Nella rassegna stampa di oggi:
1) BIOETICA/ Pellegrino: attenzione alle idee distorte di felicità e libertà - Edmund Pellegrino - lunedì 16 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
2) FINE VITA/ No al referendum - Mario Mauro - lunedì 16 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
3) SPAGNA/ Si accende la sfida su aborto ed eutanasia - Redazione - lunedì 16 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
4) TESTIMONI/ 007 al servizio della verità. Una raccolta di inediti sulla vita di Vasilij Grossman - INT. John e Carol Garrard - lunedì 16 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
5) Don Giussani: l’amico a fianco nel viaggio della vita - Don Massimo Camisasca parla del fondatore di Comunione e Liberazione - di Antonio Gaspari
6) Leggere secondo il metodo di san Paolo - Il rapporto con la Parola poetica in un “critico letterario” atipico
7) L’emergenza educazione è un problema sociale urgente - Autore: Salina, Giorgio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 16 febbraio 2009
8) La sussidiarietà e i sentimenti dei padroncini - Aldo Bonomi - martedì 17 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
9) La corrente di simpatia e di affetto del cristianesimo verso l’ebraismo ha ormai radici solide e secolari e non saranno alcune contraddizioni a fermarne la diffusione - Sinagoga e Chiesa uniti dalla bioetica - DI PAOLO SORBI – Avvenire, 17 febbraio 2009
BIOETICA/ Pellegrino: attenzione alle idee distorte di felicità e libertà - Edmund Pellegrino - lunedì 16 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
All'indomani del triste epilogo della vicenda di Eluana Englaro rimangono molti gli interrogativi aperti sui temi cruciali della bioetica. Eutanasia, aborto, sperimentazioni genetiche sono temi difficili da normare che interrogano la coscienza individuale e dividono la coscienza collettiva della società travalicando i vecchi schemi di "destra e sinistra", come di "cattolici e laici". Ilsussidiario.net ha raggiunto Edmund Pellegrino, capo del Consiglio di Bioetica del presidente Barack Obama, e prima di George W. Bush, chiedendogli di rispondere dall'alto della sua esperienza ad alcuni interrogativi. Pubblichiamo in esclusiva il suo intervento.
La Bioetica è una scienza che viene vista spesso come un insieme di divieti e ostacoli all'autodeterminazione dell'essere umano. Qual è la corretta relazione tra la bioetica, la libertà e l'umana ricerca della felicità? Crede che i temi della bioetica (aborto, eutanasia ...) riguardino solo la coscienza personale o l'intera società? Perchè?
La bioetica è un ramo dell’etica e di conseguenza le sue limitazioni alla libertà umana sono limitazioni morali, che non devono essere confuse con la legge, gli usi o le convenzioni sociali. La bioetica non è quindi una nuova disciplina, ma una nuova applicazione di un’antichissima disciplina, l’etica, a quel settore degli atti umani associati all’uso della biotecnologia nelle questioni dell’uomo o più in generale nella biosfera.
Parlare quindi, come implicherebbe il quesito proposto, di “bioetica” che pone “ostacoli alla libera determinazione degli esseri umani” significa spostare la fonte di questi “ostacoli. Questi cosiddetti “ostacoli” derivano dal fatto che la bioetica ha per oggetto, come deve avere ogni sistema etico, ciò che è giusto e sbagliato, ciò che è bene e male nella condotta umana. Un’etica che non ponesse restrizioni alla libertà umana non sarebbe etica, sarebbe semplicemente licenza, autorizzando qualsiasi cosa che si avesse voglia di fare. Questa è delinquenza morale. E conduce solo alla ricerca di un paradiso tecnologico libero da malattia e morte, o di illimitata licenza.
La filosofia morale sulla quale si fonda la bioetica determina la natura, i livelli di flessibilità e di responsabilizzazione derivanti dalle restrizioni morali imposte dalla bioetica. Queste limitazioni possono derivare da varie teorie morali, teoria della virtù, deontologia, consequenzialismo, situazionismo e altre. Le limitazioni alla “libertà” di cui al quesito proposto, sono limitazioni a danneggiare altre persone nel perseguimento senza limiti della propria personale libertà. La bioetica non è stata concepita per limitare la libertà, ma per stabilire se vi devono essere dei limiti, perché e in quale modo le questioni devono essere decise.
Nel 1947, la Dichiarazione dei Diritti Umani delle Nazioni Unite ha affermato la dignità della persona umana come suo primo principio. Nel 2005, il Comitato Internazionale di Bioetica dell’Unesco ha dichiarato la dignità della persona umana come primo principio della bioetica. Queste due dichiarazioni indicano che, anche nella nostra odierna società secolarizzata, il riconoscimento della intrinseca dignità della persona umana rimane il fondamento per i nostri obblighi e doveri verso gli altri esseri umani.
Piuttosto che “ostacoli” alla libertà umana, le norme etiche sono sforzi per mantenere in equilibrio il bene della ricerca e della tecnologia con il bene degli uomini in quanto uomini. L’etica in generale e la bioetica in particolare sono perciò protezioni della libertà. L’etica in generale e la bioetica in particolare sono quindi non “ostacoli”, bensì guide al giusto uso delle biotecnologie.
Il quesito posto include la relazione tra bioetica e libertà umana e sottintende quindi la questione del miglioramento dell’umano. Di nuovo, le limitazioni non sono imposte dalla “bioetica”, ma dagli aspetti etici che sorgono quando si usano le moderne biotecnologie per andare oltre la terapia. Se questo è un passo verso la “felicità” o la ricerca interminabile di una nozione distorta di felicità è una discussione aperta, che merita una indagine critica e sistematica.
Il Consiglio di Bioetica del Presidente ha affrontato questo tema come materia di importanza etica privata e pubblica1. Il punto in questione non è che la bioetica causa ostacoli alla felicità, ma che non sappiamo se questi miglioramenti promuovono la felicità.
Interventi che correggono deformazioni fisiche, migliorano le capacità funzionali o favoriscono uguaglianza di opportunità sembrerebbero meritare l’approvazione sotto il profilo etico. Quelli diretti a ottenere vantaggi ingiusti, che danneggiano i poveri o nutrono fantasie di superuomini sono eticamente scorretti. La risposta a queste domande va ben oltre la ingenua contrapposizione tra bioetica e ricerca della felicità.
Lo stesso discorso si può applicare ad un altro aspetto, pure implicato, e cioè: vi sono cose o esperimenti che non dovrebbero essere mai fatti? La limitazione della sperimentazione su base etica non è “anti-scienza”, ma è contro lo scientismo. Il potere della biotecnologia è tale che le limitazioni della bioetica sono necessarie, se l’umanità non vuol essere sopraffatta dalla sua stessa ingegnosità.
Infine, è ormai evidente che le questioni di bioetica coinvolgono l’intera società, anzi la società globale, perché i confini nazionali sono permeabili sia all’etica che alla tecnologia. Siamo ora testimoni, e lo saremo ancor più in futuro, di un impegno di tutto il mondo su questi temi. Nella bioetica, in futuro, sarà sempre più necessaria l’attenzione per l’etica altrettanto che per la biologia: se non si raggiungerà una corretta relazione tra questi due elementi, scienza ed etica soffriranno entrambe e diventeremo prigionieri di una inutile guerra tra tecnologia ed etica.
1 Beyond Therapy: Biotechnology and the Pursuit of Happiness, A report of the President’s Council on Bioethics, October 2003
Le opinioni qui espresse sono dell’Autore e non rappresentano le opinioni del President’s Council on Bioethics (Consiglio presidenziale sulla bioetica)
FINE VITA/ No al referendum - Mario Mauro - lunedì 16 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
L’allarme è stato lanciato e ora non possiamo dire di non essere stati avvertiti per tempo. Si vocifera addirittura di una mobilitazione preventiva: se non venisse varata una legge sul fine vita secondo i criteri di chi, sostenendo le presunte volontà dei malati, ha mandato a morte una donna per fame e per sete, in Italia si parlerebbe già di referendum. Così ha tuonato quella parte dell’opposizione che da anni si batte per introdurre l’eutanasia come pratica legale anche nel nostro Paese.
Il referendum diventerebbe così l’arma principale per introdurre ciò che il nostro diritto non prevede, se non riuscissero gli sforzi dei paladini delle presunte libertà di modificare in sede parlamentare il disegno di legge che la maggioranza sta preparando sul testamento biologico. L'affondo contro l’attuale disegno di legge arriva da Ignazio Marino, senatore del Pd che tanto strenuamente si è impegnato per sostenere le tesi dei supporter delle supposte libertà individuali nel caso Englaro, e che ha guidato, fino a pochi giorni, fa i democratici in commissione Sanità.
Ma la prospettiva di una consultazione popolare è solo l’ultimo dei ricatti di questa menzognera battaglia per la difesa della cosiddetta libertà di scelta. Marino ha garantito di essere pronto a fare di tutto per “cancellare” il provvedimento qualora diventasse legge, fino a spingersi a prevedere la necessità “di un referendum abrogativo” se il disegno di legge passasse così com'é.
Quello che auspicano Marino e compagni è di spostare lo scontro dalle aule delle Camere e portarlo nelle piazze alimentando, o volendo provocare, una spaccatura profonda tra due diverse visioni sulle questioni del fine vita. L’impegno di una certa parte dell’opposizione non è concentrato sull’apporto di contributi per varare una buona legge ed eventualmente proporre possibili emendamenti, ma alimentare uno sterile dibattito, di cui il Paese in questo momento cruciale, francamente, non sente la necessità.
Il referendum sarebbe solo un'altra grande sconfitta per il Pd. La questione legata a nutrizione e idratazione artificiale è divenuta il vessillo di una battaglia culturale che adotta ogni mezzo per sovvertire l’ordinamento italiano e che, qualora venisse usato per attaccare i valori di democrazia, come il diritto alla vita, alle cure e alla salute, si ritorcerebbe contro, arrivando a dilaniare il popolo della formazione di centrosinistra.
Vediamo di fare chiarezza nei termini, perché per comprendere la complessità del reale, soprattutto per chi fa politica e dovrebbe legiferare nell’interesse dei cittadini e impegnarsi per il bene comune, occorre conoscere fino in fondo l’oggetto di cui si discute e, poi, agire di conseguenza. L’eutanasia diretta consiste nel mettere fine, con un atto o un’omissione di un’azione dovuta, alla vita di persone disabili, ammalate o prossime alla morte. Nel caso di Eluana è accaduto qualcosa di ancora più grave.
Con l’introduzione dei cosiddetti nuovi diritti, verrebbero sminuiti i diritti dei malati e passerebbe un messaggio molto triste e cioè che una vita “non piena” non è degna di essere vissuta. Come dire che l’esistenza di un handicappato ha un minore valore.
Le cure che d’ordinario sono dovute a una persona ammalata non possono essere legittimamente interrotte. Se è legittimo procedere a strumenti di controllo del dolore per alleviare le sofferenze dei malati o la rinuncia all’accanimento terapeutico, cioè all’utilizzo di procedure mediche sproporzionate e senza una ragionevole speranza di esito positivo, non può essere accettata la soppressione di un essere umano, fine che risulta ancora più atroce se avvenuta per fame e per sete quando sono state date per certe volontà non verificate.
Non sembra un caso che, di fronte a questa ingiusta sentenza, i sostenitori delle “volontà” di Eluana non abbiano avuto il coraggio di chiamare le cose con il loro nome. Mai la parola eutanasia è stata nominata.
Serve, allora, una legge, che vieti la morte per fame e per sete. L’acqua e il pane non sono terapie, sono un diritto. La dignità della persona e del malato, in particolar modo, devono venire prima delle sentenze dei giudici e dei diktat di certi medici.
In un passaggio la “Gaudium et spes”, uno dei principali documenti prodotti dal Concilio Vaticano II, definisce «deplorevoli certi atteggiamenti» di coloro che «per non avere sufficientemente percepito la legittima autonomia della scienza suscitano contese e controversie e pervertono molti spiriti a tal punto da farli ritenere che scienza e fede si oppongano tra loro. […] Tutti quelli che credono in Dio avvertono la falsità di tali opinioni. La creatura, infatti, senza il Creatore svanisce».
A una settimana dalla morte di Eluana Englaro, queste parole ridanno speranza a coloro che si battono affinché le menzogne non vengano più spacciate per verità. I sostenitori dei “nuovi diritti” ascoltino e traggano le loro conclusioni.
SPAGNA/ Si accende la sfida su aborto ed eutanasia - Redazione - lunedì 16 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
Mentre stanno per essere presentate le conclusioni della sottocommissione sull’aborto, il gruppo editoriale Prisa cerca già di spingere a una legislazione sull’eutanasia dopo il caso di Eluana Englaro. Due facce della stessa medaglia, con lo stesso protagonista.
Alla battaglia di Garzón contro il Partido Popular sul presunto caso di corruzione, il Governo ha aggiunto un nuovo alleato per calmare l’opinione pubblica alle prese con una situazione economica complicata. Il partito di governo vuole autorizzare le ragazze di 16 anni ad abortire senza il consenso dei genitori. L’Esecutivo pretende di agire come uno pseudo-padre libertino per dire sì alle giovani che non vogliono avere un figlio indesiderato.
Un ulteriore punto del cerchio al cui centro c’è la creazione di un programma ridotto della vita. Cosa può pensare una giovane adolescente a cui dicano che la vita del figlio indesiderato è a sua completa disposizione? Cosa farà se non avrà chi le spieghi, chi le faccia sperimentare che la vita è un dono? Ancora una volta, senza un popolo che educhi e che incarni la bontà di ciò che difende, la risposta sarà scontata.
