venerdì 11 luglio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Appello per difendere il diritto alla vita di Eluana Englaro. No alla deriva etica che vorrebbe "cosificare" la vita umana, di Magdi Cristiano Allam
2) Io, prima persona singolare liberale, I dubbi laici di Bellasio di fronte a un tribunale che “deduce” per te, dal Foglio.it
3) RADICALI DUBBI SULLA CORTE, UNA SENTENZA DI MORTE DAI GIUDICI. MA SI PUÒ?
4) Dalla penombra, un’esile preghiera al papà Ascolti l’invocazione di quelle suore
5) «Salvatore sentiva, ma nessuno lo capiva» dalla Sicilia
6) La vita umana non è disponibile di Adriano Pessina, Direttore del Centro di Ateneo di Bioetica Università Cattolica del Sacro Cuore


Appello per difendere il diritto alla vita di Eluana Englaro. No alla deriva etica che vorrebbe "cosificare" la vita umana, di Magdi Cristiano Allam
Mobilitiamoci testimoniando con la parola la nostra strenua condanna dei boia del relativismo etico che violano incontestabilmente il valore insopprimibile della sacralità della vita, che si sono arbitrariamente auto-attribuiti il diritto di sentenziare che Eluana non debba più continuare a vivere e debba essere uccisa cessando di nutrirla
autore: Magdi Cristiano Allam
Cari amici,
Lancio un appello urgente e forte a mobilitarci per difendere il diritto alla vita di Eluana Englaro, affinché trionfi il valore insopprimibile della sacralità della vita dal concepimento alla morte naturale quale fondamento della nostra umanità e della nostra civiltà.
Mobilitiamoci testimoniando con la parola la nostra strenua condanna dei boia del relativismo etico che violano incontestabilmente il valore insopprimibile della sacralità della vita, che si sono arbitrariamente auto-attribuiti il diritto di sentenziare che Eluana non debba più continuare a vivere, che Eluana debba essere uccisa cessando di nutrirla.
Mobilitiamoci contro questa deriva etica, giuridica e politica che vorrebbe “cosificare” la vita umana, con il tragico risultato che oggi i nostri figli immaginano, come è avvenuto per dei quattordicenni siciliani che non si sono fatti scrupoli ad assassinare una loro coetanea dopo averla stuprata e messa incinta, che la vita umana possa essere impunemente usata, violata e buttata.
Mobilitiamoci affinché Eluana possa restare in vita presso le suore Misericordine che da 14 anni l’accudiscono amorevolmente nella casa di cura “Monsignor Luigi Talamoni” a Lecco, che hanno detto: “Per noi Eluana è una persona e viene trattata come tale. E’ una ragazza bellissima. Vorremmo dire al signor Englaro (il padre) che se davvero la considera morta di lasciarla qui da noi. E’ parte della nostra famiglia”.
Mobilitiamoci sostenendo a viva voce che anche per noi Eluana è una persona che ha diritto alla vita e anche per noi Eluana è parte della nostra famiglia. Promuoviamo un’adozione a distanza di Eluana che sia tale innanzitutto nei nostri cuori e che possa, se necessario, trasformarsi in un impegno concreto al fianco delle suore Misericordine che attestano con la loro testimonianza d’amore e di vita l’autentico messaggio di Gesù, che trova piena corrispondenza nei valori assoluti e universali che sostanziano l’essenza della nostra umanità.
Vi esorto a far pervenire a questo sito la vostra adesione a questo appello, indicando il vostro nome e cognome, la vostra e-mail e la motivazione per la quale aderite all’appello.


11 luglio 2008
Il caso di Eluana Englaro
Io, prima persona singolare liberale, I dubbi laici di Bellasio di fronte a un tribunale che “deduce” per te
Dal Foglio.it
Io è la prima persona singolare liberale. Io decido. Io posso rifiutare cure. Io posso scrivere un testamento biologico, magari presto anche in Italia. Magari. Io vivo. Io esisto come unico dal concepimento alla morte. Io – la natura lo ammette – posso nei fatti decidere che questa non è vita ma la vita di per sé non è qualità o quantità, è e basta. Il mistero poi di un’esistenza e delle esistenze a lei vicine è intoccabile soprattutto nel dramma.
