giovedì 31 luglio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Ci siamo. Tanto tuonò che piovve
2) «Mi calo e basta, la vita è tutta qui»
3) Il boom delle bocciature è solo un altro indizio, MA SI CONTINUA A BALLARE SUL TITANIC, Di Francesco Nembrini
4) Diciamola tutta: è un`emergenza antropologica E` IN GIOCO PERSINO IL MODO DI FARE IL PANE, di Luca Doninelli
5) A Lambeth il cardinale Kasper invoca un nuovo Newman, Sandro Magister
6) Piccoli grandi laboratori di una cultura sorprendente
7) «Mi staccarono il sondino ma ero viva e sentivo tutto» - Madre di tre figli di trentatrè anni racconta in un libro il suo dramma: per 70 giorni in stato vegetativo


Ci siamo. Tanto tuonò che piovve
Autore: Salina, Giorgio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it
mercoledì 30 luglio 2008
Ed ora ha incominciato a piovere!
Ricordate l’ultimo articolo dal titolo «Trattato di Lisbona “si”, Carta del diritti fondamentali “no”» pubblicato su questo sito il 2 luglio scorso? Ciò che paventavamo ha iniziato ad avverarsi. Ancora peggio di quello che abbiamo scongiurato con i DICO del Ministro Bindi e di Prodi, ha iniziato ad infiltrarsi in Italia.
Certamente avete letto di quella coppia di ottuagenari omosessuali, insieme da 40 anni e uniti in Francia con il PAC; trasferitisi in Italia, uno è morto investito da un auto. L’Assicurazione ha riconosciuto al superstite il ruolo di «prossimo congiunto.» Andrea Acquarone ha commentato su “Il Giornale”: «I diritti del vedovo stavolta sono stati tutelati come se si fosse trattato di una famiglia tradizionale.» La decisione è stata presa dall’Assicurazione, certa dell’esito di una eventuale controversia giudiziaria. Mi sbaglierò, anzi spero di sbagliarmi, ma temo che questo sia l’inizio: attraverso la giurisprudenza internazionale, attraverso il principio del riconoscimento dei diritti acquisiti per i cittadini europei che cambiano Stato di residenza, in Italia dovranno progressivamente essere “rispettate” tutte le norme in tema di aborto, divorzio, diritto di famiglia sia “etero” che “omosessuale”, eutanasia. Ossia quei principi fondamentali che fanno la cultura e la civiltà di un popolo, non saranno più adottati da noi, ma li importeremo!
A parte le scelte fondamentali che questi temi richiedono, la novità è che non saremo più noi a decidere in base alla nostra cultura, alla nostra storia, alle nostre tradizioni; non solo ci verranno imposte, ma dovremo uniformarci - attenti - non alle legislazioni più diffuse, ma, sui singoli argomenti, alle legislazioni più permissive; sia le legislazione olandese, o belga, o spagnola, e così via. Ma che modo è questo di abdicare alle proprie caratteristiche ed alle proprie scelte?
Da che cosa tutto questo pessimismo? Dal fatto che un ramo del nostro Parlamento ha ratificato il Trattato di Lisbona senza nulla eccepire circa l’obbligatorietà della “Carta dei diritti fondamentali”, un documento ambiguo e aperto a molte interpretazioni, e senza porre vincoli all’indiscriminata ingerenza di procedure illegittime.
A proposito della “Carta”: si promulga il diritto inviolabile alla vita, mentre sulla base della stessa “Carta” si afferma di dover garantire la libertà della donna di abortire.
Quali garanzie e salvaguardie i nostri Politici pensano di adottare e proporre all’Europa? Il coro degli europeisti ripete che il Trattato è necessario per il funzionamento delle Istituzioni comunitarie: vero, ma tutto il resto? Non tutti gli Stati europei sono così supini: Regno Unito e Polonia hanno detto che la “Carta” e la normativa da essa derivante non potranno prevalere sulle loro rispettive Legislazioni; altri, non da ora, propugnatori dei testi più europeisti, poi non li applicano in casa propria.
Non si vuole sollevare la sacrosanta eccezione della “Carta”? Almeno si prendano le distanze e si mettano le mani avanti circa il caparbio miope rifiuto nel non voler riconoscere l’unica vera matrice unificante i popoli europei (le conseguenze negative sono sotto gli occhi di tutti): cioè la cultura giudaico cristiana innestatasi su quella greco romana che è tuttora condivisa da larghi strati delle popolazioni; il tentativo di legiferare surrettiziamente e la traboccante invadenza della burocrazia di Bruxelles.
Tre referendum popolari, tre solenni bocciature. Basta con la posizione che dice la gente non ha capito, non ci siamo spiegati bene.
Tra l’altro questo è il principale argomento per scegliere l’iter della ratifica per via parlamentare: oltre all’evidenza che i Deputati e i Senatori sono i nostri rappresentanti, si tratta di materia molto complessa che deve essere lasciata a specialisti. Tutti i nostri 1000 parlamentari hanno approfondito il Trattato e i suoi numerosi allegati che una squadra di giuristi e costituzionalisti ha impiegato tre mesi ad interpretare?
Non scherziamo: qui c’è in gioco davvero molto!


«Mi calo e basta, la vita è tutta qui»
Autore: Andraous, Vincenzo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it
mercoledì 30 luglio 2008
In discoteca, al pub, alla festa sulla spiaggia, la droga “cala”, e un’altra ragazza è stramazzata a terra, in coma, è morta.
Questa volta la causa del decesso è l’Mdma, meglio conosciuta come ecstasy.
E’ incredibile come dopo anni e anni di over-dose, di esplosioni chimiche, di implosioni biologiche, siamo qui a manipolare le parole, a violentare la ragione, a abusare della compostezza di una coscienza annichilita.
C’è una maledetta disinformazione che parte da una comunicazione sonnolenta, ripetuta senza scalfire alcuna emozione, spesso didattica, già vecchia, troppe volte elargita da cattedre impolverate che nulla consentono alla possibilità di liberare la libertà, nel senso di immaginare un percorso di vita denudato dai falsi miti e dalle false aspettative, soprattutto da quella falsa normalità, che maschera nei migliore dei casi una avvenuta dipendenza.
“Non mi calo” per essere contro, per trasgredire e stupire con rumore, “mi calo” per essere pronto a dire, a fare, a pensare svelto e non dormire.
“Mi calo e basta tutto qui”.
Dieci, mille, diecimila a sbomballarsi, a muoversi in gruppo, in cerchio, in abissi capovolti, ma resi avventurosi, per l’incapacità di parlare, di fare i conti con le parole, che hanno un nome, una storia, persino una vita presa a calci nel sedere.
Questa nuova sostanza è peggio delle altre, non sei in giro come un tossico, additato e contuso dallo sdegno benpensante, no, è magica pasticca che consolida la tua presenza nel consorzio sociale, che nasconde il peso dell’impegno lavorativo, che rende più dolce la linea mediana di una vita banale.
Un nuovo stile di vita, tutti dentro un cubismo astratto, dove ognuno sbanda allegramente, per rendere meno assordante il dovere della puntualità, della costanza, della propria professionalità, in all’erta per l’inizio della nuova settimana, pungente e rancorosa per quella appena conclusa.
E’ necessario riflettere su come stanno emergendo queste nuove sostanze, nelle nuove resistenze sociali, non sempre riconducibili al disagio psicologico, al malessere sociale, a comportamenti violenti e deficit emozionali.
Noi adulti preferiamo conservare la nostra integrità e capacità di educare, caricando i nostri interventi sul versante antisociale dei giovani, ma non facciamo al problema droga un buon servizio di prevenzione, non capiamo che oggi, per la stragrande maggioranza dei ragazzi, “calarsi” è normale, semplice, non è protesta di alcuno né di alcunché, è solamente un modo per stare comodi, tra fatica e divertimento.
E’ semplice perché è lì a portata di mano, non è mai lontana dalle solitudini imposte dal mercato, non crea ansie di irreperibilità né di prestazione, è intesa come una normale e semplice sfida a morire nel silenzio più gettonato, quello degli adulti così irresponsabilmente predisposti a imitarne il distacco generazionale.


Il boom delle bocciature è solo un altro indizio, MA SI CONTINUA A BALLARE SUL TITANIC, Di Francesco Nembrini

Qualche giorno fa una cara amica mi ha raccontato la carriera scolastica del figlio quindicenne, un ragazzo normalissimo, capace quanto basta, con una famiglia giustamente preoccupata della sua educazione, senza grandi possibilità economiche, nel contesto di un paesotto alle porte di Bergamo. Elementari: funzionavano bene, almeno dal punto di vista organizzativo. Peccato che in cinque anni si siano alternate decine di insegnanti tutor e specialiste varie, così che il lavoro era sempre da ricominciare da capo. Medie: nel corso dei tre anni inserimento di 14 alunni stranieri analfabeti, abbassamento dei livelli minimi della programmazione, gravi difficoltà degli insegnanti a mantenere un minimo di disciplina. La famiglia supplisce: la mamma si improvvisa insegnante tutti i pomeriggi, recluta amici universitari per qualche ora di ripetizione. Risultato finale: un disastro. Il ragazzo dimentica quel poco che aveva imparato alle elementari, ma è comunque promosso insieme a tutti i suoi compagni. Iscrizione al primo anno dell’Istituto Tecnico locale, classe di trenta ragazzi. A Natale vengono sospesi in quindici per due settimane per gravi scorrettezze nel comportamento. Risultato finale: bocciato il 50% della classe, tutti gli altri con uno o più debiti.
Il commento amaro della madre: non sono arrabbiata perché l’hanno bocciato, è che gli hanno ammazzato la voglia di imparare, di diventar grande.
Non è una storia eccezionale: basta sostare in questi giorni davanti ai tabelloni dei voti di una qualsiasi scuola italiana e si avrà la conferma che quella storia è la fotografia impietosa di un intero sistema educativo che sta franando su se stesso. Per quindici giorni ne parleranno tv e giornali, tutti si stracceranno le vesti gridando allo scandalo e invocando con sdegno il ritorno alla serietà. Con qualche opinionista che, vista l’incredibile percentuale di bocciature, inneggerà al ritorno della selezione, invece che registrare un clamoroso fallimento. Come se un ospedale valutasse la bontà delle sue cure vantando un altissimo numero di decessi. Poi … tutti al mare, a discutere degli europei di calcio e a maledire il rincaro della benzina, mentre il Bel Paese sta beatamente avviandosi ad un declino irreversibile.
La diagnosi è chiara e condivisa, la terapia pure: da anni gli operatori della scuola indicano i provvedimenti più urgenti per arrestare il degrado: vera autonomia degli Istituti (cioè gestione autonoma del personale e dei fondi), un serio sistema di valutazione nazionale, ripensamento della formazione e della carriera degli insegnanti, una vera libertà di scelta da parte delle famiglie. In una parola: urge una forte iniezione di libertà e di responsabilità a tutti i livelli del sistema. O, per usare una parola finalmente introdotta nella Costituzione, una vera sussidiarietà. Senza la quale sarà impossibile creare le condizioni perché la scuola torni ad essere quello che deve essere: il luogo deputato all’educazione delle nuove generazioni. Perché di questo si tratta: di educare, cioè di offrire ai nostri ragazzi una chiara ipotesi di lavoro, ragioni adeguate per il sacrificio e la fatica , la condivisione paziente dei loro problemi e delle loro attese. Facendo bene quel che siamo chiamati a fare, che si tratti di studiare una poesia o una formula chimica. Servono maestri, testimoni di un bene e di una positività senza le quali non si può imparare niente. Perché nella scuola, come nella vita, l’istruzione è il mezzo, l’educazione è lo scopo. Molti tra noi ci credono ancora, e ci provano, e quel che funziona ancora lo si deve al loro eroismo. Allo Stato e alla politica il compito di difenderli, valorizzarli, dotarli di strumenti e risorse adeguati: questa è la sussidiarietà che serve alla scuola.
La Sierra Leone è il Paese più povero ed arretrato del mondo, con gli indici più bassi rispetto a tutti gli indicatori di sviluppo (mortalità infantile, istruzione, reddito e quant’altro). Sto aiutando in quel Paese la nascita di una scuola cattolica gestita da un missionario saveriano, ed ho scoperto con mia grande sorpresa che gli insegnanti saranno pagati dallo Stato. Ho chiesto al ministro della Pubblica Istruzione: “ Ma com’è che, in un Paese dove si muore di fame e di malaria, vi permettete il lusso di pagare gli insegnanti delle scuole cattoliche?” . Risposta: “Mi scusi, ma in un Paese conciato così, da dove si può ripartire se non dall’educazione?”. L’ho invitato a venire in Italia, per spiegare la cosa al nuovo governo e ad un migliaio di parlamentari. Dove non si ascoltano gli appelli del Papa e del Presidente della Repubblica, potrebbe far breccia il ministro della Sierra Leone!
Francesco Nembrini

