Nella rassegna stampa di oggi:
1) Ventorino: l'ansia di possesso può stravolgere l'avventura della maternità
2) Anno Paolino: Il sogno ecumenico di papa Benedetto, di Sandro Magister
3) Cifre, trucchi e mercato nero. Guida contromano a tutto ciò che non avete mai saputo sulle intercettazioni e a tutto ciò che succede sottobanco tra magistrati, avvocati e giornalisti, dal Foglio.it
Ventorino: l'ansia di possesso può stravolgere l'avventura della maternità
Don Francesco Ventorino 02/07/2008
Autore(i): Don Francesco Ventorino. Pubblicato il 02/07/2008 – IlSussidiario.net
La notizia del patto tra teenagers che sono volutamente rimaste incinte contemporaneamente, in un liceo del Massachussets, parte da Washington (in un secondo tempo in parte rettificata) rimbalza in Italia, tra l’altro attraverso la penna di Vittorio Zucconi su Repubblica, e desta stupore, allarme e considerazioni di ogni genere. L’hanno fatto «perché lo volevano fare» avrebbero dichiarato le ragazze, e avrebbero aggiunto che esse hanno bisogno di «sentirsi amate incondizionatamente» da una creatura che sia tutta loro, da un figlio, e non appena da un amante di una notte, da un boyfriend o da un marito.
Don Luigi Giussani, un sacerdote del nostro tempo che ha educato diverse generazioni di giovani e ha indagato a lungo il pensiero moderno, cercando di comprenderne le più recondite ragioni, ha individuato nel nichilismo o nel panteismo (le due versioni che oggi prende la negazione di Dio) la radice di una fiducia incondizionata nel potere come unica sorgente di sicurezza personale.
Se l’autonomia dell’uomo è una menzogna, è finta, se il suo io nasce totalmente come parte del grande divenire, come semplice esito dei suoi antecedenti fisici e biologici, allora può farsi strada in lui la convinzione menzognera che chi ha più potere aumenta di più la propria consistenza.
Nichilismo e panteismo distruggono, infatti, la grandezza di quell’«io», che ripone nella propria libertà la propria dignità, e lo degradano al livello della necessità animale: la legge di ogni gesto e di ogni azione è ridotta conseguentemente ad istintività. Il potere – in questo orizzonte culturale creato dalla negazione di Dio – cessa di essere la dimostrazione della dignità e della capacità maggiore che l’uomo ha sopra tutte le altre creature e si realizza, invece, come possesso, ottenuto secondo un’istintività più scaltrita di quella dell’animale, ma identica come dinamica: orgoglio, violenza, sesso.
La dimostrazione della propria capacità di poter fare ciò che si vuole rimane – come hanno testimoniato le ragazze del Massachusetts – l’unica possibilità che si riesce a intravedere per uscire dalla paura e dalla solitudine, cioè il potersi dare da sé quell’amore incondizionato di cui il cuore ha bisogno.
L’alternativa ad una posizione del genere sta nel sottomettere la propria ragione a quella esperienza originale che ogni uomo fa nel rapporto con la realtà, cioè quella di trovarsi di fronte a qualcosa che non è suo, che c’è indipendentemente da lui e da cui, anzi, lui stesso dipende. Da questa percezione vertiginosa della contingenza delle cose, che poi è la stessa che genera irragionevolmente il nichilismo o il panteismo, nasce invece, in forza di una ragionevole evidenza, l’affermazione di un Altro, che è all’origine del nostro essere e della nostra libertà. Non siamo frutto di una necessaria o casuale evoluzione dell’universo, ma di un libero atto d’amore del Creatore.
Solo questo riconoscimento può generare quella sicurezza stabile e quella coscienza di una compagnia che costituisce il proprio «io» e che sconfigge dall’interno di se stessi la propria solitudine: l'io dipende continuamente da un Tu, che lo fa essere in ogni istante. «Se non è così – ha scritto Cormac McCarthy in Sunset Limited – allora tocca trovare tutt’altra spiegazione di cosa uno vuol dire quando dice realtà». Anzi si potrebbe chiedere a chi pensa diversamente: «Tu esisti davvero?».
A quelle ragazze del liceo di Gloucester qualcuno ha tentato di porre in modo convincente questa inquietante e radicale alternativa?
Anno Paolino: Il sogno ecumenico di papa Benedetto
Assieme al patriarca di Costantinopoli, il successore di Pietro ha indetto uno speciale anno giubilare dedicato all'altro grande apostolo, Paolo. Obiettivo dichiarato: "creare l’unità della 'catholica', della Chiesa formata da giudei e pagani, della Chiesa di tutti i popoli"
di Sandro Magister
ROMA, 2 luglio 2008 – Nella foto, Benedetto XVI e Bartolomeo I, il patriarca di Costantinopoli, pregano davanti alla tomba dell'apostolo Paolo, sotto l'altare maggiore della basilica romana di San Paolo fuori le Mura. È la vigilia della solennità dei santi Pietro e Paolo. E assieme hanno inaugurato uno speciale anno giubilare dedicato all'apostolo Paolo.
L'Anno Paolino, iniziato il 28 giugno, durerà fino al 29 giugno 2009. L'occasione è il bimillenario della nascita dell'apostolo, collocata dagli storici tra il 7 e il 10 dopo Cristo.
Benedetto XVI ha annunciato per la prima volta questo speciale anno giubilare un anno fa, il 28 giugno 2007. E così ora ha spiegato l'evento ai fedeli riuniti in piazza San Pietro, prima dell'Angelus della festa dei santi Pietro e Paolo di quest'anno:
"Questo speciale giubileo avrà come baricentro Roma, in particolare la basilica di San Paolo fuori le Mura e il luogo del martirio, alle Tre Fontane. Ma esso coinvolgerà la Chiesa intera, a partire da Tarso, città natale di Paolo, e dagli altri luoghi paolini meta di pellegrinaggi nell’attuale Turchia, come pure in Terra Santa, e nell’Isola di Malta, dove l’Apostolo approdò dopo un naufragio e gettò il seme fecondo del Vangelo.
"In realtà, l’orizzonte dell’Anno Paolino non può che essere universale, perché san Paolo è stato per eccellenza l’apostolo di quelli che rispetto agli ebrei erano 'i lontani' e che 'grazie al sangue di Cristo' sono diventati 'i vicini' (cfr Ef 2,13). Per questo anche oggi, in un mondo diventato più 'piccolo', ma dove moltissimi ancora non hanno incontrato il Signore Gesù, il giubileo di san Paolo invita tutti i cristiani ad essere missionari del Vangelo.
"Questa dimensione missionaria ha bisogno di accompagnarsi sempre a quella dell’unità, rappresentata da san Pietro, la 'roccia' su cui Gesù Cristo ha edificato la sua Chiesa. Come sottolinea la liturgia, i carismi dei due grandi apostoli sono complementari per l’edificazione dell’unico Popolo di Dio ed i cristiani non possono dare valida testimonianza a Cristo se non sono uniti tra di loro".
* * *
Universale ed ecumenico. Per una Chiesa che è "catholica" e "una". È questo il doppio orizzonte che il vescovo di Roma e il patriarca di Costantinopoli hanno voluto dare all'Anno Paolino, indetto unitamente dalle rispettive Chiese di Roma e d'Oriente. Nella messa celebrata nel giorno dei santi Pietro e Paolo, i due successori degli apostoli sono entrati assieme nella basilica di San Pietro; assieme sono saliti all'altare, preceduti da un diacono latino e da uno ortodosso recanti il libro dei Vangeli; assieme hanno ascoltato il canto del Vangelo in latino ed in greco; assieme hanno tenuto l'omelia, prima il patriarca e poi il papa, dopo una breve introduzione di quest'ultimo; assieme hanno recitato il Credo, il Simbolo Niceno Costantinopolitano nella lingua originale greca secondo l'uso liturgico delle Chiese bizantine; si sono scambiati il bacio della pace e al termine hanno assieme benedetto i fedeli. Mai prima d'ora – dopo quasi mille anni di scisma tra Oriente e Occidente – era stata celebrata dal vescovo di Roma e dal patriarca di Costantinopoli una liturgia così visibilmente protesa all'unità.
Più in ombra resta per ora il rapporto con le comunità protestanti. Ma anche nel dialogo con queste l'Anno Paolino può essere ricco di significati. I maggiori pensatori della Riforma – da Lutero e Calvino fino a Karl Barth, a Rudolph Bultmann e Paul Tillich – hanno elaborato il loro pensiero a partire soprattutto dalla Lettera di Paolo ai Romani.
E non meno rilevante è l'apporto che l'Anno Paolino potrà dare al dialogo con gli ebrei. Paolo era giudeo e rabbino osservante, prima di cadere abbagliato da Cristo sulla via di Damasco. E la sua conversione al Risorto non comportò mai per lui una rottura con la fede originaria. La promessa di Dio ad Abramo e l'alleanza del Sinai per Paolo fecero sempre tutt'uno con la "nuova ed eterna" alleanza sigillata dal sangue di Gesù. Su questa unità tra l'Antico e il Nuovo Testamento, Joseph Ratzinger ha scritto pagine memorabili, nel suo libro "Gesù di Nazareth".
Qui di seguito è riprodotta l'omelia pronunciata da Benedetto XVI il 28 giugno 2008, nella basilica di San Paolo fuori le Mura, nei vespri della vigilia della festa dei santi Pietro e Paolo. In essa il papa risponde alle domande: chi era Paolo? e che cosa dice a me oggi?
Più sotto trovi i link alla doppia omelia – del papa e del patriarca di Costantinopoli – nella messa del giorno successivo, e ad altri testi di Benedetto XVI sull'apostolo Paolo. Più vari rimandi a tutto ciò che riguarda l'Anno Paolino.