Io avevo capito che la volontà individuale era il principio ultimo, il motore immobile di ogni diritto rivendicato come moderno, la casa laica e inviolabile dove rifugiare i miei amori, pensieri, desideri, paure, piaceri. Se dubito di Dio, credo in Io, no? Io, anarchico e relativo ma non per questo relativista, sono il padrone della mia vita, soprattutto se non la considero un dono, ma anche se la considero un dono. Io, da una prospettiva liberale, posso tutto quello che non riguarda il tu e il voi e il loro. Se la mia volontà può essere dedotta da un tribunale, da un altro da me, presunta a partire da fatti e parole mie, per me crolla l’ultimo invalicabile muro di difesa di una società che scivola sempre più verso la spersonalizzazione dei diritti trasformati via via in “conquiste di civiltà” sociali e politiche. Ma io? “Quando sia univocamente accertato, sulla base di elementi tratti dal vissuto del paziente, dalla sua personalità e dai convincimenti etici, religiosi, culturali e filosofici che ne orientavano i comportamenti e le decisioni, che questi, se cosciente, non avrebbe prestato il suo consenso alla continuazione del trattamento”, chi lo decide? I miei convincimenti sono in continuo divenire, per questo siamo vivi, cogito ergo sum, continuo a cogitare dunque continuo a esserci.
Ma il pensiero è impenetrabile e se la scelta è irreversibile, la delega non è possibile, perché nessuno può davvero sapere che cosa avrei pensato o voluto io in quel preciso momento. Perché il dolore non è immaginabile finché non lo provi. Dunque non so nemmeno io davvero che cosa vorrò. Anche una volontà espressa in anticipo per qualcosa che potrà accadere in futuro è difficile che sia realmente univoca, figuriamoci una volontà dedotta. Eppure poi univoca è la sorte. “Se cosciente, non avrebbe prestato il suo consenso…”? Con i se non si fa la storia di nessuno e mi fa paura che la mia volontà sia carpita da una domanda che contiene un periodo ipotetico e cui io non posso rispondere. Che cosa significa “univocamente”? Chi sa quello che penso e voglio qui e ora?
Sono convinto, con qualche preoccupazione, che serva il testamento biologico. Ma come si fa a esultare per il fatto che da oggi quasi quasi non serve più il testamento biologico? Chi vuole una legge sul testamento biologico dovrebbe temere queste sentenze. In uno stato dove per vendere una casa si va da un notaio, perché la volontà estrema può essere dedotta? E se i fatti sono contrastanti? Se le testimonianze sono difformi? E se le opinioni da me espresse sono state contraddittorie? Decide un tribunale? Decide un tribunale! Siamo sicuri? Negli stati di diritto più banali, tanto più pesanti sono le conseguenze dell’espressione di una volontà tanto più dettagliate e precise e forti sono le forme in cui quella volontà deve essere espressa. Se poi le forme non bastano, in dubio pro vita.


RADICALI DUBBI SULLA CORTE, UNA SENTENZA DI MORTE DAI GIUDICI. MA SI PUÒ?
Avvenire, 11 luglio 2008
FRANCESCO D’AGOSTINO
Eluana Englaro, in coma da anni e anni, è viva. Si può uscire da un simile coma? Potrebbe risvegliarsi Eluana? È molto im­probabile, ma la scienza non ha criteri per e­scluderlo: la sua situazione, infatti, come quella di tutti i malati come lei, è definita di coma 'persistente', non di coma 'irreversi­bile'.
È sottoposta ad accanimento terapeutico, da parte delle suore che la accudiscono, la po­vera Eluana? La sua vita non è forse una tor­tura? La risposta è no. Eluana, come tutti i malati in coma, non soffre. Non è sottoposta ad alcun accanimento. Viene semplicemen­te alimentata e dissetata. Prendersi cura dei malati, dare loro da mangiare e da bere, an­che quando sono privi di coscienza vigile, non sono pratiche mediche, ma atti essen­ziali, minimali, umanissimi di prossimità u­mana, portatori di un valore simbolico altis­simo. Al contrario, far morire di inedia un malato, sospendendogli alimentazione e i­dratazione, è intuitivamente atroce, non per­ché il malato soffra, ma per la valenza di fred­do distacco da lui che è implicita nella so­spensione delle cure. Nessun sedativo che – si suggerisce – possa essere somministrato a Eluana può camuffare una simile atrocità.
