieri cristiani": «Come sapete, bambini miei, chi perde la propria vita per il Signore la troverà, e tutte le mie esperienze mi confermano che è proprio così e che è inutile e del tutto sciocco angustiarsi e calcolare se ci costerà caro e se siamo preparati: in fondo, il primo a portare la croce fu uno che passava per caso sulla via del Calvario». «Dio si prende cura di me in una misura e intensità del tutto immeritate, e in modo così evidente che non sono minacciato dal dubbio... . Abbandonandovi nelle Sue mani anche voi ne riceverete sicurezza e protezione, di modo che neppure io dovrò temere per voi».
In una lettera del febbraio 1980 ritroviamo infine un pensiero centrale nell'esperienza del dissenso religioso: «L'uomo non è al mondo per sopravvivere, ma per rendere testimonianza alla Verità».
A tanti anni dall'edizione CSEO, sarebbe bello che qualche editore riproponesse le lettere di questo "cavaliere cristiano".
UGANDA/ Inaugurato il Centro educativo intitolato a don Giussani: un’opera nata da un’amicizia - Redazione - martedì 3 febbraio 2009 – IlSussidiario.net
Il 28 Gennaio 2009 a Kampala, in Uganda, è stato inaugurato il Permanent Centre for Education dedicato a Mons. Luigi Giussani.
Un evento questo che ha le sue radici nel 2002 quando alcuni amici, due italiane e un ugandese, (e poi altri fino ad arrivare ai ventiquattro formatori odierni) hanno iniziato a ritrovarsi per studiare il Rischio Educativo in vista della preparazione di trainings nell’ambito di un progetto finanziato da Cor Unum. Sono nati così dei percorsi rivolti a educatori, assistenti sociali, guardie carcerarie, genitori, studenti che hanno coinvolto in varie località ugandesi quasi diecimila persone. Lo svilupparsi di questo lavoro, nell’accoglienza paterna dell’allora Nunzio apostolico Christophe Pierre e nella ripercussione sui partecipanti ai corsi, ha trovato in un progetto Avsi la possibilità di un luogo stabile: il P C E (Permanent Centre for Education).
L’apertura ufficiale del PCE, è stata presieduta dall’attuale Nunzio Apostolico, monsignor Paul Tschang In-Nam, accolto da un popolo in festa di cui facevano parte, oltre ai numerosi rappresentanti provenienti dall’estero, autorità ecclesiastiche e civili, le donne e i ragazzi del Meeting Point International, amici di Avsi e del Movimento.
Alla breve presentazione delle origini del PCE, da parte di Clara Broggi, una delle iniziatrici, sono seguiti gli interventi dei tre soci fondatori. George William Pariyo che ha riconosciuto nell’educazione “la reale possibilità della novità per la vita di ciascuno”, Rose Busingye che ha ringraziato commossa perché vede nel Centro il “compimento del proprio lavoro, accompagnando, sostenendo, sviluppando un inizio che non ha fine perché l’educazione è per tutti” e Vincenzo Silvano, presidente della FOE, che ha visto nella freschezza di questo lavoro la possibilità di reimparare quella “radice di impostazione che è comune alle scuole appartenenti alla Federazione”.
Il Nunzio ha ringraziato per un “luogo in cui è evidente la reale esperienza nata dal metodo di Don Giussani, un luogo che la rende incontrabile da tutti”.
È stata poi la volta dei donatori, l’ambasciatore Pietro Ballero per la Cooperazione Italiana, Arturo Alberti, Presidente di Avsi e Pablo Llano Direttore di Cesal, che hanno contribuito alla costruzione dell’edificio.
L’Ambasciatore ha sottolineato che “L’educazione non finisce mai, è un processo che continua per tutta la vita... per questo contribuenti europei, portatori di una cultura, di una tradizione e una storia di secoli, e ugandesi possono reciprocamente imparare realizzando insieme qualcosa”.
L’intervento di Alberto Piatti, segretario generale di Avsi ha introdotto la seconda parte della mattinata rimarcando come “questo sia il modo in cui si tenta di servire la Chiesa, ponendo al centro del lavoro il Mistero della persona” e lanciando al Centro una sfida che, nella risposta alla emergenza educativa che caratterizza vari paesi, si ponga in una prospettiva di formazione per gli stati della regione dei grandi laghi, Burundi, Congo, Rwanda.
Sono infine intervenuti il Prof. Kirumira dell’ Università di Makerere che ha sottolineato il fatto che “l’educazione non può essere ridotta a mera istruzione della mente ma deve partire prima di tutto dal cuore della persona. Questa è la cosa più importante ed è quella che più manca nel sistema educativo ugandese. Proprio per questo motivo, un centro specializzato per l’educazione come il PCE è necessario per richiamare le persone a considerare il cuore dell’uomo come il punto di partenza di ogni intervento educativo”; e Mr. Agaba, Commissario del Ministero dell’ Educazione che ha sottolineato che “l’educazione va ben al di là della semplice performance accademica”, collocando la proposta del PCE al centro del dibattito sulla qualita’ dell’ educazione in Uganda
All’ inaugurazione sono seguiti altri eventi importanti: una tavola rotonda sull'educazione in Uganda alla quale hanno partecipato i rappresentanti della Chiesa in Uganda, Cooperazione Italiana allo Sviluppo, rappresentanti dell’ambasciata Olandese e del mondo accademico Ugandese. Il dottor Aloi (Cooperazione Italiana) ha sottolineato che l’attenzione all’individuo è una risorsa di primaria importanza per garantire un sistema educativo di qualità. Fr Byaruhanga (Segretariato Cattolico per l’Educazione) ha affermato che senza toccare il cuore non c’e’ educazione, non possiamo dire di essere educatori.
Durante il pomeriggio di giovedì nell’ambito dell'incontro "The Risk of Education. Witnesses", Dr. Isabella Kamere della Kenyatta University di Nairobi ha raccontato la sua esperienza educativa con ragazzi disabili e ha sottolineato come l’esperienza di Don Luigi Giussani l’abbia aiutata a scoprire il valore dei ragazzi che le stanno di fronte e di come il loro limite non sia per lei il punto di partenza del suo giudizio su di loro. Mrs Florence Mauso (Preside di una importante scuola primaria di Kampala) ha raccontato come il lavoro fatto con il rischio educativo ha permesso un cambiamento radicale della sua scuola a partire dallo sguardo degli insegnanti verso i propri studenti e verso i coleghi. Mr Robert Omita (Commissario incaricato del Welfare dei detenuti all’interno delle Prigioni Ugandesi) ha testimoniato come l’educazione è l’unico modo di affrontare il problema dei detenuti nelle prigioni. Prima l’unica via sembrava essere la punizione (per lo piu’ corporale), ma ora finalmente si parla di educazione come sola possibilita’. Sr. Boni Ngabirano ha sottolineato come ogni lezione sia legata al desiderio del ragazzo e debba essere preparata con la finalita’ di incontrare i suoi desideri. Come insegnante di religione aveva sempre cercato di creare “santi” con la disciplina, ma attraverso il lavoro fatto sul rischio educativo ha ora come unica preoccupazione quella di far uscire il meglio da ciascun ragazzo.
A conclusione dei tre giorni di evento è intervenuta il Ministro dell’Educazione Mrs Geraldine Namirembe Bitamazire in rappresentanza della First Lady Janet Museveni. Prima di leggere il discorso ufficiale della First Lady ha voluto sottolineare che la presenza del PCE e’ evidenza che finalmente, se le persone cominciano a guardare all’educazione in questo modo, ci si sta muovendo verso la nascita di una societa’ in grado di educare. Il discorso della First Lady è stato preceduto dalla proiezione del documentario "Greater: Sconfiggere l’AIDS" e dalle testimonianze delle protagoniste del documentario stesso: Ms Rose Busingye e Vicky Aryenyo (Direttore e assistente sociale del Meeting Point International, rispettivamente). Vicky ha raccontato come sia stata educata dallo sguardo di Rose che ha saputo amarla nonostante la sua condizione e la sua miseria. Rose ha sottilineato che quando siamo di fronte ad una persona malata non possiamo permetterci di curare solo la parte malata, la persona è una unità e non possiamo scinderla o ridurla alla parte da curare.
Non possiamo dimenticare che nell’ambito dell’evento è stata ufficialmente aperta la mostra "Con le nostre mani, ma con la tua forza. Le opere nella tradizione monastica benedettina". Un gruppo di ragazzi dello slum di Kireka da settembre si è riunito tutte le domeniche per studiare la mostra sui benedettini. Hanno poi pulito, tirato a lucido i pavimenti, messo in ordine i locali per tutta la settimana precedente e poi hanno accolto gli invitati sempre sorridendo e cantando e continuando a mantenere il Centro pulito e ordinato per 3 giorni, comunicando con questa semplicita’ la lezione imparata da San Benedetto.
È stata una festa di popolo, ma è stato anche un grandissimo evento culturale.
Non è mancata in questi giorni la presenza di Giovanna Orlando che, all’origine di quest’opera, insieme a Clara e Kizito, è morta nel maggio 2008. La passione e l’entusiamo per la proposta educativa di Don Giussani che ha saputo comunicare a coloro che l’ hanno incontrata ci rendono certi che dal cielo continua a lavorare con alacrità, sostenendo il Centro più di quanto poteva fare prima.
(Mauro Giacomazzi
LO SAPPIANO IL SINDACO E QUEL MEDICO - IL TRADIMENTO DELL’ENERGIA, DELLA STORIA DI UN POPOLO - DUILIO CORGNALI – Avvenire, 4 febbraio 2009
La tragica vicenda di Eluana Englaro ri- portata in Friuli per applicare una sentenza di morte ha lasciato sgomento il Friuli. E ci si chiede: perché il Friuli tradotto, ancora una volta, in terra di confine, di morte? È questo il Friuli? C’è una poesia del friulano D. M. Turoldo che ben descrive quel che oggi accade: «E le crudeltà per gioco / e le deliranti cupidigie / e le 'necessarie' / le inevitabili guerre / in infinite sequenze, a segnare / la marcia forzata / verso la Fine». È così che viviamo anche questa tristissima vicenda. Una marcia forzata per porre fine all’esistenza di una persona indifesa, seppure allo scopo dichiarato di 'liberarla' da una condizione ritenuta insopportabile. E questo con la 'complicità' di una casa per anziani, classificata come 'azienda per i servizi alla persona', trasformata per la circostanza in 'casa della morte'. Con una équipe di volontari capitanata da un medico che ritiene di interpretare non soltanto la volontà del padre (e quella della madre?) ma anche 'il sentire sociale' e che ritiene finanche di mettersi in cattedra e bacchettare la politica e anche la Chiesa. Quasi che il diritto di parola ce l’abbia soltanto il gruppo di supporto alla decisione del signor Englaro, usata come grimaldello per future leggi a favore dell’eutanasia. Cosa c’entra il Friuli con tutto questo? Contrariamente a quello che pensa il sindaco di Udine, c’è una grande maggioranza di friulani che ritengono la sentenza di morte per Eluana né giusta né civile. Non soltanto ingiusta e incivile ma anche foriera di ulteriore degrado della vita sociale.
