Nella rassegna stampa di oggi:
1) Una luce nel buio modernista - Thomas Howard racconta l’amico C. S. Lewis, «un uomo del vecchio Occidente» che per illuminare il mondo alla deriva si mise a scrivere storie “sbagliate”
2) «Fisco a misura di famiglia»: la petizione alla Camera
3) Manifestazioni in tutta Italia in difesa di Eluana Englaro - Appello al Procuratore per bloccare la sentenza di morte
4) La speranza del Vangelo in un mondo avido e diviso
5) Il messaggio affidato dal Papa alle nuove generazioni La speranza del Vangelo in un mondo avido e diviso
6) L'intervento dei professori di Diritto penale su Eluana Englaro
7) I neurologi chiedono al giudice di bloccare la sentenza di condanna a morte per Eluana
8) IN AUSTRALIA COME IN ITALIA - MAI SENTIRSI «PADRONI» DI CIÒ CHE APPARE SENZA DIFESA
Il messaggio affidato dal Papa alle nuove generazioni La speranza del Vangelo in un mondo avido e diviso
Lo sguardo a spaziare sulla moltitudine che lo acclama, il pensiero rivolto ai gravi problemi ambientali e sociali che scuotono il mondo. Benedetto XVI si è immerso così nella festa di accoglienza dei giovani a Sydney. Il messaggio del Papa si è andato delineando nella mattina di giovedì 17, nella Government house dove ha avuto luogo la cerimonia ufficiale di benvenuto. Il suo primo pensiero è stato per i giovani. L'incontro con loro "mi riempie di fiducia - ha esordito rispondendo al saluto delle autorità - per il futuro della Chiesa e per il futuro del nostro mondo". E dopo i giovani gli aborigeni, un'altra parte della società australiana che più gli sta a cuore. Parole di apprezzamento le ha avute per l'opera di riconciliazione portata avanti dal governo, pronto a riconoscere e a chiedere scusa per le ingiustizie commesse in passato verso gli aborigeni e ad aprire nuovi spazi di integrazione.
E poi la salvaguardia dell'ambiente, il dialogo ecumenico, l'invito ad un rinnovamento spirituale che, partendo dall'Australia contagi tutta l'Oceania. Infine l'appello rivolto ai giovani, perché gli adulti ascoltino, ad "avere il coraggio di divenire santi" perché "questo è ciò di cui ha più bisogno il mondo".
Di questo coraggio ha poi parlato alle decine di migliaia di ragazzi e ragazze che lo attendevano al molo di Barangoroo. Spettacolare, più dell'arrivo del Papa in battello, la scenografia preparata per accoglierlo. Con il linguaggio a loro più congeniale Benedetto XVI ha messo subito in guardia i giovani dai rischi del secolarismo: "non si può lasciare Dio ai margini". "Vi sono molti, oggi - ha detto in particolare - i quali pretendono che Dio debba essere lasciato ai margini e che la religione e la fede, per quanto accettabili sul piano individuale, debbano essere escluse dalla vita pubblica o utilizzate solo per perseguire scopi programmatici". E ancora: "Questa visione secolarizzata tenta di spiegare la vita umana e di plasmare la società con pochi riferimenti o con nessun riferimento al Creatore", anche se "si presenta come una forza neutrale, imparziale e rispettosa di ciascuno, in realtà, come ogni ideologia, impone una visione globale".
Il Papa ha quindi esortato i ragazzi della Gmg a proclamare che "l'innata dignità di ogni individuo poggia sulla profonda identità, quale immagine del Creatore, e che perciò i diritti umani sono universali, basati sulla legge naturale e non qualcosa dipendente da negoziati o da condiscendenze, men che meno da compromessi". Concludendo il suo intervento Benedetto XVI ha esortato a chiedersi quale posto abbiano "nelle nostre società i poveri, i vecchi, gli immigrati, i privi di voce". Come può essere - si è chiesto il Pontefice - che la violenza domestica tormenti tante madri e bambini" e come è possibile che questa violenza inizi addirittura nel grembo materno "che sembra diventato luogo indicibile di violenza"? Infine l'auspicio affinché sia possibile trovare ciò al quale anelano il cuore e la mente di ciascun uomo: una vita dove regni l'amore, dove i doni siano condivisi e dove la libertà trovi il suo giusto significato.
(©L'Osservatore Romano - 18 luglio 2008)
10 Luglio 2008
Una luce nel buio modernista - Thomas Howard racconta l’amico C. S. Lewis, «un uomo del vecchio Occidente» che per illuminare il mondo alla deriva si mise a scrivere storie “sbagliate”
di Thomas Howard
Esce in Italia presso Marietti Narnia e oltre, il volume che Thomas Howard, uno dei più amati scrittori cattolici americani e amico e studioso di Clive Staples Lewis, ha dedicato all’autore de Le cronache di Narnia, salutato dalla critica internazionale come uno dei contributi fondamentali per la comprensione dell’opera dello scrittore irlandese. Il volume sarà presentato al prossimo Meeting di Rimini dal traduttore e curatore Edoardo Rialti. Pubblichiamo in anteprima alcuni stralci dal capitolo introduttivo.
Di Thomas Howard
Sul principio della Seconda guerra mondiale fece la sua comparsa in America e in Inghilterra un libro bizzarro. Pareva una raccolta di lettere da parte di un vecchio diavolo a uno più giovane, che gli insegnava come trattare l’uomo assegnatogli come sua speciale responsabilità demoniaca. Il libro era bizzarro per svariati motivi. Tanto per cominciare uno non incappa tutti i giorni in lettere infernali, e tuttavia questo non era un volume sull’occulto, né sul satanismo né su qualsiasi altra sorta di arcano; inoltre era insolito che, nel mezzo degli anni più tenebrosi che l’Occidente avesse conosciuto da oltre un secolo, si focalizzasse l’attenzione della cristianità non a commentare la paura e la situazione apocalittica della politica, bensì a una ben più antica, ben più vasta, e infinitamente più allarmante situazione che la nostra razza stesse vivendo da eoni. Ed era inoltre strano che nel bel mezzo del XX secolo, in seguito a decenni di sforzi assidui da parte della Chiesa moderna in Occidente di “desupernaturalizzare” l’antica Fede sotto il fuoco di fila del romanticismo tedesco, delle critiche più raffinate, del darwinismo, del freudismo e così via – proprio quando tutto questo impegno pareva avesse tutto ridotto perlomeno al protestantesimo – ecco comparire questo libro che presupponeva, spensieratamente e pacatamente, che il Diavolo esista davvero, oh Santo Cielo.
C’era la teologia cristiana che, tirando ansiosamente per le falde della giacca il mondo occidentale, ci rassicurava tutti che non si dovesse credere neppure per un momento in alcuna assurdità sui miracoli o su un Dio-fatto-carne, su parti verginali e così via, e persino meno ancora su Satana; ed ecco sopraggiungere un libro, che non era scritto da un predicatore di campagna con i calzettoni bianchi assiso su un podio, ma da un accademico di vasta cultura e luminosa intelligenza, il quale credeva ovvi simili affari scomodi. Naturalmente il libro era Le lettere di Berlicche, e l’accademico era Clive Staples Lewis.
Un modo per esprimere quello che Lewis riteneva essere il suo compito letterario sarebbe quello di dire che egli desiderava condurre i suoi lettori nei pressi di una finestra che gettasse uno sguardo fuori dalla stanza buia e soffocante della modernità, per spalancarne le imposte e indicare a noi tutti l’enorme vista che si stende oltre la stanzetta nella quale siamo rinchiusi. Egli era alla disperata ricerca di qualsiasi strumento, immagine, oggetto nella stanzetta che fosse in grado di suggerire quel che voleva comunicarci: dobbiamo andare alla finestra e guardare fuori.
Sembra strano parlare della modernità come di una stanza buia e soffocante; l’immediato presupposto comune è che nell’ultimo paio di secoli abbiamo assistito alla nostra fuga dalla stanza buia e soffocante della tradizione e che questo sia il nocciolo di tutto, visto che l’Illuminismo è senza dubbio quella luce che è stata finalmente accesa; o meglio ancora, che noi siamo finalmente usciti alla luce, la luce dell’emancipazione su tutti i fronti; siamo pervenuti al nostro autentico patrimonio di esseri umani, soli nel cosmo, autonomi, finalmente autodefiniti. Gli antichi avevano tanto penato all’ingenuo pensiero che ci fossero gli dèi e che gli uomini venissero chiamati innanzi a tale alto tribunale per rendere ragione delle proprie azioni. Pensavano ci fosse un gran movimento d’angeli e demoni su e giù per l’universo, ed esistessero candide entità celestiali da adorare, e oscure entità infernali da temere. Pensavano che Bene e Male fossero degli imponenti punti fermi, uno da perseguire e l’altro da sfuggire, e che il primo portasse alla beatitudine e l’altro alla dannazione. Eccoci adesso invece con gli strumenti per arrivare alla verità delle cose nuda e semplice: il lettino dell’analista, la provetta, il questionario, il computer; saranno questi a liberarci, laddove l’aspersorio, il turibolo, il libro del vangelo e il crocifisso hanno fallito. Naturalmente ci vorrà del tempo per fare piazza pulita, ma finalmente si comincia e presto potremo iniziare a costruire l’edificio vero e proprio, il tempio dell’Uomo. Tale suona l’adagio della mitologia contemporanea.
La sovversione comincia dal re
Lewis si è battuto per trovare il modo di parlare a un’epoca con la quale virtualmente non condivideva alcun presupposto. Si autodefiniva «un uomo del vecchio Occidente», volendo con questo significare che egli abbracciava la prospettiva generalmente impugnata dalla tradizione greco-giudaico-cristiana. Assistette con timore e persino con nausea spirituale al programma in atto nella modernità e cercò di trovare un modo per piantare nell’immaginazione moderna qualche memoria di una visione alternativa. Capì l’impresa e la intraprese con il più antico dei metodi a disposizione: cominciò a raccontare delle storie. I suoi racconti più noti sono le sue Cronache di Narnia, e dopo quelle ci sarebbe la sua fantascienza – o per meglio dire i suoi romanzi sul “Cielo Profondo”: lo spazio era una di quelle idee moderne che egli riteneva inadeguate rispetto alla realtà.