Come definire la sua vita? Qualificarla come 'tragica' è dir poco. Qualificarla come 'arti­ficiale' è insultante per la medicina, che con mille preziosissimi artifici aiuta tanti malati a sopravvivere. La si può qualificare come carente di dignità? Può farlo solo chi sosten­ga che la dignità non sia intrinseca alla vita umana, ma sia una sorta di qualità che si possa acquisire e si possa perdere (e magari vendere o comprare). Chi ritiene, ad esem­pio, che non abbia dignità una vita in quan­to gravemente malata, o la vita di un porta­tore di un gravissimo handicap, o la vita di un demente, o la vita di un criminale – e che quindi tutte queste vite non meritino tutela piena ed assoluta, ma possano essere ragio­nevolmente soppresse – potrà certamente aggiungere a questo novero la vita di un ma­lato in coma. L’esito di queste posizioni, co­munque, è chiaro: prima o poi si dovrà pur arrivare a determinare chi debba essere l’in­sindacabile giudice della 'qualità della vita'. Per quanto sgradevole e conturbante, que­sto esito (con le conseguenze che vengono in mente a tutti, anche perché l’esperienza storica ci dovrebbe pure aprire gli occhi!) è i­neludibile.
Ma non è forse doveroso far sì che ognuno sia giudice della qualità della propria vita? Non abbiamo forse il dovere di rispettare la volontà di Eluana di non essere sottoposta a cure coercitive? Certamente, dobbiamo tut­ti avere un assoluto rispetto per la volontà dei malati, ma a due condizioni, che nel no­stro caso appaiono entrambe irrealizzate. La prima è che il trattamento cui Eluana è sot­toposta (cioè l’alimentazione), e che in ipo­tesi essi rifiuterebbero, sia davvero da ritenere un cura medica: il che, come abbiamo det­to, non è. La seconda, ancora più importan­te, è che si abbia la certezza assoluta, al di là di ogni ragionevole dubbio, che comunque tale sia o sia stata davvero la volontà di E­luana. Ma noi non abbiamo nessuna prova certa al riguardo, se non testimonianze che, se fossero portate in tribunale contro un im­putato, verrebbero demolite in pochi minu­ti dalla difesa. Non sarebbe ragionevole e­stendere alla difesa della vita le medesime rigorose cautele che sovrintendono alla tra­smissione dei patrimoni attraverso il nor­male strumento testamentario?
In breve, la vicenda della povera Eluana En­glaro è terribilmente intricata, umanamen­te tragica, giuridicamente complessa. I bioe­ticisti discutono di vicende di questo tenore da anni ed anni e sono ben lontani dall’es­sere giunti a risposte condivise ai tragici di­lemmi che suscita la vita dei malati in coma. Ma ai giudici non spetta discutere; essi de­vono decidere. Di fronte a questioni laceranti i giudici adottano in genere la decisione più benevola: se nutrono fondati dubbi sulla col­pevolezza, assolvono; se non sono certi di a­vere le prove definitiva dell’incapacità di un soggetto, si guardano bene dal togliergli la capacità di agire e di sottoporlo a tutela. Nel caso di Eluana hanno invece adottato la de­cisione più cruda, quella che apre le porte alla morte e le chiude alla vita. Una decisio­ne – ne saranno stati consapevoli i nostri buo­ni giudici? – obiettivamente necrofila.


Dalla penombra, un’esile preghiera al papà Ascolti l’invocazione di quelle suore
Avvenire, 11 luglio 2008

DAVIDE RONDONI
C aro signor Beppino Englaro, in mezzo alla bufera di questi giorni intorno a una sentenza controversa, e al capezzale di una storia terribile, in mezzo allo strano giubilo di coloro che sono contenti della fine definitiva di una vita; in mezzo alla profonda emozione che tutti provano di fronte a questi casi estremi della vita e dell’amore; ecco in mezzo a tutto questo e all’infinita chiacchiera che ne consegue, lei sta come in penombra. E a lei oso rivolgermi, con una lettera, quasi trattenendo il fiato. Lei che è il padre che per anni ha lottato per far tornare indietro sua figlia dall’ombra e per anni ha lottato per spingerla oltre quell’ombra, ora sta discreto. Non voglio commentare. Si sarebbe tentati di dire: non importa chi ha ragione. Se lei o chi non la pensa come lei. Ma invece occorre, proprio di fronte a lei, e alla sua Eluana, chiedersi cosa è aver ragione?