"Chi era Paolo? E che cosa dice a me oggi?"
di Benedetto XVI
Cari fratelli e sorelle, siamo riuniti presso la tomba di san Paolo, il quale nacque duemila anni fa a Tarso di Cilicia, nell’odierna Turchia.
Chi era questo Paolo? Nel tempio di Gerusalemme, davanti alla folla agitata che voleva ucciderlo, egli presenta se stesso con queste parole: "Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città [di Gerusalemme], formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio..." (At 22,3).
Alla fine del suo cammino dirà di sé: "Sono stato fatto... maestro delle genti nella fede e nella verità" (1Tm 2,7; cfr 2Tm 1,11). Maestro delle genti, apostolo e banditore di Gesù Cristo, così egli caratterizza se stesso in uno sguardo retrospettivo al percorso della sua vita.
Ma con ciò lo sguardo non va soltanto verso il passato. Maestro delle genti: questa parola si apre al futuro, verso tutti i popoli e tutte le generazioni. Paolo non è per noi una figura del passato, che ricordiamo con venerazione. Egli è anche il nostro maestro, apostolo e banditore di Gesù Cristo anche per noi.
Siamo quindi riuniti non per riflettere su una storia passata, irrevocabilmente superata. Paolo vuole parlare con noi , oggi. Per questo ho voluto indire questo speciale Anno Paolino: per ascoltarlo e per apprendere ora da lui, quale nostro maestro, "la fede e la verità", in cui sono radicate le ragioni dell’unità tra i discepoli di Cristo.
In questa prospettiva ho voluto accendere, per questo bimillenario della nascita dell’apostolo, una speciale Fiamma Paolina, che resterà accesa durante tutto l’anno in uno speciale braciere posto nel quadriportico della basilica [di San Paolo fuori le Mura].
Per solennizzare questa ricorrenza ho anche inaugurato la cosiddetta Porta Paolina, attraverso la quale sono entrato nella basilica accompagnato dal patriarca di Costantinopoli [...] e da altre autorità religiose. È per me motivo di intima gioia che l’apertura dell’Anno Paolino assuma un particolare carattere ecumenico per la presenza di numerosi delegati e rappresentanti di altre Chiese e comunità ecclesiali, che accolgo con cuore aperto. [...].
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Siamo dunque qui raccolti per interrogarci sul grande apostolo delle genti. Ci chiediamo non soltanto: chi era Paolo? Ci chiediamo soprattutto: chi è Paolo? che cosa dice a me?
In questa ora, all’inizio dell’Anno Paolino che stiamo inaugurando, vorrei scegliere dalla ricca testimonianza del Nuovo Testamento tre testi, in cui appare la sua fisionomia interiore, lo specifico del suo carattere.
Nella Lettera ai Galati egli ci ha donato una professione di fede molto personale, in cui apre il suo cuore davanti ai lettori di tutti i tempi e rivela quale sia la molla più intima della sua vita. "Vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me" (Gal 2,20).
Tutto ciò che Paolo fa, parte da questo centro. La sua fede è l’esperienza dell’essere amato da Gesù Cristo in modo tutto personale; è la coscienza del fatto che Cristo ha affrontato la morte non per un qualcosa di anonimo, ma per amore di lui – di Paolo – e che, come Risorto, lo ama tuttora, che cioè Cristo si è donato per lui. La sua fede è l’essere colpito dall’amore di Gesù Cristo, un amore che lo sconvolge fin nell’intimo e lo trasforma. La sua fede non è una teoria, un’opinione su Dio e sul mondo. La sua fede è l’impatto dell’amore di Dio sul suo cuore. E così questa stessa fede è amore per Gesù Cristo.
Da molti Paolo viene presentato come uomo combattivo che sa maneggiare la spada della parola. Di fatto, sul suo cammino di apostolo non sono mancate le dispute. Non ha cercato un’armonia superficiale. Nella prima delle sue lettere, quella rivolta ai Tessalonicesi, egli stesso dice: "Abbiamo avuto il coraggio... di annunziarvi il vangelo di Dio in mezzo a molte lotte... Mai infatti abbiamo pronunziato parole di adulazione, come sapete" (1Ts 2,2.5).
La verità era per lui troppo grande per essere disposto a sacrificarla in vista di un successo esterno. La verità che aveva sperimentato nell‘incontro con il Risorto ben meritava per lui la lotta, la persecuzione, la sofferenza. Ma ciò che lo motivava nel più profondo, era l’essere amato da Gesù Cristo e il desiderio di trasmettere ad altri questo amore. Paolo era un uomo colpito da un grande amore, e tutto il suo operare e soffrire si spiega solo a partire da questo centro. I concetti fondanti del suo annuncio si comprendono unicamente in base ad esso.
Prendiamo soltanto una delle sue parole-chiave: la libertà. L’esperienza dell’essere amato fino in fondo da Cristo gli aveva aperto gli occhi sulla verità e sulla via dell’esistenza umana; quell’esperienza abbracciava tutto. Paolo era libero come uomo amato da Dio che, in virtù di Dio, era in grado di amare insieme con Lui. Questo amore è ora la "legge" della sua vita e proprio così è la libertà della sua vita. Egli parla ed agisce mosso dalla responsabilità dell’amore. Libertà e responsabilità sono qui uniti in modo inscindibile. Poiché sta nella responsabilità dell’amore, egli è libero; poiché è uno che ama, egli vive totalmente nella responsabilità di questo amore e non prende la libertà come pretesto per l’arbitrio e l’egoismo. Nello stesso spirito Agostino ha formulato la frase diventata poi famosa: "Dilige et quod vis fac" (Tract. in 1Jo 7 ,7-8), ama e fa’ quello che vuoi. Chi ama Cristo come lo ha amato Paolo, può veramente fare quello che vuole, perché il suo amore è unito alla volontà di Cristo e così alla volontà di Dio; perché la sua volontà è ancorata alla verità e perché la sua volontà non è più semplicemente volontà sua, arbitrio dell’io autonomo, ma è integrata nella libertà di Dio e da essa riceve la strada da percorrere.
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Nella ricerca della fisionomia interiore di san Paolo vorrei, in secondo luogo, ricordare la parola che il Cristo risorto gli rivolse sulla strada verso Damasco. Prima il Signore gli chiede: "Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?" Alla domanda: "Chi sei, o Signore?" vien data la risposta: "Io sono Gesù che tu perseguiti" (At 9,4s). Perseguitando la Chiesa, Paolo perseguita lo stesso Gesù. "Tu perseguiti me". Gesù si identifica con la Chiesa in un solo soggetto.
In questa esclamazione del Risorto, che trasformò la vita di Saulo, in fondo ormai è contenuta l’intera dottrina sulla Chiesa come Corpo di Cristo. Cristo non si è ritirato nel cielo, lasciando sulla terra una schiera di seguaci che mandano avanti "la sua causa". La Chiesa non è un’associazione che vuole promuovere una certa causa. In essa non si tratta di una causa. In essa si tratta della persona di Gesù Cristo, che anche da Risorto è rimasto "carne". Egli ha "carne e ossa" (Lc 24, 39), lo afferma in Luca il Risorto davanti ai discepoli che lo avevano considerato un fantasma. Egli ha un corpo. È personalmente presente nella sua Chiesa, "Capo e Corpo" formano un unico soggetto, dirà Agostino. "Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?", scrive Paolo ai Corinzi (1Cor 6,15). E aggiunge: come, secondo il Libro della Genesi, l’uomo e la donna diventano una carne sola, così Cristo con i suoi diventa un solo spirito, cioè un unico soggetto nel mondo nuovo della risurrezione (cfr 1Cor 6,16ss).
In tutto ciò traspare il mistero eucaristico, nel quale Cristo dona continuamente il suo Corpo e fa di noi il suo Corpo: "Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il Corpo di Cristo? Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane" (1Cor 10,16s). Con queste parole si rivolge a noi, in quest’ora, non soltanto Paolo, ma il Signore stesso: Come avete potuto lacerare il mio Corpo? Davanti al volto di Cristo, questa parola diventa al contempo una richiesta urgente: Riportaci insieme da tutte le divisioni. Fa’ che oggi diventi nuovamente realtà. C'è un solo pane, perciò noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo. Per Paolo la parola sulla Chiesa come Corpo di Cristo non è un qualsiasi paragone. Va ben oltre un paragone. "Perché mi perseguiti?" Continuamente Cristo ci attrae dentro il suo Corpo, edifica il suo Corpo a partire dal centro eucaristico, che per Paolo è il centro dell’esistenza cristiana, in virtù del quale tutti, come anche ogni singolo può in modo tutto personale sperimentare: Egli mi ha amato e ha dato se stesso per me.
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Vorrei concludere con una parola tarda di san Paolo, una esortazione a Timoteo dalla prigione, di fronte alla morte. "Soffri anche tu insieme con me per il Vangelo", dice l’apostolo al suo discepolo (2Tm 1,8).
Questa parola, che sta alla fine delle vie percorse dall’apostolo come un testamento, rimanda indietro all’inizio della sua missione. Mentre, dopo il suo incontro con il Risorto, Paolo si trovava cieco nella sua abitazione a Damasco, Anania ricevette l’incarico di andare dal persecutore temuto e di imporgli le mani, perché riavesse la vista. All’obiezione di Anania che questo Saulo era un persecutore pericoloso dei cristiani, viene la risposta: Quest’uomo deve portare il mio nome dinanzi ai popoli e ai re; "io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome" (At 9,15s). L’incarico dell’annuncio e la chiamata alla sofferenza per Cristo vanno inscindibilmente insieme. La chiamata a diventare il maestro delle genti è al contempo e intrinsecamente una chiamata alla sofferenza nella comunione con Cristo, che ci ha redenti mediante la sua Passione.