Ma qui occorre dire una verità semplicissima. Sulla vicenda di Eluana sono entrati in campo prepotenti forze ideologiche, anche di segno opposto, unite nello scardinare il sottofondo valoriale della convivenza civile. Nella tragedia di Eluana hanno identificato uno strumento straordinario per fare breccia nel sistema di valori, patrimonio vitale di questa società. A quel punto tutto è saltato o è stato stravolto: la logica, il buon senso e la semantica. Lascia, ad esempio, stupefatti che il medico che dovrebbe accompagnare alla morte Eluana, a precisa domanda sulla sofferenza eventualmente procurata dalla sospensione di cibo e acqua, dica: «Nessuna sofferenza, perché Eluana è morta diciassette anni fa». Allora avevano ragione le Suore misericordine di Lecco, quando supplicavano il papà, che diceva la stessa cosa del medico, di essere conseguente, di lasciare loro questa sua figlia, che ormai – avendola loro da sempre accudita – consideravano di casa. Se Eluana è morta 17 anni fa perché accanirsi con tanta protervia per farla morire davvero? Se Eluana non soffrirà, perché disporre di sedarla?
Non così un tempo questo Friuli cantato da Turoldo. Terra difficile sì, martoriata anche da invasioni e guerre, da miseria ed emigrazione, eppure terra amante della vita. Tutti hanno potuto toccare con mano questa verità nella tragedia dei terremoti del 1976. Mille morti, moltissimi feriti, centinaia di migliaia di senza tetto, ma un popolo tenacemente aggrappato alla vita. Un popolo abbattuto ma non disperato, colpito a morte ma non rassegnato. E il Friuli è tornato a vivere e i friulani hanno saputo trasformare le loro lacrime in sudore di ricostruzione e rinascita. E i paesi sono risorti come per miracolo, dove e come prima del terremoto e anche più belli. Una sorta di miracolo collettivo. Dovuto a cosa? Alla straordinaria energia prodotta dalle sue radici umane e cristiane, dove il rispetto e la promozione della vita erano al primo posto. Un popolo, quello friulano, che aveva un alto senso della vita e dunque anche un’attenta e rispettosa valutazione della morte. Si nasceva in casa e in casa si voleva morire, circondati dall’amore solidale dei propri cari. A nessuno veniva in mente di abbreviare il tragitto verso la morte. Quella era una 'pietà' riservata agli animali. Per gli umani c’era un diuturno addestramento alla sofferenza propria e altrui e alla resistenza. E dinanzi alle più grandi difficoltà si veniva educati non alla rassegnazione alla morte ma alla perseveranza nell’amore alla vita. Tutt’altro rispetto a questa marcia forzata verso la morte, incontro al nulla.
INTERVISTA - il fatto La moglie del carabiniere assassinato in Iraq nel 2003 racconta il suo rapporto con la Englaro e con il padre «Rispetto Beppino e provo sempre affetto per lui, ma non è giusto quello che sta facendo» - Vi racconto Beppino ed Eluana - Parla la vedova Coletta: ragazza libera e senza alcuna cannula - DA ROMA PINO CIOCIOLA – Avvenire, 4 febbraio 2009
«È una donna di trentotto anni, la mia stessa età. Apre gli occhi di giorno e li chiude di notte. Respira benissimo, serenamente Ci sono momenti nei quali forse sorride Quanti sanno che non è attaccata a nessuna macchina? Che non ha una piaga da decubito, che in diciassette anni non ha preso un antibiotico?» «Da quando l’hanno portata a Udine ho un pugnale dentro.
Prego, spero fino all’ultimo che lui si renda conto di quel che sta facendo. Quanto non sia paterno, non sia umano. So che lui soffre dentro di sé, e tanto»
Ha chiamato ancora papà Beppino ieri mattina poco prima delle nove: « Ma nemmeno l’hai accompagnata Eluana? », gli ha detto subito. Margherita Coletta è la vedova di Giuseppe, carabiniere assassinato a Nasiriyah il 12 novembre 2003, nell’attentato che spazzò la base italiana 'Maestrale', carabiniere che non aveva mai ucciso e che sceglieva le missioni all’estero per aiutare i bimbi più indifesi, quelli colpiti dalla guerra. Lo faceva per ritrovare il sorriso di suo figlio Paolo, morto a sei anni stroncato dalla leucemia: « Quando capimmo che era finita e i medici ce lo spiegarono chiaramente – racconta lei – facemmo interrompere la chemioterapia ». Margherita in questi mesi è volata dalla Sicilia a Lecco per andare a trovare Eluana, accompagnata da Beppino. Spesso e a lungo l’ha accarezzata, l’ha baciata, le ha parlato. E spesso ha parlato col papà, scontrandosi anche duramente, ma senza che mai lui le negasse il dialogo: in qualche modo forse sono diventati amici. Ecco perché ancora ieri mattina lei gli ha telefonato dicendogli: «Speravo che coi giorni fossi rinsavito».
Cos’ha provato, Margherita, entrando nella stanza di Eluana?
La prima volta mi sono fermata sulla soglia della sua porta. Pensavo di essere più forte. Ho respirato a fondo, poi sono entrata. Quando l’ho vista, abituata com’ero alle foto di lei ragazza, mi ha scosso, oggi è una donna. Ma poco dopo è diventato tutto così normale, come fossi a trovare una persona in ospedale. Anzi, ho sentito tanta dolcezza e nessun ribrezzo o pena. Né ho visto alcun 'sacco di patate', come qualcuno descrisse Eluana, ma una persona che è tutt’altro. Una persona.
La sensazione più bella?
Quando l’ho accarezzata.
Con la sensazione netta, nettissima, che lei avvertisse le carezze. Certo è che pensavo d’andare a dare io a lei, invece ho ricevuto assai più di quanto le abbia dato.
Cosa?
La maggiore certezza nelle cose in cui credo. La consapevolezza che non si può ridurre una persona alla sua forma fisica. Papà Beppino la accompagnava in quella stanza?
Sì. La prima volta che l’ho incontrato mi aveva fatto molta tenerezza: pensavo a mio marito Giuseppe, a quando è morto nostro figlio. E poi mi sembrava quasi di parlare con mio padre: mi diceva «sei una birba ».
Adesso è cambiato qualcosa?
Rispetto comunque Beppino e provo sempre grande affetto per lui. Ma non è giusto quello che sta facendo. I figli non sono di nostra proprietà: ci sono soltanto affidati. Ci prendiamo cura di loro, li aiutiamo, li assistiamo e semmai li accompagniamo alla morte, preparandoli se deve accadere, anche da piccoli. Ma lui non si rende conto di tutto questo, si sente incapace di tornare indietro: credo sia soprattutto lui in uno stato simile a quello vegetativo. Quando si risve- glierà da questo torpore si renderà conto e starà male, tanto.
Lei che rapporto ha, Margherita, col papà di Eluana?
Ci siamo confrontati tante volte, ma è sempre stato cortese con me. È convinto di quanto fa, forse perché non vede più Eluana come lui la vorrebbe. Ma a me pare evidente che in qualche modo sia stato plagiato da tanta gente alla quale non interessa nulla di Eluana. E lui ora è strumentalizzato, è finito in un vortice: ha anche momenti nei quali io credo vorrebbe tornare indietro, perché non pare convinto fino in fondo di quanto sta facendo, ma non ne ha la forza.
Com’era trattata Eluana nella casa di cura lecchese?
Come una regina. Le suore che le stanno accanto ogni giorno la curano, la lavano, la profumano, la portano a spasso sulla carrozzella. Addirittura la depilano, perché Eluana come ogni ragazza non sopportava d’avere peli sulle gambe.
E come sta?
Lei è una donna. Una donna di trentotto anni: ha la mia stessa età. Ha il ciclo mestruale come ogni donna. Apre gli occhi di giorno e li chiude la notte. Respira benissimo e da sola, serenamente. Il suo cuore batte da solo, tenace e forte. Ci sono momenti nei quali forse sorride e altri nei quali forse socchiude gli occhi. Ma quanti sanno davvero che Eluana non è attaccata a nessuna macchina? Quanti sanno che nella sua stanza non c’è un macchinario, ma due orsacchiotti di peluche sul suo letto? Che non ha una piaga da decubito? Che in diciassette anni non ha preso un antibiotico?
La notte scorsa hanno portato Eluana a morire: lei, Margherita, cosa sta provando?
Ho un pugnale dentro. Prego, spero fino all’ultimo che lui si renda conto di quel che sta facendo. Quanto sia sbagliato. Quanto non sia paterno. Quanto non sia umano. Io so che lui soffre dentro di sé, e tanto.
Ci ha parlato appena ieri mattina: secondo lei cosa prova Beppino?
Non so come possa vivere con un peso addosso come questo: Eluana da diciassette anni è in quelle condizioni, ma lui fino a ieri mattina non si era mai svegliato sapendo che sua figlia sta per morire.
Come mai, Margherita, lei e suo marito Giuseppe decideste d’interrompere la chemioterapia a vostro figlio?
Paolo ne aveva fatti quattro cicli, ne mancavano due, ma ormai il male aveva invaso tutto il suo corpo e i medici ci spiegarono bene la situazione. I dolori e il vomito e tutte le devastazioni provocate dalla chemio a quel punto sì che sarebbero stati accanimento terapeutico: così ci fermammo, affidandoci e affidando Paoletto a Dio.
Perché invece con Eluana non ci sarebbe accanimento terapeutico?
Ma Eluana non ha una malattia, non è terminale, non ha un dolore, non ha un macchinario nella stanza, non c’è nulla che possa far pensare ad un accanimento per tenerla in vita! È accudita, curata, amata. La si deve solamente aiutare a mangiare!
Beppino però sostiene che la morte di Eluana servirà a liberarla...
Liberarla da cosa? Come fa lui a sapere che lei è in catene? Una persona che soffre lo si vede. Non lo capisco proprio cosa voglia dire Beppino, cerco di sforzarmi, ma non ci arrivo.
Quella giovane donna da ieri è ricoverata nella sezione maschile del 'Reparto Alhzeimer' della clinica udinese 'La Quiete'...
Ma si rende conto?! È lì, da sola, con nessuno che la conosce, che l’ha curata, che la ama, perché le suore di Lecco la amano: se sapesse ieri sera ( lunedì, ndr) quando ho chiamato suor Rosangela come piangeva. Anzi, mi permetta di ringraziare proprio le suore della casa di cura 'Beato Talamone' e tutte le persone che per quindici anni hanno avuto quella tale cura per Eluana.
Margherita, ma perché lei decise d’andare a trovarla?
Non lo so. Una sera ero a casa, ho visto la notizia al telegiornale e ne ho avuto il desiderio. So di non valere nulla, ma ho cercato il numero di Beppino, perché volevo fargli sentire la mia vicinanza. L’ho chiamato, gli ho spiegato chi ero e che sarei stata felice se avessi potuto incontrare Eluana. Lui fu molto gentile, mi disse: «Signora, davanti al suo dolore m’inchino e mi fa piacere se viene». Appena poi arrivai a Lecco, mi chiese subito: «Margherita, tu da che parte stai?».
Lei cosa gli rispose?
«Beppino, io non sto dalla parte di nessuno: sono venuta a trovare Eluana come se tu fossi venuto a trovare un mio parente caro»: andai da lei non per far cambiare idea a Beppino né per altro, solo perché mi era sembrato giusto farlo.
Come mai lei ha accettato di raccontare tutto questo solamente adesso?
Beppino sa che io non avrei mai detto nulla e l’ha visto finora. Però è giunto il momento di dare voce a Eluana.
Un’ultima domanda, Margherita: ha speranze per Eluana?
La prima volta andai a trovarla nel novembre scorso: le promisi che sarei tornata per Natale e Beppino, certo e tranquillo, mi disse: «A Natale non ci sarà più». Io le sussurrai nell’orecchio sotto voce « non ti preoccupare, ci rivediamo » e così poi è stato.
1) Messaggio di Benedetto XVI per la Quaresima 2009 - "Gesù, dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame" - CITTA' DEL VATICANO, martedì, 3 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo del Messaggio del Santo Padre per la Quaresima 2009 sul tema "Gesù, dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame" (Mt 4, 2).