Ma all’aborto si aggiunge ora - sebbene dicano che al momento il tema non si tocca - il dibattito sull’eutanasia. La domanda sociale, secondo l’Esecutivo, è l’argomento perno della decisione di trattare questi temi. L’eutanasia non era contemplata nel programma elettorale, ma dallo scorso venerdì Eluana Englaro è diventata una bandiera per agitare il tema.
Appellarsi alla domanda sociale è una falsa retorica per giustificare l’applicazione di un progetto politico. Un progetto che non a caso ha alcuni particolari portavoce. Parlano dei casi che contribuiscono alla causa che si sostiene e tacciono quelli che provano il contrario. Proprio quelli più umani.
(Roberto de la Cruz)
TESTIMONI/ 007 al servizio della verità. Una raccolta di inediti sulla vita di Vasilij Grossman - INT. John e Carol Garrard - lunedì 16 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
Esce in Italia per Marietti 1820 Le ossa di Berdicev, l’unica vera biografia di Vasilij Grossman (1905-1964), l’autore di Vita e destino, uno dei romanzi più belli e ignorati del XX secolo. Gli autori sono una coppia di studiosi americani, i coniugi John e Carol Garrard, che hanno sacrificato a questa ricerca quasi dieci anni, passati negli archivi per ricostruire giorno per giorno la vita di Grossman. Ne è risultato un affresco dell’intera storia sovietica, inquietante per la descrizione del potere, commovente per la fragilità e la grandezza degli uomini che in qualche modo vi hanno resistito.
Gli studiosi di Grossman – che si riuniranno a Torino dal 19 al 21 febbraio per il secondo Convegno Internazionale – hanno sempre storie particolari. Tanto per cominciare perché bisogna sapere il russo, e poi perché occorre amare i dissidenti non ideologicamente. L’intersezione dei due insiemi, nell’ambiente intellettuale di tutto il mondo, è una piccola cerchia di studiosi dalla personalità marcata e con giudizi taglienti.
Perché avete cominciato a occuparvi di Grossman?
È cominciato tutto nel 1988 a Mosca. Eravamo seduti nella cucina dell’appartamento del noto critico letterario Benedikt Sarnov. È stato lui a chiedere a John di scrivere su Vasilij Grossman, perché nessun altro avrebbe potuto farlo: ai russi era proibito perché Grossman ufficialmente era una non-persona. John era uno studioso accademico ben conosciuto ed accreditato e, per di più, conosceva il russo quasi come un madre lingua grazie agli anni passati nei servizi segreti inglesi. Con la sua conoscenza della lingua poteva cercare di ottenere il permesso per consultare gli archivi, avere accesso ai documenti e fare le interviste. Quando abbiamo rivisto Sarnov, tre anni fa al convegno di Torino, abbiamo capito di aver mantenuto la promessa.
Grossman ha avuto una vita complessa: è stato lo scrittore di regime, il giornalista amico dei soldati, l’autore di un romanzo sequestrato perché «più pericoloso della bomba atomica», come gli disse Suslov, il garante dell’ortodossia sovietica. Alla fine dei vostri studi che idea vi siete fatti: Grossman era il debole firmatario della petizione contro gli ebrei, l’eroico reporter di Stalingrado o l’ebreo solitario e dissidente?
È stato tutte queste cose insieme: lo scrittore di regime, l’eroico giornalista dell’Armata Rossa, l’uomo solitario che sul letto di morte ha rivendicato la sua identità ebraica. Non era un santo: sosteneva i “valori familiari”, eppure per due volte ha avuto relazioni con mogli dei suoi amici. Ma era un uomo coraggioso, che ha camminato tra le fiamme del proprio secolo ed è venuto fuori con l’anima intatta.
Non è stato una spia, non è stato un informatore, non è stato un traditore. Era un uomo di estremo coraggio, fisico e morale. Ha mantenuto la sua umanità, mentre egli stesso veniva minacciato e spiato dallo stato sovietico, e veniva denunciato e tradito dalla gente in cui lui confidava, incluse le persone più vicine.
Per quanto complicata e ambigua sia stata la sua esistenza egli è stato innanzi tutto e soprattutto un uomo d’onore.
Qual è l’episodio per voi più significativo e sintetico della vita di Grossman?
Senza dubbio l’episodio più significativo della vita di Grossman è stato l’assassinio della madre, Ekaterina Vasil’evna, avvenuto insieme a quello di altri 20.000 ebrei tra il 15 e il 16 settembre 1941 a Berdicev, la città natale dello scrittore.
Per tutta la vita Grossman ha rivissuto nella sua mente quei giorni orribili. Incolpava se stesso di non aver agito con decisione per riportare la madre a Mosca. Per questo divenne un altro uomo: l’uomo di estremo coraggio fisico che quasi cercava la morte nei combattimenti di Stalingrado. A sua madre è dedicato il suo capolavoro, Vita e destino. Alla fine della vita stava ancora pensando a lei chiedendo di essere sepolto in un cimitero ebraico. Morì il 14 settembre, per Grossman la vigilia del giorno più terribile di ogni anno. Berdicev è il filo che tiene insieme le complicate matasse della sua vita.
Di Vita e destino impressiona la sensibilità a ogni aspetto della realtà. Da dove gli veniva questa profonda sincerità con la realtà?
La sincerità di Grossman deriva dalla sua libertà interiore. Aveva perso il rispetto per se stesso perché, cedendo alla moglie, allo scoppio della guerra non era corso a Berdicev a prendere la madre per portarla a Mosca. Saputa la morte della madre, non gli rimaneva più niente da perdere. Cambiò letteralmente vita: la vita dell’uomo dei compromessi e del carrierista che voleva farsi strada nell’URRS. Per dirla con le parole del suo alter ego in Vita e destino, Viktor, volle dimostrare di avere “un po’ della tua forza, Mamma”. Da quel momento cercò di dire la verità sull’olocausto e sull’esperienza dei suoi commilitoni, i soldati ordinari dell’Armata Rossa, gli “Ivan” il cui coraggio a Stalingrado ha cambiato la storia. La sua sincerità deriva dal suo rifiuto del compromesso. Non gli importava più nulla eccetto la verità perché la persona che l’aveva amato incondizionatamente, sua madre, era morta e lui ne era colpevole. Il suo coraggio derivava dall’aver già sofferto il peggio: doveva spendere la vita per espiare la sua colpa.
In questa ricerca avete incontrato molte persone che hanno conosciuto, amato, odiato Grossman. Che cosa ha lasciato Grossman? Che cosa ha lasciato a voi?
A chi lo conobbe personalmente e a noi che l’abbiamo conosciuto tramite i libri Grossman ha lasciato un compito. Egli richiama tutti gli uomini d’onore alla battaglia finale della Seconda Guerra mondiale: la battaglia della memoria. Grossman dice di non dimenticare mai, andando avanti senza cedere né alle negazioni né all’angoscia che non si stempera in catarsi.
Dobbiamo farlo, perché anche noi abbiamo di fronte un secolo-lupo (per usare l’espressione di Mandelštam) e anche noi dobbiamo decidere se acquattarci zitti e buoni quando le scelte si fanno difficili oppure prendere le nostre responsabilità nella storia, per essere sicuri che le tragedie del XX secolo non si ripetano.
Personalmente, a Tucson noi facciamo gratuitamente delle conferenze sull’Olocausto e abbiamo costruito un databse delle vittime del ghetto di Brest-Litovsk (jewishgen.org/databases/brest/html). Ma il ruolo centrale lo gioca il Centro Studi Vita e Destino di Torino che, anche attraverso la traduzione del nostro libro, sta portando Grossman in tutto il mondo. La nostra speranza per il destino del mondo, anche quando saremo morti, è che il Centro Vita e Destino estenda a tutti il messaggio di Grossman, le sue risposte alle accorate domande dell’esistenza umana.
Don Giussani: l’amico a fianco nel viaggio della vita - Don Massimo Camisasca parla del fondatore di Comunione e Liberazione - di Antonio Gaspari
ROMA, domenica, 15 febbraio 2009 (ZENIT.org).- E’ appena arrivato in libreria il volume scritto da don Massimo Camisasca “Don Giussani: la sua esperienza dell'uomo e di Dio” (San Paolo, 2009, pp. 165, Euro 14).
Si tratta di una introduzione al pensiero di don Luigi Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione (CL), scomparso il 22 febbraio 2005. Una sorta di biografia spirituale, in cui si cerca di far conoscere il pensiero del sacerdote lombardo.
Secondo Camisasca, "Giussani è stato un genio, un genio dell'umano e della fede, ma soprattutto l'amico che avresti voluto trovare sul sedile accanto a te, durante il viaggio della vita".
Don Camisasca è stato per lungo tempo a fianco di don Giussani. I due erano insieme quando il fondatore di CL insegnava al liceo Berchet a Milano nel 1960.
Il libro inizia con un capitolo sulla vita di Giussani e spiega il suo pensiero, soprattutto il rapporto bellezza-verità. Nel volume viene esaminata poi la vocazione di educatore del sacerdote lombardo, mentre un’analisi particolare è dedicata alla catechesi fondamentale (il PerCorso) che Giussani offriva agli aderenti di CL.
Don Camisasca racconta anche la crisi del 1968 e il suo rapporto con la fine di Gioventù Studentesca e la nascita di CL nel 1969. Periodo in cui don Giussani individua, prima di altri, le radici nichiliste della contestazione in quello che ha chiamato “l'effetto Chernobyl" o "l'anoressia dell'umano".
Nell’insegnamento di don Giussani è forte la “passione per l’uomo” e l’indicazione della vita come vocazione. Da qui i concetti di santità, lavoro, preghiera, e i tre consigli evangelici (obbedienza, povertà, verginità) che il fondatore di CL propone come ideale per la vita di tutti, compresi gli sposati.
Gli ultimi capitoli raccontano della devozione di don Giussani per Maria e la Misericordia.
"La cosa più bella da dire – scriveva don Giussani – è che abbiamo ad essere misericordiosi, ad avere misericordia gli uni verso gli altri... di fronte a tutti i peccati della Terra sarebbe ovvio dire: ‘Dio distrugga questo mondo così!’. Invece Dio muore per un mondo così, diventa uomo e muore per gli uomini, tanto che questa misericordia rappresenta il senso ultimo del Mistero."
Per approfondire la conoscenza e gli insegnamenti di don Giussani, ZENIT ha intervistato
don Massimo Camisasca.
Qual è la ragione che l’ha spinto a scrivere questo libro?
Don Camisasca: Sono passati solo quattro anni dalla scomparsa di don Giussani, e la sua persona è più viva e più presente ora che mai, in mezzo a quelli che l'hanno conosciuto. C'è anche però un grande desiderio di poterlo conoscere, da parte di molti che non hanno avuto la possibilità di ascoltarlo o di vederlo, e che non conoscono le sue opere.
Il mio libro nasce qui, dal desiderio di poter fare incontrare don Giussani, soprattutto a coloro che non l'hanno ancora visto, incontrato, conosciuto. Per questo ho pensato di trarre dal lungo corso della mia vicinanza di lui e della mia frequentazione dei suoi scritti, una sintesi della sua esperienza, un racconto cronologico, certo, che andando a ripercorrere l'itinerario delle sue opere ce ne ridia lo spirito, la sensibilità e il pensiero.
Ci può descrivere brevemente la struttura del suo testo?
Don Camisasca: Ho cominciato dalle prime opere, quelle nate negli anni Cinquanta ancora prima della nascita del movimento di Comunione e Liberazione, quando era insegnante di teologia. Poi ho ripercorso l'itinerario dei primi testi di Gioventù Studentesca, e infine il "PerCorso" della scuola di comunità, a cui attendono migliaia e migliaia di persone con un ritmo settimanale o quindicennale.
Poi ho attinto alle opere più importanti, come “Il rischio educativo”, come “Si può vivere così”. Ho mostrato le linee della sua passione per Cristo e per la Chiesa, e anche il suo fondamentale ecumenismo, la sua apertura, e infine ho percorso gli ultimi anni della sua vita, la sua attenzione verso Maria, il suo desiderio di fare penetrare l'uomo nello sguardo con cui la madre guardava il figlio, strada fondamentale per arrivare fino a Gesù, e infine la rivelazione di Dio come misericordia, rivelazione conclusiva di tutta la sua esistenza, come è stato per Giovanni Paolo II.
C'è un punto centrale del suo pensiero, una chiave di lettura da indicare a chi si accosta per la prima volta a Giussani?
Don Camisasca: Dal libro si può notare quanto vari siano stati i temi affrontati da don Giussani, quante mutazioni siano avvenute nel suo linguaggio, all'interno di una traiettoria costante, che è stata quella di portare Gesù agli uomini, soprattutto ai giovani, e mostrare quanto questa persona sia affascinante, risolutiva e infine chiarificatrice per la vita di ogni uomo e di ogni donna.
Ho visto in don Giussani anche un precorritore del concilio Vaticano II, e dico questo non per apologetica sciocca, ma perché sono profondamente convinto di questa mia tesi. Come il Vaticano II, egli ha sentito profondamente il grande allontanamento che si stava creando fra la Chiesa e gli uomini, e quindi fra Cristo e gli uomini, e ha inteso lavorare perché questo allontanamento venisse superato, perché gli uomini potessero riscoprire il fascino della persona di Gesù e della sua proposta, perché la Chiesa potesse tornare ad albergare nel cuore delle persone non come un ospite autoritario sgradito, ma come una presenza che dà calore e intelligenza.
Cosa ha da dire questo libro alla Chiesa tutta?
Don Camisasca: Questo libro, che spero possa essere tradotto presto almeno nelle lingue fondamentali, traccia un itinerario di riforma della vita della Chiesa, che a mio parere può essere utile per le altre chiese europee, oltre all'Italia, ma anche per le situazioni come negli Stati Uniti, Canada e il Latino America, dove la Chiesa sta cercando le vie dell'evangelizzazione.