In questo caso, cosa significa? Forse sono questi i casi in cui conta davvero aver ragione, ovvero guardare in questa faccenda tutti gli elementi. Tutti.
Ragione, cioè sguardo umano e aperto a tutto ciò che è in gioco. E quanta vita è in gioco in questa faccenda... Lei ha pensato, guardando tutto quel che era sotto i suoi occhi – una figlia rapita da un’ombra apparentemente infinita; la fatica di lunghi anni; la durezza della solitudine di una famiglia di fronte a queste cose; la mancanza di motivi di speranza – ecco lei ha pensato che quel che si va facendo sia la cosa migliore. Di fronte alla sua decisione si può non esser d’accordo. Si può dire: che fastidio dà quel filo oscuro di vita? O dire: Beppino, guardi, consideri anche questo, si può, si potrebbe ancora invitarla ad ampliare il raggio delle cose da considerare prima di decidere che Eluana è da lasciar morire... Voglio dire, e lo faccio in punta di piedi, che se la situazione per lei è insostenibile – e chi non la comprende? – ci sono altri che nel silenzio se ne faranno interamente carico, esonerando lei da qualunque incombenza. Ci pensi un’ultima volta, la prego. La preghiamo. E può ancora oggi prendere in considerazione l’appello sommesso delle suore che da anni con lei sostengono il peso di Eluana: « Signor Englaro, se davvero la considera morta, la lasci piuttosto qui da noi: Eluana è parte della nostra famiglia » . E però, detto questo, si deve restare e resto nella penombra con lei, come un padre può stare accanto ad un altro padre, senza alzare nessuna bandiera di vittoria o di giubilo, se una figlia muore. E dunque sì, importa chi ha ragione, e discutere si deve. Ma quando si è padri – e verrebbe da dire: sempre quando si ama – la ragione coincide, s’impasta con l’amore. Avere ragione diventa essere aperti, finché ci è umanamente possibile, all’esistente, onorandolo. Proprio in questi casi ci si accorge che le cose fatte ' in nome della ragione', della ' libertà', o sono anche in nome dell’amore o lasciano l’amaro in bocca. E che nessuno potrà dire su questa faccenda: ho ragione, lei per primo, senza tremare d’amore per chi si vuole autorizzare a morire invece che a vivere.


«Salvatore sentiva, ma nessuno lo capiva» dalla Sicilia
La testimonianza di Pietro Crisafulli: suo fratello è rimasto in coma per oltre due anni Per i sanitari non sentiva più nulla invece, quando si è risvegliato ha rivelato di avere sempre compreso ogni cosa
DA MILANO ENRICO NEGROTTI
Avvenire, 11 luglio 2008
Salvatore Crisafulli è tornato a soffrire alla notizia del decreto della Corte d’Appello di Milano che permette di interrompere ali­mentazione e idratazione a Eluana Englaro. Sente ancora vivo il ricor­do di quando lui stesso si trovava in stato vegetativo e nessun medico voleva credere che si sarebbe ripre­so: «Lo davano per spacciato – rac­conta il fratello Pietro – ma noi fa­miliari vedevamo che piangeva, a­vevamo il sospetto che potesse ca­pire, ma venivamo regolarmente ca­tegoricamente disillusi dai medici. Ma quando si è svegliato, Salvatore ha potuto rivelare che sentiva tutto, e che poteva solo piangere per farsi capire».
Il caso di Salvatore venne alla ribal­ta mentre il mondo assisteva impo­tente alla vicenda di Terri Schiavo, la donna statunitense in stato vegeta­tivo che nel 2005 fu lasciata morire dopo una serie di ricorsi giudiziari. «Salvatore conosceva la vicenda per­ché vedeva i notiziari televisivi – continua il fratello Pietro –. Era in stato vegetativo dal settembre 2003, dopo un incidente stradale quando aveva 38 anni. E tutti i medici ci di­cevano che non c’era nulla da fare, persino i luminari da cui lo abbiamo fatto visitare (anche all’estero) era­no concordi. Ricordo in particolare un viaggio in Austria, da cui eviden­temente Salvatore si attendeva mol­to: quando il professore stabilì che non avrebbe avuto più di 3-4 anni di vita, non solo pianse, ma cominciò a star male, gli venne la febbre».