2) Disastro doppio in Vaticano: di governo e di comunicazione - È questo il bilancio della revoca della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani. La solitudine di papa Benedetto, l'inettitudine della curia e i colpi a vuoto della segreteria di stato - di Sandro Magister
3) La Notte degli imbrogli - Autore: Gulisano, Paolo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 4 febbraio 2009
4) Silenzio - Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 4 febbraio 2009
5) ELUANA/ 1. Formigoni: la nostra resistenza all’eutanasia - INT. Roberto Formigoni - mercoledì 4 febbraio 2009 – Ilsussidiario.net
6) ELUANA/ 2. Una morte legale? Sì, come erano legali gli schiavi e le stelle gialle degli ebrei... - Assuntina Morresi - mercoledì 4 febbraio 2009 – IlSussidiario.net
7) COMUNISMO/ Cavalcare la speranza: le lettere di Vaclav Benda - Angelo Bonaguro - mercoledì 4 febbraio 2009 – IlSussidiario.net
8) UGANDA/ Inaugurato il Centro educativo intitolato a don Giussani: un’opera nata da un’amicizia - Redazione - martedì 3 febbraio 2009 – IlSussidiario.net
9) LO SAPPIANO IL SINDACO E QUEL MEDICO - IL TRADIMENTO DELL’ENERGIA, DELLA STORIA DI UN POPOLO - DUILIO CORGNALI – Avvenire, 4 febbraio 2009
10) INTERVISTA - il fatto La moglie del carabiniere assassinato in Iraq nel 2003 racconta il suo rapporto con la Englaro e con il padre «Rispetto Beppino e provo sempre affetto per lui, ma non è giusto quello che sta facendo» - Vi racconto Beppino ed Eluana - Parla la vedova Coletta: ragazza libera e senza alcuna cannula - DA ROMA PINO CIOCIOLA – Avvenire, 4 febbraio 2009
Messaggio di Benedetto XVI per la Quaresima 2009 - "Gesù, dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame" - CITTA' DEL VATICANO, martedì, 3 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo del Messaggio del Santo Padre per la Quaresima 2009 sul tema "Gesù, dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame" (Mt 4, 2).
* * *
Cari fratelli e sorelle!
All'inizio della Quaresima, che costituisce un cammino di più intenso allenamento spirituale, la Liturgia ci ripropone tre pratiche penitenziali molto care alla tradizione biblica e cristiana - la preghiera, l'elemosina, il digiuno - per disporci a celebrare meglio la Pasqua e a fare così esperienza della potenza di Dio che, come ascolteremo nella Veglia pasquale, "sconfigge il male, lava le colpe, restituisce l'innocenza ai peccatori, la gioia agli afflitti. Dissipa l'odio, piega la durezza dei potenti, promuove la concordia e la pace" (Preconio pasquale). Nel consueto mio Messaggio quaresimale, vorrei soffermarmi quest'anno a riflettere In particolare sul valore e sul senso del digiuno. La Quaresima infatti richiama alla mente i quaranta giorni di digiuno vissuti dal Signore nel deserto prima di intraprendere la sua missione pubblica. Leggiamo nel Vangelo: "Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame" (Mt 4,1-2). Come Mosè prima di ricevere le Tavole della Legge (cfr Es 34,28), come Elia prima di incontrare il Signore sul monte Oreb (cfr 1 Re 19,8), così Gesù pregando e digiunando si preparò alla sua missione, il cui inizio fu un duro scontro con il tentatore.
Possiamo domandarci quale valore e quale senso abbia per noi cristiani il privarci di un qualcosa che sarebbe in se stesso buono e utile per il nostro sostentamento. Le Sacre Scritture e tutta la tradizione cristiana insegnano che il digiuno è di grande aiuto per evitare il peccato e tutto ciò che ad esso induce. Per questo nella storia della salvezza ricorre più volte l'invito a digiunare. Già nelle prime pagine della Sacra Scrittura il Signore comanda all'uomo di astenersi dal consumare il frutto proibito: "Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire" (Gn 2,16-17). Commentando l'ingiunzione divina, san Basilio osserva che "il digiuno è stato ordinato in Paradiso", e "il primo comando in tal senso è stato dato ad Adamo". Egli pertanto conclude: "Il 'non devi mangiare' è, dunque, la legge del digiuno e dell'astinenza" (cfr Sermo de jejunio: PG 31, 163, 98). Poiché tutti siamo appesantiti dal peccato e dalle sue conseguenze, il digiuno ci viene offerto come un mezzo per riannodare l'amicizia con il Signore. Così fece Esdra prima del viaggio di ritorno dall'esilio alla Terra Promessa, invitando il popolo riunito a digiunare "per umiliarci - disse - davanti al nostro Dio" (8,21). L'Onnipotente ascoltò la loro preghiera e assicurò il suo favore e la sua protezione. Altrettanto fecero gli abitanti di Ninive che, sensibili all'appello di Giona al pentimento, proclamarono, quale testimonianza della loro sincerità, un digiuno dicendo: "Chi sa che Dio non cambi, si ravveda, deponga il suo ardente sdegno e noi non abbiamo a perire!" (3,9). Anche allora Dio vide le loro opere e li risparmiò.
Nel Nuovo Testamento, Gesù pone in luce la ragione profonda del digiuno, stigmatizzando l'atteggiamento dei farisei, i quali osservavano con scrupolo le prescrizioni imposte dalla legge, ma il loro cuore era lontano da Dio. Il vero digiuno, ripete anche altrove il divino Maestro, è piuttosto compiere la volontà del Padre celeste, il quale "vede nel segreto, e ti ricompenserà" (Mt 6,18). Egli stesso ne dà l'esempio rispondendo a satana, al termine dei 40 giorni passati nel deserto, che "non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio" (Mt 4,4). Il vero digiuno è dunque finalizzato a mangiare il "vero cibo", che è fare la volontà del Padre (cfr Gv 4,34). Se pertanto Adamo disobbedì al comando del Signore "di non mangiare del frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male", con il digiuno il credente intende sottomettersi umilmente a Dio, confidando nella sua bontà e misericordia.
Troviamo la pratica del digiuno molto presente nella prima comunità cristiana (cfr At 13,3; 14,22; 27,21; 2 Cor 6,5). Anche i Padri della Chiesa parlano della forza del digiuno, capace di tenere a freno il peccato, reprimere le bramosie del "vecchio Adamo", ed aprire nel cuore del credente la strada a Dio. Il digiuno è inoltre una pratica ricorrente e raccomandata dai santi di ogni epoca. Scrive san Pietro Crisologo: "Il digiuno è l'anima della preghiera e la misericordia la vita del digiuno, perciò chi prega digiuni. Chi digiuna abbia misericordia. Chi nel domandare desidera di essere esaudito, esaudisca chi gli rivolge domanda. Chi vuol trovare aperto verso di sé il cuore di Dio non chiuda il suo a chi lo supplica" (Sermo 43: PL 52, 320. 332).
Ai nostri giorni, la pratica del digiuno pare aver perso un po' della sua valenza spirituale e aver acquistato piuttosto, in una cultura segnata dalla ricerca del benessere materiale, il valore di una misura terapeutica per la cura del proprio corpo. Digiunare giova certamente al benessere fisico, ma per i credenti è in primo luogo una "terapia" per curare tutto ciò che impedisce loro di conformare se stessi alla volontà di Dio. Nella Costituzione apostolica Pænitemini del 1966, il Servo di Dio Paolo VI ravvisava la necessità di collocare il digiuno nel contesto della chiamata di ogni cristiano a "non più vivere per se stesso, ma per colui che lo amò e diede se stesso per lui, e ... anche a vivere per i fratelli" (cfr Cap. I). La Quaresima potrebbe essere un'occasione opportuna per riprendere le norme contenute nella citata Costituzione apostolica, valorizzando il significato autentico e perenne di quest'antica pratica penitenziale, che può aiutarci a mortificare il nostro egoismo e ad aprire il cuore all'amore di Dio e del prossimo, primo e sommo comandamento della nuova Legge e compendio di tutto il Vangelo (cfr Mt 22,34-40).
La fedele pratica del digiuno contribuisce inoltre a conferire unità alla persona, corpo ed anima, aiutandola ad evitare il peccato e a crescere nell'intimità con il Signore. Sant'Agostino, che ben conosceva le proprie inclinazioni negative e le definiva "nodo tortuoso e aggrovigliato" (Confessioni, II, 10.18), nel suo trattato L'utilità del digiuno, scriveva: "Mi dò certo un supplizio, ma perché Egli mi perdoni; da me stesso mi castigo perché Egli mi aiuti, per piacere ai suoi occhi, per arrivare al diletto della sua dolcezza" (Sermo 400, 3, 3: PL 40, 708). Privarsi del cibo materiale che nutre il corpo facilita un'interiore disposizione ad ascoltare Cristo e a nutrirsi della sua parola di salvezza. Con il digiuno e la preghiera permettiamo a Lui di venire a saziare la fame più profonda che sperimentiamo nel nostro intimo: la fame e sete di Dio.
Al tempo stesso, il digiuno ci aiuta a prendere coscienza della situazione in cui vivono tanti nostri fratelli. Nella sua Prima Lettera san Giovanni ammonisce: "Se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come rimane in lui l'amore di Dio?" (3,17). Digiunare volontariamente ci aiuta a coltivare lo stile del Buon Samaritano, che si china e va in soccorso del fratello sofferente (cfr Enc. Deus caritas est, 15). Scegliendo liberamente di privarci di qualcosa per aiutare gli altri, mostriamo concretamente che il prossimo in difficoltà non ci è estraneo. Proprio per mantenere vivo questo atteggiamento di accoglienza e di attenzione verso i fratelli, incoraggio le parrocchie ed ogni altra comunità ad intensificare in Quaresima la pratica del digiuno personale e comunitario, coltivando altresì l'ascolto della Parola di Dio, la preghiera e l'elemosina. Questo è stato, sin dall'inizio, lo stile della comunità cristiana, nella quale venivano fatte speciali collette (cfr 2 Cor 8-9; Rm 15, 25-27), e i fedeli erano invitati a dare ai poveri quanto, grazie al digiuno, era stato messo da parte (cfr Didascalia Ap., V, 20,18). Anche oggi tale pratica va riscoperta ed incoraggiata, soprattutto durante il tempo liturgico quaresimale.
Da quanto ho detto emerge con grande chiarezza che il digiuno rappresenta una pratica ascetica importante, un'arma spirituale per lottare contro ogni eventuale attaccamento disordinato a noi stessi. Privarsi volontariamente del piacere del cibo e di altri beni materiali, aiuta il discepolo di Cristo a controllare gli appetiti della natura indebolita dalla colpa d'origine, i cui effetti negativi investono l'intera personalità umana. Opportunamente esorta un antico inno liturgico quaresimale: "Utamur ergo parcius, / verbis, cibis et potibus, / somno, iocis et arctius / perstemus in custodia - Usiamo in modo più sobrio parole, cibi, bevande, sonno e giochi, e rimaniamo con maggior attenzione vigilanti".
Cari fratelli e sorelle, a ben vedere il digiuno ha come sua ultima finalità di aiutare ciascuno di noi, come scriveva il Servo di Dio Papa Giovanni Paolo II, a fare di sé dono totale a Dio (cfr Enc. Veritatis splendor, 21). La Quaresima sia pertanto valorizzata in ogni famiglia e in ogni comunità cristiana per allontanare tutto ciò che distrae lo spirito e per intensificare ciò che nutre l'anima aprendola all'amore di Dio e del prossimo. Penso in particolare ad un maggior impegno nella preghiera, nella lectio divina, nel ricorso al Sacramento della Riconciliazione e nell'attiva partecipazione all'Eucaristia, soprattutto alla Santa Messa domenicale. Con questa interiore disposizione entriamo nel clima penitenziale della Quaresima. Ci accompagni la Beata Vergine Maria, Causa nostrae laetitiae, e ci sostenga nello sforzo di liberare il nostro cuore dalla schiavitù del peccato per renderlo sempre più "tabernacolo vivente di Dio". Con questo augurio, mentre assicuro la mia preghiera perchè ogni credente e ogni comunità ecclesiale percorra un proficuo itinerario quaresimale, imparto di cuore a tutti la Benedizione Apostolica.