In un mondo in cui la menzogna è potente, la verità si paga con la sofferenza. Chi vuole schivare la sofferenza, tenerla lontana da sé, tiene lontana la vita stessa e la sua grandezza; non può essere servitore della verità e così servitore della fede. Non c’è amore senza sofferenza, senza la sofferenza della rinuncia a se stessi, della trasformazione e purificazione dell’io per la vera libertà. Là dove non c’è niente che valga che per esso si soffra, anche la stessa vita perde il suo valore. L’Eucaristia – il centro del nostro essere cristiani – si fonda nel sacrificio di Gesù per noi, è nata dalla sofferenza dell’amore, che nella Croce ha trovato il suo culmine. Di questo amore che si dona noi viviamo. Esso ci dà il coraggio e la forza di soffrire con Cristo e per Lui in questo mondo, sapendo che proprio così la nostra vita diventa grande e matura e vera.
Alla luce di tutte le lettere di san Paolo vediamo come nel suo cammino di maestro delle genti si sia compiuta la profezia fatta ad Anania nell’ora della chiamata: "Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome". La sua sofferenza lo rende credibile come maestro di verità, che non cerca il proprio tornaconto, la propria gloria, l’appagamento personale, ma si impegna per Colui che ci ha amati e ha dato se stesso per tutti noi.
In questa ora ringraziamo il Signore, perché ha chiamato Paolo, rendendolo luce delle genti e maestro di tutti noi, e lo preghiamo: Donaci anche oggi testimoni della risurrezione, colpiti dal tuo amore e capaci di portare la luce del Vangelo nel nostro tempo. San Paolo, prega per noi! Amen.
1 luglio 2008
Premiata macelleria telefonica
Dal Foglio.it
Cifre, trucchi e mercato nero. Guida contromano a tutto ciò che non avete mai saputo sulle intercettazioni e a tutto ciò che succede sottobanco tra magistrati, avvocati e giornalisti
Arrivano su fogli di carta liscia, con le pagine raccolte in cartelline di plastica, con le conversazioni registrate in ordine cronologico e con le chiamate in entrata e in uscita ordinate una a una dentro lunghe griglie di documenti trascritti. Data, time, durata, chiamante, note, omissis, voci incomprensibili e lunghi tabulati. Arrivano così, le intercettazioni telefoniche: arrivano a casa, arrivano alla fine di un’indagine e arrivano quando l’intercettato ha ormai compreso che, fino a quel momento, ogni parola bisbigliata al microfono del telefono poteva davvero significare qualsiasi cosa dall’altra parte dell’apparecchio.
Chi è stato intercettato almeno una volta lo sa: sa perfettamente che cosa vuol dire aprire quella cartellina con il timbro della questura della sua città, sa perfettamente che cosa vuol dire sfogliare quelle pagine fitte fitte con le sue parole registrate magari solo per un po’ di giorni o magari per un paio di mesi. Perché, se non sei così famoso e se le tue conversazioni sono una notizia solo per te e non per i giornali, quando ti arriva il brogliaccio tu lo prendi, lo scarti, lo sfogli e lo leggi e lo rileggi sul tavolino di casa, nella speranza di non aver mai alluso a nulla, di non aver mai parlato con gente sospetta e di non aver mai detto per nessuna ragione niente, neppure una cazzata. Solo che quando le trascrizioni non rimangono nel tuo cassetto, quando le tue parole arrivano prima sui quotidiani, si sa come funziona: per il lettore la voce su carta è una sentenza che non ha bisogno di prove aggiuntive e spesso basta l’intenzione per provare l’accusa e basta un equivoco per confermare il sospetto.
Capita così per circa 124 mila utenze all’anno, capita così a circa 300 italiani al giorno e anche per questo non è affatto difficile riconoscere subito la persona che almeno una volta nella vita è stata intercettata. La riconosci subito, quella persona, perché al telefono più che parlare preferisce ascoltare, perché nei messaggi preferisce non alludere, perché ti dice che non si sa mai, che lo sai come funziona, che queste cose non si dicono, che certi discorsi è meglio farli a quattrocchi e che di questo, forse, è meglio parlarne un’altra volta. Quanto ti capita, quando scopri che un orecchio estraneo è stato incollato alla tua cornetta per chissà quanti giorni, il telefono si trasforma inevitabilmente in un potenziale microfono rivolto verso un pubblico di cui tu non sai nulla, che di te però vuole sapere tutto e che non aspetta altro che spulciare tra le registrazioni per ascoltare dal buco della serratura quelle telefonate che sembrano essere “incriminate” anche quando con il reato non c’entrano proprio nulla. I numeri li conoscete e cronisti di ogni genere si sono già ampiamente esercitati per giorni sui dati reali delle intercettazioni telefoniche.
Qualcosa però è sfuggito, e per comprendere come funziona un’intercettazione e per capire quali sono, davvero, le vie dell’abuso, la strada giusta non è quella di insistere sui costi effettivi delle intercettazioni. Non basta dire che intercettare in Italia costa moltissimo e che costa più di qualsiasi altro paese europeo. Non basta dire che ogni tabulato telefonico costa allo stato circa 26 euro. Non basta dire che ogni procura spende quotidianamente circa 1,6 euro per intercettare un telefono fisso, 2 euro per un cellulare e 13 euro per un apparecchio satellitare e che ogni giorno il ministero della Giustizia spende circa 613 mila euro per tenere sotto controllo le utenze intercettate (in Francia e in Germania le aziende telefoniche sono invece costrette a offrire gratuitamente allo stato la linea telefonica). Per comprendere davvero tutte le degenerazioni possibili della rete delle intercettazioni, dunque, bisogna dare uno sguardo a cosa succede in questi giorni a Napoli – con il caso Rai, con il Cav., con Saccà e con l’incredibile numero di telefonate registrate (in tutto sono novemila) – e si deve comprendere il senso di quel che è successo pochi giorni fa nel Gargano – con quell’overdose di intercettazioni che, per l’impossibilità di sbobinarle in tempo, ha portato alla scarcerazione di tredici delinquenti – per capire che ancora oggi ci sono aspetti che non possono essere trascurati. Certo, è un errore considerare a priori la registrazione telefonica come un elemento sempre pericoloso per la nostra privacy, perché per legge l’attività investigativa viene sempre privilegiata rispetto alla tutela dei dati sensibili, perché il 95 per cento delle sbobinature che finiscono sui giornali sono intercettazioni non più segrete e perché in fondo in molti casi l’attività di intercettazione non sostituisce affatto l’indagine sul campo, ma semmai spesso la integra.
“Noi – dice un poliziotto famoso che chiede l’anonimato – abbiamo conosciuto un periodo in cui non si facevano intercettazioni perché c’erano i pentiti. Poi si disse che la polizia non sa fare indagini, che comanda tutto il magistrato, e che noi non sappiamo fare più niente. Ed era in parte anche vero, perché io vedevo gli uffici dell’arma dei carabinieri che si erano appiattiti sulle dichiarazioni del pentito. Il pentito era interrogato dal magistrato e il magistrato diventava in modo incontestabile dominus dell’indagine, mentre la polizia giudiziaria si riduceva a rango di ‘aiutante d’interrogatorio’. Ma bisogna fare attenzione. Tu all’intercettazione ci arrivi come momento corroborante dell’indagine. E’ una cosa che va abbinata al resto. Se io metto sotto controllo due trafficanti di droga della camorra, se tu non fai attività di osservazione sul posto e non vai con una telecamera o non nascondi persone in contenitori dell’immondizia, travestendoli da spazzini, da muratori o magari da puttane, le intercettazioni da sole non servono a nulla”.
Soprattutto ora che il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, è pronto a portare in Parlamento il restrittivo disegno di legge che regolamenterà le intercettazioni telefoniche, c’è un aspetto che più degli altri va preso in considerazione: il vero problema non sono le registrazioni in sé, ma sono tutte le vie che rendono possibile la fuga di notizie e grazie alle quali, spesso, le intercettazioni arrivano sul desk dei cronisti prima ancora che sul tavolo degli indagati.
Ecco, come è possibile? Quali sono i punti critici della rete delle intercettazioni? E come fa, davvero, un giornalista a ricevere prima dell’interessato queste registrazioni? Bene, qualsiasi cronista abbia avuto a che fare negli ultimi anni con la pubblicazione delle intercettazioni sa perfettamente che in fondo non è così difficile riuscire a entrare in possesso di quei “documenti riservati”. (Tecnicamente ancora oggi esiste una legge che prevede il divieto assoluto di pubblicazione delle intercettazioni protette dal segreto istruttorio, ma in realtà per chi pubblica le conversazioni non ci sono vere sanzioni: se le intercettazioni vengono riportate prima della fine delle indagini il cronista se la cava con una multa di 250 euro; se le conversazioni invece finiscono sui giornali quando si trovano ancora sotto segreto istruttorio la persona che commette reato è quella che ha lasciato uscire le carte dalla procura non quella che le riceve).
Dall’altra parte, però, sarebbe ingenuo nascondere che molto spesso le intercettazioni sembra proprio siano fatte scientificamente uscire sul quotidiano giusto e nel momento giusto. E se qualcuno crede che non sia così, se qualcuno ancora crede che le intercettazioni non vengano fuori, come dire, “ad arte”, è sufficiente ascoltare quanto detto qualche mese fa dal sostituto procuratore romano Piero Saviotti, che, a proposito di fughe di notizie, rispondeva così alla commissione giustizia del Senato. “Per quanto riguarda l’individuazione della fonte della fuga di notizie – spiegava Saviotti – è difficile dare una spiegazione, anche perché gli interessi sono spesso diversi. Vi è sicuramente l’interesse del pubblico ministero a fare bella figura, a comparire sui giornali, e ciò è molto frequente; non ho prove, ma la mia percezione, di chi opera nel settore, me ne dà in molti casi la conferma. Vi è poi quella che io chiamo la sindrome de ‘I tre giorni del Condor’. Alla fine di quel film, il giornalista promotore dell’inchiesta si sente al sicuro quando riesce a trasmettere il dossier al giornale. A quel punto si sente protetto dalla collettività per cui ritiene di aver lavorato. Ebbene, vi assicuro che questo atteggiamento mentale costituisce una motivazione altrettanto rilevante del far bella figura e di apparire. Si tratta di blindare un’indagine a fronte di aggressioni prevedibili, supposte o semplicemente paventate da parte di quei poteri ai quali ci si vuole contrapporre. In altre parole, l’indagine giudiziaria che approda sulla carta stampata per colui che l’ha condotta in questo modo può essere più protetta, più sicura".