Diciamola tutta: è un`emergenza antropologica E` IN GIOCO PERSINO IL MODO DI FARE IL PANE
Il tema dell’emergenza educativa compare costantemente tra le preoccupazioni del Santo Padre. Leggendo tra le righe, si potrebbe dire che si tratta della preoccupazione fondamentale, del problema principale, dal quale dipende una gran parte degli altri problemi.
Dire “emergenza educativa” è lo stesso che dire “emergenza umana”, o “antropologica”, e sarebbe bene, di tanto in tanto, richiamare questa equivalenza, perché ci aiuterebbe a evitare un equivoco: quello di illuderci che, per affrontare questa emergenza, siano sufficienti una buona riforma (a patto che ci sia qualcuno in grado di farla senza produrre nuovi danni), uno stanziamento straordinario di fondo o altri provvedimenti politici.
Venti, trenta, quarant’anni fa chi cominciava a intravedere i disastri del sistema scolastico italiano si adoperò - lottando spesso contro tutto e tutti - per la costruzione di un sistema scolastico alternativo e per il suo riconoscimento in termini contrattuali e fiscali. Si cominciò a parlare di libertà di educazione, e a buon titolo: un sistema scolastico che prendeva in ostaggio i ragazzi, facendone le cavie di un progetto educativo che niente aveva a che vedere con i valori nei quali le famiglie li avevano cresciuti, metteva a repentaglio innanzitutto la libertà del cittadino. Il quale ha tutto il diritto di crescere i figli secondo la propria visione della realtà, nella certezza che qualunque modello educativo, se rispettoso dei principi della democrazia, può diventare un fattore positivo di crescita per tutta la società.
Oggi, però, i termini della questione si sono spostati. Se i vecchi termini inserivano il problema in una visione essenzialmente italiana del problema, l’evidenza dei fatti odierni ne mostra la natura globale.
Cosa significa “emergenza educativa”? Significa che un’intera civiltà, caratterizzata da un immenso patrimonio di conoscenze e di valori, vede scemare di giorno in giorno la propria capacità di trasmettere queste conoscenze e questi valori alle generazioni successive.
Il problema riguarda tutto: dall’uso corretto del cacciavite allo studio delle particelle elementari, dal “due più due quattro” al “non uccidere”, fino alle ragioni per cui vivere è meglio che morire, e conoscere è meglio che ignorare. L’emergenza educativa non riguarda solo la scuola, ma anche il modo di fare il pane, lo smaltimento dei rifiuti, il rapporto tra economia e finanza, la produzione letteraria - insomma: tutto.
L’espressione “emergenza educativa”, mettendo in evidenza il rischio di un suicidio di tutta la nostra civiltà, riguarda perciò tutta la responsabilità di un uomo verso il futuro, o meglio: verso ciò che gli antichi, con maggior esattezza, chiamavano il destino. Il che vale, dunque, anche per chi non insegna e non ha figli.
La tragedia degli anni a venire potrebbe essere questa: l’affermarsi di un tipo d’uomo insensibile al destino, programmato per mangiare bere dormire e riprodursi (in modo controllato) e per ricevere soddisfazione da qualche moderato piacere, tra cui, perché no?, anche i piaceri dello spirito.
Il giorno in cui dovremo spiegare ai nostri figli perché non è bene sgozzare il compagno di banco, perché non è giusto minacciare un uomo col coltello per prendere i suoi soldi o perché è immorale frodare chi fatica a risparmiare due soldi, è molto vicino. E sarà un bruttissimo giorno, perché quel giorno scopriremo che non si danno spiegazioni di queste cose. Quando cominciano ad affiorare certi “perché”, o certi “perché no?”, vuol dire che la partita è già finita.
Io ripeto sempre che in Russia la stragrande maggioranza dei giovani non sa cosa è accaduto ai loro nonni e zii, non sa dei cento milioni di morti con cui quei nonni e quegli zii hanno pagato il comunismo e la guerra. La ragione semplice per cui non lo sanno è che i loro genitori non gliel’hanno detto, e non gliel’hanno detto perché ancora oggi si vergognano di quello che è successo.
Per noi è lo stesso. Ma la nostra vergogna è più profonda, perché noi non ci siamo fatti complici di eccidi e di massacri: semplicemente, stiamo dimenticando chi siamo, e quindi non ci è più chiaro da quale forza sono nati Dante, Leonardo o la relatività.
Anche per comunicare la più elementare delle conoscenze, infatti, è necessario rispondere alla domanda: chi sono io?
Per questo possiamo dire che, in gioco, non ci sono soltanto l’università e la scuola, ma l’uomo come tale.
Luca Doninelli




A Lambeth il cardinale Kasper invoca un nuovo Newman
Cioè il più illustre dei grandi convertiti alla Chiesa di Roma. L'inviato del papa alla conferenza dei vescovi anglicani chiede loro di tornare al modello della Chiesa apostolica. No a donne vescovo e a vescovi gay. Il testo integrale del discorso

di Sandro Magister

ROMA, 31 luglio 20087 – Alla Conferenza di Lambeth, l'incontro decennale tra i vescovi della comunione anglicana di tutto il mondo, ha preso ieri la parola il cardinale Walter Kasper, presidente del pontificio consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani.

Più sotto è riportato il testo integrale del suo intervento. Kasper ha messo in evidenza le crescenti divaricazioni tra la Chiesa cattolica e la comunione anglicana, specie da quando in alcune province anglicane, a partire dal 1974, delle donne sono ordinate al sacerdozio e, a partire dal 1989, all'episcopato.

Un altro motivo di divaricazione sottolineato da Kasper riguarda l'autorizzazione a benedire le unioni omosessuali e l'ordinazione a vescovi di persone che vivono in coppia con persone dello stesso sesso.

Ma, oltre che con la Chiesa di Roma, queste decisioni hanno creato drammatiche divisioni anzitutto dentro la comunione anglicana. Le più forti opposizioni vengono dal Sud del mondo, specialmente dall'Africa. Delle 44 province che compongono la comunione anglicana – ha fatto notare Kasper – 28 ordinano delle donne al sacerdozio e 17 ammettono l'ordinazione delle donne anche all'episcopato. Le altre no. Ogni provincia decide per sé e si contrappone a quelle che decidono diversamente. Al punto che – sono sempre parole di Kasper – "un significativo numero di vescovi anglicani ha deciso di neppure partecipare alla Conferenza di Lambeth".

La frantumazione dentro la comunione anglicana è tale che Kasper si chiede:

"In un simile scenario, [...] chi sarà il nostro interlocutore nel dialogo? Dobbiamo impegnarci, e come, in colloqui appropriati e trasparenti anche con chi condivide le visioni cattoliche sui punti attualmente controversi, e con chi è in disaccordo con alcuni sviluppi dentro la comunione anglicana o alcune province particolari?".

In effetti, il passaggio alla Chiesa cattolica è uno sbocco frequente, per coloro che nella comunione anglicana non accettano l'ordinazione delle donne e la legittimazione dell'omosessualità.

Ma l'attrazione esercitata dal cattolicesimo è anche di carattere più generale. Ha a che fare con una concezione complessiva della Chiesa e della tradizione cristiana dai tempi apostolici a oggi, che alcuni vedono più fedelmente realizzata nella Chiesa cattolica.

Il cardinale Kasper, nella sua relazione, ha ricordato i "motivi ecclesiologici" che convinsero ad abbracciare il cattolicesimo il più celebre dei convertiti dell'Ottocento, il cardinale John Henry Newman. Ed ha auspicato che nell'anglicanesimo di oggi rinasca un nuovo Oxford Movement, il movimento di ritorno alla tradizione della Chiesa apostolica di cui Newman fu ispiratore.

Dal 1980, da quando la Chiesa di Roma ha fissato delle regole per il passaggio al cattolicesimo di uomini ordinati al sacerdozio o all'episcopato nella comunione anglicana, si calcola che siano più di 80 coloro che hanno compiuto tale passaggio, spesso seguiti da porzioni cospicue delle rispettive diocesi e parrocchie.

L'ultimo rito di accoglienza di un ministro anglicano nella Chiesa cattolica è avvenuto in forma privata lo scorso 1 dicembre a Roma, nella basilica papale di Santa Maria Maggiore.

Da una parte c'era il cardinale arciprete della basilica, l'americano Bernard Law. Dall'altra l'ex anglicano (o episcopaliano, come si usa dire negli Stati Uniti) Jeffrey Steenson, già vescovo della diocesi del Rio Grande, che copre il New Mexico e parte del Texas, accompagnato al rito dall'arcivescovo cattolico di Santa Fe, Michael J. Sheehan.

Steenson, 55 anni, sposato con tre figli, è stato di nuovo ordinato prete nella Chiesa cattolica, che non riconosce come valide le ordinazioni anglicane. E insegnerà nei seminari patrologia, materia di cui è esperto.

Una decina di altri ministri episcopaliani degli Stati Uniti sono in attesa di essere accolti come preti nella Chiesa cattolica. Tra loro tre vescovi emeriti: John Lipscomb della diocesi della Florida del Sudest, Clarence Pope di Forth Worth e Daniel Herzog di Albany.

Ma dentro la comunione anglicana i simpatizzanti per la Chiesa di Roma sono molti di più di quelli che "passano il Tevere" e si convertono.

Ad esempio, ha dato voce a questi sentimenti anglocattolici, a Sydney, il vescovo anglicano Robert Forsyth, che lo scorso 18 luglio, accogliendo Benedetto XVI nella sua città, ha definito la Chiesa di Roma "uno scoglio fra le rapide". Ed ha spiegato:

"Se non fosse stato per la sua forte insistenza su Cristo come unico Salvatore del mondo, sulla fede cattolica, sulla natura del Dio trino, la divinità di Cristo, la centralità e la supremazia della Sacra Scrittura e il carattere oggettivo della moralità cristiana, la vita delle altre Chiese cristiane sarebbe stata molto più difficile, specialmente qui in Occidente".

È australiano anche l'arcivescovo John Hepworth, primate della Traditional Anglican Communion, un ramo dell'anglicanesimo che ha proposto formalmente alla Santa Sede di entrare in "unità corporativa" con la Chiesa cattolica. Il 25 luglio il nunzio apostolico in Australia, Giuseppe Lazzarotto, ha consegnato a Hepworth una lettera del cardinale William Levada, prefetto della congregazione per la dottrina della fede, nella quale si assicura che la Santa Sede esaminerà la proposta con "seria attenzione". La Traditional Anglican Communion conta circa 400 mila membri, in numerosi paesi.

Ecco dunque qui di seguito – nella traduzione italiana curata da "L'Osservatore Romano" – la relazione del cardinale Kasper alla Conferenza di Lambeth, letta il 30 luglio 2008:


Riflessioni cattolico-romane sulla Comunione Anglicana

di Walter Kasper


Ho il privilegio di trasmettere all’arcivescovo di Canterbury, il dottor Rowan Williams, a ognuno dei presenti e a tutti i partecipanti a questa importantissima Conferenza di Lambeth i saluti di Papa Benedetto XVI e di tutti membri del Pontifico Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani. Tutti noi vi siamo accanto in questi giorni. Siamo con voi nei nostri pensieri e nelle nostre preghiere e desideriamo esprimere profonda solidarietà per le vostre gioie, le vostre preoccupazioni e le vostre pene.

Permettetemi di cominciare ringraziando l’arcivescovo di Canterbury e quanti coordinano i rapporti ecumenici presso il Lambeth Palace e l’Anglican Communion Office per l’invito a partecipare a questo importante incontro e per l’opportunità di offrire alcune riflessioni sulle nostre comuni preoccupazioni. È un punto di forza dell’anglicanesimo il fatto che, anche in circostanze difficili, avete chiesto le opinioni e i punti di vista degli interlocutori ecumenici, anche se non siete stati particolarmente lieti di quanto abbiamo detto. Tuttavia siate certi del fatto che ciò che sto per dire lo dirò da amico.

Quando ho visto l’argomento che avete proposto «Riflessioni cattolico-romane sulla Comunione Anglicana» ho pensato che avreste potuto sceglierne uno più facile. È un titolo di ampio respiro che comprende molti aspetti della storia e della dottrina e io posso affrontarne solo alcuni. Tuttavia, mi sembra che vi sia una questione nascosta nel titolo che non è interessato tanto a cosa i cattolici pensano della Comunione Anglicana quanto a cosa pensano della Comunione Anglicana nelle attuali circostanze. Esistono decisamente argomenti meno scomodi.

Il mio intervento è suddiviso nelle seguenti tre parti: una descrizione dei nostri rapporti negli ultimi anni, considerazioni di natura ecclesiologica alla luce della situazione attuale nell’anglicanesimo e una breve riflessione sulle questioni alla base delle attuali controversie e dei motivi di scontro in seno all’anglicanesimo, in particolare su quelle che hanno anche avuto conseguenze sui vostri rapporti con la Chiesa cattolica.

Infine, risponderò a una domanda piuttosto inaspettata che mi ha posto alcuni mesi fa l’arcivescovo di Canterbury. Quella domanda mi ha confuso molto, eccola: che tipo di anglicanesimo vuoi? Che domanda! Spero che conosciate la risposta giusta! E poi: quali sono le speranze della Chiesa cattolica per la Comunione Anglicana nei prossimi mesi e anni? In questo caso la risposta è più facile: speriamo di non venire messi da parte e di poter continuare ad avere un dialogo serio alla ricerca della piena unità affinché il mondo creda.


I. Descrizione dei rapporti negli ultimi anni


In questa prima parte permettetemi di rinfrescarvi la memoria per non dimenticare che cosa e quanto abbiamo già raggiunto negli ultimi quarant’anni. Quando il concilio Vaticano ii, nel suo decreto sull’ecumenismo, prestò attenzione alle numerose «Comunioni sia nazionali sia confessionali» che «si separarono dalla Sede romana» nel XVI secolo, riconobbe che «tra quelle nelle quali continuano a sussistere in parte le tradizioni e le strutture cattoliche, occupa un posto speciale la Comunione Anglicana» (Unitatis redintegratio, n. 13). Questa dichiarazione si basa su un’idea ecclesiologica secondo la quale dal punto di vista cattolico la comunione anglicana ha elementi significativi della Chiesa di Gesù Cristo. Nella loro Dichiarazione Comune del 1977 l’arcivescovo di Canterbury Donald Coggan e Papa Paolo VI identificarono alcuni di quegli elementi ecclesiali e scrissero:

«Da quando la Chiesa cattolica romana e le Chiese che formano la Comunione Anglicana hanno cercato di crescere nella mutua intesa e nell’amore cristiano, esse sono giunte a riconoscere, valutare e rendere grazie per una comune fede in Dio nostro Padre, nel nostro Signore Gesù Cristo e nello Spirito Santo, per il nostro comune battesimo in Cristo, per la nostra partecipazione alle Sacre Scritture, ai Simboli apostolico e niceno, alla definizione calcedonense e all’insegnamento dei Padri, per la nostra comune e plurisecolare eredità cristiana con le sue viventi tradizioni di liturgia, teologia, spiritualità e missione».

In questo testo, l’arcivescovo Coggan e Papa Paolo VI indicano il terreno comune, la fonte comune e il centro della nostra unità già esistente, ma ancora incompleta: Gesù Cristo e la missione di annunciarlo a un mondo così disperatamente bisognoso di Lui. Non parliamo di un’ideologia, di un’opinione personale condivisibile o meno. Parliamo della nostra fedeltà a Cristo, testimoniata dagli apostoli, e al suo Vangelo che ci è stato affidato. Quindi, fin dall’inizio dovremmo ricordare che cosa è in gioco mentre continuiamo a parlare della fedeltà alla tradizione e alla successione apostoliche, quando parliamo del triplice ministero, dell’ordinazione delle donne e dei comandamenti morali. Non stiamo parlando d’altro che della nostra fedeltà a Cristo stesso, che è il nostro unico e comune maestro. E cos’altro può essere il nostro dialogo se non un’espressione del nostro intento e del nostro desiderio di essere pienamente una sola cosa in Lui al fine di essere testimoni totalmente uniti del suo Vangelo?

Si è spesso detto, e vale la pena ribadirlo, che il dialogo è stato reso dinamico dal desiderio di restare fedeli alla volontà espressa da Cristo che i suoi discepoli fossero una cosa sola, proprio come egli è una cosa sola con il Padre, e che questa unità si legasse direttamente alla missione di Cristo, la missione della Chiesa, per il mondo: che siano una cosa sola perché il mondo creda. Le divisioni fra noi hanno gravemente ostacolato la nostra testimonianza e la nostra missione ed è stato per fedeltà a Cristo che ci siamo impegnati in un dialogo basato sul Vangelo e sulle antiche comuni tradizioni con l’obiettivo della piena unità visibile. Tuttavia, la piena unità non è stata e non è tuttora un fine in sé, ma è un segno e uno strumento di ricerca dell’unità con Dio e della pace nel mondo.