Secondo un certo approccio le storie di Lewis sono terribilmente sbagliate: sono piene zeppe di idee perniciose che andrebbero eliminate, se prestassimo attenzione alle commissioni che siedono in qualche importante ufficio governativo e ci dicono cosa possiamo fare delle nostre anime e delle anime dei nostri bambini. Per esempio, ecco un re: questo è male, perché inserirà nell’immaginario dei nostri figli un’idea incompatibile con la linea di pensiero egualitaria che cerchiamo tanto assiduamente di inculcare loro. Eccoli nei loro primi, impressionabili anni a godersi tutte quelle scene regali di Narnia. E quel che è peggio è che il re è buono; avrebbe dovuto essere cattivo, così da impersonare quello che veramente vorremmo loro suggerire – che l’autorità assoluta sia per sua natura tirannica. Ed ecco poi all’opera nei mondi di Lewis un ordine morale, stabile, sereno, assoluto, e beato, cose il cui odore non ci aggrada; preferiamo l’immagine della ricerca infinita, e dell’innovazione, e dell’auto-autenticazione, dove gli eroi cercano senza trovare, e nel cercare forgiano la loro propria morale sull’incudine della passione. Per noi l’immagine di un ordine morale prefissato pare soffocante: tiene l’umanità incatenata a una perpetua infanzia, a strisciare dinanzi a totem e tabù, sempre cercando di vivere un qualche schema coniato da una divinità maligna che non sa affatto cosa significa essere uomini. Quello che vogliamo è Prometeo: è la sconfitta degli dèi che troviamo tanto avvincente e suggestiva. Ma nel mondo di Lewis (a dire il vero in tutti i mondi e gli schemi morali fino ai giorni nostri) troviamo che l’ordine prefissato che presiede in modo così sereno e assoluto alle vite e alle azioni delle creature non solo non paralizza la loro libertà e personalità, ma è sinonimo di esse.
Libertà, l’opposto della spontaneità
Ai moderni tale idea di una moralità fissa risulta repressiva. Oggi diciamo che quel che ci serve per l’autentica libertà sono spontaneità, funzionalità e autodeterminazione. Invece Lewis ci avrebbe indicato l’immagine delle cose lodate da tutti i poeti, i profeti, i saggi e i santi, ossia che paradossalmente noi cresciamo nella nostra autentica identità e libertà imparando i passi della Danza. La Danza esiste, già coreografata, e la sua musica sta già suonando; tutte le creature stanno già danzando. La cosa grandiosa è apprendere i passi che ti sono affidati e muoverti al tuo posto. D’altro canto la Città di Dio (per il pensiero di Lewis, e quello di sant’Agostino e di san Giovanni dell’Apocalisse e di altri ancora) è una città squadrata, dalle fondamenta di diamante e dalle alte mura, i cui abitanti è nei passi della Danza che hanno appreso la beatitudine. Si chiamano santi, e la loro gioiosa visione delle cose è del tutto remota dall’immaginario contemporaneo. Le opere d’immaginazione di Lewis adombrano tale visione, perché se c’è una parola che rintocca come il suono di mille campane dalla terra di Lewis, questa parola è Gioia.
«Fisco a misura di famiglia»: la petizione alla Camera
DA ROMA
PIER LUIGI FORNARI
La petizione per «un fisco a misura di famiglia » promossa dal Forum delle Associazioni familiari arriva in aula della Camera. La sottoscrizione di più di un milione di firme consegnata al Quirinale, è stata trasmessa il 20 maggio dal Presidente della Repubblica al Parlamento. Su questo erano state presentate due mozioni una dell’Udc, e una della Lega. E successivamente si sono aggiunti i documenti di Idv, del Pd e del Pdl.
Savino Pezzotta, che è intervenuto in aula a illustrare il documento dell’Udc, ha affermato che la petizione «è il seguito del Family day del maggio dello scorso anno ». L’ex portavoce di quell’evento ha lamentato che «è cambiato il governo ma di politiche audaci per la famiglia ne abbiamo viste poche ». Ha comunque auspicato «la più ampia convergenza » sui contenuti della mozione sottolineando che è « inutile parlare di declino », quando si è fatto troppo poco « per rendere giustizia alla famiglia».
La mozione dell’Udc, che ha come primo firmatario Michele Vietti, chiede quale primo passo «un sistema di deduzioni dal reddito pari al reale costo di mantenimento di ogni soggetto a carico sulla base di scale di equivalenza indipendenti dal reddito». E nell’ambito di una futura riforma del sistema fiscale l’introduzione del quoziente familiare.
La leghista Laura Molteni ha affermato che «la valorizzazione e lo sviluppo della famiglia », così come concepita dalla Costituzione, è uno dei cardini del suo partito. Il documento presentato dal suo gruppo sostiene che il sistema di tassazione deve essere riformulato sulla base del quoziente familiare ( non sostitutivo ma alternativo al sistema in vigore). Secondo la mozione che ha come prima firmataria Carolina Lussana è necessario, inoltre, « introdurre nuove deduzioni » per le famiglie numerose».
Un aumento significativo delle detrazioni è richiesto dalla mozione di Idv, insieme ad « un piano pluriennale per l’apertura di migliaia di asili nido». Nel presentare la mozione Fabio Evangelisti, ha sostenuto che è « decisamente irragionevole » introdurre il quoziente familare.
Contro questo modello di riforma fiscale si è pronunciata anche Rosy Bindi, prima firmataria della mozione del Pd. L’ex ministro della Famiglia ha messo in guardia dal ««rischio di fare accademia » nel dibattito senza poter sperare in una inversione di tendenza postiva.
La mozione del Pd sostiene che «la dote» fiscale che dovrebbe unificare gli assegni e le attuali detrazioni per i figli, «è in grado di rispondere alle attese delle associazioni familiari, e dei cittadini che hanno sottoscritto la petizione » . E su questo la Bindi ha sollecitato «un sereno confronto».
Marcello Tagliatela, illustrando la mozione del Pdl, ha aupicato «una discussione sgombra da pregiudizi» che consenta di approvare un trattamento fiscale che «sia adeguato ai contenuti della campagna elettorale» e alla petizione del Forum. Ha assicurato che l’intenzione di realizzare il quoziente familiare non è stata affatto smentita. La mozione che lo vede come primo firmatario, ricorda i primi provvedimenti del governo, tra i quali l’abolizione dell’Ici, e impegna l’esecutivo a confermare quanto previsto dalla risoluzione di maggioranza sul Dpef, cioè, in attesa della riforma della tassazione della famiglia, a destinare l’aumento di gettito, non assorbito da eventuali maggiori spese, alla riduzione del loro carico fiscale.
Intervenendo in conclusione della discussione il sottosegretario con delega per le politiche familiari, Carlo Giovanardi ha confermato «l’indirizzo del governo favorevole » ai contenuti della petizione per l’adozione delle deduzioni e «all’introduzione del quoziente familiare », per il quale c’è «un problema di tempi» per andare a regime.
Pezzotta: è il seguito del «Family day» Anche la Lega favorevole all’introduzione del quoziente familiare
Manifestazioni in tutta Italia in difesa di Eluana Englaro - Appello al Procuratore per bloccare la sentenza di morte
di Antonio Gaspari
ROMA, giovedì, 17 luglio 2008 (ZENIT.org).- Con il passare delle ore sempre più persone uniscono la loro voce al coro del popolo della vita per salvare la vita di Emanuela Englaro, la ragazza, che una sentenza della Corte di Cassazione di Milano, ha condannato a morire di fame e di sete.
Mentre il Senato italiano sta per sollevare l’eccezione di incostituzionalità nei confronti della sentenza emessa dalla Cassazione di Milano, le suore che accudiscono Eluana hanno chiesto al padre di lasciarla vivere.
Inoltre venticinque neurologi universitari e del Servizio sanitario nazionale hanno scritto al Procuratore generale della Corte d'Appello di Milano, al Presidente della Repubblica e al Governo, chiedendo un intervento urgente che blocchi "l'esecuzione di quella che sempre di più appare come una sentenza di condanna a morte".
Il noto cantante e uomo di spettacolo Adriano Celentano ha scritto sul “Corriere della Sera” una lettera aperta al papà di Eluana, in cui dice: “Forse Eluana ha bisogno della conversione di suo padre per far sì che la sua dipartita da questo mondo avvenga in modo spontaneo e senza alcuna interruzione. O addirittura che si svegli. Si dice che la fede è un dono. Perché solo attraverso la fede succedono le cose più grandiose, e io dirò una preghiera per lei”.
Da Parma, la mamma di Gianluca Taverna, un ragazzo in coma da tanti anni, ha confidato che nonostante le difficoltà : "Non potrei mai staccare la spina a mio figlio".
Nel frattempo manifestazioni con la raccolta di bottiglie d’acqua per Eluana si sono svolte a Milano sul sagrato del Duomo e a Roma in Campidoglio.
Mercoledì 16 luglio, le suore Misericordine che da quattordici anni assistono Eluana Englaro nella Casa di cura “Monsignor Luigi Talamoni” di Lecco, al Tg1, e sulle pagine di “Avvenire” hanno richiesto ancora: “lasciate Eluana a noi” non fatela morire.
Una richiesta in tal senso le suore l’avevano già fatta subito dopo la sentenza della Corte di Cassazione di Milano.
Le suore, in particolare suor Rosangela, assistono con amore Eluana. La portano sulla carrozzina ogni giorno. L'accarezzano, le parlano. La portano in giardino dalla Madonnina di Lourdes. Con la fisioterapia la mantengono tonica.
Suor Albina Corti, responsabile della clinica, ha detto al Tg1 e ad Avvenire, rivolgendosi al signor Englaro il papà di Eluana: “Gli chiediamo di lasciarla con noi, dopo tanti anni la consideraimo parte della nostra famiglia”.
“L’abbiamo accolta – ha precisato la suora – così com’era, l’ha accolta tutta la Congregazione. Da noi un posto per lei ci sarà sempre”.
Intervistata da “Avvenire”, suor Albina ha precisato che “la vita di Eluana non si è interrotta. E’ un mistero in questo momento, però vive! E non è attaccata a nessuna macchina. Viene alimentata di notte con il sondino”.
Alla domanda se reagisce agli stimoli, suor Albina ha raccontato che “quando Eluana sente la voce di suor Rosangela è evidente che si contrae, si agita. L’impressione è che avverta qualcosa. Certo, potrebbe essere impressione soggettiva, comunque qualcosa succede in lei”.
