giovedì 24 luglio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) La famiglia italiana non è in crisi ma va difesa con politiche adeguate, Card. Angelo Scola
2) A trent'anni dalla nascita di Louise Brown, la tecnoscienza invade l'umano Seminario a Roma sulla "rivoluzione della provetta"
3) Brunetta: Pa, occorre voltare pagina. Le vere riforme sono sempre impopolari
4) Se i giovani non capiscono quello che leggono
5) Cristiano, il convertito di suor Maria Gloria Riva - Una suora di clausura racconta le tappe della conversione al cattolicesimo di Magdi Allam. Una serie di incontri, un’amicizia condivisa con altri cristiani. Fino al Battesimo impartito dal Papa nella notte di Pasqua.
6) Grande scienziato, ma pro-life: censurato, di Francesco Agnoli - Era un grande genetista ma contro l’aborto. Così Lejeune fu messo ai margini dal mondo scientifico.

Questa rassegna stampa e le precedenti possono essere lette anche nel blog http://rsgiorgio.blogspot.com/

La famiglia italiana non è in crisi ma va difesa con politiche adeguate
Card. Angelo Scola
La famiglia italiana non è affatto in crisi come la vorrebbero molti stereotipi. Al contrario è un essenziale fattore di progresso. Lo dimostrano anche le ricerche statistiche. Al tema della famiglia, elemento insostituibile della società, è stata dedicata quest'anno la festa veneziana del Redentore. Il patriarca di Venezia, cardinale Angelo Scola, nel suo discorso per la festività, ha condotto un'analisi della realtà famigliare italiana, partendo proprio dai dati statistici oltre che dai presupposti antropologici e culturali. Per dimostrare la centralità della famiglia autentica, esperienze comune a tutte le diverse forme di civiltà.
Occorre innanzitutto, ha affermato il cardinale, eliminare il luogo comune di una diffusa secolarizzazione in Italia: "È vero - ha spiegato - che sono sempre più numerose le coppie che scelgono di formare una famiglia al di fuori del vincolo del matrimonio. Tuttavia in Italia tale fenomeno non solo è ancora abbastanza esiguo ma rappresenta assai spesso un passaggio verso il matrimonio, più che un'alternativa allo stesso. Da noi il tasso di divorzio è tra i più bassi d'Europa. Pur mutando il proprio ruolo sociale, la donna italiana di oggi, che lavora di più fuori casa, dichiara che matrimonio e maternità sono al primo posto fra le sue aspirazioni".
La famiglia, comunque, può e deve essere definita in maniera univoca: partendo dalla constatazione fatta dall'antropologo Lévi-Strauss, per il quale "la famiglia è un fenomeno universale, presente in ogni e qualunque tipo di società", il cardinale ha illustrato come tale affermazione vada interpretata nel senso di riconoscere un "universale sociale e culturale", quello della famiglia, nel quale "il dato costitutivo è la sua natura intrinsecamente relazionale", una specifica forma di "società primaria", istituita "per dare forma sociale alla differenza dei sessi in quanto generatrice di vita".
È questo legame relazionale che fonda l'identità della persona umana. Ed è la mancanza di tale legame, o il suo venir meno, a causare sofferenza, per esempio, nei figli adottati o in quelli di genitori separati. La famiglia inoltre, ha spiegato il patriarca di Venezia, è il luogo educativo essenziale, dove "si trasmette, quasi per osmosi, l'esperienza morale elementare", dove si è riconosciuti come persona attraverso la "scansione riconoscimento-promessa-compito". Analizzati gli aspetti antropologici, sociali e culturali della famiglia, il cardinale Scola ha successivamente toccato altri punti, nel suo discorso di cui pubblichiamo l'ultima parte.