Pensando a questo, quando ricordiamo gli obbiettivi raggiunti dalla Commissione Internazionale Anglicana Cattolica Romana (Arcic) nel corso di circa quattro decenni, possiamo affermare con fiducia che ha veramente recato buoni frutti. In una prima fase l’Arcic (1970-1981) affrontò i temi "Dottrina sull’eucaristia" (1971) e "Ministero e ordinazione" (1973), e, per entrambi gli argomenti, sostenne di aver raggiunto un accordo sostanziale.

La risposta ufficiale cattolica (1991), pur richiedendo uno studio ulteriore su entrambi gli argomenti, definì quei testi «significative pietre miliari» attestanti «il raggiungimento di punti di convergenza e perfino di accordo che molti avrebbero ritenuto impossibile raggiungere prima che la Commissione cominciasse a lavorare». Le autorità cattoliche ritennero che il documento "Chiarificazioni su eucaristia e ministero" (1993), redatto dai membri della commissione, avesse «rafforzato molto l’accordo su certi argomenti». La prima fase dell’Arcic produsse anche due dichiarazioni sul tema "Autorità nella Chiesa" (1976, 1981), tema al centro delle divisioni del XVI secolo.

Sebbene i testi della seconda fase dell’Arcic (1983-2005) non siano stati presentati, per una risposta formale, nella Chiesa cattolica né nella Comunione Anglicana, e non abbiano portato a una risoluzione definitiva o a un pieno consenso sulle questioni affrontate, ognuno di loro ha suggerito un crescente riavvicinamento. Il documento "La salvezza e la Chiesa" (1986) è per molti versi in sintonia con la Dichiarazione Comune sulla Dottrina della Giustificazione, firmata dalla Chiesa cattolica e dalla Federazione Luterana Mondiale nel 1999. Basandosi sull’idea ecclesiale di koinonìa proposta per la prima volta nell’introduzione del Rapporto finale dell’Arcic I, l’Arcic II ha presentato il suo lavoro più maturo sull’ecclesiologia in "La Chiesa come Comunione" (1991).

Il documento "Vita in Cristo" (1994) è riuscito a individuare una visione condivisa e un’eredità comune di insegnamento etico, nonostante le diverse applicazioni pastorali dei principi morali. "Il dono dell’autorità" (1998) ha ripreso il tema dell’autorità e ha compiuto importanti progressi sulla necessità di un ministero universale di primato nella Chiesa. "Maria: grazia e speranza in Cristo" (2004) ha compiuto importanti passi avanti verso una idea comune della Beata Vergine Maria.

Come ben sapete, l’ordinazione delle donne al sacerdozio in alcune province anglicane, a cominciare dal 1974, e all’episcopato, dal 1989, ha complicato molto i rapporti fra la Comunione Anglicana e la Chiesa cattolica. Ritornerò sul tema a tempo debito. Pensando a questo ostacolo e cercando di determinare che cosa fosse in ogni caso possibile nella promozione dei nostri rapporti, fu presa un’iniziativa importante non molto tempo dopo l’ultima conferenza di Lambeth.

Nel maggio del 2000, il mio predecessore, il cardinale Edward Idris Cassidy, e l’arcivescovo George Carey, invitarono tredici primati anglicani e i presidenti delle Conferenze episcopali cattoliche, o i loro rappresentanti, a Mississagua, in Canada, per valutare quanto raggiunto nel dialogo dell’Arcic, e per offrire, alla luce dei risultati positivi e delle difficoltà che avevano contraddistinto i nostri rapporti, raccomandazioni per eventuali, ulteriori progressi.

Ho partecipato a numerosi incontri ecumenici e sono lieto di affermare che quello fu uno dei migliori a cui abbia mai preso parte. Lo spirito di preghiera e di amicizia, la seria riflessione non solo sull’opera dell’Arcic, ma anche sui rapporti ecumenici in ogni particolare regione rappresentata, il desiderio profondo di riconciliazione che pervase l’incontro di Mississagua rinnovarono la speranza di un significativo progresso nei rapporti fra la Comunione Anglicana e la Chiesa Cattolica.

Uno dei risultati dell’incontro di Mississagua è stato la creazione della Commissione Anglicana-Cattolica Romana per l’Unità e la Missione (Iarccum), principalmente composta da vescovi. Nello scorso fine settimana di questa Conferenza di Lambeth avete studiato la dichiarazione della Iarccum Crescere insieme in unità e missione. Sintetizzando l’opera dell’Arcic questo documento presenta la valutazione della Commissione dei risultati del nostro dialogo e individua le questioni ancora da affrontare.

Negli ultimi quarant’anni non ci siamo solo impegnati insieme nel dialogo teologico. Si è infatti creato uno stretto rapporto di collaborazione fra anglicani e cattolici, non solo a livello internazionale, ma anche in molti contesti regionali e locali. Come hanno osservato Papa Benedetto XVI e l’arcivescovo Williams nella Dichiarazione Comune del novembre 2006: «Mentre il dialogo si sviluppava, molti cattolici e anglicani hanno trovato gli uni negli altri un amore per Cristo che ci invita a una cooperazione e a un servizio concreti. Questa comunanza nel servizio di Cristo, sperimentata da molte delle nostre comunità in tutto il mondo, aggiunge ulteriore impulso ai nostri rapporti».

Invero, non è affatto una piccola cosa quella che abbiamo raggiunto e che ci è stata concessa in anni di dialogo nell’Arcic e nella Iarccum. Siamo grati per l’opera di queste commissioni e noi cattolici non vogliamo che tali risultati vadano perduti. Di fatto desideriamo proseguire lungo questo cammino e portare a compimento quanto iniziato quarant’anni fa.

A maggior ragione, fedele a ciò che credo Cristo desideri e, aggiungerei, con la sincerità che l’amicizia permette, mi rattrista osservare i problemi in seno alla Comunione Anglicana emersi e divenuti più gravi dall’ultima Conferenza di Lambeth e le ripercussioni di natura ecumenica di tali tensioni interne. Nella seconda parte di questo intervento desidero affrontare una serie di aspetti ecclesiologici derivanti dall’attuale situazione nella Comunione Anglicana e sollevare alcune questioni complesse e scottanti.

Tuttavia prima desidero ripetere quanto dissi nel novembre 2006 all’arcivescovo di Canterbury, giunto a Roma per fare visita a Papa Benedetto XVI: «Le questioni e i problemi dei nostri amici sono anche questioni e problemi nostri». Quindi sollevo tali questioni non da giudice, ma da interlocutore ecumenico che è profondamente scoraggiato dai recenti sviluppi e che desidera offrirvi una riflessione onesta, dal punto di vista cattolico, su come e dove possiamo progredire nella situazione attuale.


II. Considerazioni ecclesiologiche


In questa seconda parte non voglio fare una dissertazione magisteriale sull’ecclesiologia. Desidero ricordarvi ancora una volta alcune intuizioni comuni degli ultimi decenni che possono, o dovrebbero, essere utili nel trovare un modo di proseguire, che si spera comune.

Le questioni ecclesiologiche sono state a lungo un motivo grave di scontro fra le nostre due comunità. Già da giovane studente analizzavo tutte le argomentazioni ecclesiologiche di John Henry Newman, che lo spinsero a diventare cattolico. Le sue principali preoccupazioni riguardavano l’apostolicità nella comunione con la sede di Pietro come custode della tradizione apostolica e dell’unità della Chiesa. Penso che i suoi interrogativi siano ancora attuali e che il dibattito non sia ancora esaurito.

Mentre Newman affrontava la Chiesa d’Inghilterra della sua epoca, oggi ci troviamo di fronte a ulteriori problemi nella Comunione Anglicana, composta da quarantaquattro Chiese nazionali e regionali, ognuna dotata di auto-governo. L’indipendenza senza una sufficiente interdipendenza è divenuta ora un problema grave.

Due anni fa, la dichiarazione della Iarccum "Crescere insieme nell’unità e nella missione" affrontò la situazione in seno alla Comunione Anglicana e le sue implicazioni di natura ecumenica come segue: «Dopo l’incontro di Mississagua le Chiese della Comunione Anglicana sono entrate in una fase caratterizzata da dispute scatenate dall’ordinazione episcopale di una persona pubblicamente impegnata in un rapporto con un’altra persona del suo stesso sesso e dall’autorizzazione di riti pubblici per la benedizione di unioni omosessuali. Tali questioni hanno promosso la riflessione sulla natura del rapporto fra le Chiese della Comunione [...] Inoltre, i rapporti ecumenici sono divenuti più complicati perché le proposte in seno alla Chiesa d’Inghilterra hanno richiamato l’attenzione sulla questione dell’ordinazione delle donne all’episcopato, che è una pratica ministeriale consolidata in alcune province anglicane» (cfr 6).

Oltre agli sviluppi relativi a questo ultimo punto, dobbiamo tener conto della decisione di un numero significativo di vescovi anglicani di non partecipare alla Conferenza di Lambeth e delle proposte interne all’anglicanesimo che stanno sfidando gli strumenti esistenti di autorità in seno alla Comunione Anglicana.

Nella prossima parte, affronterò alcune questioni più direttamente, ma qui voglio concentrarmi in modo specifico sulla dimensione ecclesiologica di questi problemi attuali, facendo riferimento a quanto abbiamo detto insieme sulla natura della Chiesa, e alle iniziative della Comunione Anglicana per affrontare queste dispute interne.

Nel marzo 2006, l’arcivescovo di Canterbury mi ha invitato a intervenire a un incontro della Camera dei vescovi della Chiesa d’Inghilterra sulla missione dei vescovi nella Chiesa. Sebbene alla base di quell’intervento ci fosse l’eventuale ordinazione delle donne all’episcopato, il tema centrale, ossia la natura dell’ufficio episcopale quale ufficio di unità, era importante per tutti i motivi di tensione nella Comunione Anglicana che ho individuato in precedenza.

In breve, dissi che l’unità, l’unanimità e la koinonìa («comunione») sono concetti fondamentali nel Nuovo Testamento e nella Chiesa primitiva. Affermai: «Fin dall’inizio l’ufficio episcopale fu koinonialmente e collegialmente integrato nella comunione di tutti i vescovi. Non è mai stato percepito come un ufficio da intendere come individuale o da esercitare individualmente». Poi affrontai il tema della teologia dell’ufficio episcopale di un Padre della Chiesa di grande importanza per gli anglicani e per i cattolici, il vescovo martire Cipriano di Cartagine vissuto nel iii secolo.

Molto nota è la sua frase «episcopatus unus et indivisus». Questa frase fa parte di una pressante ammonizione di Cipriano ai suoi compagni vescovi: «Quam unitatem tenere firmiter et vindicare debemus maxime episcopi, qui in ecclesia praesidimus, ut episcopatum quoque ipsum unum atque indivisum probemus». («E questa unità dobbiamo fermamente mantenere e affermare, soprattutto noi vescovi, che presiediamo nella Chiesa, per dimostrare che anche l’episcopato è uno e indiviso»). Questa pressante esortazione è seguita da un’interpretazione precisa della dichiarazione episcopatus unus et indivisus. «Episcopatus unus est cuius a singulis in solidum pars tenetur» («L’episcopato è uno solo e ogni sua parte è mantenuta da ognuno per il tutto», De ecclesiae catholicae unitate, n. I, 5).

Tuttavia, Cipriano compie un passo ulteriore: non solo evidenzia l’unità del popolo di Dio con il proprio vescovo, ma aggiunge anche che nessuno dovrebbe immaginare che egli sia in comunione solo con alcuni, perché «la Chiesa cattolica non è separata o divisa», ma «unita e tenuta insieme dal collante della coesione reciproca dei vescovi» (Epistulae, 66, 8). Questa collegialità di certo non si limita al rapporto orizzontale e sincronico con collegi episcopali contemporanei. Infatti, poiché la Chiesa è una e la stessa in tutti i secoli, quella attuale deve mantenere il consenso diacronico con l’episcopato dei secoli precedenti e, soprattutto, con la testimonianza degli apostoli. Questo è il significato più profondo della successione apostolica nell’ufficio episcopale.

L’ufficio episcopale è quindi un ufficio di unità in un duplice senso. I vescovi sono segno e strumento di unità in seno alla singola Chiesa locale, proprio come lo sono fra le chiese locali contemporanee e quelle di tutti i tempi nella Chiesa universale.

Quest’idea di ufficio episcopale è stata presentata nelle dichiarazioni dell’Arcic, in particolare in Chiesa come comunione e nelle dichiarazioni dell’Arcic sull’autorità della Chiesa. Chiesa come comunione (cfr n. 45) afferma: «per alimentare e accrescere questa comunione, Cristo, il Signore, ha fornito un ministero di supervisione, la cui pienezza è affidata all’episcopato, che ha la responsabilità di mantenere ed esprimere l’unità delle Chiese (cfr nn. 33 e 39; Rapporto finale, Ministero e ordinazione). Governando, insegnando e amministrando i Sacramenti, in particolare l’Eucaristia, questo ministero tiene uniti i credenti nella comunione della Chiesa locale e nella più ampia comunione di tutte le Chiese (cfr n. 39). Questo ministero di supervisione ha dimensioni sia collegiali sia primaziali. Si fonda sulla vita della comunità ed è aperto alla partecipazione di quest’ultima alla scoperta della volontà di Dio. Viene esercitato affinché unità e comunione siano espresse, tutelate e promosse a ogni livello, locale, regionale e universale.

La stessa dichiarazione esprime l’idea, sia anglicana sia cattolica romana, che i vescovi svolgono il proprio ministero succedendo agli apostoli, il che serve ad «assicurare a ogni comunità che la sua fede sia di fatto la fede apostolica, ricevuta e trasmessa dai tempi apostolici» (Chiesa come comunione, n. 33).

Il documento dell’Arcic "Il dono dell’autorità" ha sviluppato ulteriormente questo concetto affermando: «Esistono due dimensioni di comunione nella tradizione apostolica: quella diacronica e quella sincronica. Il processo di tradizione implica ovviamente la trasmissione del Vangelo da una generazione all’altra (dimensione diacronica). Se la Chiesa deve restare unita nella verità, deve anche implicare la comunione delle Chiese in tutti i luoghi in quell’unico Vangelo (dimensione sincronica). Entrambe le dimensioni sono necessarie alla cattolicità della Chiesa» (cfr 26).