Leggere secondo il metodo di san Paolo - Il rapporto con la Parola poetica in un “critico letterario” atipico
ROMA, lunedì, 16 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un articolo a firma di padre di Antonio Spadaro, SJ, Redattore letterario de “La Civiltà Cattolica” e docente di “Introduzione all’esperienza della letteratura” presso la Pontificia Università Gregoriana, apparso sull’ottavo numero della rivista "Paulus" (febbraio 2009), dedicato al tema della bellezza.
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di Antonio Spadaro SJ
Il lettore di un testo letterario non è mai semplicemente il destinatario di un messaggio, quello cioè dello scrittore. Al contrario, è una persona attivamente coinvolta a inoltrarsi in un terreno poco stabile e definito, perché la letteratura, come giustamente ebbe a dire Carlo Bo, tende ad avere la stessa qualità della vita. Leggere non significa innanzitutto “interiorizzare” un testo, quanto piuttosto “interagire” con la pagina. L’atto della lettura è allora come un atto di “discernimento”, nel quale il lettore è implicato in prima persona come soggetto di lettura e, nello stesso tempo, oggetto di ciò che legge. Il lettore, leggendo un romanzo o un’opera poetica, in realtà vive l’esperienza di “essere letto” dalle parole che legge. Così il lettore è simile a un giocatore sul campo: egli fa il gioco, ma nello stesso tempo il gioco si fa attraverso di lui, nel senso che egli è totalmente preso dalla situazione che vive. È questa anche l’esperienza cristiana della letteratura che, a mio avviso, deve sempre avere come modello di riferimento la lettura della parola di Dio. Per i cristiani, tutte le parole umane vivono un’intrinseca nostalgia di Dio e tendono alla sua Parola. Lo ha scritto anni fa Karl Rahner: «La parola poetica invoca la parola di Dio».
Seguendo questo ragionamento, san Paolo diventa una guida praticamente imprescindibile. Basta ricordare gli Atti degli Apostoli, lì dove si parla della presenza di Paolo all’Areopago (At 17,16-34). In particolare Paolo, parlando di Dio, afferma: «In lui, infatti, viviamo, ci muoviamo ed esistiamo», come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto: «Poiché di lui stirpe noi siamo». In questo versetto sono presenti due citazioni: una indiretta nella prima parte, dove cita il poeta Epimenide (sec. VI a.C.), che riecheggia la triade platonica di vita-movimento-essere; e una diretta, dove cita i Fenomeni del poeta Arato di Soli (sec. III a.C.), che canta le costellazioni e i segni del buono e cattivo tempo.
Paolo, insomma, qui si rivela radicalmente “lettore” di poesia e lascia intuire il suo modo si accostarsi al testo letterario. Egli viene definito dagli ateniesi spermológos, cioè «cornacchia, chiacchierone, ciarlatano»... un vocabolo che però, alla lettera, significa «raccoglitore di semi». Quella che era certamente un’ingiuria sembra, paradossalmente, una verità profonda. Paolo, interagendo con quella manciata di versi letti chissà dove e chissà come, raccoglie i semi della poesia pagana e, uscendo da un precedente atteggiamento di profonda indignazione (At 17,16), giunge a riconoscere gli ateniesi come «religiosissimi» e vede in quelle pagine una vera e propria preparatio evangelica.
Si potrebbe dire allora che la parola veramente poetica partecipa analogicamente della parola di Dio, così come ce la presenta in maniera dirompente la Lettera agli Ebrei (4,12-13), probabilmente di un collaboratore di Paolo. Così dunque la parola poetica autentica «è vivente [zón: è viva, brulicante; è – come affermò lo scrittore statunitense H. D. Thoreau – così vera e forte da schiudersi come gemma a primavera] ed energica [energhés: non è “atto”, ma “potenza”, energia] e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; penetrante fino a dividere anima e spirito, articolazioni [cioè la spina dorsale] e midollo; capace di discernere [kriticós: la parola poetica è il vero “critico”! Se la parola è poetica essa stessa ha una funzione critica nei confronti della mia vita] sentimenti e pensieri. Non c’è creatura invisibile [aphanés: la parola poetica vede il mondo, vede tutto, non oscura, ma illumina anche il dettaglio più apparentemente trascurabile; il suo sguardo è aperto] davanti ad essa, ma tutto è nudo e vulnerabile ai suoi occhi». È tutta qui la capacità di penetrazione di un testo che muove la persona a un coinvolgimento pieno.
Come, allora, non avvertire in sintonia con la parola creativa della poesia la parafrasi di Baldovino di Canterbury (sec. XII): «Quando parla questa parola, le sue parole trapassano il cuore, come gli acuti dardi scagliati da un eroe. Entrano in profondità come chiodi battuti con forza e penetrano tanto dentro, da raggiungere le intimità segrete dell’anima». Del resto, Kafka, in una sua lettera all’amico Oscar Pollak, aveva scritto: «Se il libro che stiamo leggendo non ci sveglia con un pugno in testa, perché mai lo leggiamo? [...] un libro dev’essere un’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi.
L’emergenza educazione è un problema sociale urgente - Autore: Salina, Giorgio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 16 febbraio 2009
La cronaca ci riporta notizie di stupri, omicidi particolarmente efferati, giovani che perdono la vita per effetto dell’alcool e della droga, tangentopoli non è finita. Io non so se questi reati sono più o meno numerosi di prima (prima quando?). E francamente non mi interessano più di tanto le statistiche: in questo caso davvero il problema è un altro. Ne parliamo qui perché, come ha scritto don Gabriele Mangiarotti: «… io ho sempre creduto che si possa dare ad uno strumento così “strano” (e affascinante) come Internet un volto umano.» E perché no, farne strumento per umanizzare la società.
In risposta alla cronaca, in radio, in televisione e sui giornali cosa si sente e si legge? “In arrivo il decreto contro gli stupri”, “l’importante in discoteca è che uno resti sobrio per riportare a casa gli altri”, “non si può privare la Magistratura dello strumento delle intercettazioni.”
Saranno provvedimenti inevitabili, ma sono tutti palliativi che non solo non vanno alla radice, ma non scalfiscono neppure la superficie dei drammatici fenomeni che segnano la società. Società in cui continua ad essere affermato il relativismo, come criterio fondante: non esiste la verità, tutte le opinioni sono valide e vanno rispettate, e quindi ciascuno deve essere libero: libero di pensare ciò che vuole, libero di fare ciò che pare e piace. Certamente qualcuno dirà che non è vero, che c’è un limite nell’ugual diritto degli altri. Ma è un limite labile e che si sposta continuamente: ricordiamo il partito dei pedofili, consentito in un Paese civilissimo e maestro di democrazia!
Viviamo in una società che considera normali assurdità come queste:
In Scozia, in una azienda socio – sanitaria il Personale, per evitare discriminazioni, è stato invitato a non usare più i termini papà e mamma, bensì “tutore”.
Un ricco catering nella sua villa seicentesca, quella dove nonni, genitori e poi i figli hanno studiato da avvocati, camerieri in guanti bianchi, i migliori vini friulani: Eluana attendeva ancora sepoltura, l’altra sera, quando nelle campagne fuori Udine l’avvocato Campeis – il legale udinese della famiglia Englaro – ha imbandito la sua tavola per i giornalisti.«So già che mi mancherete molto; con questa cena vi voglio ringraziare per la vicinanza e la collaborazione che ci avete dato…». C’erano quasi tutti i colleghi della carta stampata, accolti con raffinatezza nel lusso di Villa Campeis. C’era finalmente Daniele Renzulli, figura storica del socialismo friulano, dicono il protagonista occulto dell’intera vicenda, e anche lui come gli altri ha alzato il calice: impresa giunta a buon fine. Non sono stati invitati i giornalisti di Avvenire e SAT 2000.
Caroline Petrie è un’infermiera inglese di 45 anni di Weston-Super-Mare, nel Somerset, appartenente alla chiesa battista e al servizio dei malati da più di vent’anni. Come riporta il Daily Mail del 2 febbraio 2009, è stata sospesa dal servizio perché, durante le sue visite a domicilio, ha offerto il sostegno cristiano a May Phippen; in pratica ha chiesto all’anziana paziente di 79 anni di poter dire una preghiera per la sua salute, la quale ha poi dichiarato: «Mi ha solo chiesto se volessi che pregasse per me. Io le ho detto di no, e lei è andata via. Tutto qua. Era la prima volta che la vedevo. Era una brava signora, gentile e premurosa. Spero che non la licenzino per una cosa del genere.»
La Delegazione del Parlamento europeo all’Assemblea annuale dei diritti dell’uomo, dell’ONU, per la quarta volta ha proposto la definizione di aborto come “diritto umano fondamentale”. Ricordiamo tutti quando ci dicevano che occorreva consentirlo per offrire un rimedio a pochi casi estremi; ciò che fanno ora con l’eutanasia!
In Francia in alcune scuole è stato distribuito un libretto dal titolo «Que belle famille avec deux papa.»
Dicendo ciò che sto per dire si passa per conservatori, anzi per reazionari, contrari al progresso: si siamo contrari a questo progresso perché siamo a favore dell’uomo, dell’uomo che saranno i nostri figli e i nostri nipoti. Anche passando per reazionari, occorre gridarlo dai tetti, perché è la grande emergenza di oggi: ciò che occorre è l’educazione, l’educazione basata sulla ricerca della verità; che c’è, eccome se c’è: ogni persona, unica ed irripetibile, con un bagaglio di speranze profonde, aspirazioni e desideri, riceve il dono della vita, attraversa questo mondo per un periodo più o meno lungo, quindi muore. Il problema è dare un senso a questa verità. Tutto il resto è menzogna, distrazione, annebbiamento: tempo perso.
Qualche conseguenza: l’obiettivo non è che uno per sera resti sobrio, è che nessuno si sbronzi e si droghi. L’importante non è autorizzare tante intercettazioni, è riaffermare come necessari valori fondanti. Ma in base a che cosa si ripropone il senso del dovere, il senso civico, la condanna dello stupido bullismo, diffuso a tutte le età, la non discriminazione, ecc.?
Per noi cristiani tutto ciò si concreta come conseguenza dell’incontro misterioso ma reale con la Via, la Verità e la Vita che ci ha affiancato e affascinato nel nostro cammino, e ci accompagna con la Comunità che Lui ha istituito e che abita, come ci insegnano grandi Maestri. Noi lo proponiamo ad ognuno; comunque sia, ciascuno trovi un motivo altrettanto esaustivo e radicale, per tornare a sani principi di convivenza civile, perché ne va del futuro di tutti.
«Abbiamo ricevuto da altri la vita, che si sviluppa e matura con le verità e i valori che apprendiamo nel rapporto e nella comunione con gli altri. In tal senso, la famiglia fondata sul matrimonio indissolubile fra un uomo e una donna esprime questa dimensione relazionale, filiale e comunitaria, ed è l’ambito dove l’uomo può nascere con dignità, e crescere e svilupparsi in maniera integrale. … Questo lavoro educativo si vede però ostacolato da un ingannevole concetto di libertà, in cui il capriccio e gli impulsi soggettivi dell’individuo vengono esaltati al punto da lasciare ognuno rinchiuso nella prigione del proprio io. … A tal fine, più che le teorie, sono necessari la vicinanza e l’amore caratteristici della comunità familiare. È nel focolare domestico che s’impara a vivere veramente, a valorizzare la vita e la salute, la libertà e la pace, la giustizia e la verità, il lavoro, la concordia e il rispetto.» [Benedetto XVI: discorso in collegamento televisivo al termine della Santa Messa a conclusione del VI Incontro Mondiale delle Famiglie a Città del Messico (18 gennaio 2009)]
Don Giussani, in uno dei suoi libri fondamentali, «Il rischio educativo» ci ha detto:
L’idea fondamentale di una educazione rivolta ai giovani è il fatto che attraverso di essi si ricostruisce una società; perciò il grande problema della società è innanzitutto educare i giovani (il contrario di quello che avviene adesso).
La prima preoccupazione di un’educazione vera e adeguata è quella di educare il cuore dell’uomo così come Dio l’ha fatto. La morale non è nient’altro che continuare l’atteggiamento in cui Dio crea l’uomo di fronte a tutte le cose e nel rapporto con esse, originalmente. Di tutto quello che si deve dire sull’educazione, a noi importano soltanto questi punti.
Seconda urgenza: il passato può essere proposto ai giovani solo se è presente dentro un vissuto presente che ne sottolinei la corrispondenza con le esigenze ultime del cuore. Vale a dire: dentro un vissuto presente che ne dia le ragioni di sé. Solo questo vissuto può proporre ed ha il diritto e il dovere di proporre la tradizione, il passato.
Sappiamo tutti che c’è il male nel mondo, e che la società dovrà continuare a perseguirlo per salvaguardarsi, ma soprattutto occorre che moralità, onestà, solidarietà tornino ad essere concetti sinceramente “onorati” per essere veramente uomini.
La sussidiarietà e i sentimenti dei padroncini - Aldo Bonomi - martedì 17 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
Dopo la botta fantasmagorica del denaro che produce denaro, come sempre nei momenti di difficoltà, l'Essere torna ai fondamenti. Da non confondere con i fondamentalismi dell'esaltazione acritica dell'economia reale.
Che fa immaginare a qualcuno che la merce possa produrre merce. Il capitalismo, il mercato, si sa, è fatto dall'intreccio di questi due elementi. Con in mezzo il sentire e i comportamenti dell'animale imprenditore, dell`homo faber. Dell'uomo artigiano, direbbe Sennet con il titolo del suo ultimo libro. Con la sussidiarietà, come arma contro la crisi, sostiene Giorgio Vittadini, presidente dell'omonima fondazione. Che ha supportato l'ipotesi indagando un campione di i.6oo aziende manifatturiere, per 1`80% piccole (da 15 a 5o addetti) e per il 20% medie (da 51 a 25o addetti). Collocandole nella loro antropologica radice territoriale.