Tuttavia passata l’emozione del ca­so Terri, i riflettori tornarono a spe­gnersi. «Non ce la facevamo più a reggere l’angoscia e la solitudine in cui come famiglia eravamo abban­donati – racconta ancora Pietro Cri­safulli –. Fu allora che per protesta­re dissi che gli avrei “staccato la spi­na” se non avessimo trovato aiuto. Sono parole di cui poi mi sono pen­tito, ma per capire bisogna cono­scere il grado di disperazione cui possono giungere i familiari di que­ste persone » . Tuttavia qualcosa si mosse: «L’allora ministro della Sa­lute Francesco Storace si attivò e tro­vammo un ricovero in una struttu­ra attrezzata per una vera riabilita­zione. E per tre mesi Salvatore ot­tenne quell’assitenza che nessuno gli aveva mai dato prima: lì col tem­po hanno capito che era cosciente e nell’ottobre è uscito dal coma».
Iniziava un nuovo percorso, aperto alla speranza anche se ancora diffi­coltoso: «Per i primi 18 mesi l’assi­stenza è stata buona, poi è andata scemando, tra intoppi burocratici e carenze di fondi. Ma Salvatore con­tinua a migliorare: ora muove an­che le spalle e le dita dei piedi. E so­prattutto può comunicare». Al mat­tino, quando è più fresco, «riesce a parlare con la sua voce. Nel pome­riggio, di solito, utilizza due diffe­renti sistemi elettronici per tra­smetterci il suo pensiero. Adesso per esempio sta scrivendo un comuni­cato proprio sul caso di Eluana». Un caso che non può non colpire chi è passato attraverso un percorso a­nalogo: «Parlando di Terri Schiavo, Salvatore ci ha detto che si rendeva conto di essere in una situazione si­mile ». Ora Salvatore «ha una voglia di vi­vere incredibile, ha fiducia di poter migliorare ancora – aggiunge Pietro Crisafulli –. Stiamo preparando un viaggio in Florida, perché abbiamo saputo che c’è una terapia iperbari­ca che potrebbe fargli recuperare un 30% delle sue capacità. Dobbiamo sempre avere fiducia nelle possibi­lità della scienza medica nel futu­ro ». Dalla vicenda del fratello, Pietro Crisafulli ha ormai tratto molta e­sperienza: «Conosco 837 casi di per­sone in stato vegetativo, credo di po­ter affermare che almeno 350 di questi sono in grado di capire quel che succede loro intorno ma non riescono a comunicare in alcun mo­do. Proprio oggi (ieri, ndr) so che un uomo di 36 anni, in stato vegetativo dopo un incidente stradale da nove anni, si è svegliato e ha mosso le di­ta per scrivere. È fuori di dubbio che la ripresa di questi malati è lunga e incerta, ma la speranza non va mai abbandonata. E le famiglie vorreb­bero che la politica non fosse orien­tata verso una cultura di morte, ma a garantire i sostegni cui le persone disabili gravi hanno diritto».


Un principio costitutivo di ogni democrazia
La vita umana non è disponibile di Adriano Pessina, Direttore del Centro di Ateneo di Bioetica Università Cattolica del Sacro Cuore
Sono molti i motivi che inducono a dissentire dalla sentenza della Corte d'appello civile di Milano che autorizza Beppino Englaro, in qualità di tutore, a ottenere l'interruzione del trattamento di idratazione e alimentazione che da sedici anni permette alla figlia, Eluana, di continuare a vivere. I due criteri introdotti per autorizzare questa sospensione fanno riferimento sia alla volontà di Eluana, sia alla sua condizione di perdita irreversibile della coscienza. Stando a una ricostruzione basata su diverse testimonianze, Eluana avrebbe espresso il desiderio di non vivere "senza essere cosciente, senza essere capace di avere esperienze e contatti con gli altri". Nella sentenza si cita, di sfuggita, l'"impostazione cattolica" propria di Eluana, ma si ritiene che non possa contrastare le altre dichiarazioni.