Il testo aggiunge che ogni vescovo, in comunione con tutti gli altri vescovi, ha la responsabilità di tutelare ed esprimere la più ampia koinonìa della Chiesa, e «partecipa alla sollecitudine di tutte le Chiese» (cfr n. 39). Il vescovo è dunque «sia una voce per la Chiesa locale sia una persona mediante la quale la Chiesa locale impara da altre chiese» (n. 38). Il documento "Il dono dell’autorità" (n. 37) sottolinea il ruolo svolto dal collegio episcopale nel mantenere l’unità della Chiesa: «L’ interdipendenza reciproca di tutte le Chiese è organica alla realtà della Chiesa come Dio vuole che sia. Nessuna Chiesa locale che partecipi alla tradizione viva può considerarsi autosufficiente. Il ministero del vescovo è cruciale perché serve la comunione in seno alle Chiese locali e fra loro. La loro comunione reciproca è espressa dall’incorporazione di ogni vescovo in un collegio episcopale. I vescovi sono, sia personalmente sia collegialmente, al servizio della comunione».

Sebbene non ci sia tempo per parlare di più dell’ecclesiologia dell’Arcic, è sufficiente dire che nel nostro dialogo siamo riusciti a esporre un’idea incisiva del ministero episcopale nel contesto di un concetto condiviso di Chiesa come koinonìa.

È significativo che il Rapporto di Windsor del 2004, nel tentativo di offrire alla Comunione Anglicana fondamenti ecclesiologici per affrontare la crisi attuale, abbia adottato un’ecclesiologia di koinonìa. L’ho trovato utile e incoraggiante e in risposta alla lettera dell’arcivescovo di Canterbury che invita a una reazione ecumenica al Rapporto di Windsor ho osservato che «nonostante questioni ecclesiologiche sostanziali ci dividano ancora e meritino la nostra attenzione, questo approccio è fondamentalmente in linea con l’ecclesiologia di comunione del concilio Vaticano II.

Le conseguenze che il Rapporto trae da questa base ecclesiologica sono anche costruttive, in particolare l’interpretazione dell’autonomia provinciale in termini di interdipendenza, quindi «soggetta ai limiti derivanti dagli impegni di comunione» (Windsor, n. 79). A questo si collega l’impulso del Rapporto a rafforzare e l’autorità sopraprovinciale dell’arcivescovo di Canterbury (nn. 109-110) e la proposta di una Alleanza Anglicana che renda «espliciti e vigorosi la lealtà e i vincoli di affetto che dominano i rapporti fra le Chiese della Comunione» (n. 118).

L’unica debolezza che ho rilevato in questa ecclesiologia è che «sebbene il Rapporto sottolinei che le province anglicane debbano essere responsabili le une verso le altre e responsabili del mantenimento della comunione, una comunione radicata nelle Scritture, si presta un’attenzione decisamente scarsa all’importanza di essere in comunione con la fede della Chiesa nel corso dei secoli». Nel nostro dialogo abbiamo affermato congiuntamente che le decisioni di una Chiesa locale o regionale non devono solo promuovere la comunione nel contesto attuale, ma anche essere in sintonia con la Chiesa del passato, e in particolare, con la Chiesa apostolica così come è attestata dalle Scritture, dai primi concili e dalla tradizione patristica. Questa dimensione diacronica di apostolicità «ha importanti ramificazioni ecumeniche poiché condividiamo una tradizione comune di un millennio e mezzo. Tale patrimonio comune, che Papa Paolo VI e l’arcivescovo Michael Ramsey hanno definito “antiche tradizioni comuni”, è degno di essere interpellato e tutelato».

Alla luce di quest’analisi del ministero episcopale da parte dell’Arcic e dell’ecclesiologia di koinonìa contenuta nel Rapporto di Windsor, è stato particolarmente sconfortante assistere alle crescenti tensioni in seno alla Comunione Anglicana. In diversi contesti, i vescovi non sono in comunione con altri vescovi; in alcuni casi le province anglicane non sono più in piena comunione le une con le altre. Sebbene il processo di Windsor prosegua e l’ecclesiologia proposta dal Rapporto di Windsor sia stata accolta in via di principio dalla maggioranza delle province anglicane, è difficile dal nostro punto di vista comprendere come questo si sia tradotto nell’auspicato rafforzamento interno della Comunione Anglicana e dei suoi strumenti di unità. Ci sembra anche che l’impegno della Comunione Anglicana a essere «episcopalmente guidata e sinodalmente governata» non è sempre riuscito a mantenere l’apostolicità di fede e che il governo sinodale, malinteso come una specie di processo parlamentare, abbia a volte bloccato quella guida episcopale auspicata da Cipriano e formulata nell’Arcic.

So che molti di voi sono preoccupati, alcuni anche profondamente, dalla minaccia di frammentazione in seno alla Comunione Anglicana. Siamo profondamente solidali con voi perché anche noi siamo preoccupati e rattristati quando ci chiediamo: «In questo scenario, che forma potrà assumere la Comunione Anglicana di domani, e chi sarà il nostro interlocutore? Dovremmo, e in che modo potremmo, impegnarci appropriatamente e onestamente in dialoghi anche con quanti condividono il punto di vista cattolico nella Comunione Anglicana o in particolari province anglicane? Che cosa vi aspettate in questa situazione dalla Chiesa di Roma, che secondo quanto afferma Ignazio di Antiochia, deve presiedere sulla Chiesa con amore? In che modo l’opera dell’Arcic sull’episcopato, l’unità della Chiesa e la necessità di un esercizio di primazia a livello universale potrebbero aiutare la Comunione Anglicana in questo momento?».

Invece di rispondere a questi interrogativi, permettetemi di ricordarvi quanto abbiamo affermato durante i colloqui informali nel 2003 e da allora abbiamo ripetuto in diverse occasioni: «È nostro grande desiderio che la Comunione Anglicana sia unita, radicata in quella fede storica che il nostro dialogo e i nostri rapporti nel corso di quattro decenni ci hanno portato a credere sia condivisa in ampio grado». Quindi, seguiamo i dibattiti di Lambeth con grande interesse e sincera sollecitudine, accompagnandoli con la nostre fervide preghiere.


III. Riflessioni su questioni che la Comunione Anglicana deve affrontare


In questa parte finale, desidero affrontare brevemente due questioni al centro delle tensioni in seno alla Comunione Anglicana e ai suoi rapporti con la Chiesa Cattolica: l’ordinazione delle donne e la sessualità umana. Non è necessario farlo dettagliatamente in quanto la posizione cattolica, che si considera coerente con il Nuovo Testamento e la tradizione apostolica, è ben nota. Desidero solo offrire alcune riflessioni dal punto di vista cattolico, tenendo contro dei nostri rapporti passati, presenti e futuri.

L’insegnamento della Chiesa cattolica sulla sessualità umana, in particolare, sull’omosessualità, è chiaro ed esposto nel Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 2357-2359. Siamo convinti del fatto che questo insegnamento sia saldamente fondato nel Vecchio e nel Nuovo Testamento e quindi che qui sia in gioco la fedeltà alle Scritture e alla tradizione apostolica. Posso solo evidenziare che cosa afferma il documento "Crescere insieme in unità e missione": «nei dibattiti sulla sessualità umana nella Comunione Anglicana e in quelli fra quest’ultima e la Chiesa cattolica, esistono questioni ermeneutiche antropologiche e bibliche che vanno affrontate» (n. 86e). Non a caso il tema principale di oggi della Conferenza di Lambeth ha riguardato l’ermeneutica biblica.

Desidero brevemente richiamare la vostra attenzione sulla dichiarazione dell’Arcic "Vita in Cristo" in cui si osserva (nn. 87-88) che gli anglicani potevano concordare con i cattolici sul fatto che l’attività omosessuale è disordinata, ma che potevamo differire relativamente al consiglio morale e pastorale che avremmo offerto a quanti lo cercavano.

Sappiamo e apprezziamo che le recenti dichiarazioni dei primati sono in sintonia con quell’insegnamento, espresso chiaramente nella risoluzione 1.10 della Conferenza di Lambeth del 1998. Alla luce delle tensioni degli scorsi anni a questo proposito, una dichiarazione chiara da parte della Comunione Anglicana ci offrirebbe maggiori possibilità di offrire una testimonianza comune della sessualità umana e del matrimonio, una testimonianza dolorosamente necessaria nel mondo di oggi.

A proposito dell’ordinazione delle donne al sacerdozio e all’episcopato, la Chiesa cattolica ha chiaramente esposto il suo insegnamento fin dall’inizio del nostro dialogo, non solo internamente, ma anche nel carteggio fra Papa Paolo VI e Papa Giovanni Paolo II con gli arcivescovi di Canterbury che si sono succeduti. Nella sua lettera apostolica "Ordinatio sacerdotalis" del 22 maggio 1994, Papa Giovanni Paolo II ha fatto riferimento alla lettera di Papa Paolo VI all’arcivescovo Coggan del 23 novembre 1975 e ha affermato la posizione cattolica come segue: «L’ordinazione sacerdotale [...] è stata nella Chiesa cattolica fin dall’inizio sempre esclusivamente riservata agli uomini» e «tale tradizione è stata fedelmente mantenuta anche dalle Chiese Orientali». Ha concluso: «dichiaro che la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa». Quest’enunciazione mostra con chiarezza che non si tratta solo di una posizione disciplinare, ma anche di un’espressione della nostra fedeltà a Gesù Cristo. La Chiesa cattolica è vincolata alla volontà di Gesù Cristo e non si considera libera di instaurare una nuova tradizione aliena a quella della Chiesa di tutti i tempi.

Come ho affermato rivolgendomi alla Camera dei vescovi della Chiesa d’Inghilterra nel 2006, per noi la decisione di ordinare le donne implica un allontanamento dalla posizione comune di tutte le Chiese del primo millennio, ossia non solo della Chiesa cattolica, ma anche delle Chiese orientali e ortodosse. Ci sembra che la Comunione Anglicana si stia avvicinando molto alle Chiese protestanti del XVI secolo e stia assumendo una posizione che quelle Chiese assunsero solo nella seconda metà del XX secolo.

Dal momento che attualmente ventotto province anglicane ordinano donne al sacerdozio e che, sebbene soltanto quattro province abbiano ordinato donne all’episcopato, altre tredici province hanno approvato la legislazione che permette l’episcopato femminile, la Chiesa cattolica deve ora tener conto della realtà che l’ordinazione delle donne al sacerdozio e all’episcopato non riguarda solo province isolate, ma corrisponde sempre più alla posizione della Comunione. Essa continuerà ad avere vescovi, come affermato nella Conferenza di Lambeth del 1888, ma come nel caso dei vescovi di alcune Chiese protestanti, le Chiese più antiche dell’Oriente e dell’Occidente riconosceranno in ciò molto meno di quanto ritengono sia il carattere e il ministero del vescovo nel senso inteso dalla Chiesa primitiva e rimasto costante nel corso dei secoli.

Ho già affrontato il problema ecclesiologico del non riconoscimento da parte dei vescovi dell’ordinazione episcopale altrui in seno a una stessa Chiesa. Ora devo essere chiaro a proposito della nuova situazione che si è venuta a creare nei nostri rapporti ecumenici. Sebbene il nostro dialogo abbia portato a un accordo significativo sull’idea di sacerdozio, l’ordinazione delle donne all’episcopato blocca sostanzialmente e definitivamente un possibile riconoscimento degli Ordini Anglicani da parte della Chiesa cattolica.

Auspichiamo il proseguimento di un dialogo teologico fra la Comunione Anglicana e la Chiesa cattolica, ma quest’ultimo sviluppo mina direttamente il nostro obiettivo e altera il livello di quanto perseguiamo nel dialogo. La Dichiarazione comune del 1966, firmata da Papa Paolo VI e dall’arcivescovo Michael Ramsey, esortava al dialogo che «ha per scopo l’unità per la quale Cristo così pregava» e parlava di «un ritorno alla piena comunione di fede e di vita sacramentale». Ora sembra che la piena comunione visibile quale fine del nostro dialogo abbia fatto un passo indietro, che il nostro dialogo avrà obiettivi meno definitivi e quindi che il suo carattere ne risulterà alterato. Sebbene questo dialogo possa ancora condurre a buoni risultati, non sarà sostenuto dal dinamismo che deriva dalla possibilità realistica dell’unità che Cristo esige da noi o dalla partecipazione comune alla mensa dell’unico Signore, alla quale aneliamo con tanto ardore.


Conclusione


Chiunque abbia visto le grandi e magnifiche cattedrali e chiese anglicane in tutto il mondo, abbia visitato gli antichi e famosi collegi di Oxford e di Cambridge, abbia partecipato alle meravigliose preghiere della sera, abbia sperimentato la bellezza e l’eloquenza delle preghiere anglicane, abbia letto le eleganti opere accademiche degli storici e dei teologi anglicani, sia attento ai contributi significativi e antichi degli Anglicani al movimento ecumenico, sa bene che la tradizione anglicana possiede molti tesori. Essi sono, come afferma la Lumen gentium, fra quei doni che «appartenendo propriamente alla Chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica» (n. 8).

La nostra acuta consapevolezza della grandezza e della notevole profondità della cultura cristiana della vostra tradizione rende più grande la nostra preoccupazione per voi relativamente ai problemi e alle crisi attuali, ma ci dona anche fiducia nel fatto che, con l’aiuto di Dio, troverete una via d’uscita da queste difficoltà e che in modo nuovo saremo rafforzati nel nostro comune pellegrinaggio verso l’unità che Gesù Cristo desidera per noi e per la quale prega. Ripeto ciò che scrissi nella lettera all’arcivescovo di Canterbury nel dicembre 2004: «In uno spirito di amicizia e collaborazione ecumeniche siamo pronti a sostenervi in qualsiasi modo sia appropriato e necessario».

In questa stessa ottica desidero ritornare alla domanda sconcertante dell’arcivescovo su quale anglicanesimo voglio. Mi viene in mente che nei momenti critici della storia della Chiesa d’Inghilterra e quindi della Comunione Anglicana, siete riusciti a recuperare la forza della Chiesa dei Padri quando quella tradizione era a rischio.

Ne sono esempio i Caroline Divines, ma penso soprattutto al Movimento di Oxford. Forse, nella nostra epoca, è anche possibile pensare a un nuovo Movimento di Oxford, un recupero di ricchezze presenti nella vostra famiglia. Sarebbe una rinnovata recezione, un nuovo ricorso alla Tradizione Apostolica in una situazione inedita. Non significherebbe rinunciare alla vostra profonda attenzione per le sfide e le lotte umane, al vostro desiderio di dignità e giustizia umane, alla vostra sollecitudine affinché tutte le donne e tutti gli uomini abbiano un ruolo attivo nella Chiesa. Piuttosto, porterebbe tali istanze e le questioni che ne derivano più direttamente nell’ambito creato dal Vangelo e dall’antica tradizione comune su cui si basa il nostro dialogo.