Dove si forma la «sussidiarietà interna all`impresa, la capacità di guardare alla centralità della persona, alla sua libertà di intrapresa che si esprime come sistema direlazioni significative...». Quello che gli economisti più avveduti chiamano capitale sociale e che io, più banalmente in sociologese, chiamo i sentimenti dei padroncini. Che, sarà bene ricordarlo, si sono formati e consolidati non tanto dentro l`innovazione dall`alto del nostro capitalismo: il fordismo hard della Fiat, quello dolce e territoriale di Adriano Olivetti, e quello di Stato dell`Iri.
Ma in quell`innovazione dal basso del metalmezzadro, che ha prodotto il Nec, Nord Est Centro, dove Togliatti scriveva alle famiglie comuniste dell`Emilia di afferrare Proteo e il "bianco fiore" invitava e accompagnava l`esercito della Coldiretti verso la manifattura. In quel patto non scritto per cui l`innovazione dall`alto era seguita da Roma, quella dal basso, dalle autonomie locali: comuni, province e regioni. Dal basso, dove il sentire dei padroncini è stato il cemento dell`intraprendere sono nati interi paesi manifatturieri che si sono fatti distretti produttivi evolvendosi fino alla moderne filiere delle piattaforme territoriali che competono nella crisi. Che sarà bene aver presente che è globale non locale. Terranno duro e faranno argine i sentimenti dei padroncini? Basterà il loro orgoglioso non voler privilegi e aiuti ma più libertà e meno burocrazia amministrativa e fiscale? Così chiedono il 54,5% di loro e sono abbastanza d`accordo il restante 42,5%.
Basterà in tempi in cui per attraversare la crisi pare prevalere la domanda di più Stato e più con- trolli? Basterà fare welfare locale, la defiscalizzazione chiesta dal 30% di loro per le imprese che operano per scopi sociali? Terrà, in tempi di turbolenza, il motto "alleanza e non conflitto" tra imprenditori e lavoratori? Linguaggio praticato dal 43% con il consenso del 54% degli imprenditori. Tutti apparentemente convinti nell`esaltazione acritica di quel modello di cogestione dal basso dell`impresa, altro dalla cogestione dall`alto del capitalismo renano: grande impresa, grande banca, grande sindacato. Cogestione dal basso supportata da una contrattazione sindacale libera, territoriale, impresa per impresa. Il 36% è per la contrattazione salariale decentrata, il 58% è abbastanza d`accordo.
Essendo che, i sentimenti dei padroncini, la loro weltanschauungritìene siano coincidenti gli interessi del lavoratore con quelli dell`impresa per il 35% e un 60% è abbastanza d`accordo. In questo quadro i padroncini sono anche disponibili amettere mano al portafoglio. Sostengono che la valorizzazione del personale deve avvenire con risorse interne dell`impresa e non con il sostegno fiscale dello stato. Sono molto d`accordo il 39,5 % e abbastanza d`accordo il 57%. Quando il padroncino esce fuori dalle mura dell`impresa il sentire non cambia. Il rapporto con il cliente e con i fornitori, per quelli che sono in filiera, si basa in primo luogo sul rapporto umano e di fiducia per il 69% di loro. Nelle piattaforme produttive sono disponibili alle reti e alle relazioni tra imprese. Siano queste di rappresentanza 42%, di partecipazione ad unposto distrettuale 41%, o a partecipare a consorzi per competere nella globalizzazione 15,4%. Questo è il loro sentire.
Che si differenzia térritorialmente a secondo dell`influenza territoriale della lunga deriva di innovazione dall`alto o di innovazione dal basso in cui si sono formati i sentimenti dei padroncini. Nel Nord Ovest del fordismo è più forte la ricerca del soggetto ordinatore dall`alto, nel Nord Est del metalmezzadro e nell'Emilia dell'afferrare Proteo si esalta di più il disordine orizzontale del vitalismo dal basso. Più che alla contrapposizione tra Fiat e capitalismo molecolare ho l`impressione sia un dato culturale ed antropologico, come appunto sono i sentimenti. Di cui spero che si tenga conto nel nostro ragionare sul come attraversare e fare esodo dentro la crisi. Perché, se non capiti, i sentimenti dei padroncini possono diventare rancore. Che come ci spiegano i dizionari della lingua italiana prende coloro che credono di aver subito un torto o quelli che pensano non gli venga riconosciuto un merito. Il fare impresa, appunto.
(Pubblicato da Il Sole 24 Ore del 15 Febbraio 2009)
La corrente di simpatia e di affetto del cristianesimo verso l’ebraismo ha ormai radici solide e secolari e non saranno alcune contraddizioni a fermarne la diffusione - Sinagoga e Chiesa uniti dalla bioetica - DI PAOLO SORBI – Avvenire, 17 febbraio 2009
Quante volte mi son sentito ripetere, in indimenticabili colloqui con Giorgio La Pira a Firenze negli anni Settanta: «Chi se la prende con gli ebrei alla fine gli va sempre male…»; e sorrideva all’incalzare di domande che noi giovani, impegnati nella militanza cattolica dell’audace rinnovamento ecclesiale degli anni Sessanta, gli facevamo sui «segni dei tempi» e la teologia della storia. Due generazioni dell’amicizia ebraicocristiana si incontravano e si misuravano anche sulle drammatiche questioni mediorientali che già allora coinvolgevano intensamente il «sindaco santo» di Firenze. Nella comune scelta di apertura verso i «consanguinei» del Signore, gli eredi del popolo biblico, sortiti solo da una ventina d’anni dalle tragedie della Shoah. Così spontaneamente ha funzionato per decenni, quasi un «passaparola» diffuso da persona a persona, la corrente culturale di grandi amicizie verso le realtà ebraiche presenti in tutt’Europa. La scoperta della Casa d’Israele si propagò «come un fiume carsico», avrebbe poi detto il cardinal Journet. I drammi e le tragedie storiche e sociali europee del Novecento appena trascorso avrebbero accelerato i conseguenti mutamenti profondi nel clero e nelle elaborazioni teologiche, avrebbero spinto diffusivamente tutte le realtà cristiane, nelle istituzioni accademiche ed ecclesiali, verso un ripensamento globale delle interpretazioni religiose anti-giudaiche. Di «insegnamento del disprezzo quotidiano», come scrisse e disse il grande studioso francese di origine ebraica Jules Isaac, sia a Pio XII nel secondo dopoguerra e poi a Giovanni XXIII. Potremmo sintetizzare tutti i decenni preconciliari, queste intense correnti socio-culturali orientate all’aggiornamento cristiano ed all’amicizia ebraica, come ricerca del «mistero d’Israele». Mistero profondissimo, teologico, in una certa misura «cuore» del mistero della Chiesa. Da Jacques Maritain, ancora da Léon Bloy ai primi del Novecento, alle grandi esperienze francesi dell’alta cultura cattolica degli anni Venti e Trenta. Da lì provenivano quegli stimoli che Giorgio La Pira concretizzò poi negli anni Sessanta con straordinari «Incontri Mediterranei» con personaggi come Martin Buber, sapienti di un islam religioso e in quegli anni plurale, grandi ed indimenticabili teologi come Yves Congar e Jean Daniélou. Tutto questo crogiuolo di studi e di emozioni profonde confluì nel Concilio Vaticano II e diede un profilo straordinario di giovinezza e novità all’amicizia ebraicocristiana. Nei dibattiti appassionati dei Padri conciliari, il sigillo della riconciliazione venne dalla dichiarazione Nostra Aetate. In essa gli ebrei non furono più considerati come collettivamente responsabili della morte di Gesù e si dichiarò che una siffatta accusa era priva di fondamento, innanzitutto teologico. Non vanno neanche dimenticati, per i decisivi mutamenti empatici avvenuti nell’ultimo secolo – nelle relazioni tra queste due realtà che si sono colpite a vicenda con delazioni e fatti di sangue – anche i diffusi gesti di fraternità e simpatia che, nel corso dei secoli, sono intercorsi tra tanti cristiani, a tutti i livelli, e tanti figli d’Israele. Dispersi nella Galuth delle terre europee: rapporti di mutuo aiuto, di reciproca scoperta tra Sinagoga e Chiesa. Va segnalata un’originale rivista storica contemporanea triestina, Zakhor, in italiano significa «ricordo». Elaborata da storici di origine ebraica, tra tutti Giacomo Todeschini e la sua équipe, ha promosso ricerche, ricostruito minuziosamente episodi dell’aspetto positivo della convivenza che pur faticosamente c’è sempre stato nella storia sociale europea tra maggioranza cristiana e minoranze ebraiche. Questi difficili legami d’amicizia tra ebrei e cristiani sono anche ben documentati in un’altra rivista, Pardès, di area francofona, dove scrive il sociologo Shmuel Trigano. Nel corso degli ultimi 60 anni sono avvenuti colossali mutamenti che si sono concretizzati in documenti, centinaia di incontri ufficiali a tutti i livelli e da parte di tante Chiese cristiane in tutto l’Occidente. Le realtà storiche ebraiche, insomma, sono state avvicinate come parte integrante di una mai interrotta Alleanza con il Signore.
Gesù e le realtà dei primi secoli cristiani sono state esaminate come profondamente radicate, in un senso positivo, nelle dinamiche delle culture ebraiche osservanti, soprattutto verso il ramo farisaico, nell’ambito del periodo di ricostruzione del Secondo Tempio.
Insomma, la corrente di simpatia e affetto verso l’ebraismo ha ormai solide radici, non saranno alcune contraddizioni che ne potranno fermare la diffusività. C’è però, irrisolta, una questione che interpella in modo acuto oggi le relazioni ebraico-cristiane, quella che viene definita la «questione del cuore» delle realtà cristiane in questo dialogo così complesso.
Senza un intenso coinvolgimento psichico prima, poi con una razionalizzazione teologica, per la coscienza cristiana i «fratelli maggiori» resteranno, appunto, sempre e solo maggiori. Antenati dai quali ci si è scissi una volta per sempre. Molti, moltissimi cattolici sono restii, non hanno mutato il loro cuore. Non è certamente il problema di un antigiudaismo classico di ritorno, non di questo si tratta. Anche se resta presente nelle vicende emerse nelle ultime settimane, così definitivamente chiarite da Papa Ratzinger nell’incontro coi i rabbini americani di venerdì scorso. Benedetto XVI, all’inizio del suo pontificato, nella sinagoga di Colonia, nell’agosto del 2005, enucleò un vero e proprio programma della nuova fase del dialogo ebraico-cristiano. Basato sul grande valore del Decalogo consegnato a Mosè, parte integrante della Redenzione cristiana, in cui centrale è la «questione antropologica» scossa dagli impressionanti sviluppi delle forze produttive bio-tecnologiche, da formidabili possibilità di cura e di altrettante opzioni nell’attentare la vita sin dal suo concepimento.
Ecco l’invito del Pontefice di fronte al rabbino Teitelbaum ed alla comunità ebraica di quella città tedesca, dove lo sterminio biotecnologico nazista ed antisemita fu tremendo: «Stiamo uniti, facciamo insieme, parliamo se possibile insieme sui destini della persona umana sulla base del Decalogo».
Effettivamente, in quell’eccezionale incontro il Papa disse anche che c’è un livello teologico da affrontare, ricordando come nelle differenze «dobbiamo rispettarci a vicenda – aggiunse – e amarci». In Israele, sulla scorta anche di questi impulsi magisteriali, alcuni padri domenicani dell’Ècole Biblique
affrontano, da qualche anno, in modo inedito con numerosi rabbini ortodossi ed intellettuali israeliani i temi dell’Incarnazione, l’irreversibilità delle Promesse, le piste di una cristologia comprensibile dalle radici ebraiche, sino ai temi eucaristici senza nulla annacquare. Alla Domus Galilaeae
dei neocatecumenali, sul Monte delle Beatitudini, si susseguono continui incontri teologici col rabbinato di Gerusalemme sui temi del messianismo in collegamento con i destini della comune Terra Santa. È un lungo fiorire poi di iniziative, come da anni quella di Nevè Shalom fondata dal padre Bruno Hussar, tra gli ispiratori della dichiarazione conciliare sull’ebraismo. In quel luogo sono passati e passano migliaia di giovani israeliani e centinaia di arabo-israeliani e cristiani per apprendere le tecniche della nonviolenza col pieno accordo delle autorità di quel Paese. C’è il rilancio, da parte della Comunità delle Beatitudini, della
Maison Saint Isaïe fondata dal domenicano padre Marcel Dubois, recentemente scomparso, finissimo studioso dell’ebraismo, fattosi cittadino israeliano negli anni Sessanta e poi nominato preside di filosofia all’Università ebraica. Per non parlare della realtà del Biblicum dei gesuiti e della preziosa testimonianza del cardinal Martini.
Ancora, la Comunità di San Giacomo, dei cattolici di espressione ebraica che fa riferimento all’attuale Custode francescano padre Pizzaballa, alle tante opere pro-life che gli evangelici cristiani di provenienza nordamericana, amici dello Stato d’Israele, stanno realizzando in quel Paese. Allo scopo di accompagnare criticamente tutte le esperienze dell’ebraismo contemporaneo verso futuri compiti e traguardi per essere insieme «luce delle nazioni».
Da Maritain e Bloy agli straordinari «Incontri Mediterranei» di La Pira con Martin Buber e Congar...