A sostegno dell’iniziativa del Direttore del “Foglio”, Giuliano Ferrara, e del Direttore del settimanale “Tempi”, Luigi Amicone, l’associazione “Scienza & Vita” ha organizzato giovedì 17 luglio una manifestazione in Piazza del Campidoglio a Roma, per difendere la vita di Eluana.
Agli aderenti viene chiesta una bottiglietta d’acqua ed una firma sull’appello per salvare la Englaro.
17 luglio 2008
L'intervento dei professori di Diritto penale su Eluana Englaro
Dal Foglio.it
Con profondo senso di umana solidarietà verso le famiglie impegnate nell’assistenza di persone in stato vegetativo permanente, riteniamo necessario esprimere la nostra preoccupazione quali docenti di diritto penale circa alcuni orientamenti desumibili dalle recenti sentenze adottate in sede civile dalla Corte di Cassazione e dalla Corte d’Appello di Milano in merito al caso di Eluana Englaro.
Secondo le argomentazioni svolte dalla Corte d’Appello quale giudice di rinvio, infatti, una volta che sia riferibile per via indiziaria a un soggetto ritenuto irreversibilmente incosciente il desiderio di non vivere tale situazione di grave precarietà esistenziale, l’omissione, da parte delle persone tenute alla tutela, dell’ulteriore somministrazione di idratazione e alimentazione, che provoca la morte del soggetto, sarebbe qualificabile come conforme al diritto.
D’altra parte idratazione e alimentazione, essendo fattori necessari al perdurare in vita di ogni individuo, ancorché sano, non posseggono alcun significato inteso al contrasto di uno stato patologico; non possono, pertanto, costituire, anche quando realizzati attraverso modalità mediche, un trattamento terapeutico e, segnatamente, un trattamento sproporzionato, come tale non dovuto.
Non a caso, l’idratazione e l’alimentazione, salvo che il corpo non sia ormai in grado di assimilarle, vanno assicurate anche nell’ambito delle cure palliative cui ha diritto – pure se ricoverato in un hospice – il malato terminale. Tutto ciò rende tra l’altro palese che quanto viene in gioco nel momento in cui si chieda di interrompere l’idratazione e l’alimentazione in rapporto ai contesti in esame non è un giudizio riferito a tali interventi, ma – inevitabilmente – alla condizione esistenziale dello stato vegetativo.
Le conclusioni sinteticamente richiamate appaiono in contrasto con alcuni principi fondamentali del diritto vigente. Esse, infatti, sembrano rendere comunque lecite, supposto il consenso, attività volte a destrutturare presidi in atto di tutela della vita, senza alcuna considerazione circa le caratteristiche proprie di quei presidi (caratteristiche che ne consentirebbero la disattivazione ove fossero tali da qualificarli come atti terapeutici sproporzionati). Verrebbe in tal modo a configurarsi la liceità, finora inedita, dello stabilirsi sulla base del consenso (addirittura ricostruito per via meramente indiziaria, senza alcuna certezza in ordine alla reale volontà della persona) di relazioni giuridiche orientate al prodursi della morte, e non già a evitare forme di c.d. accanimento terapeutico. In pratica, l’agire che si ritenga consentito volto al prodursi della morte di un determinato individuo, solo che la morte si realizzi per via omissiva (in termini di c.d. eutanasia passiva), sarebbe sempre ritenuto ammissibile. Il che risulta in contraddizione con l’assetto della tutela concernente la vita umana nel codice penale e, per quanto specificamente concerne l’attività medica, con i fini che caratterizzano la medesima ai sensi dell’art. 1 del codice deontologico.
D’altra parte, non può essere desunta dalle considerazioni relative ai profili di non coercibilità dell’intervento medico nei confronti di una persona cosciente e informata l’affermazione di un diritto all’altrui cooperazione per la morte, tale da rendere ammissibile qualsivoglia conseguente disattivazione di presidi in atto volti alla conservazione della vita. Né, in ogni caso, appare sostenibile che dalla ricostruzione dell’atteggiamento di una persona ritenuta incosciente verso una data condizione patologica possa essere dedotto il suo assenso specifico a essere lasciata morire di sete e di fame. Tanto più alla luce della completa mancanza, in uno stato vegetativo permanente adeguatamente assistito, di indizi che lascino supporre sofferenza. Quantomeno il principio di precauzione dovrebbe condurre, pertanto, a ben diverse conclusioni: anche in rapporto all’impossibilità di dire parole definitive circa dimensioni profonde della coscienza nei soggetti che si trovano in tale stato.
Sulla base di questi rilievi riteniamo che mutamenti di orientamento giuridico così importanti circa la tutela della vita umana non possano avvenire senza un’attenta considerazione dell’intero assetto normativo vigente e in mancanza di un intervento del legislatore. Anche in considerazione dei rischi, diretti e indiretti, che tali mutamenti possono rappresentare in rapporto alla tutela dei diritti fondamentali incondizionatamente spettanti, quale fondamento del principio di uguaglianza, a tutti gli individui umani sulla base esclusiva della loro esistenza in vita.
Salvatore Ardizzone
Ivo Caraccioli
Luciano Eusebi
Marcello Gallo
Ferrando Mantovani
Mauro Ronco
16 luglio 2008
Lettera aperta al procuratore della corte d'appello di Milano e alle massime istituzioni italiane
I neurologi chiedono al giudice di bloccare la sentenza di condanna a morte per Eluana
"Eluana non è un vegetale né una persona in coma, e non si esclude possa provare sofferenza"
Ill.mo Dr. Gianfranco Montera Procura Generale della Repubblica presso la Corte d'Appello di MILANO
e, per conoscenza:
Al Presidente della Repubblica
Al Presidente della Corte Costituzionale
Al Presidente del Senato
Al Presidente della Camera dei Deputati
Al Presidente del Consiglio dei Ministri
Al Ministro della Giustizia
Al Ministro del Welfare
Ai Sottosegretari alla Salute
Ill.mo Signor Procuratore Generale, appresa dalla stampa la disponibilità di un collega neurologo a interrompere l’idratazione e la nutrizione assistita con cui è alimentata e mantenuta in vita Eluana Englaro, i sottoscritti neurologi operanti nelle Università e negli Ospedali del Servizio Sanitario Nazionale esprimono una posizione fortemente alternativa alla decisione del collega ed alle sentenze della Corte di Cassazione e della Corte di Appello di Milano che lo autorizzerebbero all’interruzione della alimentazione, con conseguente inevitabile morte della paziente.
Sentono inoltre il dovere di riaffermare alcuni fondamentali evidenze scientifiche ed etiche, senza le quali il vivere civile, l’organizzazione sociale e la nostra professione corrono il rischio di allarmanti derive. Il paziente in stato vegetativo non necessita di alcuna macchina per continuare a vivere, non è attaccato ad alcuna spina. Non è un malato in coma, né un malato terminale, ma un grave disabile che richiede solo un’accurata assistenza di base, analogamente a quanto avviene in molte altre situazioni di lesioni gravi di alcune parti del cervello che limitano la capacità di comunicazione e di auto-sostentamento. La nutrizione e l’idratazione del paziente, per quanto assistite, non sono assimilabili a una terapia medica, ma costituiscono da sempre gli elementi fondamentali dell’assistenza, proprio perché indispensabili per ogni persona umana, sana o malata. La cannula attraverso cui la nutrizione viene fornita non altera tale elementare verità, essendo al massimo assimilabile ad una protesi o ad un ausilio.
La stessa Corte di Cassazione, nella sua sentenza, riconosce che l’alimentazione assistita “non costituisce oggettivamente una forma di accanimento terapeutico e che rappresenta, piuttosto, un presidio proporzionato al mantenimento del soffio vitale…”. La nutrizione e l’idratazione assistite, infatti, possono essere praticate nelle persone che lo necessitano senza causare sofferenza o violenza alcuna e senza addirittura interferire con l’eventuale attività lavorativa. Queste persone sono decine e decine di migliaia (centinaia di volte di più dei Pazienti in stato simile a quello della Sig.ra Englaro che in Italia si stimano essere circa 1500) e per una parte la loro incapacità a nutrirsi è anche associata ad un deficit cerebrale marcato che non le differenzia molto dallo stato di Eluana. Ci chiediamo cosa faremo con tutte loro e su che base sarà possibile scegliere. Dobbiamo –lo Stato, la Comunità, i Medici- eliminarle tutte?
Dal punto antropologico, inoltre, desideriamo ribadire che il paziente in stato vegetativo non è un vegetale, ma una persona umana. Come la stessa Cassazione riconosce, “chi versa in stato vegetativo permanente è, a tutti gli effetti, persona in senso pieno, che deve essere rispettata e tutelata nei suoi diritti fondamentali, a partire dal diritto alla vita e dal diritto alle prestazioni sanitarie, a maggior ragione perché in condizioni di estrema debolezza e non in grado di provvedervi autonomamente”. Proprio per questo, afferma la Cassazione, la persona in stato vegetativo ha in campo sanitario gli stessi diritti degli altri cittadini (diritti che per la Englaro sono stati rispettati, facendole trascorrere questi anni curata ed assistita amorevolmente in un centro specializzato) e “la tragicità estrema di tale stato patologico - … che nulla toglie alla sua dignità di essere umano – non giustifica in alcun modo un affievolimento delle cure e del sostegno solidale, … a prescindere da quanto la vita sia precaria e da quanta speranza vi sia di recuperare le funzioni cognitive”.
Dal punto di vista neurologico, il paziente in stato vegetativo non è in morte cerebrale, perché il suo cervello, in maniera più o meno imperfetta, non ha mai smesso di funzionare, respira spontaneamente, continua a produrre ormoni che regolano molte delle sue funzioni, digerisce, assimila i nutrienti. Non è neanche in coma, perché, ha un ciclo relativamente conservato di veglia e di sonno, riesce a muoversi anche se non a camminare o stare in piedi, ed in una qualche misura (a noi ancora ampiamente sconosciuta, ma che le più recenti metodiche di analisi della funzione cerebrale stanno portando alla luce) ha una sua –per quanto grossolana- modalità di percezione.
E’ infatti utile ricordare che studi recenti di imaging funzionale e di neurofisiologia clinica dimostrano con chiarezza che in alcuni di tali pazienti è possibile evocare risposte che testimoniano di una residua possibilità, più o meno elementare, di percepire impulsi dall’ambiente con susseguente analisi e discriminazione delle informazioni.