Speriamo e preghiamo affinché, mentre cercate di procedere come discepoli fedeli di Gesù Cristo, il Padre di ogni misericordia vi conceda le abbondanti ricchezze della Sua Grazia e vi guidi con la presenza costante dello Spirito Santo.


IL FAMILY FESTIVAL DI FIUGGI
Piccoli grandi laboratori di una cultura sorprendente

Avvenire, 31 luglio 2008
DAVIDE RONDONI
C i sono cose che si sanno, nel senso che ormai appartengono al dominio del risaputo. E questo è bene. Ad esempio sapere che ogni anno ci sarà il festival del cinema di Venezia è ormai un tranquillo, consolidato riferimento per coloro che si definiscono amanti del cinema. O come Venezia, tante altre manifestazioni culturali che, ormai tradizionalmente, tra luci e ombre, sono una bussola anche per capire questo incomprensibile meraviglioso paese che chiamano Italia. E i media ne parlano ( e straparlano).
Poi ci sono cose che non si sanno, o quasi. O meglio che inziano, che mettono fuori la testa. Insomma esistono punti in cui forse succede qualcosa di nuovo. Come ad esempio a Fiuggi, in questi giorni. Dove una strana, colorita e variamente assortita brigata di persone ha dato vita a questo Fiuggi Family Festival, dedicato al cinema e a varie forme di intrattenimento dedicate al cosiddetto pubblico ' family'. Che vuol dire pubblico generico, senza distinzioni. Il pubblico, per intenderci, che finisce per premiare i grandi successi al botteghino.
Qui, da un’idea di Gianni Astrei e sotto la guida di Andrea Piersanti e del professor Armando Fumagalli, si stanno radunando famigliole con bambini al seguito, genialoidi inventori di cartoon, grandi manager di network televisivi e altri addetti ai lavori, e per alcuni giorni in un programma fitto e vario. Al centro un’idea semplice: dare un punto di ritrovo - all’insegna pure della vacanza in un luogo ameno ­per conoscere, saggiare e anche premiare ciò che si rivolge a un pubblico generico di famiglie. Che è il pubblico più numeroso e spesso poco considerato dalle manifestazioni che si piccano di fare cultura. Qui cultura se ne fa - basta vedere non solo l’ampiezza delle produzioni presenti, ma anche il programma delle conferenze - ma la si fa senza spocchia. E senza demonizzare il cosiddetto mercato.
Ad altri il compito di fare la doverosa cronaca. Qui però vale rilevare che l’Italia culturale è in moto, anche fuori dai percorsi più seminati e che forse hanno meno idee da offrire in questi momenti di prova per tutti, o forse le hanno esaurite. E che varrebbe la pena, vincendo diffidenze e anche le pigrizie che sono la malattia culturale più grave, guardare a Fiuggi.
Forse anche la cultura, quella pure che intende parlare a fasce ampie di popolazione, ha bisogno di luoghi dove ritemprarsi, trovare fonti. Lo hanno capito il ministro in carica ed esponenti dell’opposizione. O grandi produttori come Disney che con gran successo ha presentato in anteprima il sequel di Narnia.
Al sottoscritto, poeta in esplorazione in territori altrui, insieme al Presidente di Giuria Pupi Avati e ad altri addetti ai lavori toccherà individuare quale premiare tra i film in concorso.
Ma un premio al coraggio va dato a chi ha voluto, in questo paese che sembra ripiegato culturalmente in assetto di battaglie di retroguardia, in lamenti o in rimembranze, promuovere un laboratorio evento che ha tutta l’aria di guardare avanti e di promuovere una cultura che non ha paura della vita.


«Mi staccarono il sondino ma ero viva e sentivo tutto» - Madre di tre figli di trentatrè anni racconta in un libro il suo dramma: per 70 giorni in stato vegetativo
Avvenire, 31 luglio 2008
DA VERONA LORENZO FAZZINI
E ra il 29 giugno 1995: Kate Adamson, allora 33enne madre di due bimbi di 3 e 18 mesi, in procinto di qualificarsi co­me personal trainer, incappa in un infarto. Da quel mo­mento, per 70 lunghissimi giorni, entra in quella che tecnica­mente viene definita 'locked-in' sindrome, ov­vero intrappolata in un corpo immobile, per­fettamente cosciente.
Per questa giovane donna sposata, nata in Nuo­va Zelanda e residente a Los Angeles, in Ca­lifornia, il futuro si presentava terribile. «Ero un perfetto candidato all’omicidio compassione­vole » ha ricordato in seguito. Anzi: sentiva che i medici che l’avevano in cura dicevano a suo marito: «Lasciamola andare. È meglio per tut­ti. Del resto, non avrebbe voluto vivere così». Ov­vero, con un sondino in gola e uno in pancia per l’alimentazione e l’idratazione sommini­­strate artificialmente. I dottori avevano anche una qualche ragione, che oggi si potrebbe chiamare “testamento terapeutico”: dopo la sua incredibile vicenda, la Adamson ha ri­cordato come, da sana, avesse dichiarato: «Se mi succedesse qualcosa di brutto, preferisco morire che essere di peso a qual­cuno. Non voglio che vengano presi provvedimenti eroici quan­do sarà giunto il mio tempo». Le foto che accompagnano il suo volume autobiografico “Ka­te’s Journey: Paralyzed but not Powerless” (“Il viaggio di Kate: paralizzata ma non senza forza”) la presentano in una smor­fia di dolore che ella nemmeno riusciva a comunicare all’e­sterno. '«Sentivo il dolore, non potevo comunicare con il mon­do esterno, però sapevo cosa si diceva di me» ha raccontato la donna (la parte sinistra del suo corpo adesso è paralizzata), che ora riveste diversi ruoli di attivista pro-life in qualità di portavoce dell’American Heart Association. «Ad esempio, sen­tivo dire dai medici che avevo una possibilità su un milione di vivere ancora».
La seconda notte in ospedale i medici consigliarono al marito della donna di rivolgersi ad un’agenzia funebre; per 8 giorni le venne staccato il sondino gastrico che la nutriva. Ma un giorno Kate ha sbattuto gli occhi e quel battito di ciglia l’ha salvata, gra­zie all’indefesso lavoro di avvocato del marito Steven. «Quando mi tolsero il sondino, non potevo parlare ma sentivo tutto e gri­davo dentro di me: non uccidetemi, datemi qualcosa da man­giare » ha raccontato in seguito. Da quando - dopo anni di rieducazione fisica - Kate ha ripreso la vita di prima, non cessa di portare la sua testimonianza di ex­malata vegetativa, alzando la voce laddove la vita umana rischia di venir calpestata. Nell’aprile 2005, poco dopo la morte di Ter­ri Schiavo, la Adamson levò la sua parola al sotto-comitato del Congresso sulla giustizia, la politica sulle droghe e le risorse u­mane. In quell’occasione parlò dei diritti di coloro che non pos­sono parlare da se stessi e sulle responsabilità di una società che deve farsi carico di queste persone.



mercoledì 30 luglio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Moyra un amore senza fine
2) Antidoto al nichilismo
3) TESTIMONIANZA/ Storia di Redouane, giovane marocchino: quando integrazione vuol dire amare la persona
4) Pellico e Verdi «devoti» del Sales
5) Weigel spalanca le porte della Chiesa ai non credenti
6) Con Agostino gli studenti non si annoiano
7) Hanoi, terreni e parrocchia sequestrate da ditte e uffici commerciali
8) Mindanao: uccisi quattro cristiani, dispersa una quinta persona
9) Non c’è bisogno di congelare gli embrioni

Moyra un amore senza fine
Autore: Buggio, Nerella
Fonte: CulturaCattolica.it
martedì 29 luglio 2008
Nel 2000 Moyra, sposata da 5 anni, attendeva il primo figlio, una bimba, che avrebbe dovuto nascere il 18 gennaio.
Invece, un’embolia amniotica, la corsa all’ospedale, Asia muore e la sua mamma va in coma.
La signora Giovanna è la mamma di Moyra Quaresmini e mi accoglie sul portone di casa con un sorriso gioviale, abitano a Nova Milanese, una zona tranquilla di questo paese dell’hinterland milanese. Il nostro primo incontro è stato telefonico e mentre si chiacchierava ho scoperto che, forse, c’eravamo già incontrate a Borghetto Santo Spirito, laddove le persone con handicap hanno l’occasione di trascorrere un periodo di vacanza nella casa dell’Unitalsi. Non avrei mai immaginato che sua figlia fosse la donna in coma vegetativo di cui avevo sentito parlare: ho sempre pensato che le persone in coma vegetativo stessero tutto il giorno stese in un letto ed invece sua figlia era in spiaggia, in carrozzina. Vedi il pregiudizio? Credi già di sapere, e questo non ti da modo di incontrare il vero.

Incontro Moyra per la prima volta mentre se ne sta seduta sulla sua sedia a ruote sul balcone di casa, è un’estate tiepida e lei si gode il sole del mattino che le bacia la pelle.
Arriva un’amica che viene a trovarla e a farle la manicure. Aveva tante amiche Moyra ma ora, mi racconta la mamma, solo qualcuna perché le altre preferiscono ricordarla com’era.
Mi viene spontaneo pensare che è una frase che si dice davanti alle persone defunte, ma Moyra non lo è, questo è certo, basta guardarla mentre sorride alla mamma che la bacia sul collo.
Sulle pareti della sua stanza le foto di prima, quando faceva la parrucchiera e quando progettava un futuro da moglie e mamma, prima di quel 13 gennaio, quando la vita ha fatto una giravolta e nulla di quello che si era pensato, immaginato, accarezzato è avvenuto come previsto.

Nel 2000 Moyra, sposata da 5 anni, attendeva il primo figlio, una bimba, che avrebbe dovuto nascere il 18 gennaio.
Tutti attendevano Asia: la futura nonna l’aveva vista nell’ecografia succhiarsi il dito, ed anche il futuro nonno Faustino aveva potuto vederla attraverso lo schermo quando, mancavano pochi giorni al termine della gestazione.
Invece, un’embolia amniotica, la corsa all’ospedale, Asia muore e la sua mamma va in coma.

Ora Giovanna e Faustino lo raccontano con serenità, capisci che hanno passato momenti atroci, ma anche che li hanno superati, che vivono una serenità ed una complicità che si coglie guardandoli.

Andiamo in cucina, papà Faustino ci prepara il cafè e la mamma porta tra noi anche Moyra, le fa bere il succo di frutta con il cucchiaino. Inizialmente Moyra era alimentata con la Peg, ne abbiamo sentito parlare molto in questi giorni: si tratta del sondino dal quale passa l’alimentazione per molte delle persone in coma vegetativo, come accade anche per Eluana Englaro, ma ora Moyra mangia con il cucchiaino, grazie alla pazienza e alla tenacia della sua mamma. Il sondino naso-gastrico serve solo per l’acqua, ma la mamma nutre la speranza che ci si possa liberare anche di quello.
Sul fornello si sta cocendo un coniglio e la casa profuma di buono.
Ci raccontiamo come se ci conoscessimo da sempre, papà Faustino è un pratico e mi racconta che bisognerebbe avere il coraggio di dire le cose come stanno, che le persone in coma costano e che forse, dietro a questa frenesia di staccare il sondino che le alimenta, c’è anche una mentalità che considera le persone come Moyra un peso.

Sia chiaro, nessuno di noi vorrebbe fare certe fatiche, ma la vita a volte traccia sentieri imprevisti e tu, guardando questa famiglia, capisci che il loro hanno scelto di percorrerlo questo sentiero, è un eroico quotidiano, per certi versi come quello di tanti altri. - Ci sono malattie che non si vedono -, mi dice il signor Faustino, persone che non vanno in giro su una sedia a ruote e nessuno conosce la loro fatica e la loro pena, ma è la vita, ed è fatta anche di questo.
Il Comune manda due persone che tutte le mattine si occupano di Moyra, la lavano e la pettinano; poi l’Asl manda la fisioterapista ma, poi, rimangono il sabato e la domenica dove tutti i servizi si interrompono e, forse, si potrebbe pensare a migliorare questo aspetto. e Poi ci sono alcune forniture farmaceutiche che non sono gratuite, anche di questo bisognerebbe tenere conto.
L’amica di Moyra ci saluta. Prima di uscire accarezza Moyra sulle spalle ed è chiaro che a lei queste coccole piacciono.
Inoltre riesce a farsi capire quand’è in posizione scomoda o quando vuole farsi rimettere a letto, è chiaro che il grande amore e la serenità che trasmettono le persone che le stanno intorno l’aiutano a fare quei piccoli progressi che sono per lei una grande conquista.
Moyra e la sua famiglia sono una risorsa per tutti, non solo per chi vive e affronta lo stesso problema, ma anche per chi, come noi, è preso da mille altri problemi, per gli adolescenti che spesso cercano di “vivere la vita al massimo” rischiando di buttarla via. Passare qualche pomeriggio a casa dei signori Quaresmini potrebbe essere davvero uno scambio d’esperienze, toccare con mano come la vita sia bella, sempre, se accolta e coccolata anche nelle difficoltà.
Il coniglio è cotto e la signora Giovanna butta la pasta nell’acqua che bolle, tra un po’ pranzeranno ed anche Moyra mangerà il pranzo frullato di mamma Giovanna, io li saluto, ma esco con la certezza di avere incontrato nuovi amici, persone che con la loro vita ti aiutano a guardare in modo differente anche al tuo destino.



Antidoto al nichilismo
Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it
mercoledì 30 luglio 2008
L’acqua del Gave scorre veloce e fredda a pochi passi dalla grotta di Massabielle dove, l’11 febbraio del 1858, la Vergine Maria, “l’Immacolata concezione”, apparve per la prima volta a Bernardette Soubirous. Se si cammina lungo il muretto che costeggia il fiume, si avverte l’umidità che ha intriso anche le ossa di quella ragazzina, analfabeta e umile che ha portato al mondo l’annuncio della Vergine che chiedeva “penitenza!”, l’apertura dei cuori a Dio. Quest’anno ricorrono i 150 anni dalla prima apparizione e a Lourdes si celebra l’anno giubilare. La folla dei malati è impressionante: quanta sofferenza e insieme quanta dignità! Non si può sfuggire alla commozione che invade l’animo di fronte a tanto dolore, ma neppure di fronte allo sguardo e ai gesti amorevoli dei volontari che li accolgono e permettono ai malati di transitare sotto la grotta o di partecipare alle diverse celebrazioni. E’ un mare di carità in cui ognuno è abbracciato e ci si sente uniti da quel Mistero, che è la vita di ciascuno. Ho pensato a Eluana che il padre vuole far morire. È di nuovo stato evidente che il problema della vita è amare, perché solo l’amore accetta la sofferenza. I malati a Lourdes hanno accanto qualcuno che li ama e porta insieme con loro il peso della sofferenza, condivide con loro la domanda di senso della vita e del dolore. Andare da Maria, a Lourdes, è mettere nelle sue mani la croce, è appoggiarsi a Lei, che è stata sotto la croce del nostro Salvatore, perché il peso non sia insopportabile. Un altro pensiero mi ha accompagnato nella permanenza a Lourdes: l’importanza che la fede diventi cultura, generi un modo nuovo di giudicare e di conoscere la realtà, di affrontare le situazioni concrete della vita. Occorrono l’impegno e la responsabilità di tutti perché i giovani siano educati ad amare e a difendere la vita, in tutti i suoi stadi e in tutte le sue condizioni. I tanti che oggi faticano a trovare un senso nella sofferenza o i tanti che si pongono domande sulla dignità della vita quando essa si presenta in condizioni precarie o disperate, dovrebbero visitare Lourdes. Da sempre la commozione è un semplice e potente antidoto al nichilismo. A Lourdes si sperimenta che la speranza è possibile, si può guardare il mondo senza paura perché non si è soli, si cammina in mezzo a un popolo. Le fiaccole che alla sera illuminano il piazzale antistante la basilica sono un segno potente della ragione e della fede che, unite, gridano al mondo che si può vivere sperando e amando, sempre, perché Dio c’è. E se c’è Dio la vita è per sempre.