Un crogiuolo di studi ed emozioni che confluì nel Concilio dandogli un profilo di giovinezza e novità Negli ultimi 60 anni sono avvenuti colossali mutamenti, concretizzati in documenti e incontri ufficiali con cui riconoscere nel giudaismo la parte integrante di una mai interrotta Alleanza con Dio
1) BIOETICA/ Pellegrino: attenzione alle idee distorte di felicità e libertà - Edmund Pellegrino - lunedì 16 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
2) FINE VITA/ No al referendum - Mario Mauro - lunedì 16 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
3) SPAGNA/ Si accende la sfida su aborto ed eutanasia - Redazione - lunedì 16 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
4) TESTIMONI/ 007 al servizio della verità. Una raccolta di inediti sulla vita di Vasilij Grossman - INT. John e Carol Garrard - lunedì 16 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
5) Don Giussani: l’amico a fianco nel viaggio della vita - Don Massimo Camisasca parla del fondatore di Comunione e Liberazione - di Antonio Gaspari
6) Leggere secondo il metodo di san Paolo - Il rapporto con la Parola poetica in un “critico letterario” atipico
7) L’emergenza educazione è un problema sociale urgente - Autore: Salina, Giorgio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 16 febbraio 2009
8) La sussidiarietà e i sentimenti dei padroncini - Aldo Bonomi - martedì 17 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
9) La corrente di simpatia e di affetto del cristianesimo verso l’ebraismo ha ormai radici solide e secolari e non saranno alcune contraddizioni a fermarne la diffusione - Sinagoga e Chiesa uniti dalla bioetica - DI PAOLO SORBI – Avvenire, 17 febbraio 2009
BIOETICA/ Pellegrino: attenzione alle idee distorte di felicità e libertà - Edmund Pellegrino - lunedì 16 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
All'indomani del triste epilogo della vicenda di Eluana Englaro rimangono molti gli interrogativi aperti sui temi cruciali della bioetica. Eutanasia, aborto, sperimentazioni genetiche sono temi difficili da normare che interrogano la coscienza individuale e dividono la coscienza collettiva della società travalicando i vecchi schemi di "destra e sinistra", come di "cattolici e laici". Ilsussidiario.net ha raggiunto Edmund Pellegrino, capo del Consiglio di Bioetica del presidente Barack Obama, e prima di George W. Bush, chiedendogli di rispondere dall'alto della sua esperienza ad alcuni interrogativi. Pubblichiamo in esclusiva il suo intervento.
La Bioetica è una scienza che viene vista spesso come un insieme di divieti e ostacoli all'autodeterminazione dell'essere umano. Qual è la corretta relazione tra la bioetica, la libertà e l'umana ricerca della felicità? Crede che i temi della bioetica (aborto, eutanasia ...) riguardino solo la coscienza personale o l'intera società? Perchè?
La bioetica è un ramo dell’etica e di conseguenza le sue limitazioni alla libertà umana sono limitazioni morali, che non devono essere confuse con la legge, gli usi o le convenzioni sociali. La bioetica non è quindi una nuova disciplina, ma una nuova applicazione di un’antichissima disciplina, l’etica, a quel settore degli atti umani associati all’uso della biotecnologia nelle questioni dell’uomo o più in generale nella biosfera.
Parlare quindi, come implicherebbe il quesito proposto, di “bioetica” che pone “ostacoli alla libera determinazione degli esseri umani” significa spostare la fonte di questi “ostacoli. Questi cosiddetti “ostacoli” derivano dal fatto che la bioetica ha per oggetto, come deve avere ogni sistema etico, ciò che è giusto e sbagliato, ciò che è bene e male nella condotta umana. Un’etica che non ponesse restrizioni alla libertà umana non sarebbe etica, sarebbe semplicemente licenza, autorizzando qualsiasi cosa che si avesse voglia di fare. Questa è delinquenza morale. E conduce solo alla ricerca di un paradiso tecnologico libero da malattia e morte, o di illimitata licenza.
La filosofia morale sulla quale si fonda la bioetica determina la natura, i livelli di flessibilità e di responsabilizzazione derivanti dalle restrizioni morali imposte dalla bioetica. Queste limitazioni possono derivare da varie teorie morali, teoria della virtù, deontologia, consequenzialismo, situazionismo e altre. Le limitazioni alla “libertà” di cui al quesito proposto, sono limitazioni a danneggiare altre persone nel perseguimento senza limiti della propria personale libertà. La bioetica non è stata concepita per limitare la libertà, ma per stabilire se vi devono essere dei limiti, perché e in quale modo le questioni devono essere decise.
Nel 1947, la Dichiarazione dei Diritti Umani delle Nazioni Unite ha affermato la dignità della persona umana come suo primo principio. Nel 2005, il Comitato Internazionale di Bioetica dell’Unesco ha dichiarato la dignità della persona umana come primo principio della bioetica. Queste due dichiarazioni indicano che, anche nella nostra odierna società secolarizzata, il riconoscimento della intrinseca dignità della persona umana rimane il fondamento per i nostri obblighi e doveri verso gli altri esseri umani.
Piuttosto che “ostacoli” alla libertà umana, le norme etiche sono sforzi per mantenere in equilibrio il bene della ricerca e della tecnologia con il bene degli uomini in quanto uomini. L’etica in generale e la bioetica in particolare sono perciò protezioni della libertà. L’etica in generale e la bioetica in particolare sono quindi non “ostacoli”, bensì guide al giusto uso delle biotecnologie.
Il quesito posto include la relazione tra bioetica e libertà umana e sottintende quindi la questione del miglioramento dell’umano. Di nuovo, le limitazioni non sono imposte dalla “bioetica”, ma dagli aspetti etici che sorgono quando si usano le moderne biotecnologie per andare oltre la terapia. Se questo è un passo verso la “felicità” o la ricerca interminabile di una nozione distorta di felicità è una discussione aperta, che merita una indagine critica e sistematica.
Il Consiglio di Bioetica del Presidente ha affrontato questo tema come materia di importanza etica privata e pubblica1. Il punto in questione non è che la bioetica causa ostacoli alla felicità, ma che non sappiamo se questi miglioramenti promuovono la felicità.
Interventi che correggono deformazioni fisiche, migliorano le capacità funzionali o favoriscono uguaglianza di opportunità sembrerebbero meritare l’approvazione sotto il profilo etico. Quelli diretti a ottenere vantaggi ingiusti, che danneggiano i poveri o nutrono fantasie di superuomini sono eticamente scorretti. La risposta a queste domande va ben oltre la ingenua contrapposizione tra bioetica e ricerca della felicità.
Lo stesso discorso si può applicare ad un altro aspetto, pure implicato, e cioè: vi sono cose o esperimenti che non dovrebbero essere mai fatti? La limitazione della sperimentazione su base etica non è “anti-scienza”, ma è contro lo scientismo. Il potere della biotecnologia è tale che le limitazioni della bioetica sono necessarie, se l’umanità non vuol essere sopraffatta dalla sua stessa ingegnosità.
Infine, è ormai evidente che le questioni di bioetica coinvolgono l’intera società, anzi la società globale, perché i confini nazionali sono permeabili sia all’etica che alla tecnologia. Siamo ora testimoni, e lo saremo ancor più in futuro, di un impegno di tutto il mondo su questi temi. Nella bioetica, in futuro, sarà sempre più necessaria l’attenzione per l’etica altrettanto che per la biologia: se non si raggiungerà una corretta relazione tra questi due elementi, scienza ed etica soffriranno entrambe e diventeremo prigionieri di una inutile guerra tra tecnologia ed etica.
1 Beyond Therapy: Biotechnology and the Pursuit of Happiness, A report of the President’s Council on Bioethics, October 2003
Le opinioni qui espresse sono dell’Autore e non rappresentano le opinioni del President’s Council on Bioethics (Consiglio presidenziale sulla bioetica)
FINE VITA/ No al referendum - Mario Mauro - lunedì 16 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
L’allarme è stato lanciato e ora non possiamo dire di non essere stati avvertiti per tempo. Si vocifera addirittura di una mobilitazione preventiva: se non venisse varata una legge sul fine vita secondo i criteri di chi, sostenendo le presunte volontà dei malati, ha mandato a morte una donna per fame e per sete, in Italia si parlerebbe già di referendum. Così ha tuonato quella parte dell’opposizione che da anni si batte per introdurre l’eutanasia come pratica legale anche nel nostro Paese.
Il referendum diventerebbe così l’arma principale per introdurre ciò che il nostro diritto non prevede, se non riuscissero gli sforzi dei paladini delle presunte libertà di modificare in sede parlamentare il disegno di legge che la maggioranza sta preparando sul testamento biologico. L'affondo contro l’attuale disegno di legge arriva da Ignazio Marino, senatore del Pd che tanto strenuamente si è impegnato per sostenere le tesi dei supporter delle supposte libertà individuali nel caso Englaro, e che ha guidato, fino a pochi giorni, fa i democratici in commissione Sanità.
Ma la prospettiva di una consultazione popolare è solo l’ultimo dei ricatti di questa menzognera battaglia per la difesa della cosiddetta libertà di scelta. Marino ha garantito di essere pronto a fare di tutto per “cancellare” il provvedimento qualora diventasse legge, fino a spingersi a prevedere la necessità “di un referendum abrogativo” se il disegno di legge passasse così com'é.
Quello che auspicano Marino e compagni è di spostare lo scontro dalle aule delle Camere e portarlo nelle piazze alimentando, o volendo provocare, una spaccatura profonda tra due diverse visioni sulle questioni del fine vita. L’impegno di una certa parte dell’opposizione non è concentrato sull’apporto di contributi per varare una buona legge ed eventualmente proporre possibili emendamenti, ma alimentare uno sterile dibattito, di cui il Paese in questo momento cruciale, francamente, non sente la necessità.
Il referendum sarebbe solo un'altra grande sconfitta per il Pd. La questione legata a nutrizione e idratazione artificiale è divenuta il vessillo di una battaglia culturale che adotta ogni mezzo per sovvertire l’ordinamento italiano e che, qualora venisse usato per attaccare i valori di democrazia, come il diritto alla vita, alle cure e alla salute, si ritorcerebbe contro, arrivando a dilaniare il popolo della formazione di centrosinistra.
Vediamo di fare chiarezza nei termini, perché per comprendere la complessità del reale, soprattutto per chi fa politica e dovrebbe legiferare nell’interesse dei cittadini e impegnarsi per il bene comune, occorre conoscere fino in fondo l’oggetto di cui si discute e, poi, agire di conseguenza. L’eutanasia diretta consiste nel mettere fine, con un atto o un’omissione di un’azione dovuta, alla vita di persone disabili, ammalate o prossime alla morte. Nel caso di Eluana è accaduto qualcosa di ancora più grave.
Con l’introduzione dei cosiddetti nuovi diritti, verrebbero sminuiti i diritti dei malati e passerebbe un messaggio molto triste e cioè che una vita “non piena” non è degna di essere vissuta. Come dire che l’esistenza di un handicappato ha un minore valore.
Le cure che d’ordinario sono dovute a una persona ammalata non possono essere legittimamente interrotte. Se è legittimo procedere a strumenti di controllo del dolore per alleviare le sofferenze dei malati o la rinuncia all’accanimento terapeutico, cioè all’utilizzo di procedure mediche sproporzionate e senza una ragionevole speranza di esito positivo, non può essere accettata la soppressione di un essere umano, fine che risulta ancora più atroce se avvenuta per fame e per sete quando sono state date per certe volontà non verificate.
Non sembra un caso che, di fronte a questa ingiusta sentenza, i sostenitori delle “volontà” di Eluana non abbiano avuto il coraggio di chiamare le cose con il loro nome. Mai la parola eutanasia è stata nominata.
Serve, allora, una legge, che vieti la morte per fame e per sete. L’acqua e il pane non sono terapie, sono un diritto. La dignità della persona e del malato, in particolar modo, devono venire prima delle sentenze dei giudici e dei diktat di certi medici.
In un passaggio la “Gaudium et spes”, uno dei principali documenti prodotti dal Concilio Vaticano II, definisce «deplorevoli certi atteggiamenti» di coloro che «per non avere sufficientemente percepito la legittima autonomia della scienza suscitano contese e controversie e pervertono molti spiriti a tal punto da farli ritenere che scienza e fede si oppongano tra loro. […] Tutti quelli che credono in Dio avvertono la falsità di tali opinioni. La creatura, infatti, senza il Creatore svanisce».
A una settimana dalla morte di Eluana Englaro, queste parole ridanno speranza a coloro che si battono affinché le menzogne non vengano più spacciate per verità. I sostenitori dei “nuovi diritti” ascoltino e traggano le loro conclusioni.
SPAGNA/ Si accende la sfida su aborto ed eutanasia - Redazione - lunedì 16 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
Mentre stanno per essere presentate le conclusioni della sottocommissione sull’aborto, il gruppo editoriale Prisa cerca già di spingere a una legislazione sull’eutanasia dopo il caso di Eluana Englaro. Due facce della stessa medaglia, con lo stesso protagonista.
Alla battaglia di Garzón contro il Partido Popular sul presunto caso di corruzione, il Governo ha aggiunto un nuovo alleato per calmare l’opinione pubblica alle prese con una situazione economica complicata. Il partito di governo vuole autorizzare le ragazze di 16 anni ad abortire senza il consenso dei genitori. L’Esecutivo pretende di agire come uno pseudo-padre libertino per dire sì alle giovani che non vogliono avere un figlio indesiderato.
Un ulteriore punto del cerchio al cui centro c’è la creazione di un programma ridotto della vita. Cosa può pensare una giovane adolescente a cui dicano che la vita del figlio indesiderato è a sua completa disposizione? Cosa farà se non avrà chi le spieghi, chi le faccia sperimentare che la vita è un dono? Ancora una volta, senza un popolo che educhi e che incarni la bontà di ciò che difende, la risposta sarà scontata.