Dal Vaticano, 11 Dicembre 2008
BENEDICTUS PP. XVI
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
Disastro doppio in Vaticano: di governo e di comunicazione - È questo il bilancio della revoca della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani. La solitudine di papa Benedetto, l'inettitudine della curia e i colpi a vuoto della segreteria di stato - di Sandro Magister
ROMA, 4 febbraio 2009 – A distanza di qualche giorno dai fatti, la revoca della scomunica ai vescovi lefebvriani si manifesta sempre più in Vaticano come un doppio disastro, di governo e di comunicazione.
Nel disastro, papa Benedetto XVI si è trovato a essere il più esposto, praticamente solo.
In curia e fuori sono numerosi quelli che caricano sul papa la colpa di tutto. In effetti è stata sua, di papa Joseph Ratzinger, la decisione di offrire ai vescovi lefebvriani un gesto di benevolenza. La revoca della scomunica faceva seguito ad altri precedenti gesti di apertura, anch'essi personalmente voluti dal papa, l'ultimo dei quali era stato il motu proprio "Summorum Pontificum" del 7 luglio 2007, con la liberalizzazione del rito antico della messa.
Come già in precedenza, anche questa volta Benedetto XVI non aveva preteso niente in cambio, preventivamente, dai lefebvriani. Le sue sono state finora aperture unilaterali. I critici del papa hanno fatto leva su questo per accusarlo di ingenuità, o di cedimento, o addirittura di voler riportare la Chiesa a prima del Concilio Vaticano II.
In realtà, l'intenzione di Benedetto XVI è stata spiegata da lui con assoluta chiarezza in uno dei discorsi capitali del suo pontificato, quello letto alla curia romana il 22 dicembre 2005. In quel discorso, papa Ratzinger sostenne che il Vaticano II non segnava alcuna rottura con la tradizione della Chiesa, anzi, era in continuità con la tradizione anche là dove sembrava segnare una svolta netta rispetto al passato, ad esempio quando riconosceva la libertà religiosa come diritto inalienabile di ogni persona.
Con quel discorso Benedetto XVI parlava all'intero corpo cattolico. Ma nello stesso tempo anche ai lefebvriani, ai quali indicava la strada maestra per sanare lo scisma e ritornare all'unità con la Chiesa sui punti da loro più contestati: non solo la libertà religiosa, ma anche la liturgia, l'ecumenismo, il rapporto con l'ebraismo e le altre religioni.
Su tutti questi punti, dopo il Concilio Vaticano II i lefebvriani si erano progressivamente separati dalla Chiesa cattolica. Nel 1975 la Fraternità Sacerdotale San Pio X – la struttura nella quale si erano organizzati – non ubbidì all'ordine di scioglimento e si costituì in Chiesa parallela, con propri vescovi, sacerdoti, seminari. Nel 1976 il fondatore, l'arcivescovo Marcel Lefebvre, fu sospeso "a divinis". Nel 1988 la scomunica a Lefebvre e a quattro nuovi vescovi da lui ordinati senza l'autorizzazione del papa – a loro volta sospesi "a divinis" – fu l'atto culminante di uno scisma già in corso da anni.
La revoca di questa scomunica non ha dunque affatto sanato lo scisma tra Roma e i lefebvriani, così come la revoca delle scomuniche tra Roma e il patriarcato di Costantinopoli – decisa il 7 dicembre 1965 da Paolo VI e Atenagora – non ha affatto segnato il ritorno all'unità tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse d'Oriente. Nell'uno e nell'altro caso, la cessata scomunica ha inteso solo valere come un primo passo per ricomporre lo scisma, che resta.
A conferma di questo c'è una nota del pontificio consiglio per i testi legislativi, emessa il 24 agosto 1996. In essa si legge che la scomunica scattata nel 1988 contro i vescovi lefebvriani "ha costituito la consumazione di una progressiva situazione globale d’indole scismatica" e che "finché non vi siano cambiamenti che conducano al ristabilimento della necessaria 'communio hierarchica', tutto il movimento lefebvriano è da ritenersi scismatico".
Questo era lo stato dei fatti, su cui è intervenuta la decisione di Benedetto XVI di revocare la scomunica ai quattro vescovi lefebvriani.
Ma di tutto questo poco o nulla si leggeva e capiva, nel decreto diramato il 24 gennaio dalla Santa Sede.
Nella "vulgata" diffusa dai media, con questo decreto la Chiesa di Roma semplicemente sembrava accogliere nel proprio seno i lefebvriani.
* * *
Ad aggravare l'incomprensione ci fu poi la clamorosa risonanza di un'intervista di uno dei quattro vescovi graziati, l'inglese Richard Williamson, nella quale egli sosteneva tesi negazioniste riguardo alla Shoah.
L'intervista era stata registrata da una tv svedese il 1 novembre 2008, ma fu diffusa il 21 gennaio, il giorno stesso in cui in Vaticano fu firmato il decreto di revoca della scomunica a Williamson e agli altri tre vescovi lefebvriani.
Nei media di tutto il mondo la notizia divenne quindi la seguente: il papa assolve dalla scomunica e accoglie nella Chiesa un vescovo negazionista.
La tempesta che ne derivò fu tremenda. Dal mondo ebraico, ma non solo, non si contarono le proteste. Dal Vaticano si corse ai ripari affannosamente in più modi, con dichiarazioni ed articoli su "L'Osservatore Romano". La polemica si attenuò solo dopo che intervenne Benedetto XVI in persona, con due chiarimenti letti al termine dell'udienza generale di mercoledì 28 gennaio: uno sui lefebvriani e sul loro dovere di "riconoscimento del magistero e dell’autorità del papa e del Concilio Vaticano II", l'altro sulla Shoah.
La domanda sorge naturale: tutto ciò era proprio inevitabile, una volta posta la decisione del papa di revocare la scomunica ai vescovi lefebvriani? Oppure il disastro è stato prodotto da errori ed omissioni degli uomini che dovrebbero mettere in opera le decisioni del papa? I fatti propendono per questa seconda ipotesi.
Il decreto di revoca della scomunica porta la firma del cardinale Giovanni Battista Re, prefetto della congregazione per i vescovi. Un altro cardinale, Darío Castrillón Hoyos, è il presidente della pontificia commissione "Ecclesia Dei" che si occupa fin dalla sua costituzione, nel 1988, dei seguaci di Lefebvre. Sia l'uno che l'altro hanno dichiarato di essere stati colti di sorpresa, a cose fatte, dall'intervista del vescovo Williamson e di non aver mai saputo che egli fosse un negatore della Shoah.
Ma un approfondito esame del profilo personale di Williamson e degli altri tre vescovi non era il primo dovere d'ufficio dei due cardinali? Che non l'abbiano fatto appare inescusabile. Tale esame non era neppure difficile. Williamson non ha mai nascosto la sua avversione al giudaismo. Ha difeso in pubblico l'autenticità dei "Protocolli dei Savi di Sion". Nel 1989, in Canada, rischiò d'essere processato per aver esaltato i libri di un autore negazionista, Ernst Zundel. Dopo l'11 settembre 2001 aderì a tesi complottistiche per spiegare l'abbattimento delle Torri Gemelle. Bastava un clic su Google per rintracciare questi precedenti.
Un'altra grave falla ha riguardato il pontificio consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani. La ricomposizione dello scisma con i lefebvriani fa parte, logicamente, delle sue competenze, che comprendono anche i rapporti tra la Chiesa e l'ebraismo. Ma il cardinale che lo presiede, Walter Kasper, ha detto di essere stato tenuto fuori dalla delibera: cosa tanto più sorprendente in quanto l'emissione del decreto di revoca della scomunica è avvenuta durante l'annuale settimana di preghiera per l'unità dei cristiani e a pochi giorni dalla giornata mondiale di memoria della Shoah.
Non solo. È apparso del tutto carente anche il lancio mediatico della decisione. La sala stampa del Vaticano si è limitata, sabato 24 gennaio, a distribuire il testo del decreto, nonostante la notizia fosse già trapelata da alcuni giorni e su di essa già stesse montando la polemica accesa dalle dichiarazioni negazioniste di Williamson.
C'è un confronto che illumina. Il giorno precedente, 23 gennaio, la stessa sala stampa aveva organizzato con grande pompa il lancio del canale vaticano su YouTube. E pochi giorni dopo, il 29 gennaio, avrebbe lanciato, sempre con grande dispiegamento di persone e di mezzi, un convegno internazionale su Galileo Galilei in programma per la fine di maggio. In entrambi i casi l'obiettivo era di trasmettere ai media il senso autentico dell'una e dell'altra iniziativa.
Niente di simile, invece, è stato fatto per il decreto riguardante i vescovi lefebvriani. Eppure gli elementi per un suo lancio adeguato c'erano tutti. E anche i tempi erano quelli giusti. Era in corso la settimana di preghiera per l'unità dei cristiani; era imminente la giornata della memoria della Shoah; in Italia c'era stata pochi giorni prima, il 17 gennaio, la giornata per il dialogo tra cattolici ed ebrei. Il cardinale Kasper, il maggior responsabile della curia su entrambi i versanti, sarebbe stato la persona ideale per presentare il decreto, inquadrarlo nella persistente situazione di scisma, indicare le finalità della revoca della scomunica, ricapitolare i punti sui quali i lefebvriani venivano chiamati a riconsiderare le loro posizioni, dall'accettazione piena del Concilio Vaticano II al superamento del loro antigiudaismo. Quanto a Williamson, non sarebbe stato difficile circoscrivere il suo caso: restando fermo sulle sue aberranti tesi negazioniste, si sottraeva egli stesso al gesto di "misericordia" del papa.
Ebbene, se niente di questo è avvenuto, non è per colpa della sala stampa vaticana e del suo direttore, il gesuita Federico Lombardi, ma degli uffici di curia dai quali ricevono i comandi.
Uffici di curia che si riassumono nella segreteria di stato.
* * *
Da Paolo VI in poi, la segreteria di stato è l'apice e il motore della macchina curiale. Ha l'accesso diretto al papa e governa la messa in opera di ogni sua decisione. La affida agli uffici competenti e ne coordina il lavoro.
Ebbene, nell'intera vicenda della revoca della scomunica ai vescovi lefebvriani, il segretario di stato, cardinale Tarcisio Bertone, pur di solito attivissimo e loquace, si è distinto per la sua assenza.
Il suo primo commento pubblico sulla questione è arrivato il 28 gennaio, in margine a un convegno romano nel quale era conferenziere.
Ma più che le parole, sono mancati da parte sua gli atti adeguati alla gravità della questione. Prima, durante e dopo l'emissione del decreto.
Benedetto XVI è stato lasciato praticamente solo e la curia è stata abbandonata al disordine.
Che papa Ratzinger abbia rinunciato a riformare la curia è ormai sotto gli occhi di tutti. Ma si ipotizzava che egli avesse sopperito a questa sua non scelta affidando la guida degli uffici a un segretario di stato dinamico e di polso, Bertone.