In ogni caso, allo stato attuale delle conoscenze, le esatte basi anatomiche e fisiologhe della coscienza non sono conosciute, mentre sono sempre maggiori le evidenze che collocano i processi della coscienza anche in sedi del sistema nervoso centrale diverse dalla corteccia cerebrale (principale sede di danno nello stato vegetativo). Non vi è certezza assoluta neanche sul fatto che il paziente in stato vegetativo non possa provare qualche forma di sofferenza e la stessa sentenza dei giudici di Milano si preoccupa che alla Englaro vengano somministrati sedativi durante il processo di morte per disidratazione. Pur essendo le possibilità di recupero sempre minori con il passare del tempo dall’insulto cerebrale, oggi il concetto di stato vegetativo permanente è da considerarsi superato e sono documentati casi, benché molto rari, di recupero parziale di contatto con il mondo esterno anche a lunghissima distanza di tempo. È pertanto assurdo poter parlare di certezza di irreversibilità.
Sulla base di queste considerazioni, riteniamo che la sentenza sul caso Englaro non rappresenti un intervento per por fine ad un accanimento terapeutico o a pratiche assistenziali improprie, ma il tentativo di far entrare per vie giudiziarie nella nostra legislazione il potere assoluto di autodeterminazione da parte del paziente o -in questo caso- di chi lo rappresenta o crede di rappresentarlo, fino alla scelta della morte, se la vita viene ritenuta indegna di essere vissuta.
Riteniamo ancor più inaccettabile che la volontà di terzi (fossero anche i genitori) possa sostituirsi, interpretandola, alla volontà del paziente, innescando il rischio, in simili casi, di pratiche discriminatorie basate sulla percezione esterna della qualità della vita altrui. Per quanto riguarda la nostra professione, riteniamo che in tale contesto, il rapporto medico-paziente è ridotto a mero contratto ed il medico a prestatore d’opera tecnicamente qualificata, intesa, nel caso specifico, ad affrettare la morte del paziente, contravvenendo i fondamenti della professione medica e le regole basilari della società civile.
Siamo anche molto preoccupati che le considerazioni della magistratura sulla possibilità di por fine ai pazienti in stato vegetativo come Eluana Englaro possano finire per estendersi ad altre categorie di pazienti neurologici, come i dementi o i cerebropatici gravi che, in fase avanzata di malattia, possono trovarsi in condizioni cliniche non dissimili da quelle dei pazienti in stato vegetativo. Infine, riteniamo disumano il modo proposto di mettere a morte la paziente, attraverso il digiuno e la sete, in una lenta agonia che porterà alla morte attraverso la lenta devastazione di tutto l’organismo.
Per tutti questi motivi, Signor Procuratore Generale, le chiediamo un intervento urgente della che blocchi, prima che sia troppo tardi, l’esecuzione di quella che sempre più appare come una sentenza di condanna a morte. A nome e per conto degli aderenti sottoelencati, confidando nella sua attenzione, le porgo i più distinti saluti e ossequi.
Prof. Gian Luigi Gigli
Sergio Barbieri, Direttore Neurofisiopatologia, Ospedale Maggiore, Milano, Professore Associato di Neurologia, Università di Milano
Paolo Bergonzi, Professore Ordinario di Neurologia, Università di Udine
Dario Caldiroli, Direttore Neuro-Anestesia e Rianimazione, Istituto Neurologico Besta, Milano
Massimo Camerlingo, Direttore Neurologia, Zingonia-Osio Sotto (BG) Antonio Carolei, Professore Ordinario di Neurologia, Università dell’Aquila
Gerardo Ciardo, Direttore Neurologia e Riabilitazione, Ospedale di Tricase (LE)
Giancarlo Comi, Professore Ordinario di Neurologia, Università Vita e Salute, Milano
Domenico Consoli, Direttore Neurologia, Ospedale di Vibo Valentia
Erminio Costanzo, Direttore Neurologia, Azienda Ospedaliera “Cannizzaro”, Catania
Giuliano Dolce, Direttore Scientifico, Istituto Sant’Anna, Crotone
Gian Luigi Gigli, Professore Straordinario di Neurologia, Università di Udine
Mario Guidotti, Direttore Neurologia, Ospedale Valduce, Como
Nicola Latronico, Direttore Neuroanestesia e Neurorianimazione, Azienda Ospedaliera Spedali Civili di Brescia, Professore Associato di Anestesia e Rianimazione, Università di Brescia
Matilde Leonardi, Coordinatore Progetto Nazionale Funzionamento Disabilità e Stato Vegetativo, Istituto Neurologico Besta, Milano
Maria Grazia Marciani, Professore Ordinario di Neurologia, Università di Roma “Tor Vergata”
Anna Mazzucchi, Direttore IRCCS Fondazione Don Gnocchi, sede di Parma
Arrigo Moglia, Professore Ordinario di Neurologia, Direttore del Dipartimento di Scienze Neurologiche dell'Università di Pavia
Alessandro Padovani, Professore Ordinario di Neurologia, Università di Brescia
Aldo Ragazzoni, Dirigente Neurologo Azienda Sanitaria di Firenze, Professore a contratto, Clinica Neurologica, Università di Firenze
Paolo Rossini, Professore Ordinario di Neurologia, Università “Campus Bio-Medico”, Roma
Walter Sannita, Professore Associato di Neurologia, Università di Genova
Roberto Sterzi, Direttore Neurologia, Ospedale Niguarda, Milano
Danilo Toni, Direttore Unità Terapia Neurovascolare Università di Roma “La Sapienza”
Emilio Ubiali, Direttore Neurofisiopatologia, Azienda Ospedaliera Ospedali Riuniti di Bergamo
Davide Zarcone, Direttore Neurologia, Azienda Ospedaliera di Gallarate
IN AUSTRALIA COME IN ITALIA - MAI SENTIRSI «PADRONI» DI CIÒ CHE APPARE SENZA DIFESA
Avvenire, 18 luglio 2008
CARLO CARDIA
La cura e la tutela della vita umana, dal concepimento e fino alla conclusione naturale, costituiscono il punto di equilibrio essenziale per il rispetto del creato, nelle sue varie componenti ed espressioni. È il messaggio che Benedetto XVI ha inviato a tutti gli uomini, in qualunque luogo e condizione si trovino, ed è un messaggio che parte dall’intimo della fede cristiana e parla un linguaggio universale, diretto in modo speciale alla ragione e all’intelletto.
Si possono comprendere le parole del Papa se si muove da una scelta di amore verso ogni creatura, di partecipazione alle sue gioie e di solidarietà con i suoi dolori, se si vede in questo amore una forza che irradia e coinvolge le scelte fondamentali della vita. Sostenere la vita sin dal concepimento vuol dire accogliere un nuovo essere nella sua unicità, porre le basi per una esistenza che rifiuta la violenza, ed è protesa al rispetto e alla valorizzazione di tutte le bellezze che ci circondano. Se si spezza questo punto di equilibrio si apre la strada a una logica diversa, a un egoismo che erode la coscienza, inquina la costruzione del futuro, guasta dall’interno il rapporto con gli altri.
Benedetto XVI ha parlato dall’Australia, una terra nella quale le meraviglie della creazione sono sotto gli occhi di tutti, ma nella quale gli uomini hanno operato anche indicibili violenze, verso le popolazioni autoctone, contro i tesori naturalistici, verso l’equilibrio naturale complessivo. Piegarsi a guardare la storia passata, vuol dire andare alla ricerca delle ragioni della violenza, cercare di eliminarle, costruire un futuro diverso nel quale gli uomini si leghino gli uni agli altri come amici anziché come avversari. Nelle terre d’Australia le parole del Papa sono state accolte come un bene prezioso da uomini e donne di ogni etnia e religione, come un punto di partenza per rifare una storia pacificata e costruttiva.
Ma le parole del Papa hanno lo stesso significato per noi che viviamo in Occidente e in Italia. Hanno lo stesso significato perché da noi la vita è minacciata da mali più sottili, ma con eguali esiti distruttivi. Esse ci chiedono una riflessione intima e insieme pubblica per dire cose che non osiamo confessarci. Crediamo di aver sconfitto i mali della guerra e della devastazione, e pensiamo di essere immuni dalla violenza. Eppure, mentre stavamo progredendo si andava insinuando nella nostra cultura una pretesa che con il tempo ha occupato la nostra coscienza: quella di essere padroni della vita, di quella nasce e di quella che non ci piace, di quella che soffre e di quella che non sappiamo quando finirà. Il tarlo ha scavato a lungo e sembra dirci oggi che possiamo decidere noi quando e come interrompere questa vita, ci offre anche motivi che giustificano la nostra pretesa: perché la persona che 'deve' nascere turba un equilibrio, la vita che ' va soppressa' è troppo piena di sofferenze, a volte non ci appare neanche una forma di vita. Mentre elaboriamo questi ragionamenti il punto focale è diventato un altro, perché siamo ormai noi a decidere quando un equilibrio non va turbato, quando una vita non è degna di essere vissuta, quando una vita non è più tale. Siamo diventati noi i dispensatori della vita e della morte, i supremi giudici, e a quel punto ogni argomento può essere utilizzato per emettere una sentenza definitiva.
Da noi in Occidente giungiamo a questi risultati con leggi e regolamenti, in Italia sembra che possiamo farlo anche con la pronuncia di un giudice, e ciò potrebbe tranquillizzarci. Eppure il risultato a cui giungiamo è lo stesso delle passate devastazioni, che violentavano il creato, la natura, il rapporto tra gli uomini. In certo senso è una violenza più grave perché diretta contro chi non ha forza, non può difendersi, non può neanche proferire parola. Le parole di Benedetto XVI in Australia hanno per noi in Italia un significato speciale. Il significato di un messaggio d’amore perché non si stronchi mai un’esistenza, perché la si aiuti in tutti i momenti e si trovi il modo di sostenerla sempre e comunque. Se riusciremo a rovesciare la logica che si va imponendo in modo subdolo, se riusciremo a resistere alla tentazione di stroncare la vita quando ci sembra utile e opportuno, saremo più forti e convinti nel respingere la violenza, la guerra, nel rispettare il mondo che ci circonda, nell’andare incontro agli altri uomini da qualunque parte provengano.