TESTIMONIANZA/ Storia di Redouane, giovane marocchino: quando integrazione vuol dire amare la persona
Redazione30/07/2008
Autore(i): Redazione. Pubblicato il 30/07/2008 –IlSussidiario.net
Spesso i dibattiti sull’integrazione possibile, gli studi dei modelli dei flussi migratori, tendono ad astrarsi e a radicalizzarsi a tal punto da trascurare alcuni piccoli esempi di una integrazione già in atto nel nostro Paese in tante esperienze formative sparse in tutto il territorio nazionale.
Quella di Redouane è una storia certamente particolare, unica come quella di ciascun immigrato e come quella di ciascuno di noi.
Redouane è un ragazzo marocchino della città di Youssoufia, di famiglia benestante benchè atipica sia per i canoni di noi italiani che per quelli arabi: genitori molto anziani e tre fratelli sparsi per il mondo, di cui uno in Italia. Quando Redouane arriva nel 2005 in Italia all’età di 17 anni con l’intenzione di passare un mese di vacanza con il fratello, ma da allora non è più ripartito.
A raccontare questa vicenda a ilsussidiario.net è Giuliano Ranzato, un uomo molto gentile e dalla voce simpatica. Ranzato è un tutor di ASLAM, una associazione di scuole professionali nella zona di Varese, un ente di servizi che si occupa di formazione e avviamento al lavoro. Redouane, infatti su proposta del fratello ha deciso di trasformare quello che doveva essere solo una breve vacanza nell’inizio di un cammino formativo e professionale frequentando i corsi di ASLAM. «Abitavano a pochi chilometri da qui – racconta Ranzato – e quando ci hanno fatto questa proposta, anche se eravamo a ridosso dell’inizio dell’anno scolastico abbiamo verificato che era possibile per Redouane iscriversi così lo abbiamo preso. Ha deciso di fermarsi con le quattro cose che aveva di punto in bianco, senza sapere nemmeno una parola di italiano e ha iniziato la scuola in queste condizioni. Era un po’ disorientato, e abbiamo dovuto inserirlo all’inizio del ciclo di studi anche se aveva qualche anno in più, ma poi tutto è andato bene».
Con l’andare del tempo, però sono emerse alcune difficoltà. «Ma per Redouane, come per tutti i ragazzi che vengono da noi, innanzitutto c’è stata la proposta di un rapporto personale e di una amicizia. La stessa proposta che facciamo a chiunque arrivi qui, sia esso italiano o extracomunitario: a noi interessa guardare in faccia chi abbiamo davanti per fare insieme un percorso umano e quello che abbiamo cercato di fare con Redouane è stato aiutarlo a trovare la propria strada. A volte capita che questo ci porti a consigliare al ragazzo, alla ragazza o all’adulto un'altra scuola o un’altra ipotesi professionale. Il nostro problema non è tenere i ragazzi con noi, ma che crescano». E così il cammino di Redouane ha avuto inizio, con la proposta di seguire un corso triennale per entrare in un’officina specializzata e iniziare in tempi molto brevi un lavoro che avrebbe potuto portarlo all’indipendenza economica. Per Redouane non era un percorso scontato, lui non era uno di quei “disperati” che con un malcelato senso di superiorità possiamo pensare che qualsiasi cosa imparino a fare – in fondo - è sempre meglio di niente. In Marocco frequentava quella che, fatte le debite proporzioni, è l’equivalente del nostro liceo. «Lui ha deciso dopo aver visto cosa volesse dire fare l’operatore meccanico che la cosa gli interessava. Poi, certamente, è stato fondamentale, come anche per altri suoi compagni extracomunitari accompagnarlo ogni giorno anche nelle difficoltà che incontrava nella lingua e nella comprensione di ciò che lo circondava, anche perché mentalmente non era preparato a un percorso così lungo, in fin dei conti era qui per una vacanza e si è trovato immerso in un mondo totalmente diverso dal suo per modo di agire, di pensare, di vivere sia nel rapporto con gli adulti che con i suoi coetanei». E le difficoltà si presentavano anche a casa, con gli anziani genitori rimasti in Marocco e il fratello maggiore che era diventato responsabile per lui davanti alla legge italiana, trasformandosi di fatto in una nuova figura autoritaria che a volte entrava in conflitto con il ragazzo. E questo nervosismo si ripercuoteva a scuola. «In particolare, però, un primo punto di difficoltà nei rapporti anche con i suoi compagni è stato che secondo Redouane noi lasciavamo agli alunni troppa libertà. E’ una cosa che lo ha sempre “scandalizzato”: per lui era inconcepibile una disciplina non rigida. Almeno non quanto in Marocco, dove il maestro di norma per mantenere silenzio e disciplina bacchetta gli alunni sulla schiena o sulle mani. Ma quello che non riusciva a capire in quel momento, e che lo avrebbe però aiutato a superare le difficoltà nate anche in famiglia è stato che stavamo iniziando a educarlo a vivere con libertà. Lui non ci era abituato e – soprattutto – non era abituato a gestire la responsabilità che dalla libertà deriva. Ma la chiave educativa per recuperare o inserire nella società ragazzi difficili o che sono fuori dalla società perchè stranieri, è spingere sull’acceleratore della fiducia e metterli alla prova nella gestione della propria libertà nel rapporto tra loro e con noi insegnanti».
Così, Redouane e il fratello, affidandosi all’aiuto di Giuliano sono riusciti a superare il loro momento difficile e per Redouane si è aperto un periodo di grandi soddisfazioni, nell’apprendimento di qualcosa che sentiva per cui e che a detta di tutti gli insegnanti era particolarmente portato a fare ottenendo grandi risultati in termine di qualità e quantità del lavoro svolto. E questo metodo vincente è proseguito anche negli stage nelle diverse aziende (grandi e piccole perché si possa essere in grado di valutare che tipo di dimensione lavorativa è più adatta per sè) e nei rapporti con amici e insegnanti.
«L’integrazione per Redouane è stata questa dinamica: una proposta educativa di qualcuno che ha avuto a cuore solo di farlo crescere e di aiutarlo a scoprire la sua strada e a muoversi per cercare di percorrerla. Ma è la dinamica che usiamo con tutti i nostri ragazzi: è la descrizione di una compagnia nel diventare adulto della persona che abbiamo di fronte. Nel caso di un extracomunitario, quello che cambia è più che altro l’aspetto dell’inserimento lavorativo perché capita talvolta che le aziende abbiano timore, magari anche per passate brutte esperienze, di assumere ragazzi extracomunitari, ma qui sta a noi fare da “garanti” non in modo formale ma grazie al rapporto di fiducia che sappiamo costruire nel tempo con chi fa l’azienda a cui ci rivolgiamo. Il problema è sempre la persona». Oggi Redouane è riuscito a completare il suo ciclo di studi e a ottenere la qualifica a cui aspirava superando anche gravi difficoltà burocratiche insieme a Giuliano, che continua a raccontare appassionatamente i progetti, i drammi, il desiderio di costruire una famiglia e tutti i piccoli e grandi risvolti di una storia di cui oramai lui e gli altri insegnanti di ASLAM sono parte integrante, tanto che gli anziani genitori di Redouane sono arrivati dal Marocco per ringraziarli e pregare (loro sono musulmani) insieme a loro. Un esempio concreto, di ciò che vuol dire integrazione.


Pellico e Verdi «devoti» del Sales
di ROBERTO BERETTA
Avvenire 29-7-2008
Sta in ginocchio da quattro se­coli e non è ancora stanca, Fi­lotea.
«Rivolgo la mia parola a lei e, volendo mettere a disposizio­ne di molte anime ciò che in un pri­mo tempo avevo scritto per una so­la, uso il nome comune a tutte quelle che vogliono essere devote; Filotea, infatti, vuol dire amante e desiderosa di amare Dio».
Così Francesco di Sales nella prefa­zione del suo «povero piccolo li­bro »: la celeberrima Filotea, appun­to, ovvero Introduzione alla vita de­vota,
un classicissimo della spiri­tualità che pare sia il titolo cattolico più stampato di sempre, dopo i te­sti sacri. E che proprio ad agosto compie 4 secoli: fu infatti nell’estate 1608 che il suo autore – nobile di fa­miglia savoiarda, vescovo della Gi­nevra calvinista, fondatore e diret­tore spirituale di grandi fondatori, futuro dottore della Chiesa – conse­gnò il testo allo stampatore lionese Pierre Rigaud, che poi lo fece uscire a dicembre (anche se la data sulla prima edizione è il gennaio 1609).
Da allora, la Filotea ha generato u­na quantità di imitazioni (in realtà non sempre all’altezza dell’origina­le) ed è diventata anzi sinonimo del manuale di orazione tout court per generazioni di pie donne: che del resto erano sempre state il pubblico privilegiato del Sales, prima di tutte la futura santa Francesca di Chan­tal. Anche l’opera per cui il vescovo è rimasto celebre, infatti (sarà se­guita 7 anni più tardi dal meno no­to
Teotimo, ovvero Trattato dell’a­more divino), era stata scritta per u­na nobildonna, Louise de Char­moisy, vedova di un suo cugino, che il futuro santo aveva dovuto spiritualmente «corteggiare» 4 anni prima che cadesse – parole sue – «nella mia rete». A costei il sacerdo­te aveva fornito dei «consigli per i­scritto » e, avendoli lei passati a un gesuita per conferma, quest’ultimo li trovò «un tesoro talmente eccel­lente e utile che sollecitò a farli stampare».
Filotea è comunque un personag­gio già etimologicamente universa­le e anche per questo il suo succes­so fu subito straordinario: la secon- da edizione dell’opera – arricchita di altri scritti originariamente desti­nati alla Chantal – seguì immedia­tamente la prima e alla terza l’auto­re poteva precisare: «Questo libret­to è uscito dalle mie mani nell’anno 1608. Nella seconda edizione sono stati aggiunti diversi capitoli, ma poi una svista ne ha fatti tralasciare tre inclusi nella prima. In seguito è stato stampato spesso senza la mia approvazione, e, con le ristampe, anche gli errori si sono moltiplicati.
Ora, eccolo di nuovo corretto, con tutti i capitoli». In ogni modo l’edi­zione definitiva è del 1619; entro il secolo solo in francese se ne enu­merarono 40 edizioni e alla fine dell’Ottocento ben 400.
In italiano fu fatta tradurre da Gre­gorio Barbarigo, vescovo di Berga­mo, poco oltre la metà del Seicento. Silvio Pellico ne Le mie prigioni la definisce opera di «ottimo filosofo» e Giuseppe Verdi la annovera nella sua pur «laica» biblioteca. Don Bo­sco la lesse già in seminario, quan­do scherzava sul suo cognome so­stenendo di essere un «bosco di sa­les » («salice», in dialetto piemonte­se), e tanto ne stimò il modello e­ducativo «dolce» e l’ascetica «popo­lare » da intitolare al suo autore pri­ma l’oratorio e poi la congregazio­ne. Pio XI nel 1923 definì il libro «il più perfetto nel suo genere, secon­do i suoi contemporanei» e si augu­ro che tutti i cristiani lo leggessero.
Papa Luciani in un discorso rivelò di conoscerlo fin da bambino in un’edizione «purgata» e di averla «amata fin dall’infanzia», tanto da ricomprarla – ormai prete – in fran­cese.
Ciò che apparve anzitutto innovati­vo fu la scelta di san Francesco di rivolgersi ai laici: «Di fronte a forme di pietà sovraccariche di elementi monastici – riassume lo studioso di spiritualità Anton Mattes –, egli propone un nuovo modo di essere cristiani in mezzo al mondo». La Fi­lotea è in effetti una miniera di con­sigli pratici (anche troppo, appa­rentemente: per esempio sul modo di vestire o di fare conversazione, sui passatempi e le passeggiate, i balli, il cibo, la vita coniugale...) di­retti al ceto medio-alto, che non poteva sottrarsi ad alcune abitudini della cosiddetta «buona società» ma desiderava al medesimo tempo crescere nella virtù e nella vita cri­stiana.
Affiora poi lo schema loyolano degli Esercizi (il Sales aveva studiato dai e con i gesuiti), con le meditazioni da svolgere «mettendosi alla presenza di Dio»; ma – invece di impostare il me­todo Contro la severità dei calvinisti il testo sottolinea la dolcezza nell’educazione.
Un vero manuale ascetico che però non risparmia consigli pratici sui flirts d’amore a mo’ d’adde­stramento militare­sco – il vescovo gi­nevrino preferisce insistere sull’educa­zione dei sentimen­ti. Nella Filotea – riepilogava Pio XI – si mette «in chiaro quanto la durezza, che atterrisce e sco­raggia nell’esercizio delle virtù, sia alie­na dalla pietà ge­nuina ». Infatti Francesco di Sales (che pure fu padre spirituale di Ma­dre Angelica, la badessa di Port­Royal, divenuto in seguito il princi­pale focolaio dei rigori del gianseni­smo) non si fa scrupolo di difende­re la comunione frequente e la dol­cezza verso se stessi; il che suona ri­sposta anche pastorale alla severità dei calvinisti, con la quale il nobile ecclesiastico si era a lungo misurato fin dai primi anni di sacerdozio.
Come sempre avviene quando in­tervengono i successori, tuttavia, proprio questi due punti di forza dell’insegnamento salesiano – pri­vato dagli epigoni del necessario e­quilibrio e portato alle estreme conseguenze – daranno origine an­che ai vizi cui la Filotea ha indiret­tamente contribuito nell’ascetica cattolica: il devozionismo dolcia­stro (già Bossuet aveva accusato il Sales di quietismo) e il distacco del cristianesimo dalle fonti. In effetti, è accaduto che generazioni di cri­stiani si siano formati più su quel li­bro e sulle sue imitazioni che sul Vangelo, al punto che la fede ha spesso preso l’immagine d’una se­quenza di «pie pratiche» – le «devo­zioni », appunto – e di esercizi vir­tuosi in vista del raggiungimento di una perfezione alquanto astratta; una separazione di fatto tra vita e religione, ovvero l’esatto contrario di quanto san Francesco desidera­va.
La Filotea e i prodotti simili (molto diffusa per tutto il Novecento fu l’o­pera omonima compilata da padre Giuseppe Riva) sono così diventati paradossalmente il parallelo «per laici» – anzi: per lai­che – del breviario dei preti, anche dal punto di vista edi­toriale: le donne più zelanti, ricevuto il libretto in dono alla prima comu­nione o alle nozze, per tutta la vita lo portavano in chiesa per consultarlo du­rante la messa op­pure lo tenevano a capo del letto per «fare le devozioni», all’inizio e alla fine della giornata. In questo senso Hans Urs von Baltha­sar assegna a Francesco di Sales il titolo – non solo onorifico – di «fon­datore della spiritualité ».
Non occorrerebbe invece esaltare una certa «modernità» della Filotea;
basta leggerne – per esempio – le annotazioni che condannano la fretta, il capitolo sulla possibilità di osservare la povertà di spirito an­che nelle ricchezze, i consigli sui
flirts amorosi o sulla sessualità nel matrimonio. Non per nulla, ancora oggi qualcuno sul Web ha intitolato il suo sito di riflessioni religiose o un blog di meditazioni proprio a lei: la vecchia, amata, intramonta­bile
Filotea.