Oggi anche questa ipotesi si rivela in difetto. Con Bertone la curia appare più disordinata che prima, forse anche perché egli non vi si è mai completamente dedicato, per curarne le disfunzioni. Bertone svolge la gran parte della sua attività non dentro le mura vaticane ma fuori, in un incessante giro di conferenze, di celebrazioni, di inaugurazioni. I suoi viaggi all'estero sono frequenti e densi di incontri e di discorsi come quelli di un Giovanni Paolo II in piena salute: dal 15 al 19 gennaio è stato in Messico e in questi giorni è in visita in Spagna. Di conseguenza, il lavoro che gli uffici della segreteria di stato dedicano a queste sue attività esterne è tutto lavoro in meno per il papa. O talvolta è un inutile raddoppio: ad esempio quando Bertone tiene un discorso sullo stesso tema e allo stesso uditorio al quale poco dopo parlerà il papa, con i giornalisti puntualmente in caccia delle differenze tra i due.
La personale devozione di Bertone a Benedetto XVI è al di fuori di ogni dubbio. Non così quella di altri ufficiali di curia, che continuano ad avere campo libero. Può darsi che alcuni avversino consapevolmente questo pontificato. Di certo, i più semplicemente non lo capiscono, non ne sono all'altezza.
La Notte degli imbrogli - Autore: Gulisano, Paolo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 4 febbraio 2009
Ricordate il Capitolo 8° dei Promessi Sposi? Era quello della notte degli imbrogli. Ieri sera Lecco è stata il teatro di una notte di incredibili imbrogli. Innanzitutto un imbroglio nei confronti di ciò che è la Medicina, l’Assistenza Sanitaria, la professione del prendersi cura dei malati.
Sono medico da oltre vent’anni, e mai avrei immaginato un giorno di assistere alla scena di cui sono stato testimone ieri sera: un’ambulanza della Croce Rossa Italiana che preleva una paziente disabile per portarla incontro ad un destino che dovrebbe essere quello della morte per inedia, per fame e per sete. Dico “dovrebbe” non solo perché continuo a sperare insieme alle migliaia di persone che sono vicine ad Eluana con tutta la loro solidarietà, ma anche perché- paradossalmente o forse ipocritamente—la struttura assistenziale di Udine che si è resa disponibile per procedere alla soluzione finale di Eluana ha dichiarato ben altri intenti. Il piano assistenziale formalmente dichiarato dalla struttura la Quiete e avallato dall’Asl di Udine infatti prevede, testualmente, di fornire adeguata assistenza alla persona di Eluana Englaro. Quale sarebbe dunque questa adeguata assistenza? La deprivazione di alimentazione e idratazione? L’inganno è anche far credere all’opinione pubblica che possano esistere delle zone franche del servizio sanitario dove le norme etiche e deontologiche che riguardano l’assistenza ai malati possano non valere.
La struttura La Quiete dovrà rispondere penalmente delle sue azioni.
La notte di ieri ha visto l’esito infelice di tanti altri imbrogli: quello di aver fatto a lungo credere che Eluana sia attaccata ad una spina, che Eluana sia una sorta di morta vivente, a dispetto delle testimonianze anche recentissime che parlano di una persona con gli occhi aperti, che respira autonomamente, in uno stato che persino il sanitario di riferimento degli Englaro, Defanti, ha definito “stato di vigilanza”, pur senza consapevolezza, aggiunge il Defanti, il che è in realtà tutto da dimostrare. L’inganno di aver spacciato per sedicente volontà di Eluana una frase buttata là nell’adolescenza riguardante le condizioni di coma, e come d’incanto ci si è ritrovati con una specie di testamento biologico espresso però da terzi, da chi afferma di dover adempiere ad un patto di sangue e onore, una terminologia che suscita di per sé orrore.
L’inganno verso le leggi della Costituzione italiana, verso la Carta dei Diritti del malato dell’ONU, oltrepassate con disinvoltura da giudici sordi a qualunque appello, a qualunque richiesta di prendere atto delle reali condizioni di una paziente disabile.
Ma accanto a tutto ciò, vorrei rendere testimonianza della straordinaria prova di coraggio civile di chi ieri sera ha affrontato la terribile serata fuori dalla Casa di Cura Beato Talamoni, persone che sono accorse spontaneamente non appena la notizia che Eluana sarebbe stata prelevata aveva iniziato a circolare; persone normali e Amministratori Pubblici l’uno affianco all’altro, chi a pregare, chi a reggere un cartello, chi ad abbracciare disperatamente il cofano del mezzo per impedire che portasse via Eluana, prima di essere trascinato via dalle forze dell’ordine, chi semplicemente a dire con la propria presenza che la vita umana è sacra e va rispettata.
La testimonianza più intensa e commovente è stata quella data da Giuseppe Colombo, 93 anni, il Maestro Colombo che tutti i lecchesi conoscono e hanno conosciuto, una delle figure più alte e nobili della nostra città. Alla 1,15, mentre l’ambulanza venuta da Udine stava per fare il suo ingresso nella Casa di Cura, l’anziano maestro ha risalito a passi lenti Via san Nicolò, e si è fatto avanti con il suo volto di gentilezza e di bontà tra i sostenitori della vita e gli agenti della Questura che avevano avuto l’ordine di far passare ad ogni costo il convoglio della morte. Questo uomo anziano e fragile che si è posto davanti al grosso automezzo della CRI ha mostrato tutto il coraggio civile, la forza, la dignità di chi sta dalla parte dell’uomo, e per un attimo la piccola figura del vecchio maestro ha ricordato a chi era presente il giovane cinese che oppose la sua persona ai carri armati di Piazza Tien an men, cercando di sbarrare la strage all’ingiustizia e all’orrore.
Chi ieri sera ha assistito a tutto questo, nella nuova notte degli imbrogli di Lecco, ha ricevuto una straordinaria lezione, che non dimenticherà e che - ci auguriamo - darà frutti in questa battaglia di civiltà per Eluana e contro l’eutanasia.
Silenzio - Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 4 febbraio 2009
L’inverno avanza implacabile ed è tornata la neve. Ha coperto i tetti e imbiancato gli alberi. È scesa in silenzio, ci ha costretti a rallentare almeno un po’ i movimenti quotidiani, quasi a ricordarci che non dipende tutto da noi, possiamo anche fermarci un po’. È un modo per tornare a una dimensione più umana, in cui la natura fa sentire il suo peso determinante. “Abbiamo fatto tardi perché c’è la neve!” ci scusiamo, ma la voce è gioiosa, allegra: è accaduto qualcosa di bello. Il particolare silenzio che l’accompagna è ciò che più mi piace della neve. È un silenzio greve che costringe ad alzare gli occhi al cielo e nello stesso tempo pieno di luce, misterioso. È forse il silenzio di cui avremmo bisogno nelle nostre giornate dense di frastuono. Oggi di fronte alla spaventosa, agghiacciante notizia del trasferimento a Udine di Eluana un grido è rimasto soffocato in gola, poi è calato un disarmato silenzio. Di cosa c’è bisogno ancora in giorni già tanto pieni di dolore, di odio insensato, di violenza gratuita? Non bastano gli stupri, il povero giovane indiano dato alle fiamme, le violenze di ogni giorno? Bisogna a tutti i costi cercare la morte di una donna indifesa, inerte? Cosa ce ne facciamo di paludate sentenze che odorano di disumanità, di disimpegno verso la vita sofferente? Il silenzio è lacerato da domande pressanti. Il medico di Udine che ha seguito Eluana in ambulanza ha detto che “Eluana è morta 17 anni fa”! Tutti i difensori della morte hanno in diversi frangenti tradito il loro animo, il problema di fondo, l’incapacità di accettare una realtà dolorosa che non risponde più a un progetto prefissato, perciò da eliminare. È una strada senza speranza quella percorsa da chi non riconosce la dignità della vita. Rileggiamo le parole del Papa all’Angelus. “Gesù soffre e muore in croce per amore. In questo modo ha dato senso alla nostra sofferenza, un senso che molti uomini e donne di ogni epoca hanno capito e fatto proprio, sperimentando serenità profonda anche nell’amarezza di dure prove fisiche e morali. La vera risposta non può essere infatti dare la morte, per quanto "dolce", ma testimoniare l’amore che aiuta ad affrontare il dolore e l’agonia in modo umano. Siamone certi: nessuna lacrima, né di chi soffre, né di chi gli sta vicino, va perduta davanti a Dio.” Sul fronte della giustizia l’avvocato R. Marletta (ilsussisidario.net) ha precisato che “benché le sentenze sul caso Englaro possano indurre a ritenere il contrario, non esiste nel nostro ordinamento alcun principio sul quale fondare legittimamente il ricorso a pratiche eutanasiche, né tanto meno un “diritto alla morte”. E’ curioso osservare che molti commentatori in genere così attenti a quanto accade al di là dei nostri confini nazionali (e in particolare negli ordinamenti più “avanzati”) puntualmente omettano di ricordare che l’inesistenza di un “diritto alla morte” è stata sancita a chiarissime lettere anche dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella sentenza 29 aprile 2002.” Di fronte al Mistero della vita sofferente resta lo spazio del silenzio. Riempiamolo di preghiera a Dio “dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome.”
ELUANA/ 1. Formigoni: la nostra resistenza all’eutanasia - INT. Roberto Formigoni - mercoledì 4 febbraio 2009 – Ilsussidiario.net
Nessuno, alla fine, ha potuto obbligare la Regione Lombardia a fare quello che non riteneva giusto fare. Nonostante questo, la triste capitolazione della vicenda Eluana Englaro rappresenta comunque, secondo il governatore Roberto Formigoni, una «sconfitta per tutti».
Ora Eluana è a Udine, alla clinica “La Quiete”, e lì passerà gli ultimi giorni. La lotta di chi ha fatto tutto quanto in proprio potere per evitare che questa tragedia arrivasse al compimento deve amaramente cedere il passo a una volontà diversa, su cui la sentenza della Corte d’Appello di Milano ha messo il timbro della liceità.
Presidente, qual è stata la sua prima reazione quando ha saputo che Eluana era stata portata a Udine?
Purtroppo la notizia era già nell’aria; nonostante questo, apprenderlo definitivamente ha comunque generato una grande amarezza, e un profondo dolore di fronte a una manifestazione di disumanità tanto grave. Nello stesso tempo, però, gli ultimi fatti non possono non portare anche a un’altra conclusione: la piena consapevolezza, cioè, che la Regione Lombardia ha fatto tutto quello che doveva fare, e che chi ha cercato in ogni modo di opporsi alle nostre decisioni non ha vinto sul versante su cui voleva vincere.
In che senso?
Volevano che noi fossimo complici, addirittura trovando la sede in cui far morire Eluana e operando secondo tutte le indicazioni date dalla sentenza della Corte d’Appello: ma non ce l’hanno fatta. Volevano che il servizio sanitario regionale e nazionale eseguisse la sentenza a morte di Eluana, e – ripeto – non ce l’hanno fatta. Quello che ora sta accadendo, infatti, è un’altra cosa, perché non è a carico del servizio sanitario, né nazionale né regionale.
Quindi, come Regione Lombardia, rivendicate tutto quello che avete fatto, nonostante la sentenza contraria del Tar?
Assolutamente sì. Abbiamo agito in piena correttezza dal punto di vista giuridico, e nessuno ci può rimproverare nulla, perché abbiamo rispettato la legge fino in fondo. E non ci siamo limitati ad agire semplicemente in modo corretto, ma abbiamo fatto di più: abbiamo cioè cercato di fare tutto il possibile per salvare una vita umana.
Sebbene gli ultimi fatti rendano ormai tutto superfluo, farete comunque ricorso al Consiglio di Stato per sostenere le vostre ragioni?