"Un magistrato – continua Saviotti – non fa carriera in senso tecnico con un’indagine andata a buon fine, ma un ufficiale di polizia giudiziaria sicuramente sì. Un risalto giornalistico dell’indagine può soddisfare inoltre anche il malinteso senso istituzionale di volere più risorse per il proprio ufficio. Il dirigente di un ufficio specializzato, di una sezione anticrimine del Ros, di una Dia o di una Digos, sa che se produce risultati visibili ha un potere contrattuale maggiore nei confronti dell’amministrazione per ottenere risorse”. Un tempo – prima che gli atti giudiziari venissero registrati su dischetti duplicabili e quando ancora i magistrati non ospitavano in vacanza i giornalisti per consegnare loro i cd con i verbali utili – il vecchio trucco era semplice e funzionava più o meno in questo modo: il giornalista entrava nel palazzo di giustizia, bussava nell’ufficio del magistrato, il magistrato apriva la porta, faceva sedere il giornalista di fronte a un tavolo e, nel dare una spolveratina alla coscienza allontanandosi “solo per un attimo” dall’ufficio, lasciava lì sul tavolo il verbale o l’intercettazione di fronte al cronista. Il quale, ringraziando, consultava rapidamente prima che il magistrato ritornasse in ufficio. Oggi invece le vie di fuga sono praticamente infinite, e basta ricostruire la vita di una registrazione per capire i passaggi nel corso dei quali la voce dell’intercettato, invece che passare da un ufficio giudiziario a un altro, arriva nelle mani curiose di chi con le indagini non c’entra proprio nulla.
Comincia così un’intercettazione telefonica, comincia con un ufficiale di polizia giudiziaria (dunque polizia di stato, carabinieri o guardia di finanza) che chiede al magistrato di poter intercettare. Il magistrato richiede l’autorizzazione al giudice per le indagini preliminari, il gip valuta se esistono le condizioni per mettere un “bersaglio” sotto controllo (non si può intercettare su tutto: occorrono gravi indizi e, fino a oggi, occorre che il reato preveda una pena non inferiore ai cinque anni). Se le condizioni esistono, il magistrato autorizza la polizia a mettere sotto controllo una serie di utenze telefoniche. (Le uniche intercettazioni che per legge possono essere effettuate preventivamente, cioè basate non necessariamente su indizi, sono quelle fatte dai servizi segreti e sono poco più di cento ogni anno). Così, la polizia giudiziaria invia un fax all’azienda telefonica e chiede di mettere a disposizione i suoi servizi per intercettare l’utente. La durata massima di un’intercettazione, oggi, è di un anno – tranne per i reati di mafia per i quali sono previsti dodici mesi in più.
A questo punto l’azienda telefonica crea un ponte, un filo virtuale che arriva fino alla sala d’ascolto della procura e che permette alla polizia di ascoltare le telefonate delle utenze richieste. La sala d’ascolto è una piccola stanza che si trova all’ultimo piano di ciascuna delle 165 procure d’Italia, nella cosiddetta “piccionaia”. Qui, con una cuffia collegata al computer, gli ufficiali di polizia ascoltano le conversazioni su un monitor, grande quattro volte questa pagina di giornale, in grado di gestire contemporaneamente fino a trecento numeri di telefoni. Il computer ha un programma che condensa insieme le telefonate (i poliziotti la chiamano “lavatrice”) e segnala con un colore rosso l’utenza che squilla in quel determinato momento.
Tecnicamente, per intercettare un telefono, basta conoscere il codice genetico di ogni apparecchio (si chiama “Imei”). Quel codice lancia un segnale radio che viene registrato da ogni celletta presente in città (attraverso le quali i telefonini sono connessi alla rete) che permette alla polizia non solo di ascoltare le parole dell’intercettato ma anche di conoscere esattamente la posizione sul territorio. Esistono solo due tipi di conversazioni che oggi vengono intercettate con difficoltà: la prima è quella che passa attraverso i telefoni satellitari (che si appoggiano ad alcune celle che spesso superano i confini del territorio italiano), la seconda è quella che passa attraverso lo scambio di dati su Skype, il programma di messaggistica istantanea più famoso del mondo per il quale ancora oggi gli inquirenti hanno difficoltà a decrittarne i contenuti. Al termine di un’indagine, infine, le conversazioni considerate più interessanti vengono trascritte su alcuni brogliacci e vengono caricate su supporti magnetici. Ogni cd viene inserito in una custodia sigillata, viene catalogato con un numero di repertorio ma, anche se la traccia del cd non è in via ipotetica modificabile, le duplicazioni purtroppo non mancano. (In un’audizione di due anni fa, il senatore Roberto Castelli sostenne senza ironia che esiste un solo modo per blindare il contenuto delle intercettazioni, “il sistema di attivazione delle bombe atomiche nucleari”).
Teoricamente, ancora oggi, fino al decreto di archiviazione o prima del dibattimento, sarebbe vietato pubblicare qualsiasi tipo di intercettazione. Ci sono casi in cui le conversazioni sbobinate possono però imboccare strade piuttosto diverse da quelle previste dalla legge. Sono molte e tutte lasciano intendere come sia possibile che all’improvviso i brogliacci si materializzino sui giornali prima ancora che questi siano arrivati all’esame della magistratura. In questi casi, con una perifrasi magnifica, i giornali parlano di “intercettazioni finite nella disponibilità dei giornalisti”. Ecco, ci sono occasioni concrete in cui queste “disponibilità” si possono verificare. Spesso, come spiegato con l’esempio dei “Tre giorni del Condor”, capita che sia lo stesso magistrato a fare uscire i verbali. Spesso però capita anche che il giornalista conosca perfettamente quali sono le falle del sistema. Non si tratta solo di voler tirare in ballo tutti i potenziali “casi Tavaroli”, cioè tutti quei casi in cui la figura dello spione potrebbe coincidere con quella degli uomini che si occupano di “business security” all’interno delle aziende telefoniche. Non c’è solo questo, naturalmente. Tanto per fare un esempio, al termine di un’intercettazione il magistrato è obbligato a distruggere tutte quelle registrazioni di cui è stato deciso di vietare l’utilizzo (intercettazioni come quelle tra Piero Fassino e Giovanni Consorte e intercettazioni come quelle che riguardano le ragazze coinvolte nell’inchiesta sul caso Rai).
Che succede, però. Succede che in caso di mancata distruzione non è difficile farla franca, perché non esistono procedimenti punitivi per chi non stralcia quei documenti. Non solo: va anche detto che le sale d’ascolto non sempre hanno le stesse garanzie previste per i luoghi dove i dati vengono trascritti materialmente e che le procure affidano a società esterne (le più famose tra queste si chiamano Resi, I&S, Sio, Radio Trevisan, Area e Rcs – nulla a che vedere con il gruppo Rizzoli – e rappresentano circa l’80 per cento dei costi complessivi che lo stato spende per le intercettazioni). Per quanto riguarda il problema della conservazione dei documenti, invece, vi è una questione doppia, perché da una parte ogni dato di traffico deve essere conservato per almeno cinque anni (l’Italia è il paese a livello europeo dove si conservano di più – in Unione europea è previsto un termine ordinario di due anni) ma dall’altro lato in alcune aziende spesso vengono conservate a lungo anche alcune copie di quei documenti: le aziende, per dimostrare di aver erogato una certa prestazione, devono mantenere le carte fino all’incasso della fattura e le richieste di liquidazione, come ammesso dagli stessi dirigenti delle aziende telefoniche nel corso dell’ultima indagine conoscitiva sul fenomeno delle intercettazioni, spesso vanno misteriosamente smarrite.
Per quanto riguarda la questione degli avvocati, invece, vi sarebbe tutto un capitoletto da aprire a parte. Qui i problemi sono piuttosto seri, perché ogni legale ha diritto al deposito e alla copia di ciascuna intercettazione e ogni legale ha anche diritto a ricevere su cd rom tutto il materiale prodotto nel corso delle indagini. Il punto è che quando il giudice dispone la distruzione delle telefonate, dispone la distruzione di quelle custodite in procura. Mentre non prevede alcuna distruzione forzata di tutte le copie che sono state lasciate ai difensori. Il risultato è che qualsiasi cronista non ha grandi difficoltà a chiedere agli avvocati di fotocopiare questo o quel documento prima ancora che l’inchiesta sia arrivata al dibattimento. Ma non basta. C’è un altro aspetto che non può essere trascurato.