1) Una luce nel buio modernista - Thomas Howard racconta l’amico C. S. Lewis, «un uomo del vecchio Occidente» che per illuminare il mondo alla deriva si mise a scrivere storie “sbagliate”
2) «Fisco a misura di famiglia»: la petizione alla Camera
3) Manifestazioni in tutta Italia in difesa di Eluana Englaro - Appello al Procuratore per bloccare la sentenza di morte
4) La speranza del Vangelo in un mondo avido e diviso
5) Il messaggio affidato dal Papa alle nuove generazioni La speranza del Vangelo in un mondo avido e diviso
6) L'intervento dei professori di Diritto penale su Eluana Englaro
7) I neurologi chiedono al giudice di bloccare la sentenza di condanna a morte per Eluana
8) IN AUSTRALIA COME IN ITALIA - MAI SENTIRSI «PADRONI» DI CIÒ CHE APPARE SENZA DIFESA
Il messaggio affidato dal Papa alle nuove generazioni La speranza del Vangelo in un mondo avido e diviso
Lo sguardo a spaziare sulla moltitudine che lo acclama, il pensiero rivolto ai gravi problemi ambientali e sociali che scuotono il mondo. Benedetto XVI si è immerso così nella festa di accoglienza dei giovani a Sydney. Il messaggio del Papa si è andato delineando nella mattina di giovedì 17, nella Government house dove ha avuto luogo la cerimonia ufficiale di benvenuto. Il suo primo pensiero è stato per i giovani. L'incontro con loro "mi riempie di fiducia - ha esordito rispondendo al saluto delle autorità - per il futuro della Chiesa e per il futuro del nostro mondo". E dopo i giovani gli aborigeni, un'altra parte della società australiana che più gli sta a cuore. Parole di apprezzamento le ha avute per l'opera di riconciliazione portata avanti dal governo, pronto a riconoscere e a chiedere scusa per le ingiustizie commesse in passato verso gli aborigeni e ad aprire nuovi spazi di integrazione.
E poi la salvaguardia dell'ambiente, il dialogo ecumenico, l'invito ad un rinnovamento spirituale che, partendo dall'Australia contagi tutta l'Oceania. Infine l'appello rivolto ai giovani, perché gli adulti ascoltino, ad "avere il coraggio di divenire santi" perché "questo è ciò di cui ha più bisogno il mondo".
Di questo coraggio ha poi parlato alle decine di migliaia di ragazzi e ragazze che lo attendevano al molo di Barangoroo. Spettacolare, più dell'arrivo del Papa in battello, la scenografia preparata per accoglierlo. Con il linguaggio a loro più congeniale Benedetto XVI ha messo subito in guardia i giovani dai rischi del secolarismo: "non si può lasciare Dio ai margini". "Vi sono molti, oggi - ha detto in particolare - i quali pretendono che Dio debba essere lasciato ai margini e che la religione e la fede, per quanto accettabili sul piano individuale, debbano essere escluse dalla vita pubblica o utilizzate solo per perseguire scopi programmatici". E ancora: "Questa visione secolarizzata tenta di spiegare la vita umana e di plasmare la società con pochi riferimenti o con nessun riferimento al Creatore", anche se "si presenta come una forza neutrale, imparziale e rispettosa di ciascuno, in realtà, come ogni ideologia, impone una visione globale".
Il Papa ha quindi esortato i ragazzi della Gmg a proclamare che "l'innata dignità di ogni individuo poggia sulla profonda identità, quale immagine del Creatore, e che perciò i diritti umani sono universali, basati sulla legge naturale e non qualcosa dipendente da negoziati o da condiscendenze, men che meno da compromessi". Concludendo il suo intervento Benedetto XVI ha esortato a chiedersi quale posto abbiano "nelle nostre società i poveri, i vecchi, gli immigrati, i privi di voce". Come può essere - si è chiesto il Pontefice - che la violenza domestica tormenti tante madri e bambini" e come è possibile che questa violenza inizi addirittura nel grembo materno "che sembra diventato luogo indicibile di violenza"? Infine l'auspicio affinché sia possibile trovare ciò al quale anelano il cuore e la mente di ciascun uomo: una vita dove regni l'amore, dove i doni siano condivisi e dove la libertà trovi il suo giusto significato.
(©L'Osservatore Romano - 18 luglio 2008)
10 Luglio 2008
Una luce nel buio modernista - Thomas Howard racconta l’amico C. S. Lewis, «un uomo del vecchio Occidente» che per illuminare il mondo alla deriva si mise a scrivere storie “sbagliate”
di Thomas Howard
Esce in Italia presso Marietti Narnia e oltre, il volume che Thomas Howard, uno dei più amati scrittori cattolici americani e amico e studioso di Clive Staples Lewis, ha dedicato all’autore de Le cronache di Narnia, salutato dalla critica internazionale come uno dei contributi fondamentali per la comprensione dell’opera dello scrittore irlandese. Il volume sarà presentato al prossimo Meeting di Rimini dal traduttore e curatore Edoardo Rialti. Pubblichiamo in anteprima alcuni stralci dal capitolo introduttivo.
Di Thomas Howard
Sul principio della Seconda guerra mondiale fece la sua comparsa in America e in Inghilterra un libro bizzarro. Pareva una raccolta di lettere da parte di un vecchio diavolo a uno più giovane, che gli insegnava come trattare l’uomo assegnatogli come sua speciale responsabilità demoniaca. Il libro era bizzarro per svariati motivi. Tanto per cominciare uno non incappa tutti i giorni in lettere infernali, e tuttavia questo non era un volume sull’occulto, né sul satanismo né su qualsiasi altra sorta di arcano; inoltre era insolito che, nel mezzo degli anni più tenebrosi che l’Occidente avesse conosciuto da oltre un secolo, si focalizzasse l’attenzione della cristianità non a commentare la paura e la situazione apocalittica della politica, bensì a una ben più antica, ben più vasta, e infinitamente più allarmante situazione che la nostra razza stesse vivendo da eoni. Ed era inoltre strano che nel bel mezzo del XX secolo, in seguito a decenni di sforzi assidui da parte della Chiesa moderna in Occidente di “desupernaturalizzare” l’antica Fede sotto il fuoco di fila del romanticismo tedesco, delle critiche più raffinate, del darwinismo, del freudismo e così via – proprio quando tutto questo impegno pareva avesse tutto ridotto perlomeno al protestantesimo – ecco comparire questo libro che presupponeva, spensieratamente e pacatamente, che il Diavolo esista davvero, oh Santo Cielo.
C’era la teologia cristiana che, tirando ansiosamente per le falde della giacca il mondo occidentale, ci rassicurava tutti che non si dovesse credere neppure per un momento in alcuna assurdità sui miracoli o su un Dio-fatto-carne, su parti verginali e così via, e persino meno ancora su Satana; ed ecco sopraggiungere un libro, che non era scritto da un predicatore di campagna con i calzettoni bianchi assiso su un podio, ma da un accademico di vasta cultura e luminosa intelligenza, il quale credeva ovvi simili affari scomodi. Naturalmente il libro era Le lettere di Berlicche, e l’accademico era Clive Staples Lewis.
Un modo per esprimere quello che Lewis riteneva essere il suo compito letterario sarebbe quello di dire che egli desiderava condurre i suoi lettori nei pressi di una finestra che gettasse uno sguardo fuori dalla stanza buia e soffocante della modernità, per spalancarne le imposte e indicare a noi tutti l’enorme vista che si stende oltre la stanzetta nella quale siamo rinchiusi. Egli era alla disperata ricerca di qualsiasi strumento, immagine, oggetto nella stanzetta che fosse in grado di suggerire quel che voleva comunicarci: dobbiamo andare alla finestra e guardare fuori.
Sembra strano parlare della modernità come di una stanza buia e soffocante; l’immediato presupposto comune è che nell’ultimo paio di secoli abbiamo assistito alla nostra fuga dalla stanza buia e soffocante della tradizione e che questo sia il nocciolo di tutto, visto che l’Illuminismo è senza dubbio quella luce che è stata finalmente accesa; o meglio ancora, che noi siamo finalmente usciti alla luce, la luce dell’emancipazione su tutti i fronti; siamo pervenuti al nostro autentico patrimonio di esseri umani, soli nel cosmo, autonomi, finalmente autodefiniti. Gli antichi avevano tanto penato all’ingenuo pensiero che ci fossero gli dèi e che gli uomini venissero chiamati innanzi a tale alto tribunale per rendere ragione delle proprie azioni. Pensavano ci fosse un gran movimento d’angeli e demoni su e giù per l’universo, ed esistessero candide entità celestiali da adorare, e oscure entità infernali da temere. Pensavano che Bene e Male fossero degli imponenti punti fermi, uno da perseguire e l’altro da sfuggire, e che il primo portasse alla beatitudine e l’altro alla dannazione. Eccoci adesso invece con gli strumenti per arrivare alla verità delle cose nuda e semplice: il lettino dell’analista, la provetta, il questionario, il computer; saranno questi a liberarci, laddove l’aspersorio, il turibolo, il libro del vangelo e il crocifisso hanno fallito. Naturalmente ci vorrà del tempo per fare piazza pulita, ma finalmente si comincia e presto potremo iniziare a costruire l’edificio vero e proprio, il tempio dell’Uomo. Tale suona l’adagio della mitologia contemporanea.
La sovversione comincia dal re
Lewis si è battuto per trovare il modo di parlare a un’epoca con la quale virtualmente non condivideva alcun presupposto. Si autodefiniva «un uomo del vecchio Occidente», volendo con questo significare che egli abbracciava la prospettiva generalmente impugnata dalla tradizione greco-giudaico-cristiana. Assistette con timore e persino con nausea spirituale al programma in atto nella modernità e cercò di trovare un modo per piantare nell’immaginazione moderna qualche memoria di una visione alternativa. Capì l’impresa e la intraprese con il più antico dei metodi a disposizione: cominciò a raccontare delle storie. I suoi racconti più noti sono le sue Cronache di Narnia, e dopo quelle ci sarebbe la sua fantascienza – o per meglio dire i suoi romanzi sul “Cielo Profondo”: lo spazio era una di quelle idee moderne che egli riteneva inadeguate rispetto alla realtà.