Da questo punto di vista bisogna innanzitutto precisare e confermare una cosa fondamentale, su cui già ci siamo espressi nei giorni scorsi: al momento il Tribunale Amministrativo non ci ha ancora trasmesso nessuna sentenza. Evidentemente, prima di decidere un eventuale ricorso al Consiglio di Stato io voglio avere la possibilità di leggere direttamente la sentenza, e non solo conoscerne i contenuti indirettamente attraverso anticipazioni di stampa. Quando tutto questo sarà possibile, allora leggeremo attentamente e faremo tutte le nostre valutazioni. La possibilità di ricorso è sempre aperta.
Tutta questa vicenda è segnata da un intreccio un po’ confuso di sentenze e di interventi politici: come ne esce secondo lei il rapporto tra magistratura e politica?
In maniera pessima. Come ho avuto modo di ricordare più volte, il potere di fare le leggi non è in mano alla magistratura, ma in mano al popolo, che lo delega al Parlamento. La magistratura ha altri compiti, ma non certo quello di fare le leggi e di sostituirsi al Parlamento. In questa vicenda, invece, è stato evidente che la magistratura ha voluto imporre qualche cosa che le leggi non contemplano. Per questo dico che il rapporto tra magistratura e politica esce ulteriormente compromesso, e il tutto è avvenuto a causa del comportamento delle diverse magistrature.
Ora però il potere legislativo ha deciso di prendere posizione in materia di testamento biologico: che cosa si aspetta dal dibattito su questo tema?
Qualunque cosa ci si debba aspettare, un dato è però chiaro fin da subito: nessuna delle proposte di legge, nemmeno se fosse approvata la più estrema, avrebbe permesso che venisse fatto ciò che ora sta per essere fatto a Eluana. Il trattamento che le viene inflitto, infatti, va al di là anche della più “aperturista” delle proposte di legge presentate in Parlamento. Questo è un punto di partenza sicuro, e dice chiaramente dell’aberrazione di ciò che viene compiuto su Eluana e contro Eluana.
Oltre a questo aspetto, qual è il suo giudizio sul disegno di legge presentato dal centrodestra?
Il ddl del centrodestra presenta certamente vari aspetti positivi. Ma a me preme comunque sottolineare un altro punto: il Parlamento può decidere di legiferare su questo, come sembra deciso a fare e come è suo pieno diritto; ma potrebbe benissimo anche decidere di non legiferare. Ci sono alcune materie che non devono essere necessariamente sottoposte alla legislazione, ma che possono essere lasciate alla valutazione del medico. Si è tanto parlato, a proposito del caso Englaro, di vuoto legislativo: ma non è assolutamente detto che, laddove manchi una legge, ci sia un vuoto. Detto questo, l’orientamento del Parlamento è ora quello di legiferare; l’importante è che si arrivi a una legge chiara, che garantisca quelle che sono le prerogative e le responsabilità del medico, e che prenda decisioni a favore della vita, e della volontà vera e accertata delle persone.
Un caso come quello di Eluana lascerà certamente un segno, e porterà con sé delle conseguenze: che cosa cambierà nella nostra società e nella nostra cultura, e a quali responsabilità nuove sarà chiamata la politica di fronte a questi cambiamenti?
Indubbiamente quanto sta accadendo ci dice che è in atto una grave deriva eutanasica; se non ci opponiamo, questa tendenza prenderà piede in maniera molto forte. I fatti di queste settimane, e soprattutto di questi ultimi giorni, sono dunque un chiaro campanello d’allarme: chiunque ritiene che l’eutanasia sia una sconfitta e un venir meno della solidarietà e della compassione che si deve alle persone deve intervenire e reagire. Se ciò non avvenisse, le porte verso ogni forma aberrante di eutanasia sarebbero aperte. Il compito della politica – e non solo della politica, ma anche della società, della cultura, delle menti libere che hanno a cuore le sorti dell’uomo – è quello di reagire a questa deriva negativa, che altrimenti si imporrebbe senza resistenza alcuna.
ELUANA/ 2. Una morte legale? Sì, come erano legali gli schiavi e le stelle gialle degli ebrei... - Assuntina Morresi - mercoledì 4 febbraio 2009 – IlSussidiario.net
C’è una guardia giurata al terzo piano della clinica “La Quiete” a Udine. Controlla che nessuno entri nella stanza di Eluana Englaro, la prima persona in Italia che morirà di fame e di sete con l’autorizzazione dei giudici.
L’hanno portata via da Lecco con un’ambulanza, a notte fonda, nel buio, come ladri, e sono entrati in clinica da un ingresso laterale.
I volontari che faranno morire di fame e di sete la donna in stato vegetativo – una donna che respira da sola, che dorme e si sveglia, apre e chiude gli occhi, che deglutisce, che ha le mestruazioni, di cui nessuno è veramente in grado di dire se e cosa pensa, se e cosa prova – hanno costituito un’associazione, si chiama “per Eluana”. Ne fanno parte Amato De Monte, primario, e altri medici e tecnici specializzati.
L’hanno costituita dal notaio nei giorni scorsi.
Giudici, avvocati, notai: la morte per fame e sete di Eluana Englaro cerca di coprirsi con il manto della legalità. Ma la legalità e la giustizia non sono la stessa cosa: erano legali gli schiavi, e anche le stelle gialle degli ebrei.
La morte di Eluana, se avverrà per fame e per sete come descritto dai giudici, sicuramente non ha niente a che vedere con la giustizia, ed ha anche molte ombre per come la sua volontà è stata ricostruita.
Troppe le testimonianze discordi con quelle raccolte dalla Corte di Appello di Milano: almeno tre amiche, sue compagne di scuola, hanno dichiarato di non aver mai sentito Eluana dire che sarebbe stato meglio per lei morire piuttosto che vivere in certe condizioni, così come anche due suoi insegnanti (uno è adesso Preside di Giurisprudenza a Piacenza); c’è poi una lettera mai messa agli atti che contraddice quanto invece dedotto dai giudici. Ma questi fatti, resi pubblici da luglio – sul quotidiano Avvenire – e raccolti da un esposto presentato alla Procura di Milano, sono stati finora bellamente ignorati da chi aveva invece il compito di accertare la verità.
Se eseguiranno il decreto della Corte di Appello, Eluana morirà, e diranno che sarà morta naturalmente. Ma se c’è una morte innaturale, è proprio quella per fame e per sete. Si muore di malattia, di vecchiaia, per un incidente, una caduta: i morti per fame e per sete stanno nei paesi dimenticati da Dio, colpiti dalle carestie o dalla guerra, e di solito è uno scandalo quando nessuno li soccorre. Ma questo succedeva prima. Adesso, nel mondo alla rovescia che ci circonda, la fame e la sete pare siano diventati un segno di civiltà. Con la benedizione dei giudici, dei benpensanti, dei media, di Repubblica e del Corriere.
La vicenda di Eluana sarà di fatto uno spartiacque per il nostro paese, comunque si concluderà, non solo per le lacerazioni ed il pesantissimo clima conflittuale che vediamo già crescere furiosamente in queste ore.
L’ostinazione con cui è stata condotta questa vicenda, l’insistenza con cui si è cercato di far morire Eluana in una struttura pubblica, soprattutto in questi ultimi mesi e giorni, va ben oltre la battaglia personale di suo padre. E’ un’azione per portare nel nostro paese una mentalità e soprattutto una legislazione eutanasica, senza il confronto con il consenso popolare – come è stato per il referendum sulla legge 40, o per i DICO – ma che si è servita dei giudici i quali, come è noto, non sono espressione della volontà popolare, e le leggi non dovrebbero farle, ma cercare di farle rispettare.
E’ un’azione per distruggere, nel nostro paese, un sentire popolare e un tessuto sociale che, nonostante tutto, ancora possono definirsi cristiani. Bisogna esserne consapevoli.
COMUNISMO/ Cavalcare la speranza: le lettere di Vaclav Benda - Angelo Bonaguro - mercoledì 4 febbraio 2009 – IlSussidiario.net
È riduttivo pensare che il dissenso, in Europa centrale come in URSS, sia stato un fenomeno che ha coinvolto esclusivamente personaggi del mondo culturale e politico "laico". Ciò impedirebbe di coglierne una delle componenti essenziali, quella religiosa. Anzi spesso sono stati proprio i credenti a corroborare le iniziative del dissenso e a dare significato a esperienze drammatiche quali il carcere o l'esilio, che agli occhi del "mondo" erano l'inizio della fine. Per questo la pubblicazione in Repubblica Ceca delle lettere dal carcere dell'allora dissidente cattolico Vaclav Benda (1946-1999), rappresenta un evento piccolo ma importante per non perdere quella lezione. L'edizione ceca, rispetto all'italiana pubblicata nell'81 da CSEO, ha il pregio di riportare anche le lettere della moglie e quelle inedite sequestrate dalla censura.
Nato l'8 agosto 1946 a Praga, laureato in filosofia e cibernetica teorica, attivo durante la Primavera del '68, Benda deve rinunciare alla cattedra universitaria per motivi politici. I suoi scritti di carattere filosofico-religioso sono diffusi tramite l'editoria clandestina. Dopo aver sottoscritto l'iniziativa civile Charta77 perde il posto di lavoro ed è costretto ad impiegarsi come fuochista. Dal matrimonio con la matematica Kamila Neubauerova nasceranno 6 figli. «Ero orgogliosa di mio marito - ricorda lei - che stava là nel reparto caldaie, e che per determinati princìpi aveva preferito rinunciare al suo vecchio lavoro». Nel '78 Benda è tra i fondatori del VONS, il comitato informale che svolge un compito indispensabile: assistere le famiglie di chi è stato condannato ingiustamente. Nel '79 è lui a finire in carcere per 4 anni per «sovvertimento della repubblica». Dopo la caduta del regime comunista, è leader dei democratici cristiani ed eletto presidente del parlamento cecoslovacco. Muore nel 1999.
Le lettere sono scritte in un linguaggio semplice e immediato, prendono spunto da episodi familiari per parlare di fede e cultura. Da una lettera inedita dell'aprile '80: «Credo che la salvezza non sia qualcosa di indefinito dopo la morte, ma prenda forma già qui e ora, ed è una componente essenziale, il frutto e il compimento della nostra vita». E altrove: «Quotidianamente riesco a dire “Se così deve essere, sono pronto, poiché Tu, nella Tua infinita misericordia, non provi mai nessuno al di sopra delle sue forze”. Però mi sono reso conto che questa affermazione non è così consolante come a prima vista potrebbe sembrare, poiché l'uomo può avere o ricevere molta forza, maledizione!». «Essere cattolico non significa decisamente essere uno stupido... Sarebbe così se consistesse in una virtù basata su precetti e puritana, ma questo non ha più valore per lo meno dal tempo del Nuovo Testamento». «Per essere veramente felice ho bisogno di un po' di inquietudine e di una punta di peccato e mi piace di più confidare nella infinità e imperscrutabilità della grazia». Il tono dominante è la serenità: «Mi sono avvicinato allo stato d'animo dell'autentica letizia. E così per il momento sono in uno stato d'animo smanioso e gaio e attendo con curiosità le cose che accadranno». Quante volte vorremmo poter ripetere con lui: «Aspetto con incredibile gioia il mattino»! Non mancano i battibecchi coniugali a distanza. Lui: «È da sempre che ti dico che salare i cibi e far funzionare una penna sono compiti al di sopra delle tue forze!». Lei: «Dato che in vita tua non mi hai mai fatto una foto, non so proprio dove poterne trovare una!».
Intanto l'appartamento al numero 18 di piazza Carlo a Praga era diventato, in sua assenza, un punto di riferimento per molti che, come scrive con ammirazione a Kamila, «guardano in un certo modo i tuoi figli e il lavoro e tutto il resto, e non dubitano di attingere da te gioia e incoraggiamento».