Qualche considerazione: in Italia non esiste il cosiddetto "testamento biologico", che di per sé è un documento scritto alla presenza di testimoni, e che può essere cambiato in ogni momento, per cui risulta un'evidente forzatura attribuire una rilevanza decisiva a una volontà pregressa, indirettamente ricostruita, non univoca, per sospendere trattamenti ordinari. In secondo luogo, la questione è metodologicamente mal posta. Chi vorrebbe vivere in uno stato vegetativo, o avere una demenza senile, o perdere la coscienza di sé? Nessuno.
La domanda legittima è un'altra: quando una persona non è più in grado di accudire se stessa che cosa è doveroso fare, e che cosa è doveroso evitare? In linea di principio nessun testamento biologico dovrebbe avallare né l'eutanasia (che comporta l'uccisione diretta del paziente), né l'abbandono terapeutico, o assistenziale (che determina la morte della persona, ed è moralmente grave tanto quanto la stessa eutanasia).
Non è necessario ricorrere a una concezione religiosa della vita, o negare la possibilità legale e morale di rifiutare trattamenti sproporzionati o inadeguati, per dissentire da questa sentenza: basta sottolineare che nel caso di Eluana si impone di fatto l'interruzione di un lungo processo di accudimento, fatto di attenzione, di amorevole dedizione e di rispetto per la sua dignità personale, che gli stessi protagonisti del ricorso alla Corte di Appello hanno sempre riconosciuto. E questo perché? Perché non è cosciente di sé? Il tema della coscienza è un tema molto delicato da trattare. Ma se Eluana non è davvero cosciente di sé, allora non soffre, e non si capisce perché - se non per un ostinato impianto ideologico a cui uno Stato cosiddetto laico dovrebbe dirsi metodologicamente estraneo tanto quanto a ogni confessione religiosa - la si debba condannare a morte, tramite una lenta agonia.
Nella sentenza, per coerenza con la tesi per cui Eluana dovrebbe essere priva di coscienza, non si parla di farla morire per fame e sete (quando manca la coscienza si parla di disidratazione e consunzione), ma si raccomanda l'uso di "sedativi o antiepilettici" per "eliminare reazioni neuromuscolari paradosse" e si consiglia "umidificazione frequente delle mucose, somministrazione di sostanze idonee a eliminare l'eventuale disagio da carenza di liquidi, cura dell'igiene e dell'abbigliamento del corpo". Ma se davvero Eluana non è cosciente e se la sua, come si legge nella sentenza, è pura vita biologica, per quale motivo tante attenzioni? La risposta è semplice: perché, malgrado la pressione ideologica, risulta difficile, persino a questi giudici, dimenticare che la vita di Eluana è sempre e comunque una vita personale. Chiediamoci: ma davvero sono crudeli coloro che finora si sono presi cura di Eluana, o non lo sono coloro che la condannano all'agonia e alla morte?
Altrettanto discutibile è il potere di vita e di morte che di fatto viene attribuito alla figura del tutore, che dovrebbe agire nel miglior interesse della persona che gli è affidata. Ora, affinché sia impedito ogni arbitrio, bisognerebbe limitare qualsiasi decisione sulla vita delle persone e si dovrebbe garantire a ogni cittadino la certezza che il valore della sua esistenza non verrà determinato in base ad alcuna particolare concezione antropologica. Solo così si garantisce il principio, costitutivo di ogni democrazia, della non disponibilità della vita umana e della sua intrinseca dignità, che non è un possesso che si possa acquisire o perdere, ma il segno dell'incommensurabilità della vita umana stessa, che non ha prezzo e che è fondamento dei diritti umani. La stessa medicina rischia di perdere la propria autonomia e diventare uno strumento di discriminazione quando accetta di sospendere trattamenti ordinari a motivo di una decisione che non ha fondamento clinico: si incrina il dovere costitutivo del prendersi cura di tutti i pazienti che non sono in grado di intendere e di volere.
Questa sentenza e questa scelta del padre, comunque, non fermeranno le battaglie quotidiane che i parenti dei molti pazienti che sono nelle condizioni di Eluana stanno combattendo per ottenere strutture adeguate e personale qualificato in grado di prendersi cura dei loro familiari, che vivono in una particolare condizione di gravissima disabilità. Questa sentenza non rappresenta certo il welfare che ci si aspetta da una civiltà del diritto.
(©L'Osservatore Romano - 11 luglio 2008)