Si dirà: come è possibile che i giornali possano pubblicare tutti quei pettegolezzi, tutte quelle voci sbobinate che non hanno nulla a che vedere con l’indagine e che però attirano l’attenzione del lettore più che un reato di insider trading? Lo spiega ancora una volta il sostituto procuratore Piero Saviotti. “Non credo che se escono sul giornale i pettegolezzi relativi alla vita privata, sentimentale e sessuale dell’indagato X vi sia un interesse di chi ha fornito la notizia a travasare anche quel pettegolezzo. Sicuramente lì c’è il valore aggiunto che bisogna dare alla notizia sulla carta stampata per renderla appetibile, perché naturalmente i lettori si sentono più attratti da queste curiosità piuttosto che dalla rilevanza penale della singola condotta”. In altre parole significa che l’intercettazione va sempre a ruba, che le conversazioni sbobinate stuzzicano comunque il lettore e che però tra una data, un time, una nota e un omissis, un po’ di gnocca e un po’ di vizietti tirano sempre più di una turbativa di mercato.
di Claudio Cerasa
1) Ventorino: l'ansia di possesso può stravolgere l'avventura della maternità
2) Anno Paolino: Il sogno ecumenico di papa Benedetto, di Sandro Magister
3) Cifre, trucchi e mercato nero. Guida contromano a tutto ciò che non avete mai saputo sulle intercettazioni e a tutto ciò che succede sottobanco tra magistrati, avvocati e giornalisti, dal Foglio.it
Ventorino: l'ansia di possesso può stravolgere l'avventura della maternità
Don Francesco Ventorino 02/07/2008
Autore(i): Don Francesco Ventorino. Pubblicato il 02/07/2008 – IlSussidiario.net
La notizia del patto tra teenagers che sono volutamente rimaste incinte contemporaneamente, in un liceo del Massachussets, parte da Washington (in un secondo tempo in parte rettificata) rimbalza in Italia, tra l’altro attraverso la penna di Vittorio Zucconi su Repubblica, e desta stupore, allarme e considerazioni di ogni genere. L’hanno fatto «perché lo volevano fare» avrebbero dichiarato le ragazze, e avrebbero aggiunto che esse hanno bisogno di «sentirsi amate incondizionatamente» da una creatura che sia tutta loro, da un figlio, e non appena da un amante di una notte, da un boyfriend o da un marito.
Don Luigi Giussani, un sacerdote del nostro tempo che ha educato diverse generazioni di giovani e ha indagato a lungo il pensiero moderno, cercando di comprenderne le più recondite ragioni, ha individuato nel nichilismo o nel panteismo (le due versioni che oggi prende la negazione di Dio) la radice di una fiducia incondizionata nel potere come unica sorgente di sicurezza personale.
Se l’autonomia dell’uomo è una menzogna, è finta, se il suo io nasce totalmente come parte del grande divenire, come semplice esito dei suoi antecedenti fisici e biologici, allora può farsi strada in lui la convinzione menzognera che chi ha più potere aumenta di più la propria consistenza.
Nichilismo e panteismo distruggono, infatti, la grandezza di quell’«io», che ripone nella propria libertà la propria dignità, e lo degradano al livello della necessità animale: la legge di ogni gesto e di ogni azione è ridotta conseguentemente ad istintività. Il potere – in questo orizzonte culturale creato dalla negazione di Dio – cessa di essere la dimostrazione della dignità e della capacità maggiore che l’uomo ha sopra tutte le altre creature e si realizza, invece, come possesso, ottenuto secondo un’istintività più scaltrita di quella dell’animale, ma identica come dinamica: orgoglio, violenza, sesso.
La dimostrazione della propria capacità di poter fare ciò che si vuole rimane – come hanno testimoniato le ragazze del Massachusetts – l’unica possibilità che si riesce a intravedere per uscire dalla paura e dalla solitudine, cioè il potersi dare da sé quell’amore incondizionato di cui il cuore ha bisogno.
L’alternativa ad una posizione del genere sta nel sottomettere la propria ragione a quella esperienza originale che ogni uomo fa nel rapporto con la realtà, cioè quella di trovarsi di fronte a qualcosa che non è suo, che c’è indipendentemente da lui e da cui, anzi, lui stesso dipende. Da questa percezione vertiginosa della contingenza delle cose, che poi è la stessa che genera irragionevolmente il nichilismo o il panteismo, nasce invece, in forza di una ragionevole evidenza, l’affermazione di un Altro, che è all’origine del nostro essere e della nostra libertà. Non siamo frutto di una necessaria o casuale evoluzione dell’universo, ma di un libero atto d’amore del Creatore.
Solo questo riconoscimento può generare quella sicurezza stabile e quella coscienza di una compagnia che costituisce il proprio «io» e che sconfigge dall’interno di se stessi la propria solitudine: l'io dipende continuamente da un Tu, che lo fa essere in ogni istante. «Se non è così – ha scritto Cormac McCarthy in Sunset Limited – allora tocca trovare tutt’altra spiegazione di cosa uno vuol dire quando dice realtà». Anzi si potrebbe chiedere a chi pensa diversamente: «Tu esisti davvero?».
A quelle ragazze del liceo di Gloucester qualcuno ha tentato di porre in modo convincente questa inquietante e radicale alternativa?
Anno Paolino: Il sogno ecumenico di papa Benedetto
Assieme al patriarca di Costantinopoli, il successore di Pietro ha indetto uno speciale anno giubilare dedicato all'altro grande apostolo, Paolo. Obiettivo dichiarato: "creare l’unità della 'catholica', della Chiesa formata da giudei e pagani, della Chiesa di tutti i popoli"
di Sandro Magister
ROMA, 2 luglio 2008 – Nella foto, Benedetto XVI e Bartolomeo I, il patriarca di Costantinopoli, pregano davanti alla tomba dell'apostolo Paolo, sotto l'altare maggiore della basilica romana di San Paolo fuori le Mura. È la vigilia della solennità dei santi Pietro e Paolo. E assieme hanno inaugurato uno speciale anno giubilare dedicato all'apostolo Paolo.
L'Anno Paolino, iniziato il 28 giugno, durerà fino al 29 giugno 2009. L'occasione è il bimillenario della nascita dell'apostolo, collocata dagli storici tra il 7 e il 10 dopo Cristo.
Benedetto XVI ha annunciato per la prima volta questo speciale anno giubilare un anno fa, il 28 giugno 2007. E così ora ha spiegato l'evento ai fedeli riuniti in piazza San Pietro, prima dell'Angelus della festa dei santi Pietro e Paolo di quest'anno:
"Questo speciale giubileo avrà come baricentro Roma, in particolare la basilica di San Paolo fuori le Mura e il luogo del martirio, alle Tre Fontane. Ma esso coinvolgerà la Chiesa intera, a partire da Tarso, città natale di Paolo, e dagli altri luoghi paolini meta di pellegrinaggi nell’attuale Turchia, come pure in Terra Santa, e nell’Isola di Malta, dove l’Apostolo approdò dopo un naufragio e gettò il seme fecondo del Vangelo.
"In realtà, l’orizzonte dell’Anno Paolino non può che essere universale, perché san Paolo è stato per eccellenza l’apostolo di quelli che rispetto agli ebrei erano 'i lontani' e che 'grazie al sangue di Cristo' sono diventati 'i vicini' (cfr Ef 2,13). Per questo anche oggi, in un mondo diventato più 'piccolo', ma dove moltissimi ancora non hanno incontrato il Signore Gesù, il giubileo di san Paolo invita tutti i cristiani ad essere missionari del Vangelo.
"Questa dimensione missionaria ha bisogno di accompagnarsi sempre a quella dell’unità, rappresentata da san Pietro, la 'roccia' su cui Gesù Cristo ha edificato la sua Chiesa. Come sottolinea la liturgia, i carismi dei due grandi apostoli sono complementari per l’edificazione dell’unico Popolo di Dio ed i cristiani non possono dare valida testimonianza a Cristo se non sono uniti tra di loro".
* * *
Universale ed ecumenico. Per una Chiesa che è "catholica" e "una". È questo il doppio orizzonte che il vescovo di Roma e il patriarca di Costantinopoli hanno voluto dare all'Anno Paolino, indetto unitamente dalle rispettive Chiese di Roma e d'Oriente. Nella messa celebrata nel giorno dei santi Pietro e Paolo, i due successori degli apostoli sono entrati assieme nella basilica di San Pietro; assieme sono saliti all'altare, preceduti da un diacono latino e da uno ortodosso recanti il libro dei Vangeli; assieme hanno ascoltato il canto del Vangelo in latino ed in greco; assieme hanno tenuto l'omelia, prima il patriarca e poi il papa, dopo una breve introduzione di quest'ultimo; assieme hanno recitato il Credo, il Simbolo Niceno Costantinopolitano nella lingua originale greca secondo l'uso liturgico delle Chiese bizantine; si sono scambiati il bacio della pace e al termine hanno assieme benedetto i fedeli. Mai prima d'ora – dopo quasi mille anni di scisma tra Oriente e Occidente – era stata celebrata dal vescovo di Roma e dal patriarca di Costantinopoli una liturgia così visibilmente protesa all'unità.
Più in ombra resta per ora il rapporto con le comunità protestanti. Ma anche nel dialogo con queste l'Anno Paolino può essere ricco di significati. I maggiori pensatori della Riforma – da Lutero e Calvino fino a Karl Barth, a Rudolph Bultmann e Paul Tillich – hanno elaborato il loro pensiero a partire soprattutto dalla Lettera di Paolo ai Romani.
E non meno rilevante è l'apporto che l'Anno Paolino potrà dare al dialogo con gli ebrei. Paolo era giudeo e rabbino osservante, prima di cadere abbagliato da Cristo sulla via di Damasco. E la sua conversione al Risorto non comportò mai per lui una rottura con la fede originaria. La promessa di Dio ad Abramo e l'alleanza del Sinai per Paolo fecero sempre tutt'uno con la "nuova ed eterna" alleanza sigillata dal sangue di Gesù. Su questa unità tra l'Antico e il Nuovo Testamento, Joseph Ratzinger ha scritto pagine memorabili, nel suo libro "Gesù di Nazareth".
Qui di seguito è riprodotta l'omelia pronunciata da Benedetto XVI il 28 giugno 2008, nella basilica di San Paolo fuori le Mura, nei vespri della vigilia della festa dei santi Pietro e Paolo. In essa il papa risponde alle domande: chi era Paolo? e che cosa dice a me oggi?
Più sotto trovi i link alla doppia omelia – del papa e del patriarca di Costantinopoli – nella messa del giorno successivo, e ad altri testi di Benedetto XVI sull'apostolo Paolo. Più vari rimandi a tutto ciò che riguarda l'Anno Paolino.
"Chi era Paolo? E che cosa dice a me oggi?"
di Benedetto XVI
Cari fratelli e sorelle, siamo riuniti presso la tomba di san Paolo, il quale nacque duemila anni fa a Tarso di Cilicia, nell’odierna Turchia.