La preoccupazione costante di Vaclav è rivolta all'educazione dei figli, per i quali scrive alcune fiabe, diffuse anche fra i compagni di cella, e li esorta a comportarsi da veri "cavalieri cristiani": «Come sapete, bambini miei, chi perde la propria vita per il Signore la troverà, e tutte le mie esperienze mi confermano che è proprio così e che è inutile e del tutto sciocco angustiarsi e calcolare se ci costerà caro e se siamo preparati: in fondo, il primo a portare la croce fu uno che passava per caso sulla via del Calvario». «Dio si prende cura di me in una misura e intensità del tutto immeritate, e in modo così evidente che non sono minacciato dal dubbio... . Abbandonandovi nelle Sue mani anche voi ne riceverete sicurezza e protezione, di modo che neppure io dovrò temere per voi».
In una lettera del febbraio 1980 ritroviamo infine un pensiero centrale nell'esperienza del dissenso religioso: «L'uomo non è al mondo per sopravvivere, ma per rendere testimonianza alla Verità».
A tanti anni dall'edizione CSEO, sarebbe bello che qualche editore riproponesse le lettere di questo "cavaliere cristiano".
UGANDA/ Inaugurato il Centro educativo intitolato a don Giussani: un’opera nata da un’amicizia - Redazione - martedì 3 febbraio 2009 – IlSussidiario.net
Il 28 Gennaio 2009 a Kampala, in Uganda, è stato inaugurato il Permanent Centre for Education dedicato a Mons. Luigi Giussani.
Un evento questo che ha le sue radici nel 2002 quando alcuni amici, due italiane e un ugandese, (e poi altri fino ad arrivare ai ventiquattro formatori odierni) hanno iniziato a ritrovarsi per studiare il Rischio Educativo in vista della preparazione di trainings nell’ambito di un progetto finanziato da Cor Unum. Sono nati così dei percorsi rivolti a educatori, assistenti sociali, guardie carcerarie, genitori, studenti che hanno coinvolto in varie località ugandesi quasi diecimila persone. Lo svilupparsi di questo lavoro, nell’accoglienza paterna dell’allora Nunzio apostolico Christophe Pierre e nella ripercussione sui partecipanti ai corsi, ha trovato in un progetto Avsi la possibilità di un luogo stabile: il P C E (Permanent Centre for Education).
L’apertura ufficiale del PCE, è stata presieduta dall’attuale Nunzio Apostolico, monsignor Paul Tschang In-Nam, accolto da un popolo in festa di cui facevano parte, oltre ai numerosi rappresentanti provenienti dall’estero, autorità ecclesiastiche e civili, le donne e i ragazzi del Meeting Point International, amici di Avsi e del Movimento.
Alla breve presentazione delle origini del PCE, da parte di Clara Broggi, una delle iniziatrici, sono seguiti gli interventi dei tre soci fondatori. George William Pariyo che ha riconosciuto nell’educazione “la reale possibilità della novità per la vita di ciascuno”, Rose Busingye che ha ringraziato commossa perché vede nel Centro il “compimento del proprio lavoro, accompagnando, sostenendo, sviluppando un inizio che non ha fine perché l’educazione è per tutti” e Vincenzo Silvano, presidente della FOE, che ha visto nella freschezza di questo lavoro la possibilità di reimparare quella “radice di impostazione che è comune alle scuole appartenenti alla Federazione”.
Il Nunzio ha ringraziato per un “luogo in cui è evidente la reale esperienza nata dal metodo di Don Giussani, un luogo che la rende incontrabile da tutti”.
È stata poi la volta dei donatori, l’ambasciatore Pietro Ballero per la Cooperazione Italiana, Arturo Alberti, Presidente di Avsi e Pablo Llano Direttore di Cesal, che hanno contribuito alla costruzione dell’edificio.
L’Ambasciatore ha sottolineato che “L’educazione non finisce mai, è un processo che continua per tutta la vita... per questo contribuenti europei, portatori di una cultura, di una tradizione e una storia di secoli, e ugandesi possono reciprocamente imparare realizzando insieme qualcosa”.
L’intervento di Alberto Piatti, segretario generale di Avsi ha introdotto la seconda parte della mattinata rimarcando come “questo sia il modo in cui si tenta di servire la Chiesa, ponendo al centro del lavoro il Mistero della persona” e lanciando al Centro una sfida che, nella risposta alla emergenza educativa che caratterizza vari paesi, si ponga in una prospettiva di formazione per gli stati della regione dei grandi laghi, Burundi, Congo, Rwanda.
Sono infine intervenuti il Prof. Kirumira dell’ Università di Makerere che ha sottolineato il fatto che “l’educazione non può essere ridotta a mera istruzione della mente ma deve partire prima di tutto dal cuore della persona. Questa è la cosa più importante ed è quella che più manca nel sistema educativo ugandese. Proprio per questo motivo, un centro specializzato per l’educazione come il PCE è necessario per richiamare le persone a considerare il cuore dell’uomo come il punto di partenza di ogni intervento educativo”; e Mr. Agaba, Commissario del Ministero dell’ Educazione che ha sottolineato che “l’educazione va ben al di là della semplice performance accademica”, collocando la proposta del PCE al centro del dibattito sulla qualita’ dell’ educazione in Uganda
All’ inaugurazione sono seguiti altri eventi importanti: una tavola rotonda sull'educazione in Uganda alla quale hanno partecipato i rappresentanti della Chiesa in Uganda, Cooperazione Italiana allo Sviluppo, rappresentanti dell’ambasciata Olandese e del mondo accademico Ugandese. Il dottor Aloi (Cooperazione Italiana) ha sottolineato che l’attenzione all’individuo è una risorsa di primaria importanza per garantire un sistema educativo di qualità. Fr Byaruhanga (Segretariato Cattolico per l’Educazione) ha affermato che senza toccare il cuore non c’e’ educazione, non possiamo dire di essere educatori.
Durante il pomeriggio di giovedì nell’ambito dell'incontro "The Risk of Education. Witnesses", Dr. Isabella Kamere della Kenyatta University di Nairobi ha raccontato la sua esperienza educativa con ragazzi disabili e ha sottolineato come l’esperienza di Don Luigi Giussani l’abbia aiutata a scoprire il valore dei ragazzi che le stanno di fronte e di come il loro limite non sia per lei il punto di partenza del suo giudizio su di loro. Mrs Florence Mauso (Preside di una importante scuola primaria di Kampala) ha raccontato come il lavoro fatto con il rischio educativo ha permesso un cambiamento radicale della sua scuola a partire dallo sguardo degli insegnanti verso i propri studenti e verso i coleghi. Mr Robert Omita (Commissario incaricato del Welfare dei detenuti all’interno delle Prigioni Ugandesi) ha testimoniato come l’educazione è l’unico modo di affrontare il problema dei detenuti nelle prigioni. Prima l’unica via sembrava essere la punizione (per lo piu’ corporale), ma ora finalmente si parla di educazione come sola possibilita’. Sr. Boni Ngabirano ha sottolineato come ogni lezione sia legata al desiderio del ragazzo e debba essere preparata con la finalita’ di incontrare i suoi desideri. Come insegnante di religione aveva sempre cercato di creare “santi” con la disciplina, ma attraverso il lavoro fatto sul rischio educativo ha ora come unica preoccupazione quella di far uscire il meglio da ciascun ragazzo.
A conclusione dei tre giorni di evento è intervenuta il Ministro dell’Educazione Mrs Geraldine Namirembe Bitamazire in rappresentanza della First Lady Janet Museveni. Prima di leggere il discorso ufficiale della First Lady ha voluto sottolineare che la presenza del PCE e’ evidenza che finalmente, se le persone cominciano a guardare all’educazione in questo modo, ci si sta muovendo verso la nascita di una societa’ in grado di educare. Il discorso della First Lady è stato preceduto dalla proiezione del documentario "Greater: Sconfiggere l’AIDS" e dalle testimonianze delle protagoniste del documentario stesso: Ms Rose Busingye e Vicky Aryenyo (Direttore e assistente sociale del Meeting Point International, rispettivamente). Vicky ha raccontato come sia stata educata dallo sguardo di Rose che ha saputo amarla nonostante la sua condizione e la sua miseria. Rose ha sottilineato che quando siamo di fronte ad una persona malata non possiamo permetterci di curare solo la parte malata, la persona è una unità e non possiamo scinderla o ridurla alla parte da curare.
Non possiamo dimenticare che nell’ambito dell’evento è stata ufficialmente aperta la mostra "Con le nostre mani, ma con la tua forza. Le opere nella tradizione monastica benedettina". Un gruppo di ragazzi dello slum di Kireka da settembre si è riunito tutte le domeniche per studiare la mostra sui benedettini. Hanno poi pulito, tirato a lucido i pavimenti, messo in ordine i locali per tutta la settimana precedente e poi hanno accolto gli invitati sempre sorridendo e cantando e continuando a mantenere il Centro pulito e ordinato per 3 giorni, comunicando con questa semplicita’ la lezione imparata da San Benedetto.
È stata una festa di popolo, ma è stato anche un grandissimo evento culturale.
Non è mancata in questi giorni la presenza di Giovanna Orlando che, all’origine di quest’opera, insieme a Clara e Kizito, è morta nel maggio 2008. La passione e l’entusiamo per la proposta educativa di Don Giussani che ha saputo comunicare a coloro che l’ hanno incontrata ci rendono certi che dal cielo continua a lavorare con alacrità, sostenendo il Centro più di quanto poteva fare prima.
(Mauro Giacomazzi
LO SAPPIANO IL SINDACO E QUEL MEDICO - IL TRADIMENTO DELL’ENERGIA, DELLA STORIA DI UN POPOLO - DUILIO CORGNALI – Avvenire, 4 febbraio 2009
La tragica vicenda di Eluana Englaro ri- portata in Friuli per applicare una sentenza di morte ha lasciato sgomento il Friuli. E ci si chiede: perché il Friuli tradotto, ancora una volta, in terra di confine, di morte? È questo il Friuli? C’è una poesia del friulano D. M. Turoldo che ben descrive quel che oggi accade: «E le crudeltà per gioco / e le deliranti cupidigie / e le 'necessarie' / le inevitabili guerre / in infinite sequenze, a segnare / la marcia forzata / verso la Fine». È così che viviamo anche questa tristissima vicenda. Una marcia forzata per porre fine all’esistenza di una persona indifesa, seppure allo scopo dichiarato di 'liberarla' da una condizione ritenuta insopportabile. E questo con la 'complicità' di una casa per anziani, classificata come 'azienda per i servizi alla persona', trasformata per la circostanza in 'casa della morte'. Con una équipe di volontari capitanata da un medico che ritiene di interpretare non soltanto la volontà del padre (e quella della madre?) ma anche 'il sentire sociale' e che ritiene finanche di mettersi in cattedra e bacchettare la politica e anche la Chiesa. Quasi che il diritto di parola ce l’abbia soltanto il gruppo di supporto alla decisione del signor Englaro, usata come grimaldello per future leggi a favore dell’eutanasia. Cosa c’entra il Friuli con tutto questo? Contrariamente a quello che pensa il sindaco di Udine, c’è una grande maggioranza di friulani che ritengono la sentenza di morte per Eluana né giusta né civile. Non soltanto ingiusta e incivile ma anche foriera di ulteriore degrado della vita sociale.