Weigel spalanca le porte della Chiesa ai non credenti
di Flavio Felice - 27--7-2008 - l'Occidentale

George Weigel è un autore straordinario. È noto per aver scritto una monumentale biografia intellettuale di Giovanni Paolo II: Testimone della speranza, frutto di anni di lavoro e di mesi di conversazioni private con il Santo Padre. Ad ogni modo, Weigel è soprattutto un politologo raffinato, opera all’interno dell’Ethics and Public Policy Centre di Washington DC ed è autore di numerosi saggi politici. Oggi l’Editore Rubbettino, per la collana della Fondazione “Novae Terrae”, pubblica un suo interessantissimo volume: La Chiesa spiegata a chi non crede. Il libro mira a fornire al lettore una spiegazione chiara di dieci temi controversi che tendono molto spesso a far apparire la Chiesa come un’istituzione legata a riti e a pratiche ormai desuete, che si ostinano a sostenere un insegnamento morale che, in taluni casi, potrebbe apparire persino crudele.
Il primo capitolo del libro si apre con una citazione di Evelyn Waugh, il grande convertito inglese che torna molto spesso nelle opere di Weigel e che appare come una figura familiare anche in questo libro. Waugh, consapevole della difficoltà che molti avevano nel capire le motivazioni della sua scelta, era solito rivolgere a tutti un semplice invito: “entrate”, guardate la Chiesa dall’interno, solo così potrete capire il senso profondo dell’insegnamento cattolico. Questo invito di Waugh è la chiave di lettura dell’intero libro di Weigel.
I temi controversi di cui parla Weigel non appaiono il frutto di convinzioni obsolete, quanto l’espressione di quell’amore della Chiesa per l’uomo, del rispetto della sua inalienabile dignità ed il precipitato di una saggezza antica, frutto della consuetudine con le anime e le aspirazioni profonde che giacciono nel cuore degli uomini.
Ecco, allora, le dieci questiono intorno alle quali il politologo di Washington costruisce il suo libro, a partire dal primo capitolo; si tratta di questioni fondamentali: Gesù è l’unico salvatore? La storia dell’uomo è la storia della salvezza. La storia di un Dio che si è piegato sull’umanità, mandando il suo figlio affinché liberasse l’uomo dalla paura del peccato e della morte. La fede in Dio ci sminuisce? Questo Dio, risponde Weigel, non ci priva della nostra libertà in cambio della salvezza, non è intervenuto nella storia del mondo per darci una religione e una serie di precetti da seguire. La verità che il cattolicesimo afferma è che al cuore della fede cattolica c’è al contrario un Dio che ama profondamente l’uomo; l’amore di un Dio che si è posto alla ricerca dell’uomo.
Un tema ricorrente nell’opera di Weigel riguarda l’inconsistenza dell’ermeneutica “destra-sinistra”, “liberale-conservatore” nel contesto della Chiesa cattolica. Molto spesso nel dibattito pubblico sulla Chiesa, specie dopo il Concilio Vaticano II, è stata utilizzata la griglia progressista-conservatore come modello ermeneutico all’interno del quale incasellare non solo le varie posizioni in termini di dottrina, ma anche le stesse persone, le diocesi, le parrocchie e qualsiasi teoria e prassi pastorale. Questo modello tuttavia non avrebbe alcun senso.
Ed ancora: dove possiamo trovare il mondo reale? Il capitolo spiega il senso della Liturgia, mostrando come l’azione liturgica non sia una mera prassi umana, ma un’azione intrapresa da Dio cui l’uomo prende parte. Un’intera sezione è inoltre dedicata allo scottante argomento dell’ordinazione sacerdotale femminile. Weigel fa vedere come la scelta della Chiesa di ordinare solo maschi apparirebbe sessista se il sacerdote fosse inteso come un funzionario che svolge determinate funzioni, ma se la figura sacerdotale è intesa come un’icona, allora le cose appaiono in maniera totalmente diversa. Il sacerdote è pienamente tale durante l’eucaristia. In quel momento egli agisce come icona di Cristo che si dona alla sua sposa, la Chiesa. Non è quindi tanto una questione di prestigio e di privilegi maschili ma di sostanza.
In un altro capitolo si domanda: come dovremmo vivere? Le norme morali non servono a imprigionare l’uomo ma a liberarlo. Libertà non vuol dire fare quello che si vuole, ma acquisire delle regole che ci consentono di agire in libertà. Weigel spiega questa apparente contraddizione con due esempi: l’apprendimento di una lingua straniera o quello di uno strumento musicale. Parlare una lingua straniera non vuol dire produrre suoni senza senso ma interiorizzare delle regole (sintassi, grammatica, ecc.); possiamo essere davvero liberi di parlare una lingua che non conosciamo? Ed allora, come dovremmo amare? È questo il capitolo dedicato all’amore e alla sessualità. Riprendendo la teologia del corpo di Giovanni Paolo II, Weigel evidenzia come l’etica cattolica non miri ad imprigionare la sessualità all’interno di una lista infinita di proibizioni, ma a conferirle bellezza e dignità.
Dall’amore al dolore il passo è breve, e quindi, ecco che giunge al capitolo VII la domanda: perché soffriamo? Il capitolo si sofferma su una delle questioni più spinose della teologia di tutti i tempi. Se Dio è buono perché permette la sofferenza. Weigel tenta di mostrare come la sofferenza possa essere vista in una nuova luce, quella della partecipazione al dolore di Cristo. La sofferenza intesa, dunque, come strumento di redenzione.
È a questo punto del prezioso volume di Weigel, che le domande da esistenziali tendono ad investire problematiche di ordine pubblico, proprio perché la consapevolezza esistenziale non può non condizionare il nostro sguardo sul mondo: è questo il senso di una pastorale matura, un cattolicesimo “adulto”, consapevole della pratica del discernimento. Ed ecco che nel capitolo VIII Weigel si domanda: che ne sarà del resto del mondo? Il problema del rapporto con le altre religioni e culture. La Chiesa deve mantenere il dialogo con le altre confessioni cristiane e con le altre religioni, ma non deve mai smarrire la propria identità. Weigel ripete che nulla salus extra Ecclesia. Tuttavia, la salvezza giunge anche, per vie a noi non note, ai fedeli delle altre religioni.
Nel IX capitolo il politologo dell’Ethics and Public Policy Centre si pone una delle domande che nella modernità hanno maggiormente condizionato il rapporto tra Chiesa-mondo, ovvero il rapporto tra la dottrina della Chiesa ed il comune sentire delle realtà politiche, economiche e generalmente culturali: il cattolicesimo garantisce la democrazia? Il cattolicesimo ha garantito la nascita della democrazia in molte aree del pianeta, tuttavia la Chiesa è convinta che la democrazia non sia una sorta di sostanza eticamente neutra, al contrario, ritiene che la sua funzione sia quella di garantire la libertà per eccellenza, quella che rispetta la dignità autentica dell’uomo. Ed allora, eccoci giunti alla domanda finale, quella con la quale l’autore chiude il libro: che cosa ne sarà di noi? L’uomo non è fatto per dissolversi nel nulla. Non siamo polvere cosmica, un agglomerato di cellule, ma siamo stati creati liberi per un destino di santità. Siamo stati creati per vivere per sempre liberi con Dio.
George Weigel, La Chiesa spiegata a chi non crede, Rubbettino, 2008, pp. 176, €4,00


Il fascino attualissimo del professore di Cartagine
Con Agostino gli studenti non si annoiano
Seguire l'itinerario agostiniano per comprendere meglio la storia della filosofia antica e il mutamento del concetto di saggezza portato dal cristianesimo. Questi gli obbiettivi del libro Sant'Agostino e la saggezza (Torino, Lindau, 2008, pagine 111, euro 12) del quale pubblichiamo il primo capitolo.
di Lucien Jerphagnon
Quando quel mattino del gennaio 1963 entrai nell'anfiteatro non ero molto a mio agio. All'epoca ero assistente del caro Maurice de Gandillac alla Sorbona. A quel tempo, al loro ingresso, i neodiplomati dovevano frequentare un anno preparatorio, la "propedeutica", termine il cui etimo presupponeva già nei partecipanti una minima conoscenza del greco. Avevamo il compito di mettere quei giovani in condizione di apprendere, di insegnare loro a rivolgere il proprio interesse a campi diversi, affinché scoprendo altri oggetti di studio confermassero la loro presunta vocazione e ne scoprissero i rischi. Questo avveniva perché dovevano superare velocemente gli esami che allora erano previsti dal piano di studio del loro corso di laurea. In breve, sembrava una catechesi o un'iniziazione ai misteri. Oggi non è più così.
Per dare a quei neofiti, che oggi hanno passato la sessantina, un'idea di quella che poteva essere la storia della filosofia avevo scelto Platone, Agostino e Cartesio.
Ottenni l'approvazione del mio superiore: tre autori, tre epoche, e quindi tre fasi del pensiero nel corso della storia. I tre mesi dedicati a Platone passarono piuttosto bene, anche se, con un certo distacco, mi verrebbe da dire che "potevo fare meglio". Agostino però era la prima volta che lo insegnavo. Ecco spiegata la mia agitazione di quella mattina entrando nell'anfiteatro di anestesiologia, dove ogni settimana avevo due ore. La filosofia non era certo prevista nel programma di medicina, ma in quel periodo i complessi di Censire, Nanterre o Vincennes non esistevano neppure nella testa dei ministri, e quindi la facoltà di medicina metteva generosamente a disposizione di quella sovrappopolata di lettere un'aula.
A volte mi capitava, prima di appoggiare le mie cose, di spostare delle garze o alcuni strumenti lasciati l'ora precedente dal collega di medicina... Che nostalgia.
Mi rivedo, sempre quel mattino, estrarre dalla cartella i miei appunti e le Confessioni nell'edizione Budé. Pessima idea, mi dicevo, aver scelto Agostino così su due piedi, quando avrei potuto preferire Lucrezio, Marco Aurelio o un altro. In quell'anfiteatro affollato, di certo popolato in maggioranza da atei più o meno ferventi, da marxisti di qualche osservanza o da agnostici tranquilli, chi mai avrei potuto interessare con il mio "Agostino (355-430), nato a... e così via"? Qualche "prete" forse, come venivano chiamati ai miei tempi quelli che "andavano a messa"; una sorta di specie in via d'estinzione dopo la morte di Dio! Ah, ci fossero state almeno due suore gentili e assidue come quelle che annotavano scrupolosamente tutto ciò che dicevo su Platone. Forse questo avrebbe procurato loro due posti da insegnanti? A ogni modo, mentre sedevo, mi dissi alea iacta est.
Con mia grande sorpresa, nelle settimane successive non soltanto non vidi l'anfiteatro spopolarsi, come mi sarei aspettato, ma percepii ben presto quel tipo di attenzione che ogni insegnante conosce bene: quella tradita da un sorriso, da un luccichìo negli occhi, da una penna che rimane a mezz'aria per qualche istante. Scoprivano inaspettatamente che questo santo del calendario, che alcuni conoscevano solo per il nome di una chiesa di Parigi e della rispettiva fermata della metropolitana, era intramontabile e capace di anticipare l'intuizione di sant'Anselmo e la sua argomentazione, Cartesio e il suo Cogito, parlando anch'egli di Dio in ogni pagina. Sentivo che non sarebbero scappati, e questo in parte mi rassicurava. Quei due mesi sarebbero serviti a qualcosa. Infatti, quando in seguito affrontai Cartesio, citando i passi in cui faceva riferimento ad Agostino colsi nei loro sguardi un bagliore di complicità. Sapevamo di cosa si trattava ed eravamo contenti di vederci più chiaro. I libri parlano tra loro, è risaputo.
In seguito, quando insegnai storia della filosofia antica e medievale, mi venne più volte l'idea di dedicare ad Agostino un intero corso avanzato. Del resto non sarei stato l'unico a farlo: seppi infatti che, anche se raramente, alcuni libri di Agostino erano stati inseriti nei programmi di abilitazione all'insegnamento universitario sia di lettere che di filosofia. Dunque, a parte qualche sporadico caso di grave allergia ideologica, i miei studenti accantonavano ogni orientamento e manifestavano curiosità per il percorso intellettuale di Agostino, per i suoi viaggi e le sue scoperte. E soprattutto per il suo modo di innovare ciò che affrontava, di collocare inaspettatamente ogni cosa su un altro piano. Tutto questo li affascinava. L'interesse degli studenti per Agostino era testimoniato in modo indiscutibile dai loro lavori, dalle loro tesi. e dalle loro relazioni... persino dai loro appunti.
Ma al di là del pragmatismo scolastico che mira alla lode - o alla media - io avvertivo dell'altro. Potevo dire a me stesso che questi ragazzi avevano tratto dall'incontro con Agostino tutto un altro vantaggio che non il semplice buon voto.
Gli esami orali, le conversazioni in corridoio, tutto questo mi dava l'impressione che quella generazione, un millennio e mezzo dopo Agostino, sentisse in sé qualcosa fino ad allora mai conosciuto. Non che si fossero minimamente convertiti, né era questo il mio scopo; anche perché quello di Agostino non era certo il mio modo di vedere le cose. Avevo una sensibilità troppo "platonica" per condividere tutti i punti di vista di Agostino. E poi - come dire - Agostino era più cristiano di me. No, si trattava di altro. Era come se nell'esperienza personale narrata da Agostino, per quello che ne avevamo tratto dalla sua filosofia e dalla sua vita personale, scoprissimo tutti insieme, ragazze e ragazzi, un'altra dimensione dell'esistenza oppure, se l'avessimo sperimentata, un altro modo di esprimerla. Avevo l'impressione che si facesse strada in questi giovani la preoccupazione comune di collocare nel tempo la propria effimera durata, di realizzare un equilibrio, un'armonia e forse - chi lo sa - una qualche felicità, al di là del significato che ognuno le attribuisce. In breve, avevo l'impressione che attraverso questi testi venuti da un passato tanto lontano e che potevano sembrare così distanti dalle preoccupazioni quotidiane, aprissero gli occhi a quel modo di pensare e di vivere che, per consuetudine e in mancanza di meglio, chiamiamo saggezza. Una saggezza tra tante altre, certo, ma che sembrava aver brillato nei secoli fino a raggiungere il nostro anfiteatro.
Non era forse questo ciò che seguitavo a scoprire nel corso della mia vita, leggendo e rileggendo quegli autori, sempre felice della fortuna che avevo di superare i limiti del mio secolo e di offrire questa possibilità anche ai ragazzi che la sorte mi affidava? Riguardo ad Agostino, volevo proprio renderli partecipi di quello che in lui mi aveva affascinato. Per queste ragioni avevo avuto l'idea di includerlo nel programma: per passione. (...) Ci si può appassionare a un autore senza per questo assoggettarvisi. Lo si prende, lo si lascia e vi si ritorna. Del resto è proprio così che durante i miei studi sono arrivato ad Agostino: per curiosità. E non potevo che sentirmi sempre diverso, e a mano a mano che scorrevo le pagine in quarto dell'edizione Vivés mi affezionavo a lui sempre di più. Poi scoprivo che avevo condiviso le sue stesse letture: Plotino, Porfirio e tutti gli altri. Ma ero ben lungi dal pensare che non l'avrei mai più lasciato fino alla fine dei miei giorni, né che avrei contribuito come potevo a mantenerne viva anche ai giorni nostri la presenza e forse anche la saggezza. Inoltre, bisogna precisare cosa si può imparare da tale sapienza e come venivano percepite le cose al tempo di Agostino, il quale prima di ottenere la più prestigiosa cattedra di retorica dell'Impero Romano d'Occidente, quella di Milano, era stato anch'egli uno dei tanti studenti di Cartagine, così come io lo ero stato di Parigi. La saggezza, dunque. Ma di fatto quale saggezza?