Chi era questo Paolo? Nel tempio di Gerusalemme, davanti alla folla agitata che voleva ucciderlo, egli presenta se stesso con queste parole: "Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città [di Gerusalemme], formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio..." (At 22,3).
Alla fine del suo cammino dirà di sé: "Sono stato fatto... maestro delle genti nella fede e nella verità" (1Tm 2,7; cfr 2Tm 1,11). Maestro delle genti, apostolo e banditore di Gesù Cristo, così egli caratterizza se stesso in uno sguardo retrospettivo al percorso della sua vita.
Ma con ciò lo sguardo non va soltanto verso il passato. Maestro delle genti: questa parola si apre al futuro, verso tutti i popoli e tutte le generazioni. Paolo non è per noi una figura del passato, che ricordiamo con venerazione. Egli è anche il nostro maestro, apostolo e banditore di Gesù Cristo anche per noi.
Siamo quindi riuniti non per riflettere su una storia passata, irrevocabilmente superata. Paolo vuole parlare con noi , oggi. Per questo ho voluto indire questo speciale Anno Paolino: per ascoltarlo e per apprendere ora da lui, quale nostro maestro, "la fede e la verità", in cui sono radicate le ragioni dell’unità tra i discepoli di Cristo.
In questa prospettiva ho voluto accendere, per questo bimillenario della nascita dell’apostolo, una speciale Fiamma Paolina, che resterà accesa durante tutto l’anno in uno speciale braciere posto nel quadriportico della basilica [di San Paolo fuori le Mura].
Per solennizzare questa ricorrenza ho anche inaugurato la cosiddetta Porta Paolina, attraverso la quale sono entrato nella basilica accompagnato dal patriarca di Costantinopoli [...] e da altre autorità religiose. È per me motivo di intima gioia che l’apertura dell’Anno Paolino assuma un particolare carattere ecumenico per la presenza di numerosi delegati e rappresentanti di altre Chiese e comunità ecclesiali, che accolgo con cuore aperto. [...].
* * *
Siamo dunque qui raccolti per interrogarci sul grande apostolo delle genti. Ci chiediamo non soltanto: chi era Paolo? Ci chiediamo soprattutto: chi è Paolo? che cosa dice a me?
In questa ora, all’inizio dell’Anno Paolino che stiamo inaugurando, vorrei scegliere dalla ricca testimonianza del Nuovo Testamento tre testi, in cui appare la sua fisionomia interiore, lo specifico del suo carattere.
Nella Lettera ai Galati egli ci ha donato una professione di fede molto personale, in cui apre il suo cuore davanti ai lettori di tutti i tempi e rivela quale sia la molla più intima della sua vita. "Vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me" (Gal 2,20).
Tutto ciò che Paolo fa, parte da questo centro. La sua fede è l’esperienza dell’essere amato da Gesù Cristo in modo tutto personale; è la coscienza del fatto che Cristo ha affrontato la morte non per un qualcosa di anonimo, ma per amore di lui – di Paolo – e che, come Risorto, lo ama tuttora, che cioè Cristo si è donato per lui. La sua fede è l’essere colpito dall’amore di Gesù Cristo, un amore che lo sconvolge fin nell’intimo e lo trasforma. La sua fede non è una teoria, un’opinione su Dio e sul mondo. La sua fede è l’impatto dell’amore di Dio sul suo cuore. E così questa stessa fede è amore per Gesù Cristo.
Da molti Paolo viene presentato come uomo combattivo che sa maneggiare la spada della parola. Di fatto, sul suo cammino di apostolo non sono mancate le dispute. Non ha cercato un’armonia superficiale. Nella prima delle sue lettere, quella rivolta ai Tessalonicesi, egli stesso dice: "Abbiamo avuto il coraggio... di annunziarvi il vangelo di Dio in mezzo a molte lotte... Mai infatti abbiamo pronunziato parole di adulazione, come sapete" (1Ts 2,2.5).
La verità era per lui troppo grande per essere disposto a sacrificarla in vista di un successo esterno. La verità che aveva sperimentato nell‘incontro con il Risorto ben meritava per lui la lotta, la persecuzione, la sofferenza. Ma ciò che lo motivava nel più profondo, era l’essere amato da Gesù Cristo e il desiderio di trasmettere ad altri questo amore. Paolo era un uomo colpito da un grande amore, e tutto il suo operare e soffrire si spiega solo a partire da questo centro. I concetti fondanti del suo annuncio si comprendono unicamente in base ad esso.
Prendiamo soltanto una delle sue parole-chiave: la libertà. L’esperienza dell’essere amato fino in fondo da Cristo gli aveva aperto gli occhi sulla verità e sulla via dell’esistenza umana; quell’esperienza abbracciava tutto. Paolo era libero come uomo amato da Dio che, in virtù di Dio, era in grado di amare insieme con Lui. Questo amore è ora la "legge" della sua vita e proprio così è la libertà della sua vita. Egli parla ed agisce mosso dalla responsabilità dell’amore. Libertà e responsabilità sono qui uniti in modo inscindibile. Poiché sta nella responsabilità dell’amore, egli è libero; poiché è uno che ama, egli vive totalmente nella responsabilità di questo amore e non prende la libertà come pretesto per l’arbitrio e l’egoismo. Nello stesso spirito Agostino ha formulato la frase diventata poi famosa: "Dilige et quod vis fac" (Tract. in 1Jo 7 ,7-8), ama e fa’ quello che vuoi. Chi ama Cristo come lo ha amato Paolo, può veramente fare quello che vuole, perché il suo amore è unito alla volontà di Cristo e così alla volontà di Dio; perché la sua volontà è ancorata alla verità e perché la sua volontà non è più semplicemente volontà sua, arbitrio dell’io autonomo, ma è integrata nella libertà di Dio e da essa riceve la strada da percorrere.
* * *
Nella ricerca della fisionomia interiore di san Paolo vorrei, in secondo luogo, ricordare la parola che il Cristo risorto gli rivolse sulla strada verso Damasco. Prima il Signore gli chiede: "Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?" Alla domanda: "Chi sei, o Signore?" vien data la risposta: "Io sono Gesù che tu perseguiti" (At 9,4s). Perseguitando la Chiesa, Paolo perseguita lo stesso Gesù. "Tu perseguiti me". Gesù si identifica con la Chiesa in un solo soggetto.
In questa esclamazione del Risorto, che trasformò la vita di Saulo, in fondo ormai è contenuta l’intera dottrina sulla Chiesa come Corpo di Cristo. Cristo non si è ritirato nel cielo, lasciando sulla terra una schiera di seguaci che mandano avanti "la sua causa". La Chiesa non è un’associazione che vuole promuovere una certa causa. In essa non si tratta di una causa. In essa si tratta della persona di Gesù Cristo, che anche da Risorto è rimasto "carne". Egli ha "carne e ossa" (Lc 24, 39), lo afferma in Luca il Risorto davanti ai discepoli che lo avevano considerato un fantasma. Egli ha un corpo. È personalmente presente nella sua Chiesa, "Capo e Corpo" formano un unico soggetto, dirà Agostino. "Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?", scrive Paolo ai Corinzi (1Cor 6,15). E aggiunge: come, secondo il Libro della Genesi, l’uomo e la donna diventano una carne sola, così Cristo con i suoi diventa un solo spirito, cioè un unico soggetto nel mondo nuovo della risurrezione (cfr 1Cor 6,16ss).
In tutto ciò traspare il mistero eucaristico, nel quale Cristo dona continuamente il suo Corpo e fa di noi il suo Corpo: "Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il Corpo di Cristo? Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane" (1Cor 10,16s). Con queste parole si rivolge a noi, in quest’ora, non soltanto Paolo, ma il Signore stesso: Come avete potuto lacerare il mio Corpo? Davanti al volto di Cristo, questa parola diventa al contempo una richiesta urgente: Riportaci insieme da tutte le divisioni. Fa’ che oggi diventi nuovamente realtà. C'è un solo pane, perciò noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo. Per Paolo la parola sulla Chiesa come Corpo di Cristo non è un qualsiasi paragone. Va ben oltre un paragone. "Perché mi perseguiti?" Continuamente Cristo ci attrae dentro il suo Corpo, edifica il suo Corpo a partire dal centro eucaristico, che per Paolo è il centro dell’esistenza cristiana, in virtù del quale tutti, come anche ogni singolo può in modo tutto personale sperimentare: Egli mi ha amato e ha dato se stesso per me.
* * *
Vorrei concludere con una parola tarda di san Paolo, una esortazione a Timoteo dalla prigione, di fronte alla morte. "Soffri anche tu insieme con me per il Vangelo", dice l’apostolo al suo discepolo (2Tm 1,8).
Questa parola, che sta alla fine delle vie percorse dall’apostolo come un testamento, rimanda indietro all’inizio della sua missione. Mentre, dopo il suo incontro con il Risorto, Paolo si trovava cieco nella sua abitazione a Damasco, Anania ricevette l’incarico di andare dal persecutore temuto e di imporgli le mani, perché riavesse la vista. All’obiezione di Anania che questo Saulo era un persecutore pericoloso dei cristiani, viene la risposta: Quest’uomo deve portare il mio nome dinanzi ai popoli e ai re; "io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome" (At 9,15s). L’incarico dell’annuncio e la chiamata alla sofferenza per Cristo vanno inscindibilmente insieme. La chiamata a diventare il maestro delle genti è al contempo e intrinsecamente una chiamata alla sofferenza nella comunione con Cristo, che ci ha redenti mediante la sua Passione.