Ma qui occorre dire una verità semplicissima. Sulla vicenda di Eluana sono entrati in campo prepotenti forze ideologiche, anche di segno opposto, unite nello scardinare il sottofondo valoriale della convivenza civile. Nella tragedia di Eluana hanno identificato uno strumento straordinario per fare breccia nel sistema di valori, patrimonio vitale di questa società. A quel punto tutto è saltato o è stato stravolto: la logica, il buon senso e la semantica. Lascia, ad esempio, stupefatti che il medico che dovrebbe accompagnare alla morte Eluana, a precisa domanda sulla sofferenza eventualmente procurata dalla sospensione di cibo e acqua, dica: «Nessuna sofferenza, perché Eluana è morta diciassette anni fa». Allora avevano ragione le Suore misericordine di Lecco, quando supplicavano il papà, che diceva la stessa cosa del medico, di essere conseguente, di lasciare loro questa sua figlia, che ormai – avendola loro da sempre accudita – consideravano di casa. Se Eluana è morta 17 anni fa perché accanirsi con tanta protervia per farla morire davvero? Se Eluana non soffrirà, perché disporre di sedarla?
Non così un tempo questo Friuli cantato da Turoldo. Terra difficile sì, martoriata anche da invasioni e guerre, da miseria ed emigrazione, eppure terra amante della vita. Tutti hanno potuto toccare con mano questa verità nella tragedia dei terremoti del 1976. Mille morti, moltissimi feriti, centinaia di migliaia di senza tetto, ma un popolo tenacemente aggrappato alla vita. Un popolo abbattuto ma non disperato, colpito a morte ma non rassegnato. E il Friuli è tornato a vivere e i friulani hanno saputo trasformare le loro lacrime in sudore di ricostruzione e rinascita. E i paesi sono risorti come per miracolo, dove e come prima del terremoto e anche più belli. Una sorta di miracolo collettivo. Dovuto a cosa? Alla straordinaria energia prodotta dalle sue radici umane e cristiane, dove il rispetto e la promozione della vita erano al primo posto. Un popolo, quello friulano, che aveva un alto senso della vita e dunque anche un’attenta e rispettosa valutazione della morte. Si nasceva in casa e in casa si voleva morire, circondati dall’amore solidale dei propri cari. A nessuno veniva in mente di abbreviare il tragitto verso la morte. Quella era una 'pietà' riservata agli animali. Per gli umani c’era un diuturno addestramento alla sofferenza propria e altrui e alla resistenza. E dinanzi alle più grandi difficoltà si veniva educati non alla rassegnazione alla morte ma alla perseveranza nell’amore alla vita. Tutt’altro rispetto a questa marcia forzata verso la morte, incontro al nulla.
INTERVISTA - il fatto La moglie del carabiniere assassinato in Iraq nel 2003 racconta il suo rapporto con la Englaro e con il padre «Rispetto Beppino e provo sempre affetto per lui, ma non è giusto quello che sta facendo» - Vi racconto Beppino ed Eluana - Parla la vedova Coletta: ragazza libera e senza alcuna cannula - DA ROMA PINO CIOCIOLA – Avvenire, 4 febbraio 2009
«È una donna di trentotto anni, la mia stessa età. Apre gli occhi di giorno e li chiude di notte. Respira benissimo, serenamente Ci sono momenti nei quali forse sorride Quanti sanno che non è attaccata a nessuna macchina? Che non ha una piaga da decubito, che in diciassette anni non ha preso un antibiotico?» «Da quando l’hanno portata a Udine ho un pugnale dentro.
Prego, spero fino all’ultimo che lui si renda conto di quel che sta facendo. Quanto non sia paterno, non sia umano. So che lui soffre dentro di sé, e tanto»
Ha chiamato ancora papà Beppino ieri mattina poco prima delle nove: « Ma nemmeno l’hai accompagnata Eluana? », gli ha detto subito. Margherita Coletta è la vedova di Giuseppe, carabiniere assassinato a Nasiriyah il 12 novembre 2003, nell’attentato che spazzò la base italiana 'Maestrale', carabiniere che non aveva mai ucciso e che sceglieva le missioni all’estero per aiutare i bimbi più indifesi, quelli colpiti dalla guerra. Lo faceva per ritrovare il sorriso di suo figlio Paolo, morto a sei anni stroncato dalla leucemia: « Quando capimmo che era finita e i medici ce lo spiegarono chiaramente – racconta lei – facemmo interrompere la chemioterapia ». Margherita in questi mesi è volata dalla Sicilia a Lecco per andare a trovare Eluana, accompagnata da Beppino. Spesso e a lungo l’ha accarezzata, l’ha baciata, le ha parlato. E spesso ha parlato col papà, scontrandosi anche duramente, ma senza che mai lui le negasse il dialogo: in qualche modo forse sono diventati amici. Ecco perché ancora ieri mattina lei gli ha telefonato dicendogli: «Speravo che coi giorni fossi rinsavito».
Cos’ha provato, Margherita, entrando nella stanza di Eluana?
La prima volta mi sono fermata sulla soglia della sua porta. Pensavo di essere più forte. Ho respirato a fondo, poi sono entrata. Quando l’ho vista, abituata com’ero alle foto di lei ragazza, mi ha scosso, oggi è una donna. Ma poco dopo è diventato tutto così normale, come fossi a trovare una persona in ospedale. Anzi, ho sentito tanta dolcezza e nessun ribrezzo o pena. Né ho visto alcun 'sacco di patate', come qualcuno descrisse Eluana, ma una persona che è tutt’altro. Una persona.
La sensazione più bella?
Quando l’ho accarezzata.
Con la sensazione netta, nettissima, che lei avvertisse le carezze. Certo è che pensavo d’andare a dare io a lei, invece ho ricevuto assai più di quanto le abbia dato.
Cosa?
La maggiore certezza nelle cose in cui credo. La consapevolezza che non si può ridurre una persona alla sua forma fisica. Papà Beppino la accompagnava in quella stanza?
Sì. La prima volta che l’ho incontrato mi aveva fatto molta tenerezza: pensavo a mio marito Giuseppe, a quando è morto nostro figlio. E poi mi sembrava quasi di parlare con mio padre: mi diceva «sei una birba ».
Adesso è cambiato qualcosa?
Rispetto comunque Beppino e provo sempre grande affetto per lui. Ma non è giusto quello che sta facendo. I figli non sono di nostra proprietà: ci sono soltanto affidati. Ci prendiamo cura di loro, li aiutiamo, li assistiamo e semmai li accompagniamo alla morte, preparandoli se deve accadere, anche da piccoli. Ma lui non si rende conto di tutto questo, si sente incapace di tornare indietro: credo sia soprattutto lui in uno stato simile a quello vegetativo. Quando si risve- glierà da questo torpore si renderà conto e starà male, tanto.
Lei che rapporto ha, Margherita, col papà di Eluana?
Ci siamo confrontati tante volte, ma è sempre stato cortese con me. È convinto di quanto fa, forse perché non vede più Eluana come lui la vorrebbe. Ma a me pare evidente che in qualche modo sia stato plagiato da tanta gente alla quale non interessa nulla di Eluana. E lui ora è strumentalizzato, è finito in un vortice: ha anche momenti nei quali io credo vorrebbe tornare indietro, perché non pare convinto fino in fondo di quanto sta facendo, ma non ne ha la forza.
Com’era trattata Eluana nella casa di cura lecchese?
Come una regina. Le suore che le stanno accanto ogni giorno la curano, la lavano, la profumano, la portano a spasso sulla carrozzella. Addirittura la depilano, perché Eluana come ogni ragazza non sopportava d’avere peli sulle gambe.
E come sta?
Lei è una donna. Una donna di trentotto anni: ha la mia stessa età. Ha il ciclo mestruale come ogni donna. Apre gli occhi di giorno e li chiude la notte. Respira benissimo e da sola, serenamente. Il suo cuore batte da solo, tenace e forte. Ci sono momenti nei quali forse sorride e altri nei quali forse socchiude gli occhi. Ma quanti sanno davvero che Eluana non è attaccata a nessuna macchina? Quanti sanno che nella sua stanza non c’è un macchinario, ma due orsacchiotti di peluche sul suo letto? Che non ha una piaga da decubito? Che in diciassette anni non ha preso un antibiotico?
La notte scorsa hanno portato Eluana a morire: lei, Margherita, cosa sta provando?
Ho un pugnale dentro. Prego, spero fino all’ultimo che lui si renda conto di quel che sta facendo. Quanto sia sbagliato. Quanto non sia paterno. Quanto non sia umano. Io so che lui soffre dentro di sé, e tanto.
Ci ha parlato appena ieri mattina: secondo lei cosa prova Beppino?
Non so come possa vivere con un peso addosso come questo: Eluana da diciassette anni è in quelle condizioni, ma lui fino a ieri mattina non si era mai svegliato sapendo che sua figlia sta per morire.
Come mai, Margherita, lei e suo marito Giuseppe decideste d’interrompere la chemioterapia a vostro figlio?
Paolo ne aveva fatti quattro cicli, ne mancavano due, ma ormai il male aveva invaso tutto il suo corpo e i medici ci spiegarono bene la situazione. I dolori e il vomito e tutte le devastazioni provocate dalla chemio a quel punto sì che sarebbero stati accanimento terapeutico: così ci fermammo, affidandoci e affidando Paoletto a Dio.
Perché invece con Eluana non ci sarebbe accanimento terapeutico?
Ma Eluana non ha una malattia, non è terminale, non ha un dolore, non ha un macchinario nella stanza, non c’è nulla che possa far pensare ad un accanimento per tenerla in vita! È accudita, curata, amata. La si deve solamente aiutare a mangiare!
Beppino però sostiene che la morte di Eluana servirà a liberarla...
Liberarla da cosa? Come fa lui a sapere che lei è in catene? Una persona che soffre lo si vede. Non lo capisco proprio cosa voglia dire Beppino, cerco di sforzarmi, ma non ci arrivo.
Quella giovane donna da ieri è ricoverata nella sezione maschile del 'Reparto Alhzeimer' della clinica udinese 'La Quiete'...
Ma si rende conto?! È lì, da sola, con nessuno che la conosce, che l’ha curata, che la ama, perché le suore di Lecco la amano: se sapesse ieri sera ( lunedì, ndr) quando ho chiamato suor Rosangela come piangeva. Anzi, mi permetta di ringraziare proprio le suore della casa di cura 'Beato Talamone' e tutte le persone che per quindici anni hanno avuto quella tale cura per Eluana.
Margherita, ma perché lei decise d’andare a trovarla?
Non lo so. Una sera ero a casa, ho visto la notizia al telegiornale e ne ho avuto il desiderio. So di non valere nulla, ma ho cercato il numero di Beppino, perché volevo fargli sentire la mia vicinanza. L’ho chiamato, gli ho spiegato chi ero e che sarei stata felice se avessi potuto incontrare Eluana. Lui fu molto gentile, mi disse: «Signora, davanti al suo dolore m’inchino e mi fa piacere se viene». Appena poi arrivai a Lecco, mi chiese subito: «Margherita, tu da che parte stai?».
Lei cosa gli rispose?
«Beppino, io non sto dalla parte di nessuno: sono venuta a trovare Eluana come se tu fossi venuto a trovare un mio parente caro»: andai da lei non per far cambiare idea a Beppino né per altro, solo perché mi era sembrato giusto farlo.
Come mai lei ha accettato di raccontare tutto questo solamente adesso?
Beppino sa che io non avrei mai detto nulla e l’ha visto finora. Però è giunto il momento di dare voce a Eluana.
Un’ultima domanda, Margherita: ha speranze per Eluana?
La prima volta andai a trovarla nel novembre scorso: le promisi che sarei tornata per Natale e Beppino, certo e tranquillo, mi disse: «A Natale non ci sarà più». Io le sussurrai nell’orecchio sotto voce « non ti preoccupare, ci rivediamo » e così poi è stato.