Secondo un certo approccio le storie di Lewis sono terribilmente sbagliate: sono piene zeppe di idee perniciose che andrebbero eliminate, se prestassimo attenzione alle commissioni che siedono in qualche importante ufficio governativo e ci dicono cosa possiamo fare delle nostre anime e delle anime dei nostri bambini. Per esempio, ecco un re: questo è male, perché inserirà nell’immaginario dei nostri figli un’idea incompatibile con la linea di pensiero egualitaria che cerchiamo tanto assiduamente di inculcare loro. Eccoli nei loro primi, impressionabili anni a godersi tutte quelle scene regali di Narnia. E quel che è peggio è che il re è buono; avrebbe dovuto essere cattivo, così da impersonare quello che veramente vorremmo loro suggerire – che l’autorità assoluta sia per sua natura tirannica. Ed ecco poi all’opera nei mondi di Lewis un ordine morale, stabile, sereno, assoluto, e beato, cose il cui odore non ci aggrada; preferiamo l’immagine della ricerca infinita, e dell’innovazione, e dell’auto-autenticazione, dove gli eroi cercano senza trovare, e nel cercare forgiano la loro propria morale sull’incudine della passione. Per noi l’immagine di un ordine morale prefissato pare soffocante: tiene l’umanità incatenata a una perpetua infanzia, a strisciare dinanzi a totem e tabù, sempre cercando di vivere un qualche schema coniato da una divinità maligna che non sa affatto cosa significa essere uomini. Quello che vogliamo è Prometeo: è la sconfitta degli dèi che troviamo tanto avvincente e suggestiva. Ma nel mondo di Lewis (a dire il vero in tutti i mondi e gli schemi morali fino ai giorni nostri) troviamo che l’ordine prefissato che presiede in modo così sereno e assoluto alle vite e alle azioni delle creature non solo non paralizza la loro libertà e personalità, ma è sinonimo di esse.
Libertà, l’opposto della spontaneità
Ai moderni tale idea di una moralità fissa risulta repressiva. Oggi diciamo che quel che ci serve per l’autentica libertà sono spontaneità, funzionalità e autodeterminazione. Invece Lewis ci avrebbe indicato l’immagine delle cose lodate da tutti i poeti, i profeti, i saggi e i santi, ossia che paradossalmente noi cresciamo nella nostra autentica identità e libertà imparando i passi della Danza. La Danza esiste, già coreografata, e la sua musica sta già suonando; tutte le creature stanno già danzando. La cosa grandiosa è apprendere i passi che ti sono affidati e muoverti al tuo posto. D’altro canto la Città di Dio (per il pensiero di Lewis, e quello di sant’Agostino e di san Giovanni dell’Apocalisse e di altri ancora) è una città squadrata, dalle fondamenta di diamante e dalle alte mura, i cui abitanti è nei passi della Danza che hanno appreso la beatitudine. Si chiamano santi, e la loro gioiosa visione delle cose è del tutto remota dall’immaginario contemporaneo. Le opere d’immaginazione di Lewis adombrano tale visione, perché se c’è una parola che rintocca come il suono di mille campane dalla terra di Lewis, questa parola è Gioia.
«Fisco a misura di famiglia»: la petizione alla Camera
DA ROMA
PIER LUIGI FORNARI
La petizione per «un fisco a misura di famiglia » promossa dal Forum delle Associazioni familiari arriva in aula della Camera. La sottoscrizione di più di un milione di firme consegnata al Quirinale, è stata trasmessa il 20 maggio dal Presidente della Repubblica al Parlamento. Su questo erano state presentate due mozioni una dell’Udc, e una della Lega. E successivamente si sono aggiunti i documenti di Idv, del Pd e del Pdl.
Savino Pezzotta, che è intervenuto in aula a illustrare il documento dell’Udc, ha affermato che la petizione «è il seguito del Family day del maggio dello scorso anno ». L’ex portavoce di quell’evento ha lamentato che «è cambiato il governo ma di politiche audaci per la famiglia ne abbiamo viste poche ». Ha comunque auspicato «la più ampia convergenza » sui contenuti della mozione sottolineando che è « inutile parlare di declino », quando si è fatto troppo poco « per rendere giustizia alla famiglia».
La mozione dell’Udc, che ha come primo firmatario Michele Vietti, chiede quale primo passo «un sistema di deduzioni dal reddito pari al reale costo di mantenimento di ogni soggetto a carico sulla base di scale di equivalenza indipendenti dal reddito». E nell’ambito di una futura riforma del sistema fiscale l’introduzione del quoziente familiare.
La leghista Laura Molteni ha affermato che «la valorizzazione e lo sviluppo della famiglia », così come concepita dalla Costituzione, è uno dei cardini del suo partito. Il documento presentato dal suo gruppo sostiene che il sistema di tassazione deve essere riformulato sulla base del quoziente familiare ( non sostitutivo ma alternativo al sistema in vigore). Secondo la mozione che ha come prima firmataria Carolina Lussana è necessario, inoltre, « introdurre nuove deduzioni » per le famiglie numerose».
Un aumento significativo delle detrazioni è richiesto dalla mozione di Idv, insieme ad « un piano pluriennale per l’apertura di migliaia di asili nido». Nel presentare la mozione Fabio Evangelisti, ha sostenuto che è « decisamente irragionevole » introdurre il quoziente familare.
Contro questo modello di riforma fiscale si è pronunciata anche Rosy Bindi, prima firmataria della mozione del Pd. L’ex ministro della Famiglia ha messo in guardia dal ««rischio di fare accademia » nel dibattito senza poter sperare in una inversione di tendenza postiva.
La mozione del Pd sostiene che «la dote» fiscale che dovrebbe unificare gli assegni e le attuali detrazioni per i figli, «è in grado di rispondere alle attese delle associazioni familiari, e dei cittadini che hanno sottoscritto la petizione » . E su questo la Bindi ha sollecitato «un sereno confronto».
Marcello Tagliatela, illustrando la mozione del Pdl, ha aupicato «una discussione sgombra da pregiudizi» che consenta di approvare un trattamento fiscale che «sia adeguato ai contenuti della campagna elettorale» e alla petizione del Forum. Ha assicurato che l’intenzione di realizzare il quoziente familiare non è stata affatto smentita. La mozione che lo vede come primo firmatario, ricorda i primi provvedimenti del governo, tra i quali l’abolizione dell’Ici, e impegna l’esecutivo a confermare quanto previsto dalla risoluzione di maggioranza sul Dpef, cioè, in attesa della riforma della tassazione della famiglia, a destinare l’aumento di gettito, non assorbito da eventuali maggiori spese, alla riduzione del loro carico fiscale.
Intervenendo in conclusione della discussione il sottosegretario con delega per le politiche familiari, Carlo Giovanardi ha confermato «l’indirizzo del governo favorevole » ai contenuti della petizione per l’adozione delle deduzioni e «all’introduzione del quoziente familiare », per il quale c’è «un problema di tempi» per andare a regime.
Pezzotta: è il seguito del «Family day» Anche la Lega favorevole all’introduzione del quoziente familiare
Manifestazioni in tutta Italia in difesa di Eluana Englaro - Appello al Procuratore per bloccare la sentenza di morte
di Antonio Gaspari
ROMA, giovedì, 17 luglio 2008 (ZENIT.org).- Con il passare delle ore sempre più persone uniscono la loro voce al coro del popolo della vita per salvare la vita di Emanuela Englaro, la ragazza, che una sentenza della Corte di Cassazione di Milano, ha condannato a morire di fame e di sete.
Mentre il Senato italiano sta per sollevare l’eccezione di incostituzionalità nei confronti della sentenza emessa dalla Cassazione di Milano, le suore che accudiscono Eluana hanno chiesto al padre di lasciarla vivere.
Inoltre venticinque neurologi universitari e del Servizio sanitario nazionale hanno scritto al Procuratore generale della Corte d'Appello di Milano, al Presidente della Repubblica e al Governo, chiedendo un intervento urgente che blocchi "l'esecuzione di quella che sempre di più appare come una sentenza di condanna a morte".
Il noto cantante e uomo di spettacolo Adriano Celentano ha scritto sul “Corriere della Sera” una lettera aperta al papà di Eluana, in cui dice: “Forse Eluana ha bisogno della conversione di suo padre per far sì che la sua dipartita da questo mondo avvenga in modo spontaneo e senza alcuna interruzione. O addirittura che si svegli. Si dice che la fede è un dono. Perché solo attraverso la fede succedono le cose più grandiose, e io dirò una preghiera per lei”.
Da Parma, la mamma di Gianluca Taverna, un ragazzo in coma da tanti anni, ha confidato che nonostante le difficoltà : "Non potrei mai staccare la spina a mio figlio".
Nel frattempo manifestazioni con la raccolta di bottiglie d’acqua per Eluana si sono svolte a Milano sul sagrato del Duomo e a Roma in Campidoglio.
Mercoledì 16 luglio, le suore Misericordine che da quattordici anni assistono Eluana Englaro nella Casa di cura “Monsignor Luigi Talamoni” di Lecco, al Tg1, e sulle pagine di “Avvenire” hanno richiesto ancora: “lasciate Eluana a noi” non fatela morire.
Una richiesta in tal senso le suore l’avevano già fatta subito dopo la sentenza della Corte di Cassazione di Milano.
Le suore, in particolare suor Rosangela, assistono con amore Eluana. La portano sulla carrozzina ogni giorno. L'accarezzano, le parlano. La portano in giardino dalla Madonnina di Lourdes. Con la fisioterapia la mantengono tonica.
Suor Albina Corti, responsabile della clinica, ha detto al Tg1 e ad Avvenire, rivolgendosi al signor Englaro il papà di Eluana: “Gli chiediamo di lasciarla con noi, dopo tanti anni la consideraimo parte della nostra famiglia”.
“L’abbiamo accolta – ha precisato la suora – così com’era, l’ha accolta tutta la Congregazione. Da noi un posto per lei ci sarà sempre”.
Intervistata da “Avvenire”, suor Albina ha precisato che “la vita di Eluana non si è interrotta. E’ un mistero in questo momento, però vive! E non è attaccata a nessuna macchina. Viene alimentata di notte con il sondino”.
Alla domanda se reagisce agli stimoli, suor Albina ha raccontato che “quando Eluana sente la voce di suor Rosangela è evidente che si contrae, si agita. L’impressione è che avverta qualcosa. Certo, potrebbe essere impressione soggettiva, comunque qualcosa succede in lei”.