In un mondo in cui la menzogna è potente, la verità si paga con la sofferenza. Chi vuole schivare la sofferenza, tenerla lontana da sé, tiene lontana la vita stessa e la sua grandezza; non può essere servitore della verità e così servitore della fede. Non c’è amore senza sofferenza, senza la sofferenza della rinuncia a se stessi, della trasformazione e purificazione dell’io per la vera libertà. Là dove non c’è niente che valga che per esso si soffra, anche la stessa vita perde il suo valore. L’Eucaristia – il centro del nostro essere cristiani – si fonda nel sacrificio di Gesù per noi, è nata dalla sofferenza dell’amore, che nella Croce ha trovato il suo culmine. Di questo amore che si dona noi viviamo. Esso ci dà il coraggio e la forza di soffrire con Cristo e per Lui in questo mondo, sapendo che proprio così la nostra vita diventa grande e matura e vera.
Alla luce di tutte le lettere di san Paolo vediamo come nel suo cammino di maestro delle genti si sia compiuta la profezia fatta ad Anania nell’ora della chiamata: "Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome". La sua sofferenza lo rende credibile come maestro di verità, che non cerca il proprio tornaconto, la propria gloria, l’appagamento personale, ma si impegna per Colui che ci ha amati e ha dato se stesso per tutti noi.
In questa ora ringraziamo il Signore, perché ha chiamato Paolo, rendendolo luce delle genti e maestro di tutti noi, e lo preghiamo: Donaci anche oggi testimoni della risurrezione, colpiti dal tuo amore e capaci di portare la luce del Vangelo nel nostro tempo. San Paolo, prega per noi! Amen.
1 luglio 2008
Premiata macelleria telefonica
Dal Foglio.it
Cifre, trucchi e mercato nero. Guida contromano a tutto ciò che non avete mai saputo sulle intercettazioni e a tutto ciò che succede sottobanco tra magistrati, avvocati e giornalisti
Arrivano su fogli di carta liscia, con le pagine raccolte in cartelline di plastica, con le conversazioni registrate in ordine cronologico e con le chiamate in entrata e in uscita ordinate una a una dentro lunghe griglie di documenti trascritti. Data, time, durata, chiamante, note, omissis, voci incomprensibili e lunghi tabulati. Arrivano così, le intercettazioni telefoniche: arrivano a casa, arrivano alla fine di un’indagine e arrivano quando l’intercettato ha ormai compreso che, fino a quel momento, ogni parola bisbigliata al microfono del telefono poteva davvero significare qualsiasi cosa dall’altra parte dell’apparecchio.
Chi è stato intercettato almeno una volta lo sa: sa perfettamente che cosa vuol dire aprire quella cartellina con il timbro della questura della sua città, sa perfettamente che cosa vuol dire sfogliare quelle pagine fitte fitte con le sue parole registrate magari solo per un po’ di giorni o magari per un paio di mesi. Perché, se non sei così famoso e se le tue conversazioni sono una notizia solo per te e non per i giornali, quando ti arriva il brogliaccio tu lo prendi, lo scarti, lo sfogli e lo leggi e lo rileggi sul tavolino di casa, nella speranza di non aver mai alluso a nulla, di non aver mai parlato con gente sospetta e di non aver mai detto per nessuna ragione niente, neppure una cazzata. Solo che quando le trascrizioni non rimangono nel tuo cassetto, quando le tue parole arrivano prima sui quotidiani, si sa come funziona: per il lettore la voce su carta è una sentenza che non ha bisogno di prove aggiuntive e spesso basta l’intenzione per provare l’accusa e basta un equivoco per confermare il sospetto.
Capita così per circa 124 mila utenze all’anno, capita così a circa 300 italiani al giorno e anche per questo non è affatto difficile riconoscere subito la persona che almeno una volta nella vita è stata intercettata. La riconosci subito, quella persona, perché al telefono più che parlare preferisce ascoltare, perché nei messaggi preferisce non alludere, perché ti dice che non si sa mai, che lo sai come funziona, che queste cose non si dicono, che certi discorsi è meglio farli a quattrocchi e che di questo, forse, è meglio parlarne un’altra volta. Quanto ti capita, quando scopri che un orecchio estraneo è stato incollato alla tua cornetta per chissà quanti giorni, il telefono si trasforma inevitabilmente in un potenziale microfono rivolto verso un pubblico di cui tu non sai nulla, che di te però vuole sapere tutto e che non aspetta altro che spulciare tra le registrazioni per ascoltare dal buco della serratura quelle telefonate che sembrano essere “incriminate” anche quando con il reato non c’entrano proprio nulla. I numeri li conoscete e cronisti di ogni genere si sono già ampiamente esercitati per giorni sui dati reali delle intercettazioni telefoniche.
Qualcosa però è sfuggito, e per comprendere come funziona un’intercettazione e per capire quali sono, davvero, le vie dell’abuso, la strada giusta non è quella di insistere sui costi effettivi delle intercettazioni. Non basta dire che intercettare in Italia costa moltissimo e che costa più di qualsiasi altro paese europeo. Non basta dire che ogni tabulato telefonico costa allo stato circa 26 euro. Non basta dire che ogni procura spende quotidianamente circa 1,6 euro per intercettare un telefono fisso, 2 euro per un cellulare e 13 euro per un apparecchio satellitare e che ogni giorno il ministero della Giustizia spende circa 613 mila euro per tenere sotto controllo le utenze intercettate (in Francia e in Germania le aziende telefoniche sono invece costrette a offrire gratuitamente allo stato la linea telefonica). Per comprendere davvero tutte le degenerazioni possibili della rete delle intercettazioni, dunque, bisogna dare uno sguardo a cosa succede in questi giorni a Napoli – con il caso Rai, con il Cav., con Saccà e con l’incredibile numero di telefonate registrate (in tutto sono novemila) – e si deve comprendere il senso di quel che è successo pochi giorni fa nel Gargano – con quell’overdose di intercettazioni che, per l’impossibilità di sbobinarle in tempo, ha portato alla scarcerazione di tredici delinquenti – per capire che ancora oggi ci sono aspetti che non possono essere trascurati. Certo, è un errore considerare a priori la registrazione telefonica come un elemento sempre pericoloso per la nostra privacy, perché per legge l’attività investigativa viene sempre privilegiata rispetto alla tutela dei dati sensibili, perché il 95 per cento delle sbobinature che finiscono sui giornali sono intercettazioni non più segrete e perché in fondo in molti casi l’attività di intercettazione non sostituisce affatto l’indagine sul campo, ma semmai spesso la integra.
“Noi – dice un poliziotto famoso che chiede l’anonimato – abbiamo conosciuto un periodo in cui non si facevano intercettazioni perché c’erano i pentiti. Poi si disse che la polizia non sa fare indagini, che comanda tutto il magistrato, e che noi non sappiamo fare più niente. Ed era in parte anche vero, perché io vedevo gli uffici dell’arma dei carabinieri che si erano appiattiti sulle dichiarazioni del pentito. Il pentito era interrogato dal magistrato e il magistrato diventava in modo incontestabile dominus dell’indagine, mentre la polizia giudiziaria si riduceva a rango di ‘aiutante d’interrogatorio’. Ma bisogna fare attenzione. Tu all’intercettazione ci arrivi come momento corroborante dell’indagine. E’ una cosa che va abbinata al resto. Se io metto sotto controllo due trafficanti di droga della camorra, se tu non fai attività di osservazione sul posto e non vai con una telecamera o non nascondi persone in contenitori dell’immondizia, travestendoli da spazzini, da muratori o magari da puttane, le intercettazioni da sole non servono a nulla”.
Soprattutto ora che il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, è pronto a portare in Parlamento il restrittivo disegno di legge che regolamenterà le intercettazioni telefoniche, c’è un aspetto che più degli altri va preso in considerazione: il vero problema non sono le registrazioni in sé, ma sono tutte le vie che rendono possibile la fuga di notizie e grazie alle quali, spesso, le intercettazioni arrivano sul desk dei cronisti prima ancora che sul tavolo degli indagati.
Ecco, come è possibile? Quali sono i punti critici della rete delle intercettazioni? E come fa, davvero, un giornalista a ricevere prima dell’interessato queste registrazioni? Bene, qualsiasi cronista abbia avuto a che fare negli ultimi anni con la pubblicazione delle intercettazioni sa perfettamente che in fondo non è così difficile riuscire a entrare in possesso di quei “documenti riservati”. (Tecnicamente ancora oggi esiste una legge che prevede il divieto assoluto di pubblicazione delle intercettazioni protette dal segreto istruttorio, ma in realtà per chi pubblica le conversazioni non ci sono vere sanzioni: se le intercettazioni vengono riportate prima della fine delle indagini il cronista se la cava con una multa di 250 euro; se le conversazioni invece finiscono sui giornali quando si trovano ancora sotto segreto istruttorio la persona che commette reato è quella che ha lasciato uscire le carte dalla procura non quella che le riceve).
Dall’altra parte, però, sarebbe ingenuo nascondere che molto spesso le intercettazioni sembra proprio siano fatte scientificamente uscire sul quotidiano giusto e nel momento giusto. E se qualcuno crede che non sia così, se qualcuno ancora crede che le intercettazioni non vengano fuori, come dire, “ad arte”, è sufficiente ascoltare quanto detto qualche mese fa dal sostituto procuratore romano Piero Saviotti, che, a proposito di fughe di notizie, rispondeva così alla commissione giustizia del Senato. “Per quanto riguarda l’individuazione della fonte della fuga di notizie – spiegava Saviotti – è difficile dare una spiegazione, anche perché gli interessi sono spesso diversi. Vi è sicuramente l’interesse del pubblico ministero a fare bella figura, a comparire sui giornali, e ciò è molto frequente; non ho prove, ma la mia percezione, di chi opera nel settore, me ne dà in molti casi la conferma. Vi è poi quella che io chiamo la sindrome de ‘I tre giorni del Condor’. Alla fine di quel film, il giornalista promotore dell’inchiesta si sente al sicuro quando riesce a trasmettere il dossier al giornale. A quel punto si sente protetto dalla collettività per cui ritiene di aver lavorato. Ebbene, vi assicuro che questo atteggiamento mentale costituisce una motivazione altrettanto rilevante del far bella figura e di apparire. Si tratta di blindare un’indagine a fronte di aggressioni prevedibili, supposte o semplicemente paventate da parte di quei poteri ai quali ci si vuole contrapporre. In altre parole, l’indagine giudiziaria che approda sulla carta stampata per colui che l’ha condotta in questo modo può essere più protetta, più sicura".