(©L'Osservatore Romano - 30 luglio 2008)


30/07/2008 11:10
VIETNAM - VATICANO
Hanoi, terreni e parrocchia sequestrate da ditte e uffici commerciali
di Nguyen Hong
Dopo 15 anni arriva una risposta fumosa del Comitato del popolo, che domanda alla parrocchia di sottomettersi agli investimenti e agli sviluppi commerciali della zona. Il Comitato valuterà se la popolazione ha bisogno di “spazi per attività religiose”. ./files/img/VIETNAM_THAI_HA.jpg
Hanoi (AsiaNews) – La parrocchia di Thai Ha ad Hanoi può dire addio ai terreni e alla casa, sequestrati da tempo: il Comitato cittadino del popolo ha inviato una lettera all’arcivescovo…. Dicendo che la parrocchia deve sottomettersi alle “leggi sugli investimenti e quelle sulle costruzioni”.
Da oltre 15 anni, da quando in Vietnam è stata varata la do moi (le riforme economiche), la maggior parte del terreno della parrocchia è stato requisito dal governo per gli uffici della Compagnia dell’elettricità, un cementificio, una ditta di trasporti e una di confezioni.
Da almeno 15 anni il p. Vu Khoi Phung, parroco, e il provinciale dei Redentoristi, p. Nguyen Trung Thanh, domandano il ritorno dei terreni e della casa parrocchiale sequestrata.
Finalmente in questi giorni, il Comitato del popolo di Hanoi ha risposto inviando una lettera all’arcivescovo e al provinciale dei redentoristi. In essa si afferma che tutti i terreni dell’area vengono affidati al Comitato del popolo del distretto di Dong Da per “organizzare”, “studiare”, “correggere” un piano di investimenti per progetti di bene pubblico, costruendo una strada sempre sui terreni della parrocchia. La lettera esige che la parrocchia segua le “leggi sugli investimenti e quelle sulle costruzioni”. Il Comitato avrà il potere di valutare se la popolazione dell’area ha bisogno di spazio per i servizi religiosi, oppure no.
Per i fedeli di Thai Ha, le conclusioni così vaghe della lettera non promettono nulla di buono: “È fin troppo chiaro – dice uno dei parrocchiani – che il governo ha deciso di requisire tutti i terreni della parrocchia per seguire piani di sviluppo economico. Ma facendo questo compie un’ingiustizia e viola la libertà religiosa”. I parrocchiani hanno deciso di rifiutare la decisione del Comitato: “Con la scusa di fare progetti per il bene pubblico – essi dicono - in realtà sostengono industrie e compagnie private, senza interessarsi davvero al bene della popolazione. Secondo la legge vietnamita il governo deve servire il popolo e assicurare ad esso beni spirituali e culturali”.
P. Vu Khoi Phung ha chiesto all’arcivescovo di Hanoi e alla congregazione dei redentoristi di lanciare una campagna di preghiera per i membri della parrocchia, ma “anche per il governo, perché impari a rispettare la giustizia per il popolo e la nazione”.
Dalla fine dell’anno scorso in Vietnam sono sempre più frequenti gli scontri fra la popolazione cattolica e le autorità locali a causa di sequestri di proprietà, avvenuti in passato, nel periodo “rivoluzionario” del Paese, giustificate allora con il “fare il bene del popolo”. Ora, con le nuove riforme economiche, i terreni vengono venduti a ditte private, invece che essere ridate ai legittimi proprietari.
È rimasto famoso il sequestro della ex nunziatura di Hanoi, venduta a una compagnia privata che vuol farne un bar e un albergo. Per settimane i fedeli hanno occupato il cortile della costruzione, sfidando la polizia. Altri sit-in e scontri sono avvenuti anche ad Ho Chi Minh City.
Il problema della restituzione dei beni ecclesiastici è stato affrontato anche durante l’ultimo incontro del governo di Hanoi con una delegazione vaticana, lo scorso giugno.


30/07/2008 09:20
FILIPPINE
Mindanao: uccisi quattro cristiani, dispersa una quinta persona
di Santosh Digal
Ieri un commando ha assaltato un bus a Lanao del Sur, roccaforte del fronte islamico Moro. Gli aggressori hanno derubato i passeggeri, poi hanno ammazzato gli uomini a colpi di pistola. La Chiesa filippina auspica un accordo tra governo e Milf per scongiurare una escalation delle violenze.

Cotabato City (AsiaNews) – Con una esecuzione in pieno stile terroristico, ieri nel Mindanao un gruppo armato ha bloccato un mini-bus uccidendo quattro uomini di fede cristiana, mentre una quinta persona risulta tuttora dispersa.
Secondo fonti della polizia, l’omicidio è avvenuto in un’area considerata una roccaforte dei ribelli del fronte islamico Moro, non nuovo a episodi criminali di questo tipo, e molto attivo nell’isola. Gli agenti non hanno voluto chiarire se l’assassinio ha un movente di tipo confessionale, né ha specificato se sia da imputare proprio alle milizie musulmane. Dalle prime ricostruzioni sembra che il bus, con 15 persone a bordo, sia stato bloccato nei pressi di Malabang, nella provincia di Lanao del Sur, zona controllata dalle truppe del Milf. Gli assalitori hanno derubato i passeggeri, liberando le donne; hanno poi sequestrato cinque persone trascinandole all’interno della foresta. Quattro sono state ammazzate a colpi di pistola, mentre non si sa ancora nulla sulla sorte del quinto uomo rapito.
Negli ultimi giorni appare sempre più in bilico l’accordo di pace fra il governo centrale e le truppe del Milf, ritenute responsabili anche dell’attentato del 24 luglio scorso a Davao del Sur. Sempre ieri, invece, 30 ribelli islamici hanno assaltato un avamposto militare a Dualing, nel Cotabato del Nord, uccidendo un civile e ferendo altre quattro persone.
Il Milf rivendica il controllo del Mindanao, area a maggioranza islamica teatro di sanguinosi episodi di violenza: sul tavolo delle trattative la la creazione di uno stato “federale” – la Regione autonoma musulmana del Mindanao (Armm), che verrà ampliata con l’annessione di altri 712 villaggi a maggioranza islamica – oltre alla concessione dello sfruttamento delle risorse del territorio. I villaggi potranno decidere mediante referendum se unirsi all’Armm, ma il vice governatore del Nord Cotabato sottolinea l’inutilità della consultazione elettorale, perché vi sarebbero “brogli e minacce, al fine di spingere gli abitanti a votare per l’annessione”.
La chiesa cattolica filippina, attraverso la conferenza episcopale, auspica invece che “il governo e il fronte islamico Moro tornino a trattare, mettendo fine al momento di impasse”. Mons. Antonio Ledesma, arcivescovo di Cagayan de Oro e capo della commissione episcopale per il dialogo interreligioso, chiede con forza “la fine delle violenze” e la ripresa dei “colloqui di pace”. In caso contrario il Mindanao potrebbe rivivere gli anni di “terrore e guerra” già visti in passato. Per questo i vescovi sono favorevoli all’intervento di una terza parte che possa assumere il ruolo di mediatore neutrale fra i due fronti. Un ruolo che è ricoperto dalla Malaysia e che richiede “cura, diligenza e tempo” per andare a buon fine. Ma molti temono sia proprio il tempo a mancare: se non si raggiunge a breve un accordo, potrebbe scoppiare una nuova guerra nel Mindanao.


SUL FRONTE CRITICO DELLA FECONDAZIONE ASSISTITA
Non c’è bisogno di congelare gli embrioni
Avvenire, 30 luglio 2008
ENRICO GARACI*
U no degli aspetti più qualificanti della Legge 40 è senz’altro quello in cui viene incoraggiata e promossa la ricerca sull’infertilità e la sterilità. Si tratta di un orientamento che mette d’accordo tutti, fautori e detrattori di una Legge che nel nostro Paese ha comunque cambiato molte cose in materia di procreazione assistita.
Non si tratta però di un aspetto né formale né marginale e lo dimostrano gli sforzi prodotti dall’Istituto Superiore di Sanità in questa direzione. È dal 2004, infatti, che il nostro Istituto promuove studi sulla crioconservazione degli ovociti, una tecnica che, una volta validata, potrebbe permettere sia di evitare il congelamento degli embrioni sia la necessità per le donne, soprattutto quelle più giovani e quindi più capaci di produrre un maggior numero di ovociti, di sottoporsi a ripetute stimolazioni ormonali riducendo così i rischi per la loro salute.
Da quattro anni quindi abbiamo promosso studi multicentrici con i quali abbiamo contribuito a estendere la conoscenza su questa metodica, valutando i diversi protocolli di applicazione e cercando di chiarire i dubbi sulla sua sicurezza attraverso studi mirati sulla morfologia del gamete femminile e sugli eventuali danni a carico del patrimonio genetico cellulare che tali tecniche potrebbero comportare. E così poi abbiamo cercato di valutare la fecondabilità di questi ovociti una volta scongelati, la capacità di impiantarsi degli embrioni prodotti con queste cellule riproduttive così trattate. Senza nascondere la difficoltà dovuta alla particolare fragilità del gamete femminile, molto meno trattabile di uno spermatozoo la cui struttura è molto più resistente alle tecniche di congelamento e di scongelamento sicure e per il quale vi sono protocolli efficaci, oggi qualche buona notizia la si può dare anche sulla possibilità di trattare in questo senso le cellule-uovo femminili.
Dai nostri studi, infatti, si evince che con l’ultimo protocollo di crioconservazione degli ovociti è stata ottenuta una percentuale di gravidanze del 16,7%, numeri non lontanissimi da quelli che vengono ottenuti con lo scongelamento degli embrioni.
Attualmente solo in 98 dei 186 centri esistenti nel nostro Paese in cui si effettuano tecniche di fecondazione in vitro sono stati effettuati cicli di riproduzione assistita utilizzando ovociti crioconservati e dei circa 41 mila cicli effettuati in Italia nel 2006 solo il 7,3% è stato fatto con queste tecniche.
Anche l’Europa guarda l’Italia con interesse, riconoscendo i progressi fatti nel nostro Paese nel miglioramento di queste tecniche, come hanno dimostrato i lavori italiani presentati al convegno dell’ESHRE a Barcellona sui più recenti protocolli sulla crioconservazione ovocitaria, compresa la tecnica della vitrificazione (congelamento ultra-rapido) che sembra essere attualmente la più promettente proprio in base al numero di gravidanze ottenute, che sono stati accolti con interesse ed entusiasmo.
È proprio da Barcellona, infatti, è partito l’invito all’Istituto Superiore di Sanità di coordinare un progetto per la creazione di un Registro Internazionale sui bambini nati da crioconservazione di ovociti anche grazie al fatto che la normativa attuale fa dell’Italia il Paese con la casistica più alta dell’applicazione di questa tecnica.
È sicuramente intenzione dell’Istituto proseguire in questa direzione, studiando e valutando la sicurezza e l’efficacia dei metodi di crioconservazione degli ovociti, ma la creazione di un Registro è sicuramente auspicabile nell’interesse dei pazienti per fare chiarezza sulle reali opportunità offerte da una tecnica che può conciliare diverse sensibilità di fronte a un problema così delicato come è il concepimento e, in senso più ampio, il venire al mondo.
A volte le soluzioni non sono immediate e, sicuramente, questo può comportare qualche sacrificio e qualche attesa. Ma se le posizioni sulla natura degli embrioni sembrano essere inconciliabili, una soluzione che arriva dalla scienza, per stemperare i conflitti e restituire la serenità di un dibattito va assolutamente incoraggiata, con tutti i mezzi. Le maggiori speranze arrivano oggi, infatti, proprio dai primi risultati ottenuti mediante la tecnica di vitrificazione degli ovociti.
Le prime buone notizie sono quindi arrivate.
Un registro può fare il resto, monitorando i risultati di queste acquisizioni scientifiche. E in questo, come in altri casi, per procedere in una direzione che ci porti verso un’etica condivisa.
*presidente dell’Istituto Superiore di Sanità