Ma all’aborto si aggiunge ora - sebbene dicano che al momento il tema non si tocca - il dibattito sull’eutanasia. La domanda sociale, secondo l’Esecutivo, è l’argomento perno della decisione di trattare questi temi. L’eutanasia non era contemplata nel programma elettorale, ma dallo scorso venerdì Eluana Englaro è diventata una bandiera per agitare il tema.
Appellarsi alla domanda sociale è una falsa retorica per giustificare l’applicazione di un progetto politico. Un progetto che non a caso ha alcuni particolari portavoce. Parlano dei casi che contribuiscono alla causa che si sostiene e tacciono quelli che provano il contrario. Proprio quelli più umani.
(Roberto de la Cruz)
TESTIMONI/ 007 al servizio della verità. Una raccolta di inediti sulla vita di Vasilij Grossman - INT. John e Carol Garrard - lunedì 16 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
Esce in Italia per Marietti 1820 Le ossa di Berdicev, l’unica vera biografia di Vasilij Grossman (1905-1964), l’autore di Vita e destino, uno dei romanzi più belli e ignorati del XX secolo. Gli autori sono una coppia di studiosi americani, i coniugi John e Carol Garrard, che hanno sacrificato a questa ricerca quasi dieci anni, passati negli archivi per ricostruire giorno per giorno la vita di Grossman. Ne è risultato un affresco dell’intera storia sovietica, inquietante per la descrizione del potere, commovente per la fragilità e la grandezza degli uomini che in qualche modo vi hanno resistito.
Gli studiosi di Grossman – che si riuniranno a Torino dal 19 al 21 febbraio per il secondo Convegno Internazionale – hanno sempre storie particolari. Tanto per cominciare perché bisogna sapere il russo, e poi perché occorre amare i dissidenti non ideologicamente. L’intersezione dei due insiemi, nell’ambiente intellettuale di tutto il mondo, è una piccola cerchia di studiosi dalla personalità marcata e con giudizi taglienti.
Perché avete cominciato a occuparvi di Grossman?
È cominciato tutto nel 1988 a Mosca. Eravamo seduti nella cucina dell’appartamento del noto critico letterario Benedikt Sarnov. È stato lui a chiedere a John di scrivere su Vasilij Grossman, perché nessun altro avrebbe potuto farlo: ai russi era proibito perché Grossman ufficialmente era una non-persona. John era uno studioso accademico ben conosciuto ed accreditato e, per di più, conosceva il russo quasi come un madre lingua grazie agli anni passati nei servizi segreti inglesi. Con la sua conoscenza della lingua poteva cercare di ottenere il permesso per consultare gli archivi, avere accesso ai documenti e fare le interviste. Quando abbiamo rivisto Sarnov, tre anni fa al convegno di Torino, abbiamo capito di aver mantenuto la promessa.
Grossman ha avuto una vita complessa: è stato lo scrittore di regime, il giornalista amico dei soldati, l’autore di un romanzo sequestrato perché «più pericoloso della bomba atomica», come gli disse Suslov, il garante dell’ortodossia sovietica. Alla fine dei vostri studi che idea vi siete fatti: Grossman era il debole firmatario della petizione contro gli ebrei, l’eroico reporter di Stalingrado o l’ebreo solitario e dissidente?
È stato tutte queste cose insieme: lo scrittore di regime, l’eroico giornalista dell’Armata Rossa, l’uomo solitario che sul letto di morte ha rivendicato la sua identità ebraica. Non era un santo: sosteneva i “valori familiari”, eppure per due volte ha avuto relazioni con mogli dei suoi amici. Ma era un uomo coraggioso, che ha camminato tra le fiamme del proprio secolo ed è venuto fuori con l’anima intatta.
Non è stato una spia, non è stato un informatore, non è stato un traditore. Era un uomo di estremo coraggio, fisico e morale. Ha mantenuto la sua umanità, mentre egli stesso veniva minacciato e spiato dallo stato sovietico, e veniva denunciato e tradito dalla gente in cui lui confidava, incluse le persone più vicine.
Per quanto complicata e ambigua sia stata la sua esistenza egli è stato innanzi tutto e soprattutto un uomo d’onore.
Qual è l’episodio per voi più significativo e sintetico della vita di Grossman?
Senza dubbio l’episodio più significativo della vita di Grossman è stato l’assassinio della madre, Ekaterina Vasil’evna, avvenuto insieme a quello di altri 20.000 ebrei tra il 15 e il 16 settembre 1941 a Berdicev, la città natale dello scrittore.
Per tutta la vita Grossman ha rivissuto nella sua mente quei giorni orribili. Incolpava se stesso di non aver agito con decisione per riportare la madre a Mosca. Per questo divenne un altro uomo: l’uomo di estremo coraggio fisico che quasi cercava la morte nei combattimenti di Stalingrado. A sua madre è dedicato il suo capolavoro, Vita e destino. Alla fine della vita stava ancora pensando a lei chiedendo di essere sepolto in un cimitero ebraico. Morì il 14 settembre, per Grossman la vigilia del giorno più terribile di ogni anno. Berdicev è il filo che tiene insieme le complicate matasse della sua vita.
Di Vita e destino impressiona la sensibilità a ogni aspetto della realtà. Da dove gli veniva questa profonda sincerità con la realtà?
La sincerità di Grossman deriva dalla sua libertà interiore. Aveva perso il rispetto per se stesso perché, cedendo alla moglie, allo scoppio della guerra non era corso a Berdicev a prendere la madre per portarla a Mosca. Saputa la morte della madre, non gli rimaneva più niente da perdere. Cambiò letteralmente vita: la vita dell’uomo dei compromessi e del carrierista che voleva farsi strada nell’URRS. Per dirla con le parole del suo alter ego in Vita e destino, Viktor, volle dimostrare di avere “un po’ della tua forza, Mamma”. Da quel momento cercò di dire la verità sull’olocausto e sull’esperienza dei suoi commilitoni, i soldati ordinari dell’Armata Rossa, gli “Ivan” il cui coraggio a Stalingrado ha cambiato la storia. La sua sincerità deriva dal suo rifiuto del compromesso. Non gli importava più nulla eccetto la verità perché la persona che l’aveva amato incondizionatamente, sua madre, era morta e lui ne era colpevole. Il suo coraggio derivava dall’aver già sofferto il peggio: doveva spendere la vita per espiare la sua colpa.
In questa ricerca avete incontrato molte persone che hanno conosciuto, amato, odiato Grossman. Che cosa ha lasciato Grossman? Che cosa ha lasciato a voi?
A chi lo conobbe personalmente e a noi che l’abbiamo conosciuto tramite i libri Grossman ha lasciato un compito. Egli richiama tutti gli uomini d’onore alla battaglia finale della Seconda Guerra mondiale: la battaglia della memoria. Grossman dice di non dimenticare mai, andando avanti senza cedere né alle negazioni né all’angoscia che non si stempera in catarsi.
Dobbiamo farlo, perché anche noi abbiamo di fronte un secolo-lupo (per usare l’espressione di Mandelštam) e anche noi dobbiamo decidere se acquattarci zitti e buoni quando le scelte si fanno difficili oppure prendere le nostre responsabilità nella storia, per essere sicuri che le tragedie del XX secolo non si ripetano.
Personalmente, a Tucson noi facciamo gratuitamente delle conferenze sull’Olocausto e abbiamo costruito un databse delle vittime del ghetto di Brest-Litovsk (jewishgen.org/databases/brest/html). Ma il ruolo centrale lo gioca il Centro Studi Vita e Destino di Torino che, anche attraverso la traduzione del nostro libro, sta portando Grossman in tutto il mondo. La nostra speranza per il destino del mondo, anche quando saremo morti, è che il Centro Vita e Destino estenda a tutti il messaggio di Grossman, le sue risposte alle accorate domande dell’esistenza umana.
Don Giussani: l’amico a fianco nel viaggio della vita - Don Massimo Camisasca parla del fondatore di Comunione e Liberazione - di Antonio Gaspari
ROMA, domenica, 15 febbraio 2009 (ZENIT.org).- E’ appena arrivato in libreria il volume scritto da don Massimo Camisasca “Don Giussani: la sua esperienza dell'uomo e di Dio” (San Paolo, 2009, pp. 165, Euro 14).
Si tratta di una introduzione al pensiero di don Luigi Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione (CL), scomparso il 22 febbraio 2005. Una sorta di biografia spirituale, in cui si cerca di far conoscere il pensiero del sacerdote lombardo.
Secondo Camisasca, "Giussani è stato un genio, un genio dell'umano e della fede, ma soprattutto l'amico che avresti voluto trovare sul sedile accanto a te, durante il viaggio della vita".
Don Camisasca è stato per lungo tempo a fianco di don Giussani. I due erano insieme quando il fondatore di CL insegnava al liceo Berchet a Milano nel 1960.
Il libro inizia con un capitolo sulla vita di Giussani e spiega il suo pensiero, soprattutto il rapporto bellezza-verità. Nel volume viene esaminata poi la vocazione di educatore del sacerdote lombardo, mentre un’analisi particolare è dedicata alla catechesi fondamentale (il PerCorso) che Giussani offriva agli aderenti di CL.
Don Camisasca racconta anche la crisi del 1968 e il suo rapporto con la fine di Gioventù Studentesca e la nascita di CL nel 1969. Periodo in cui don Giussani individua, prima di altri, le radici nichiliste della contestazione in quello che ha chiamato “l'effetto Chernobyl" o "l'anoressia dell'umano".
Nell’insegnamento di don Giussani è forte la “passione per l’uomo” e l’indicazione della vita come vocazione. Da qui i concetti di santità, lavoro, preghiera, e i tre consigli evangelici (obbedienza, povertà, verginità) che il fondatore di CL propone come ideale per la vita di tutti, compresi gli sposati.
Gli ultimi capitoli raccontano della devozione di don Giussani per Maria e la Misericordia.
"La cosa più bella da dire – scriveva don Giussani – è che abbiamo ad essere misericordiosi, ad avere misericordia gli uni verso gli altri... di fronte a tutti i peccati della Terra sarebbe ovvio dire: ‘Dio distrugga questo mondo così!’. Invece Dio muore per un mondo così, diventa uomo e muore per gli uomini, tanto che questa misericordia rappresenta il senso ultimo del Mistero."
Per approfondire la conoscenza e gli insegnamenti di don Giussani, ZENIT ha intervistato
don Massimo Camisasca.
Qual è la ragione che l’ha spinto a scrivere questo libro?
Don Camisasca: Sono passati solo quattro anni dalla scomparsa di don Giussani, e la sua persona è più viva e più presente ora che mai, in mezzo a quelli che l'hanno conosciuto. C'è anche però un grande desiderio di poterlo conoscere, da parte di molti che non hanno avuto la possibilità di ascoltarlo o di vederlo, e che non conoscono le sue opere.
Il mio libro nasce qui, dal desiderio di poter fare incontrare don Giussani, soprattutto a coloro che non l'hanno ancora visto, incontrato, conosciuto. Per questo ho pensato di trarre dal lungo corso della mia vicinanza di lui e della mia frequentazione dei suoi scritti, una sintesi della sua esperienza, un racconto cronologico, certo, che andando a ripercorrere l'itinerario delle sue opere ce ne ridia lo spirito, la sensibilità e il pensiero.
Ci può descrivere brevemente la struttura del suo testo?
Don Camisasca: Ho cominciato dalle prime opere, quelle nate negli anni Cinquanta ancora prima della nascita del movimento di Comunione e Liberazione, quando era insegnante di teologia. Poi ho ripercorso l'itinerario dei primi testi di Gioventù Studentesca, e infine il "PerCorso" della scuola di comunità, a cui attendono migliaia e migliaia di persone con un ritmo settimanale o quindicennale.
Poi ho attinto alle opere più importanti, come “Il rischio educativo”, come “Si può vivere così”. Ho mostrato le linee della sua passione per Cristo e per la Chiesa, e anche il suo fondamentale ecumenismo, la sua apertura, e infine ho percorso gli ultimi anni della sua vita, la sua attenzione verso Maria, il suo desiderio di fare penetrare l'uomo nello sguardo con cui la madre guardava il figlio, strada fondamentale per arrivare fino a Gesù, e infine la rivelazione di Dio come misericordia, rivelazione conclusiva di tutta la sua esistenza, come è stato per Giovanni Paolo II.
C'è un punto centrale del suo pensiero, una chiave di lettura da indicare a chi si accosta per la prima volta a Giussani?
Don Camisasca: Dal libro si può notare quanto vari siano stati i temi affrontati da don Giussani, quante mutazioni siano avvenute nel suo linguaggio, all'interno di una traiettoria costante, che è stata quella di portare Gesù agli uomini, soprattutto ai giovani, e mostrare quanto questa persona sia affascinante, risolutiva e infine chiarificatrice per la vita di ogni uomo e di ogni donna.
Ho visto in don Giussani anche un precorritore del concilio Vaticano II, e dico questo non per apologetica sciocca, ma perché sono profondamente convinto di questa mia tesi. Come il Vaticano II, egli ha sentito profondamente il grande allontanamento che si stava creando fra la Chiesa e gli uomini, e quindi fra Cristo e gli uomini, e ha inteso lavorare perché questo allontanamento venisse superato, perché gli uomini potessero riscoprire il fascino della persona di Gesù e della sua proposta, perché la Chiesa potesse tornare ad albergare nel cuore delle persone non come un ospite autoritario sgradito, ma come una presenza che dà calore e intelligenza.
Cosa ha da dire questo libro alla Chiesa tutta?
Don Camisasca: Questo libro, che spero possa essere tradotto presto almeno nelle lingue fondamentali, traccia un itinerario di riforma della vita della Chiesa, che a mio parere può essere utile per le altre chiese europee, oltre all'Italia, ma anche per le situazioni come negli Stati Uniti, Canada e il Latino America, dove la Chiesa sta cercando le vie dell'evangelizzazione.