A sostegno dell’iniziativa del Direttore del “Foglio”, Giuliano Ferrara, e del Direttore del settimanale “Tempi”, Luigi Amicone, l’associazione “Scienza & Vita” ha organizzato giovedì 17 luglio una manifestazione in Piazza del Campidoglio a Roma, per difendere la vita di Eluana.
Agli aderenti viene chiesta una bottiglietta d’acqua ed una firma sull’appello per salvare la Englaro.
17 luglio 2008
L'intervento dei professori di Diritto penale su Eluana Englaro
Dal Foglio.it
Con profondo senso di umana solidarietà verso le famiglie impegnate nell’assistenza di persone in stato vegetativo permanente, riteniamo necessario esprimere la nostra preoccupazione quali docenti di diritto penale circa alcuni orientamenti desumibili dalle recenti sentenze adottate in sede civile dalla Corte di Cassazione e dalla Corte d’Appello di Milano in merito al caso di Eluana Englaro.
Secondo le argomentazioni svolte dalla Corte d’Appello quale giudice di rinvio, infatti, una volta che sia riferibile per via indiziaria a un soggetto ritenuto irreversibilmente incosciente il desiderio di non vivere tale situazione di grave precarietà esistenziale, l’omissione, da parte delle persone tenute alla tutela, dell’ulteriore somministrazione di idratazione e alimentazione, che provoca la morte del soggetto, sarebbe qualificabile come conforme al diritto.
D’altra parte idratazione e alimentazione, essendo fattori necessari al perdurare in vita di ogni individuo, ancorché sano, non posseggono alcun significato inteso al contrasto di uno stato patologico; non possono, pertanto, costituire, anche quando realizzati attraverso modalità mediche, un trattamento terapeutico e, segnatamente, un trattamento sproporzionato, come tale non dovuto.
Non a caso, l’idratazione e l’alimentazione, salvo che il corpo non sia ormai in grado di assimilarle, vanno assicurate anche nell’ambito delle cure palliative cui ha diritto – pure se ricoverato in un hospice – il malato terminale. Tutto ciò rende tra l’altro palese che quanto viene in gioco nel momento in cui si chieda di interrompere l’idratazione e l’alimentazione in rapporto ai contesti in esame non è un giudizio riferito a tali interventi, ma – inevitabilmente – alla condizione esistenziale dello stato vegetativo.
Le conclusioni sinteticamente richiamate appaiono in contrasto con alcuni principi fondamentali del diritto vigente. Esse, infatti, sembrano rendere comunque lecite, supposto il consenso, attività volte a destrutturare presidi in atto di tutela della vita, senza alcuna considerazione circa le caratteristiche proprie di quei presidi (caratteristiche che ne consentirebbero la disattivazione ove fossero tali da qualificarli come atti terapeutici sproporzionati). Verrebbe in tal modo a configurarsi la liceità, finora inedita, dello stabilirsi sulla base del consenso (addirittura ricostruito per via meramente indiziaria, senza alcuna certezza in ordine alla reale volontà della persona) di relazioni giuridiche orientate al prodursi della morte, e non già a evitare forme di c.d. accanimento terapeutico. In pratica, l’agire che si ritenga consentito volto al prodursi della morte di un determinato individuo, solo che la morte si realizzi per via omissiva (in termini di c.d. eutanasia passiva), sarebbe sempre ritenuto ammissibile. Il che risulta in contraddizione con l’assetto della tutela concernente la vita umana nel codice penale e, per quanto specificamente concerne l’attività medica, con i fini che caratterizzano la medesima ai sensi dell’art. 1 del codice deontologico.
D’altra parte, non può essere desunta dalle considerazioni relative ai profili di non coercibilità dell’intervento medico nei confronti di una persona cosciente e informata l’affermazione di un diritto all’altrui cooperazione per la morte, tale da rendere ammissibile qualsivoglia conseguente disattivazione di presidi in atto volti alla conservazione della vita. Né, in ogni caso, appare sostenibile che dalla ricostruzione dell’atteggiamento di una persona ritenuta incosciente verso una data condizione patologica possa essere dedotto il suo assenso specifico a essere lasciata morire di sete e di fame. Tanto più alla luce della completa mancanza, in uno stato vegetativo permanente adeguatamente assistito, di indizi che lascino supporre sofferenza. Quantomeno il principio di precauzione dovrebbe condurre, pertanto, a ben diverse conclusioni: anche in rapporto all’impossibilità di dire parole definitive circa dimensioni profonde della coscienza nei soggetti che si trovano in tale stato.
Sulla base di questi rilievi riteniamo che mutamenti di orientamento giuridico così importanti circa la tutela della vita umana non possano avvenire senza un’attenta considerazione dell’intero assetto normativo vigente e in mancanza di un intervento del legislatore. Anche in considerazione dei rischi, diretti e indiretti, che tali mutamenti possono rappresentare in rapporto alla tutela dei diritti fondamentali incondizionatamente spettanti, quale fondamento del principio di uguaglianza, a tutti gli individui umani sulla base esclusiva della loro esistenza in vita.
Salvatore Ardizzone
Ivo Caraccioli
Luciano Eusebi
Marcello Gallo
Ferrando Mantovani
Mauro Ronco
16 luglio 2008
Lettera aperta al procuratore della corte d'appello di Milano e alle massime istituzioni italiane
I neurologi chiedono al giudice di bloccare la sentenza di condanna a morte per Eluana
"Eluana non è un vegetale né una persona in coma, e non si esclude possa provare sofferenza"
Ill.mo Dr. Gianfranco Montera Procura Generale della Repubblica presso la Corte d'Appello di MILANO
e, per conoscenza:
Al Presidente della Repubblica
Al Presidente della Corte Costituzionale
Al Presidente del Senato
Al Presidente della Camera dei Deputati
Al Presidente del Consiglio dei Ministri
Al Ministro della Giustizia
Al Ministro del Welfare
Ai Sottosegretari alla Salute
Ill.mo Signor Procuratore Generale, appresa dalla stampa la disponibilità di un collega neurologo a interrompere l’idratazione e la nutrizione assistita con cui è alimentata e mantenuta in vita Eluana Englaro, i sottoscritti neurologi operanti nelle Università e negli Ospedali del Servizio Sanitario Nazionale esprimono una posizione fortemente alternativa alla decisione del collega ed alle sentenze della Corte di Cassazione e della Corte di Appello di Milano che lo autorizzerebbero all’interruzione della alimentazione, con conseguente inevitabile morte della paziente.
Sentono inoltre il dovere di riaffermare alcuni fondamentali evidenze scientifiche ed etiche, senza le quali il vivere civile, l’organizzazione sociale e la nostra professione corrono il rischio di allarmanti derive. Il paziente in stato vegetativo non necessita di alcuna macchina per continuare a vivere, non è attaccato ad alcuna spina. Non è un malato in coma, né un malato terminale, ma un grave disabile che richiede solo un’accurata assistenza di base, analogamente a quanto avviene in molte altre situazioni di lesioni gravi di alcune parti del cervello che limitano la capacità di comunicazione e di auto-sostentamento. La nutrizione e l’idratazione del paziente, per quanto assistite, non sono assimilabili a una terapia medica, ma costituiscono da sempre gli elementi fondamentali dell’assistenza, proprio perché indispensabili per ogni persona umana, sana o malata. La cannula attraverso cui la nutrizione viene fornita non altera tale elementare verità, essendo al massimo assimilabile ad una protesi o ad un ausilio.
La stessa Corte di Cassazione, nella sua sentenza, riconosce che l’alimentazione assistita “non costituisce oggettivamente una forma di accanimento terapeutico e che rappresenta, piuttosto, un presidio proporzionato al mantenimento del soffio vitale…”. La nutrizione e l’idratazione assistite, infatti, possono essere praticate nelle persone che lo necessitano senza causare sofferenza o violenza alcuna e senza addirittura interferire con l’eventuale attività lavorativa. Queste persone sono decine e decine di migliaia (centinaia di volte di più dei Pazienti in stato simile a quello della Sig.ra Englaro che in Italia si stimano essere circa 1500) e per una parte la loro incapacità a nutrirsi è anche associata ad un deficit cerebrale marcato che non le differenzia molto dallo stato di Eluana. Ci chiediamo cosa faremo con tutte loro e su che base sarà possibile scegliere. Dobbiamo –lo Stato, la Comunità, i Medici- eliminarle tutte?
Dal punto antropologico, inoltre, desideriamo ribadire che il paziente in stato vegetativo non è un vegetale, ma una persona umana. Come la stessa Cassazione riconosce, “chi versa in stato vegetativo permanente è, a tutti gli effetti, persona in senso pieno, che deve essere rispettata e tutelata nei suoi diritti fondamentali, a partire dal diritto alla vita e dal diritto alle prestazioni sanitarie, a maggior ragione perché in condizioni di estrema debolezza e non in grado di provvedervi autonomamente”. Proprio per questo, afferma la Cassazione, la persona in stato vegetativo ha in campo sanitario gli stessi diritti degli altri cittadini (diritti che per la Englaro sono stati rispettati, facendole trascorrere questi anni curata ed assistita amorevolmente in un centro specializzato) e “la tragicità estrema di tale stato patologico - … che nulla toglie alla sua dignità di essere umano – non giustifica in alcun modo un affievolimento delle cure e del sostegno solidale, … a prescindere da quanto la vita sia precaria e da quanta speranza vi sia di recuperare le funzioni cognitive”.
Dal punto di vista neurologico, il paziente in stato vegetativo non è in morte cerebrale, perché il suo cervello, in maniera più o meno imperfetta, non ha mai smesso di funzionare, respira spontaneamente, continua a produrre ormoni che regolano molte delle sue funzioni, digerisce, assimila i nutrienti. Non è neanche in coma, perché, ha un ciclo relativamente conservato di veglia e di sonno, riesce a muoversi anche se non a camminare o stare in piedi, ed in una qualche misura (a noi ancora ampiamente sconosciuta, ma che le più recenti metodiche di analisi della funzione cerebrale stanno portando alla luce) ha una sua –per quanto grossolana- modalità di percezione.
E’ infatti utile ricordare che studi recenti di imaging funzionale e di neurofisiologia clinica dimostrano con chiarezza che in alcuni di tali pazienti è possibile evocare risposte che testimoniano di una residua possibilità, più o meno elementare, di percepire impulsi dall’ambiente con susseguente analisi e discriminazione delle informazioni.