"Un magistrato – continua Saviotti – non fa carriera in senso tecnico con un’indagine andata a buon fine, ma un ufficiale di polizia giudiziaria sicuramente sì. Un risalto giornalistico dell’indagine può soddisfare inoltre anche il malinteso senso istituzionale di volere più risorse per il proprio ufficio. Il dirigente di un ufficio specializzato, di una sezione anticrimine del Ros, di una Dia o di una Digos, sa che se produce risultati visibili ha un potere contrattuale maggiore nei confronti dell’amministrazione per ottenere risorse”. Un tempo – prima che gli atti giudiziari venissero registrati su dischetti duplicabili e quando ancora i magistrati non ospitavano in vacanza i giornalisti per consegnare loro i cd con i verbali utili – il vecchio trucco era semplice e funzionava più o meno in questo modo: il giornalista entrava nel palazzo di giustizia, bussava nell’ufficio del magistrato, il magistrato apriva la porta, faceva sedere il giornalista di fronte a un tavolo e, nel dare una spolveratina alla coscienza allontanandosi “solo per un attimo” dall’ufficio, lasciava lì sul tavolo il verbale o l’intercettazione di fronte al cronista. Il quale, ringraziando, consultava rapidamente prima che il magistrato ritornasse in ufficio. Oggi invece le vie di fuga sono praticamente infinite, e basta ricostruire la vita di una registrazione per capire i passaggi nel corso dei quali la voce dell’intercettato, invece che passare da un ufficio giudiziario a un altro, arriva nelle mani curiose di chi con le indagini non c’entra proprio nulla.
Comincia così un’intercettazione telefonica, comincia con un ufficiale di polizia giudiziaria (dunque polizia di stato, carabinieri o guardia di finanza) che chiede al magistrato di poter intercettare. Il magistrato richiede l’autorizzazione al giudice per le indagini preliminari, il gip valuta se esistono le condizioni per mettere un “bersaglio” sotto controllo (non si può intercettare su tutto: occorrono gravi indizi e, fino a oggi, occorre che il reato preveda una pena non inferiore ai cinque anni). Se le condizioni esistono, il magistrato autorizza la polizia a mettere sotto controllo una serie di utenze telefoniche. (Le uniche intercettazioni che per legge possono essere effettuate preventivamente, cioè basate non necessariamente su indizi, sono quelle fatte dai servizi segreti e sono poco più di cento ogni anno). Così, la polizia giudiziaria invia un fax all’azienda telefonica e chiede di mettere a disposizione i suoi servizi per intercettare l’utente. La durata massima di un’intercettazione, oggi, è di un anno – tranne per i reati di mafia per i quali sono previsti dodici mesi in più.
A questo punto l’azienda telefonica crea un ponte, un filo virtuale che arriva fino alla sala d’ascolto della procura e che permette alla polizia di ascoltare le telefonate delle utenze richieste. La sala d’ascolto è una piccola stanza che si trova all’ultimo piano di ciascuna delle 165 procure d’Italia, nella cosiddetta “piccionaia”. Qui, con una cuffia collegata al computer, gli ufficiali di polizia ascoltano le conversazioni su un monitor, grande quattro volte questa pagina di giornale, in grado di gestire contemporaneamente fino a trecento numeri di telefoni. Il computer ha un programma che condensa insieme le telefonate (i poliziotti la chiamano “lavatrice”) e segnala con un colore rosso l’utenza che squilla in quel determinato momento.
Tecnicamente, per intercettare un telefono, basta conoscere il codice genetico di ogni apparecchio (si chiama “Imei”). Quel codice lancia un segnale radio che viene registrato da ogni celletta presente in città (attraverso le quali i telefonini sono connessi alla rete) che permette alla polizia non solo di ascoltare le parole dell’intercettato ma anche di conoscere esattamente la posizione sul territorio. Esistono solo due tipi di conversazioni che oggi vengono intercettate con difficoltà: la prima è quella che passa attraverso i telefoni satellitari (che si appoggiano ad alcune celle che spesso superano i confini del territorio italiano), la seconda è quella che passa attraverso lo scambio di dati su Skype, il programma di messaggistica istantanea più famoso del mondo per il quale ancora oggi gli inquirenti hanno difficoltà a decrittarne i contenuti. Al termine di un’indagine, infine, le conversazioni considerate più interessanti vengono trascritte su alcuni brogliacci e vengono caricate su supporti magnetici. Ogni cd viene inserito in una custodia sigillata, viene catalogato con un numero di repertorio ma, anche se la traccia del cd non è in via ipotetica modificabile, le duplicazioni purtroppo non mancano. (In un’audizione di due anni fa, il senatore Roberto Castelli sostenne senza ironia che esiste un solo modo per blindare il contenuto delle intercettazioni, “il sistema di attivazione delle bombe atomiche nucleari”).
Teoricamente, ancora oggi, fino al decreto di archiviazione o prima del dibattimento, sarebbe vietato pubblicare qualsiasi tipo di intercettazione. Ci sono casi in cui le conversazioni sbobinate possono però imboccare strade piuttosto diverse da quelle previste dalla legge. Sono molte e tutte lasciano intendere come sia possibile che all’improvviso i brogliacci si materializzino sui giornali prima ancora che questi siano arrivati all’esame della magistratura. In questi casi, con una perifrasi magnifica, i giornali parlano di “intercettazioni finite nella disponibilità dei giornalisti”. Ecco, ci sono occasioni concrete in cui queste “disponibilità” si possono verificare. Spesso, come spiegato con l’esempio dei “Tre giorni del Condor”, capita che sia lo stesso magistrato a fare uscire i verbali. Spesso però capita anche che il giornalista conosca perfettamente quali sono le falle del sistema. Non si tratta solo di voler tirare in ballo tutti i potenziali “casi Tavaroli”, cioè tutti quei casi in cui la figura dello spione potrebbe coincidere con quella degli uomini che si occupano di “business security” all’interno delle aziende telefoniche. Non c’è solo questo, naturalmente. Tanto per fare un esempio, al termine di un’intercettazione il magistrato è obbligato a distruggere tutte quelle registrazioni di cui è stato deciso di vietare l’utilizzo (intercettazioni come quelle tra Piero Fassino e Giovanni Consorte e intercettazioni come quelle che riguardano le ragazze coinvolte nell’inchiesta sul caso Rai).
Che succede, però. Succede che in caso di mancata distruzione non è difficile farla franca, perché non esistono procedimenti punitivi per chi non stralcia quei documenti. Non solo: va anche detto che le sale d’ascolto non sempre hanno le stesse garanzie previste per i luoghi dove i dati vengono trascritti materialmente e che le procure affidano a società esterne (le più famose tra queste si chiamano Resi, I&S, Sio, Radio Trevisan, Area e Rcs – nulla a che vedere con il gruppo Rizzoli – e rappresentano circa l’80 per cento dei costi complessivi che lo stato spende per le intercettazioni). Per quanto riguarda il problema della conservazione dei documenti, invece, vi è una questione doppia, perché da una parte ogni dato di traffico deve essere conservato per almeno cinque anni (l’Italia è il paese a livello europeo dove si conservano di più – in Unione europea è previsto un termine ordinario di due anni) ma dall’altro lato in alcune aziende spesso vengono conservate a lungo anche alcune copie di quei documenti: le aziende, per dimostrare di aver erogato una certa prestazione, devono mantenere le carte fino all’incasso della fattura e le richieste di liquidazione, come ammesso dagli stessi dirigenti delle aziende telefoniche nel corso dell’ultima indagine conoscitiva sul fenomeno delle intercettazioni, spesso vanno misteriosamente smarrite.
Per quanto riguarda la questione degli avvocati, invece, vi sarebbe tutto un capitoletto da aprire a parte. Qui i problemi sono piuttosto seri, perché ogni legale ha diritto al deposito e alla copia di ciascuna intercettazione e ogni legale ha anche diritto a ricevere su cd rom tutto il materiale prodotto nel corso delle indagini. Il punto è che quando il giudice dispone la distruzione delle telefonate, dispone la distruzione di quelle custodite in procura. Mentre non prevede alcuna distruzione forzata di tutte le copie che sono state lasciate ai difensori. Il risultato è che qualsiasi cronista non ha grandi difficoltà a chiedere agli avvocati di fotocopiare questo o quel documento prima ancora che l’inchiesta sia arrivata al dibattimento. Ma non basta. C’è un altro aspetto che non può essere trascurato.
Si dirà: come è possibile che i giornali possano pubblicare tutti quei pettegolezzi, tutte quelle voci sbobinate che non hanno nulla a che vedere con l’indagine e che però attirano l’attenzione del lettore più che un reato di insider trading? Lo spiega ancora una volta il sostituto procuratore Piero Saviotti. “Non credo che se escono sul giornale i pettegolezzi relativi alla vita privata, sentimentale e sessuale dell’indagato X vi sia un interesse di chi ha fornito la notizia a travasare anche quel pettegolezzo. Sicuramente lì c’è il valore aggiunto che bisogna dare alla notizia sulla carta stampata per renderla appetibile, perché naturalmente i lettori si sentono più attratti da queste curiosità piuttosto che dalla rilevanza penale della singola condotta”. In altre parole significa che l’intercettazione va sempre a ruba, che le conversazioni sbobinate stuzzicano comunque il lettore e che però tra una data, un time, una nota e un omissis, un po’ di gnocca e un po’ di vizietti tirano sempre più di una turbativa di mercato.
di Claudio Cerasa