Leggere secondo il metodo di san Paolo - Il rapporto con la Parola poetica in un “critico letterario” atipico
ROMA, lunedì, 16 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un articolo a firma di padre di Antonio Spadaro, SJ, Redattore letterario de “La Civiltà Cattolica” e docente di “Introduzione all’esperienza della letteratura” presso la Pontificia Università Gregoriana, apparso sull’ottavo numero della rivista "Paulus" (febbraio 2009), dedicato al tema della bellezza.
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di Antonio Spadaro SJ
Il lettore di un testo letterario non è mai semplicemente il destinatario di un messaggio, quello cioè dello scrittore. Al contrario, è una persona attivamente coinvolta a inoltrarsi in un terreno poco stabile e definito, perché la letteratura, come giustamente ebbe a dire Carlo Bo, tende ad avere la stessa qualità della vita. Leggere non significa innanzitutto “interiorizzare” un testo, quanto piuttosto “interagire” con la pagina. L’atto della lettura è allora come un atto di “discernimento”, nel quale il lettore è implicato in prima persona come soggetto di lettura e, nello stesso tempo, oggetto di ciò che legge. Il lettore, leggendo un romanzo o un’opera poetica, in realtà vive l’esperienza di “essere letto” dalle parole che legge. Così il lettore è simile a un giocatore sul campo: egli fa il gioco, ma nello stesso tempo il gioco si fa attraverso di lui, nel senso che egli è totalmente preso dalla situazione che vive. È questa anche l’esperienza cristiana della letteratura che, a mio avviso, deve sempre avere come modello di riferimento la lettura della parola di Dio. Per i cristiani, tutte le parole umane vivono un’intrinseca nostalgia di Dio e tendono alla sua Parola. Lo ha scritto anni fa Karl Rahner: «La parola poetica invoca la parola di Dio».
Seguendo questo ragionamento, san Paolo diventa una guida praticamente imprescindibile. Basta ricordare gli Atti degli Apostoli, lì dove si parla della presenza di Paolo all’Areopago (At 17,16-34). In particolare Paolo, parlando di Dio, afferma: «In lui, infatti, viviamo, ci muoviamo ed esistiamo», come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto: «Poiché di lui stirpe noi siamo». In questo versetto sono presenti due citazioni: una indiretta nella prima parte, dove cita il poeta Epimenide (sec. VI a.C.), che riecheggia la triade platonica di vita-movimento-essere; e una diretta, dove cita i Fenomeni del poeta Arato di Soli (sec. III a.C.), che canta le costellazioni e i segni del buono e cattivo tempo.
Paolo, insomma, qui si rivela radicalmente “lettore” di poesia e lascia intuire il suo modo si accostarsi al testo letterario. Egli viene definito dagli ateniesi spermológos, cioè «cornacchia, chiacchierone, ciarlatano»... un vocabolo che però, alla lettera, significa «raccoglitore di semi». Quella che era certamente un’ingiuria sembra, paradossalmente, una verità profonda. Paolo, interagendo con quella manciata di versi letti chissà dove e chissà come, raccoglie i semi della poesia pagana e, uscendo da un precedente atteggiamento di profonda indignazione (At 17,16), giunge a riconoscere gli ateniesi come «religiosissimi» e vede in quelle pagine una vera e propria preparatio evangelica.
Si potrebbe dire allora che la parola veramente poetica partecipa analogicamente della parola di Dio, così come ce la presenta in maniera dirompente la Lettera agli Ebrei (4,12-13), probabilmente di un collaboratore di Paolo. Così dunque la parola poetica autentica «è vivente [zón: è viva, brulicante; è – come affermò lo scrittore statunitense H. D. Thoreau – così vera e forte da schiudersi come gemma a primavera] ed energica [energhés: non è “atto”, ma “potenza”, energia] e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; penetrante fino a dividere anima e spirito, articolazioni [cioè la spina dorsale] e midollo; capace di discernere [kriticós: la parola poetica è il vero “critico”! Se la parola è poetica essa stessa ha una funzione critica nei confronti della mia vita] sentimenti e pensieri. Non c’è creatura invisibile [aphanés: la parola poetica vede il mondo, vede tutto, non oscura, ma illumina anche il dettaglio più apparentemente trascurabile; il suo sguardo è aperto] davanti ad essa, ma tutto è nudo e vulnerabile ai suoi occhi». È tutta qui la capacità di penetrazione di un testo che muove la persona a un coinvolgimento pieno.
Come, allora, non avvertire in sintonia con la parola creativa della poesia la parafrasi di Baldovino di Canterbury (sec. XII): «Quando parla questa parola, le sue parole trapassano il cuore, come gli acuti dardi scagliati da un eroe. Entrano in profondità come chiodi battuti con forza e penetrano tanto dentro, da raggiungere le intimità segrete dell’anima». Del resto, Kafka, in una sua lettera all’amico Oscar Pollak, aveva scritto: «Se il libro che stiamo leggendo non ci sveglia con un pugno in testa, perché mai lo leggiamo? [...] un libro dev’essere un’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi.
L’emergenza educazione è un problema sociale urgente - Autore: Salina, Giorgio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 16 febbraio 2009
La cronaca ci riporta notizie di stupri, omicidi particolarmente efferati, giovani che perdono la vita per effetto dell’alcool e della droga, tangentopoli non è finita. Io non so se questi reati sono più o meno numerosi di prima (prima quando?). E francamente non mi interessano più di tanto le statistiche: in questo caso davvero il problema è un altro. Ne parliamo qui perché, come ha scritto don Gabriele Mangiarotti: «… io ho sempre creduto che si possa dare ad uno strumento così “strano” (e affascinante) come Internet un volto umano.» E perché no, farne strumento per umanizzare la società.
In risposta alla cronaca, in radio, in televisione e sui giornali cosa si sente e si legge? “In arrivo il decreto contro gli stupri”, “l’importante in discoteca è che uno resti sobrio per riportare a casa gli altri”, “non si può privare la Magistratura dello strumento delle intercettazioni.”
Saranno provvedimenti inevitabili, ma sono tutti palliativi che non solo non vanno alla radice, ma non scalfiscono neppure la superficie dei drammatici fenomeni che segnano la società. Società in cui continua ad essere affermato il relativismo, come criterio fondante: non esiste la verità, tutte le opinioni sono valide e vanno rispettate, e quindi ciascuno deve essere libero: libero di pensare ciò che vuole, libero di fare ciò che pare e piace. Certamente qualcuno dirà che non è vero, che c’è un limite nell’ugual diritto degli altri. Ma è un limite labile e che si sposta continuamente: ricordiamo il partito dei pedofili, consentito in un Paese civilissimo e maestro di democrazia!
Viviamo in una società che considera normali assurdità come queste:
In Scozia, in una azienda socio – sanitaria il Personale, per evitare discriminazioni, è stato invitato a non usare più i termini papà e mamma, bensì “tutore”.
Un ricco catering nella sua villa seicentesca, quella dove nonni, genitori e poi i figli hanno studiato da avvocati, camerieri in guanti bianchi, i migliori vini friulani: Eluana attendeva ancora sepoltura, l’altra sera, quando nelle campagne fuori Udine l’avvocato Campeis – il legale udinese della famiglia Englaro – ha imbandito la sua tavola per i giornalisti.«So già che mi mancherete molto; con questa cena vi voglio ringraziare per la vicinanza e la collaborazione che ci avete dato…». C’erano quasi tutti i colleghi della carta stampata, accolti con raffinatezza nel lusso di Villa Campeis. C’era finalmente Daniele Renzulli, figura storica del socialismo friulano, dicono il protagonista occulto dell’intera vicenda, e anche lui come gli altri ha alzato il calice: impresa giunta a buon fine. Non sono stati invitati i giornalisti di Avvenire e SAT 2000.
Caroline Petrie è un’infermiera inglese di 45 anni di Weston-Super-Mare, nel Somerset, appartenente alla chiesa battista e al servizio dei malati da più di vent’anni. Come riporta il Daily Mail del 2 febbraio 2009, è stata sospesa dal servizio perché, durante le sue visite a domicilio, ha offerto il sostegno cristiano a May Phippen; in pratica ha chiesto all’anziana paziente di 79 anni di poter dire una preghiera per la sua salute, la quale ha poi dichiarato: «Mi ha solo chiesto se volessi che pregasse per me. Io le ho detto di no, e lei è andata via. Tutto qua. Era la prima volta che la vedevo. Era una brava signora, gentile e premurosa. Spero che non la licenzino per una cosa del genere.»
La Delegazione del Parlamento europeo all’Assemblea annuale dei diritti dell’uomo, dell’ONU, per la quarta volta ha proposto la definizione di aborto come “diritto umano fondamentale”. Ricordiamo tutti quando ci dicevano che occorreva consentirlo per offrire un rimedio a pochi casi estremi; ciò che fanno ora con l’eutanasia!
In Francia in alcune scuole è stato distribuito un libretto dal titolo «Que belle famille avec deux papa.»
Dicendo ciò che sto per dire si passa per conservatori, anzi per reazionari, contrari al progresso: si siamo contrari a questo progresso perché siamo a favore dell’uomo, dell’uomo che saranno i nostri figli e i nostri nipoti. Anche passando per reazionari, occorre gridarlo dai tetti, perché è la grande emergenza di oggi: ciò che occorre è l’educazione, l’educazione basata sulla ricerca della verità; che c’è, eccome se c’è: ogni persona, unica ed irripetibile, con un bagaglio di speranze profonde, aspirazioni e desideri, riceve il dono della vita, attraversa questo mondo per un periodo più o meno lungo, quindi muore. Il problema è dare un senso a questa verità. Tutto il resto è menzogna, distrazione, annebbiamento: tempo perso.
Qualche conseguenza: l’obiettivo non è che uno per sera resti sobrio, è che nessuno si sbronzi e si droghi. L’importante non è autorizzare tante intercettazioni, è riaffermare come necessari valori fondanti. Ma in base a che cosa si ripropone il senso del dovere, il senso civico, la condanna dello stupido bullismo, diffuso a tutte le età, la non discriminazione, ecc.?
Per noi cristiani tutto ciò si concreta come conseguenza dell’incontro misterioso ma reale con la Via, la Verità e la Vita che ci ha affiancato e affascinato nel nostro cammino, e ci accompagna con la Comunità che Lui ha istituito e che abita, come ci insegnano grandi Maestri. Noi lo proponiamo ad ognuno; comunque sia, ciascuno trovi un motivo altrettanto esaustivo e radicale, per tornare a sani principi di convivenza civile, perché ne va del futuro di tutti.
«Abbiamo ricevuto da altri la vita, che si sviluppa e matura con le verità e i valori che apprendiamo nel rapporto e nella comunione con gli altri. In tal senso, la famiglia fondata sul matrimonio indissolubile fra un uomo e una donna esprime questa dimensione relazionale, filiale e comunitaria, ed è l’ambito dove l’uomo può nascere con dignità, e crescere e svilupparsi in maniera integrale. … Questo lavoro educativo si vede però ostacolato da un ingannevole concetto di libertà, in cui il capriccio e gli impulsi soggettivi dell’individuo vengono esaltati al punto da lasciare ognuno rinchiuso nella prigione del proprio io. … A tal fine, più che le teorie, sono necessari la vicinanza e l’amore caratteristici della comunità familiare. È nel focolare domestico che s’impara a vivere veramente, a valorizzare la vita e la salute, la libertà e la pace, la giustizia e la verità, il lavoro, la concordia e il rispetto.» [Benedetto XVI: discorso in collegamento televisivo al termine della Santa Messa a conclusione del VI Incontro Mondiale delle Famiglie a Città del Messico (18 gennaio 2009)]
Don Giussani, in uno dei suoi libri fondamentali, «Il rischio educativo» ci ha detto:
L’idea fondamentale di una educazione rivolta ai giovani è il fatto che attraverso di essi si ricostruisce una società; perciò il grande problema della società è innanzitutto educare i giovani (il contrario di quello che avviene adesso).
La prima preoccupazione di un’educazione vera e adeguata è quella di educare il cuore dell’uomo così come Dio l’ha fatto. La morale non è nient’altro che continuare l’atteggiamento in cui Dio crea l’uomo di fronte a tutte le cose e nel rapporto con esse, originalmente. Di tutto quello che si deve dire sull’educazione, a noi importano soltanto questi punti.
Seconda urgenza: il passato può essere proposto ai giovani solo se è presente dentro un vissuto presente che ne sottolinei la corrispondenza con le esigenze ultime del cuore. Vale a dire: dentro un vissuto presente che ne dia le ragioni di sé. Solo questo vissuto può proporre ed ha il diritto e il dovere di proporre la tradizione, il passato.
Sappiamo tutti che c’è il male nel mondo, e che la società dovrà continuare a perseguirlo per salvaguardarsi, ma soprattutto occorre che moralità, onestà, solidarietà tornino ad essere concetti sinceramente “onorati” per essere veramente uomini.
La sussidiarietà e i sentimenti dei padroncini - Aldo Bonomi - martedì 17 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
Dopo la botta fantasmagorica del denaro che produce denaro, come sempre nei momenti di difficoltà, l'Essere torna ai fondamenti. Da non confondere con i fondamentalismi dell'esaltazione acritica dell'economia reale.
Che fa immaginare a qualcuno che la merce possa produrre merce. Il capitalismo, il mercato, si sa, è fatto dall'intreccio di questi due elementi. Con in mezzo il sentire e i comportamenti dell'animale imprenditore, dell`homo faber. Dell'uomo artigiano, direbbe Sennet con il titolo del suo ultimo libro. Con la sussidiarietà, come arma contro la crisi, sostiene Giorgio Vittadini, presidente dell'omonima fondazione. Che ha supportato l'ipotesi indagando un campione di i.6oo aziende manifatturiere, per 1`80% piccole (da 15 a 5o addetti) e per il 20% medie (da 51 a 25o addetti). Collocandole nella loro antropologica radice territoriale.