In ogni caso, allo stato attuale delle conoscenze, le esatte basi anatomiche e fisiologhe della coscienza non sono conosciute, mentre sono sempre maggiori le evidenze che collocano i processi della coscienza anche in sedi del sistema nervoso centrale diverse dalla corteccia cerebrale (principale sede di danno nello stato vegetativo). Non vi è certezza assoluta neanche sul fatto che il paziente in stato vegetativo non possa provare qualche forma di sofferenza e la stessa sentenza dei giudici di Milano si preoccupa che alla Englaro vengano somministrati sedativi durante il processo di morte per disidratazione. Pur essendo le possibilità di recupero sempre minori con il passare del tempo dall’insulto cerebrale, oggi il concetto di stato vegetativo permanente è da considerarsi superato e sono documentati casi, benché molto rari, di recupero parziale di contatto con il mondo esterno anche a lunghissima distanza di tempo. È pertanto assurdo poter parlare di certezza di irreversibilità.
Sulla base di queste considerazioni, riteniamo che la sentenza sul caso Englaro non rappresenti un intervento per por fine ad un accanimento terapeutico o a pratiche assistenziali improprie, ma il tentativo di far entrare per vie giudiziarie nella nostra legislazione il potere assoluto di autodeterminazione da parte del paziente o -in questo caso- di chi lo rappresenta o crede di rappresentarlo, fino alla scelta della morte, se la vita viene ritenuta indegna di essere vissuta.
Riteniamo ancor più inaccettabile che la volontà di terzi (fossero anche i genitori) possa sostituirsi, interpretandola, alla volontà del paziente, innescando il rischio, in simili casi, di pratiche discriminatorie basate sulla percezione esterna della qualità della vita altrui. Per quanto riguarda la nostra professione, riteniamo che in tale contesto, il rapporto medico-paziente è ridotto a mero contratto ed il medico a prestatore d’opera tecnicamente qualificata, intesa, nel caso specifico, ad affrettare la morte del paziente, contravvenendo i fondamenti della professione medica e le regole basilari della società civile.
Siamo anche molto preoccupati che le considerazioni della magistratura sulla possibilità di por fine ai pazienti in stato vegetativo come Eluana Englaro possano finire per estendersi ad altre categorie di pazienti neurologici, come i dementi o i cerebropatici gravi che, in fase avanzata di malattia, possono trovarsi in condizioni cliniche non dissimili da quelle dei pazienti in stato vegetativo. Infine, riteniamo disumano il modo proposto di mettere a morte la paziente, attraverso il digiuno e la sete, in una lenta agonia che porterà alla morte attraverso la lenta devastazione di tutto l’organismo.
Per tutti questi motivi, Signor Procuratore Generale, le chiediamo un intervento urgente della che blocchi, prima che sia troppo tardi, l’esecuzione di quella che sempre più appare come una sentenza di condanna a morte. A nome e per conto degli aderenti sottoelencati, confidando nella sua attenzione, le porgo i più distinti saluti e ossequi.
Prof. Gian Luigi Gigli
Sergio Barbieri, Direttore Neurofisiopatologia, Ospedale Maggiore, Milano, Professore Associato di Neurologia, Università di Milano
Paolo Bergonzi, Professore Ordinario di Neurologia, Università di Udine
Dario Caldiroli, Direttore Neuro-Anestesia e Rianimazione, Istituto Neurologico Besta, Milano
Massimo Camerlingo, Direttore Neurologia, Zingonia-Osio Sotto (BG) Antonio Carolei, Professore Ordinario di Neurologia, Università dell’Aquila
Gerardo Ciardo, Direttore Neurologia e Riabilitazione, Ospedale di Tricase (LE)
Giancarlo Comi, Professore Ordinario di Neurologia, Università Vita e Salute, Milano
Domenico Consoli, Direttore Neurologia, Ospedale di Vibo Valentia
Erminio Costanzo, Direttore Neurologia, Azienda Ospedaliera “Cannizzaro”, Catania
Giuliano Dolce, Direttore Scientifico, Istituto Sant’Anna, Crotone
Gian Luigi Gigli, Professore Straordinario di Neurologia, Università di Udine
Mario Guidotti, Direttore Neurologia, Ospedale Valduce, Como
Nicola Latronico, Direttore Neuroanestesia e Neurorianimazione, Azienda Ospedaliera Spedali Civili di Brescia, Professore Associato di Anestesia e Rianimazione, Università di Brescia
Matilde Leonardi, Coordinatore Progetto Nazionale Funzionamento Disabilità e Stato Vegetativo, Istituto Neurologico Besta, Milano
Maria Grazia Marciani, Professore Ordinario di Neurologia, Università di Roma “Tor Vergata”
Anna Mazzucchi, Direttore IRCCS Fondazione Don Gnocchi, sede di Parma
Arrigo Moglia, Professore Ordinario di Neurologia, Direttore del Dipartimento di Scienze Neurologiche dell'Università di Pavia
Alessandro Padovani, Professore Ordinario di Neurologia, Università di Brescia
Aldo Ragazzoni, Dirigente Neurologo Azienda Sanitaria di Firenze, Professore a contratto, Clinica Neurologica, Università di Firenze
Paolo Rossini, Professore Ordinario di Neurologia, Università “Campus Bio-Medico”, Roma
Walter Sannita, Professore Associato di Neurologia, Università di Genova
Roberto Sterzi, Direttore Neurologia, Ospedale Niguarda, Milano
Danilo Toni, Direttore Unità Terapia Neurovascolare Università di Roma “La Sapienza”
Emilio Ubiali, Direttore Neurofisiopatologia, Azienda Ospedaliera Ospedali Riuniti di Bergamo
Davide Zarcone, Direttore Neurologia, Azienda Ospedaliera di Gallarate
IN AUSTRALIA COME IN ITALIA - MAI SENTIRSI «PADRONI» DI CIÒ CHE APPARE SENZA DIFESA
Avvenire, 18 luglio 2008
CARLO CARDIA
La cura e la tutela della vita umana, dal concepimento e fino alla conclusione naturale, costituiscono il punto di equilibrio essenziale per il rispetto del creato, nelle sue varie componenti ed espressioni. È il messaggio che Benedetto XVI ha inviato a tutti gli uomini, in qualunque luogo e condizione si trovino, ed è un messaggio che parte dall’intimo della fede cristiana e parla un linguaggio universale, diretto in modo speciale alla ragione e all’intelletto.
Si possono comprendere le parole del Papa se si muove da una scelta di amore verso ogni creatura, di partecipazione alle sue gioie e di solidarietà con i suoi dolori, se si vede in questo amore una forza che irradia e coinvolge le scelte fondamentali della vita. Sostenere la vita sin dal concepimento vuol dire accogliere un nuovo essere nella sua unicità, porre le basi per una esistenza che rifiuta la violenza, ed è protesa al rispetto e alla valorizzazione di tutte le bellezze che ci circondano. Se si spezza questo punto di equilibrio si apre la strada a una logica diversa, a un egoismo che erode la coscienza, inquina la costruzione del futuro, guasta dall’interno il rapporto con gli altri.
Benedetto XVI ha parlato dall’Australia, una terra nella quale le meraviglie della creazione sono sotto gli occhi di tutti, ma nella quale gli uomini hanno operato anche indicibili violenze, verso le popolazioni autoctone, contro i tesori naturalistici, verso l’equilibrio naturale complessivo. Piegarsi a guardare la storia passata, vuol dire andare alla ricerca delle ragioni della violenza, cercare di eliminarle, costruire un futuro diverso nel quale gli uomini si leghino gli uni agli altri come amici anziché come avversari. Nelle terre d’Australia le parole del Papa sono state accolte come un bene prezioso da uomini e donne di ogni etnia e religione, come un punto di partenza per rifare una storia pacificata e costruttiva.
Ma le parole del Papa hanno lo stesso significato per noi che viviamo in Occidente e in Italia. Hanno lo stesso significato perché da noi la vita è minacciata da mali più sottili, ma con eguali esiti distruttivi. Esse ci chiedono una riflessione intima e insieme pubblica per dire cose che non osiamo confessarci. Crediamo di aver sconfitto i mali della guerra e della devastazione, e pensiamo di essere immuni dalla violenza. Eppure, mentre stavamo progredendo si andava insinuando nella nostra cultura una pretesa che con il tempo ha occupato la nostra coscienza: quella di essere padroni della vita, di quella nasce e di quella che non ci piace, di quella che soffre e di quella che non sappiamo quando finirà. Il tarlo ha scavato a lungo e sembra dirci oggi che possiamo decidere noi quando e come interrompere questa vita, ci offre anche motivi che giustificano la nostra pretesa: perché la persona che 'deve' nascere turba un equilibrio, la vita che ' va soppressa' è troppo piena di sofferenze, a volte non ci appare neanche una forma di vita. Mentre elaboriamo questi ragionamenti il punto focale è diventato un altro, perché siamo ormai noi a decidere quando un equilibrio non va turbato, quando una vita non è degna di essere vissuta, quando una vita non è più tale. Siamo diventati noi i dispensatori della vita e della morte, i supremi giudici, e a quel punto ogni argomento può essere utilizzato per emettere una sentenza definitiva.
Da noi in Occidente giungiamo a questi risultati con leggi e regolamenti, in Italia sembra che possiamo farlo anche con la pronuncia di un giudice, e ciò potrebbe tranquillizzarci. Eppure il risultato a cui giungiamo è lo stesso delle passate devastazioni, che violentavano il creato, la natura, il rapporto tra gli uomini. In certo senso è una violenza più grave perché diretta contro chi non ha forza, non può difendersi, non può neanche proferire parola. Le parole di Benedetto XVI in Australia hanno per noi in Italia un significato speciale. Il significato di un messaggio d’amore perché non si stronchi mai un’esistenza, perché la si aiuti in tutti i momenti e si trovi il modo di sostenerla sempre e comunque. Se riusciremo a rovesciare la logica che si va imponendo in modo subdolo, se riusciremo a resistere alla tentazione di stroncare la vita quando ci sembra utile e opportuno, saremo più forti e convinti nel respingere la violenza, la guerra, nel rispettare il mondo che ci circonda, nell’andare incontro agli altri uomini da qualunque parte provengano.