Dove si forma la «sussidiarietà interna all`impresa, la capacità di guardare alla centralità della persona, alla sua libertà di intrapresa che si esprime come sistema direlazioni significative...». Quello che gli economisti più avveduti chiamano capitale sociale e che io, più banalmente in sociologese, chiamo i sentimenti dei padroncini. Che, sarà bene ricordarlo, si sono formati e consolidati non tanto dentro l`innovazione dall`alto del nostro capitalismo: il fordismo hard della Fiat, quello dolce e territoriale di Adriano Olivetti, e quello di Stato dell`Iri.
Ma in quell`innovazione dal basso del metalmezzadro, che ha prodotto il Nec, Nord Est Centro, dove Togliatti scriveva alle famiglie comuniste dell`Emilia di afferrare Proteo e il "bianco fiore" invitava e accompagnava l`esercito della Coldiretti verso la manifattura. In quel patto non scritto per cui l`innovazione dall`alto era seguita da Roma, quella dal basso, dalle autonomie locali: comuni, province e regioni. Dal basso, dove il sentire dei padroncini è stato il cemento dell`intraprendere sono nati interi paesi manifatturieri che si sono fatti distretti produttivi evolvendosi fino alla moderne filiere delle piattaforme territoriali che competono nella crisi. Che sarà bene aver presente che è globale non locale. Terranno duro e faranno argine i sentimenti dei padroncini? Basterà il loro orgoglioso non voler privilegi e aiuti ma più libertà e meno burocrazia amministrativa e fiscale? Così chiedono il 54,5% di loro e sono abbastanza d`accordo il restante 42,5%.
Basterà in tempi in cui per attraversare la crisi pare prevalere la domanda di più Stato e più con- trolli? Basterà fare welfare locale, la defiscalizzazione chiesta dal 30% di loro per le imprese che operano per scopi sociali? Terrà, in tempi di turbolenza, il motto "alleanza e non conflitto" tra imprenditori e lavoratori? Linguaggio praticato dal 43% con il consenso del 54% degli imprenditori. Tutti apparentemente convinti nell`esaltazione acritica di quel modello di cogestione dal basso dell`impresa, altro dalla cogestione dall`alto del capitalismo renano: grande impresa, grande banca, grande sindacato. Cogestione dal basso supportata da una contrattazione sindacale libera, territoriale, impresa per impresa. Il 36% è per la contrattazione salariale decentrata, il 58% è abbastanza d`accordo.
Essendo che, i sentimenti dei padroncini, la loro weltanschauungritìene siano coincidenti gli interessi del lavoratore con quelli dell`impresa per il 35% e un 60% è abbastanza d`accordo. In questo quadro i padroncini sono anche disponibili amettere mano al portafoglio. Sostengono che la valorizzazione del personale deve avvenire con risorse interne dell`impresa e non con il sostegno fiscale dello stato. Sono molto d`accordo il 39,5 % e abbastanza d`accordo il 57%. Quando il padroncino esce fuori dalle mura dell`impresa il sentire non cambia. Il rapporto con il cliente e con i fornitori, per quelli che sono in filiera, si basa in primo luogo sul rapporto umano e di fiducia per il 69% di loro. Nelle piattaforme produttive sono disponibili alle reti e alle relazioni tra imprese. Siano queste di rappresentanza 42%, di partecipazione ad unposto distrettuale 41%, o a partecipare a consorzi per competere nella globalizzazione 15,4%. Questo è il loro sentire.
Che si differenzia térritorialmente a secondo dell`influenza territoriale della lunga deriva di innovazione dall`alto o di innovazione dal basso in cui si sono formati i sentimenti dei padroncini. Nel Nord Ovest del fordismo è più forte la ricerca del soggetto ordinatore dall`alto, nel Nord Est del metalmezzadro e nell'Emilia dell'afferrare Proteo si esalta di più il disordine orizzontale del vitalismo dal basso. Più che alla contrapposizione tra Fiat e capitalismo molecolare ho l`impressione sia un dato culturale ed antropologico, come appunto sono i sentimenti. Di cui spero che si tenga conto nel nostro ragionare sul come attraversare e fare esodo dentro la crisi. Perché, se non capiti, i sentimenti dei padroncini possono diventare rancore. Che come ci spiegano i dizionari della lingua italiana prende coloro che credono di aver subito un torto o quelli che pensano non gli venga riconosciuto un merito. Il fare impresa, appunto.
(Pubblicato da Il Sole 24 Ore del 15 Febbraio 2009)
La corrente di simpatia e di affetto del cristianesimo verso l’ebraismo ha ormai radici solide e secolari e non saranno alcune contraddizioni a fermarne la diffusione - Sinagoga e Chiesa uniti dalla bioetica - DI PAOLO SORBI – Avvenire, 17 febbraio 2009
Quante volte mi son sentito ripetere, in indimenticabili colloqui con Giorgio La Pira a Firenze negli anni Settanta: «Chi se la prende con gli ebrei alla fine gli va sempre male…»; e sorrideva all’incalzare di domande che noi giovani, impegnati nella militanza cattolica dell’audace rinnovamento ecclesiale degli anni Sessanta, gli facevamo sui «segni dei tempi» e la teologia della storia. Due generazioni dell’amicizia ebraicocristiana si incontravano e si misuravano anche sulle drammatiche questioni mediorientali che già allora coinvolgevano intensamente il «sindaco santo» di Firenze. Nella comune scelta di apertura verso i «consanguinei» del Signore, gli eredi del popolo biblico, sortiti solo da una ventina d’anni dalle tragedie della Shoah. Così spontaneamente ha funzionato per decenni, quasi un «passaparola» diffuso da persona a persona, la corrente culturale di grandi amicizie verso le realtà ebraiche presenti in tutt’Europa. La scoperta della Casa d’Israele si propagò «come un fiume carsico», avrebbe poi detto il cardinal Journet. I drammi e le tragedie storiche e sociali europee del Novecento appena trascorso avrebbero accelerato i conseguenti mutamenti profondi nel clero e nelle elaborazioni teologiche, avrebbero spinto diffusivamente tutte le realtà cristiane, nelle istituzioni accademiche ed ecclesiali, verso un ripensamento globale delle interpretazioni religiose anti-giudaiche. Di «insegnamento del disprezzo quotidiano», come scrisse e disse il grande studioso francese di origine ebraica Jules Isaac, sia a Pio XII nel secondo dopoguerra e poi a Giovanni XXIII. Potremmo sintetizzare tutti i decenni preconciliari, queste intense correnti socio-culturali orientate all’aggiornamento cristiano ed all’amicizia ebraica, come ricerca del «mistero d’Israele». Mistero profondissimo, teologico, in una certa misura «cuore» del mistero della Chiesa. Da Jacques Maritain, ancora da Léon Bloy ai primi del Novecento, alle grandi esperienze francesi dell’alta cultura cattolica degli anni Venti e Trenta. Da lì provenivano quegli stimoli che Giorgio La Pira concretizzò poi negli anni Sessanta con straordinari «Incontri Mediterranei» con personaggi come Martin Buber, sapienti di un islam religioso e in quegli anni plurale, grandi ed indimenticabili teologi come Yves Congar e Jean Daniélou. Tutto questo crogiuolo di studi e di emozioni profonde confluì nel Concilio Vaticano II e diede un profilo straordinario di giovinezza e novità all’amicizia ebraicocristiana. Nei dibattiti appassionati dei Padri conciliari, il sigillo della riconciliazione venne dalla dichiarazione Nostra Aetate. In essa gli ebrei non furono più considerati come collettivamente responsabili della morte di Gesù e si dichiarò che una siffatta accusa era priva di fondamento, innanzitutto teologico. Non vanno neanche dimenticati, per i decisivi mutamenti empatici avvenuti nell’ultimo secolo – nelle relazioni tra queste due realtà che si sono colpite a vicenda con delazioni e fatti di sangue – anche i diffusi gesti di fraternità e simpatia che, nel corso dei secoli, sono intercorsi tra tanti cristiani, a tutti i livelli, e tanti figli d’Israele. Dispersi nella Galuth delle terre europee: rapporti di mutuo aiuto, di reciproca scoperta tra Sinagoga e Chiesa. Va segnalata un’originale rivista storica contemporanea triestina, Zakhor, in italiano significa «ricordo». Elaborata da storici di origine ebraica, tra tutti Giacomo Todeschini e la sua équipe, ha promosso ricerche, ricostruito minuziosamente episodi dell’aspetto positivo della convivenza che pur faticosamente c’è sempre stato nella storia sociale europea tra maggioranza cristiana e minoranze ebraiche. Questi difficili legami d’amicizia tra ebrei e cristiani sono anche ben documentati in un’altra rivista, Pardès, di area francofona, dove scrive il sociologo Shmuel Trigano. Nel corso degli ultimi 60 anni sono avvenuti colossali mutamenti che si sono concretizzati in documenti, centinaia di incontri ufficiali a tutti i livelli e da parte di tante Chiese cristiane in tutto l’Occidente. Le realtà storiche ebraiche, insomma, sono state avvicinate come parte integrante di una mai interrotta Alleanza con il Signore.
Gesù e le realtà dei primi secoli cristiani sono state esaminate come profondamente radicate, in un senso positivo, nelle dinamiche delle culture ebraiche osservanti, soprattutto verso il ramo farisaico, nell’ambito del periodo di ricostruzione del Secondo Tempio.
Insomma, la corrente di simpatia e affetto verso l’ebraismo ha ormai solide radici, non saranno alcune contraddizioni che ne potranno fermare la diffusività. C’è però, irrisolta, una questione che interpella in modo acuto oggi le relazioni ebraico-cristiane, quella che viene definita la «questione del cuore» delle realtà cristiane in questo dialogo così complesso.
Senza un intenso coinvolgimento psichico prima, poi con una razionalizzazione teologica, per la coscienza cristiana i «fratelli maggiori» resteranno, appunto, sempre e solo maggiori. Antenati dai quali ci si è scissi una volta per sempre. Molti, moltissimi cattolici sono restii, non hanno mutato il loro cuore. Non è certamente il problema di un antigiudaismo classico di ritorno, non di questo si tratta. Anche se resta presente nelle vicende emerse nelle ultime settimane, così definitivamente chiarite da Papa Ratzinger nell’incontro coi i rabbini americani di venerdì scorso. Benedetto XVI, all’inizio del suo pontificato, nella sinagoga di Colonia, nell’agosto del 2005, enucleò un vero e proprio programma della nuova fase del dialogo ebraico-cristiano. Basato sul grande valore del Decalogo consegnato a Mosè, parte integrante della Redenzione cristiana, in cui centrale è la «questione antropologica» scossa dagli impressionanti sviluppi delle forze produttive bio-tecnologiche, da formidabili possibilità di cura e di altrettante opzioni nell’attentare la vita sin dal suo concepimento.
Ecco l’invito del Pontefice di fronte al rabbino Teitelbaum ed alla comunità ebraica di quella città tedesca, dove lo sterminio biotecnologico nazista ed antisemita fu tremendo: «Stiamo uniti, facciamo insieme, parliamo se possibile insieme sui destini della persona umana sulla base del Decalogo».
Effettivamente, in quell’eccezionale incontro il Papa disse anche che c’è un livello teologico da affrontare, ricordando come nelle differenze «dobbiamo rispettarci a vicenda – aggiunse – e amarci». In Israele, sulla scorta anche di questi impulsi magisteriali, alcuni padri domenicani dell’Ècole Biblique
affrontano, da qualche anno, in modo inedito con numerosi rabbini ortodossi ed intellettuali israeliani i temi dell’Incarnazione, l’irreversibilità delle Promesse, le piste di una cristologia comprensibile dalle radici ebraiche, sino ai temi eucaristici senza nulla annacquare. Alla Domus Galilaeae
dei neocatecumenali, sul Monte delle Beatitudini, si susseguono continui incontri teologici col rabbinato di Gerusalemme sui temi del messianismo in collegamento con i destini della comune Terra Santa. È un lungo fiorire poi di iniziative, come da anni quella di Nevè Shalom fondata dal padre Bruno Hussar, tra gli ispiratori della dichiarazione conciliare sull’ebraismo. In quel luogo sono passati e passano migliaia di giovani israeliani e centinaia di arabo-israeliani e cristiani per apprendere le tecniche della nonviolenza col pieno accordo delle autorità di quel Paese. C’è il rilancio, da parte della Comunità delle Beatitudini, della
Maison Saint Isaïe fondata dal domenicano padre Marcel Dubois, recentemente scomparso, finissimo studioso dell’ebraismo, fattosi cittadino israeliano negli anni Sessanta e poi nominato preside di filosofia all’Università ebraica. Per non parlare della realtà del Biblicum dei gesuiti e della preziosa testimonianza del cardinal Martini.
Ancora, la Comunità di San Giacomo, dei cattolici di espressione ebraica che fa riferimento all’attuale Custode francescano padre Pizzaballa, alle tante opere pro-life che gli evangelici cristiani di provenienza nordamericana, amici dello Stato d’Israele, stanno realizzando in quel Paese. Allo scopo di accompagnare criticamente tutte le esperienze dell’ebraismo contemporaneo verso futuri compiti e traguardi per essere insieme «luce delle nazioni».
Da Maritain e Bloy agli straordinari «Incontri Mediterranei» di La Pira con Martin Buber e Congar...
Un crogiuolo di studi ed emozioni che confluì nel Concilio dandogli un profilo di giovinezza e novità Negli ultimi 60 anni sono avvenuti colossali mutamenti, concretizzati in documenti e incontri ufficiali con cui riconoscere nel giudaismo la parte integrante di una mai interrotta Alleanza con Dio