di Angelo Scola
cardinale, patriarca di Venezia


La famiglia non è semplicemente un attore importante sul "mercato". Essa, infatti, è il luogo normale della soddisfazione dei bisogni elementari dei suoi membri, anche attraverso il godimento dei beni e dei servizi che vi vengono autoprodotti. Spesso è il lavoro femminile che sostiene direttamente o indirettamente la produzione di beni veri e propri che, pur non transitando per il mercato, sono consumati e contribuiscono al benessere. Le misure economiche standard del benessere sono però costruite in modo da ignorare sistematicamente il contributo delle famiglie - e segnatamente delle donne: il lavoro non pagato non entra nel calcolo del reddito nazionale, pur contribuendo al benessere.
Ci sono alcuni aspetti della "produzione" della famiglia che non sono facilmente rimpiazzabili dal "mercato" (a differenza di una torta casalinga o della stiratura delle camicie) e che meritano particolare attenzione.
Ci riferiamo ancora una volta alla famiglia come luogo della produzione di "cura": dei piccoli, degli anziani... Il ruolo economico della famiglia, dunque, deve essere adeguatamente compreso e valorizzato in qualunque riflessione sulla sostenibilità dei sistemi di welfare (...) Innumerevoli studi, relativi ai più diversi contesti mondiali, indicano che l'appartenenza alla rete familiare rappresenta un fattore cruciale di sviluppo economico e imprenditoriale, di elevata performance nel sistema educativo, di riduzione della partecipazione a reti criminali e così via (...) Questi dati indicano con chiarezza che nessuna politica per il rilancio dello sviluppo economico può essere ragionevolmente pensata senza attenzione al ruolo economico della famiglia.
L'urgenza di politiche sociali
L'indebolimento della famiglia trascina con sé quello della intera comunità e rende vano ogni tentativo di rafforzare la coesione sociale. Ecco perché è urgente che lo Stato e le istituzioni pubbliche (sia centrali sia locali) comprendano quali sono le strategie più opportune per tutelare e promuovere la famiglia. Chi proclama di avere il massimo interesse per il benessere della società, ma non propone interventi autenticamente tesi a rafforzare la famiglia, si illude di compiere scelte neutrali nei confronti della famiglia. In realtà ogni azione che non passi attraverso di essa, la indebolisce ed erode il benessere sociale alle fondamenta. Un'autentica politica familiare non va confusa con una generica politica di lotta alla povertà, o tesa a contrastare il calo demografico, o finalizzata ai minori o al lavoro. Deve essere un insieme interconnesso d'interventi, in cui la coerenza è garantita dal fatto che l'obiettivo finale è il potenziamento delle relazioni familiari tra i sessi e le generazioni.
È opportuno fermare l'attenzione su due aspetti che oggi costituiscono un nodo cruciale delle politiche familiari. La possibilità che le famiglie si organizzino autonomamente per rispondere ai propri bisogni, nell'ottica di una piena sussidiarietà, dipende sostanzialmente dal fatto che dispongano in misura adeguata sia di risorse economiche che di tempo. Dal punto di vista delle politiche sociali, questo significa occuparsi di due temi cruciali: l'equità fiscale e la conciliazione tra famiglia e lavoro.
Un fisco a misura di famiglia
Il nucleo centrale di tali interventi, in assenza del quale l'intero castello non può sostenersi, è l'attuazione di "un fisco a misura di famiglia" - già attuato in buona parte dei Paesi europei -, unico in grado di garantire un'autentica equità fiscale, riconoscendo il ruolo insostituibile della famiglia quale luogo in cui avviene il ricambio generazionale. È noto che, fino a oggi, le politiche fiscali del nostro Paese (al di fuori dei nostri confini la situazione è sensibilmente diversa) non solo non riconoscono, ma penalizzano in modo notevole le famiglie con figli ("più figli hai peggio stai"). Chi si oppone all'attuazione di un fisco a misura di famiglia, spesso considera tali interventi antitetici alle politiche di contrasto alla povertà. A questo proposito occorre rimuovere alla radice il pregiudizio secondo il quale politiche fiscali chiaramente orientate alla famiglia penalizzerebbero le classi povere a vantaggio di quelle medie. In realtà, una buona politica familiare costituisce una misura estremamente efficace nella prevenzione della povertà, facendo contribuire ciascuno secondo le reali disponibilità economiche, ma lasciando alle persone e alle famiglie risorse sufficienti per rispondere in modo libero e responsabile ai propri bisogni.
Come distinguere tra misure fiscali che aiutano realmente la famiglia e misure che, dietro questa apparente intenzione, nascondono l'effetto di penalizzarla? Il criterio discriminante è la considerazione di chi sia il contribuente e quindi il beneficiario dell'eventuale agevolazione: se è l'individuo, qualsiasi provvedimento non avrà un carattere familiare. Ovviamente non è mio compito declinare tecnicamente questo importante criterio di valore.
Le politiche di conciliazione famiglia-lavoro
Su un fronte diverso da quello prettamente fiscale, si collocano poi le politiche di conciliazione famiglia-lavoro. Relativamente a esse, occorre in prima battuta evidenziare come l'attuale assetto dei sistemi di welfare europei da una parte si sia consolidato attraverso l'introduzione, per via legislativa, di norme vincolanti i contesti lavorativi al rispetto dei diritti del dipendente a un sufficiente tempo per sé e per le proprie relazioni personali (per esempio: normative che stabiliscono l'orario massimo di lavoro settimanale o leggi sui congedi); dall'altra incentivando agevolazioni, solitamente di tipo fiscale, per chi organizza il sistema lavoro in maniera sensibile alle esigenze personali dei dipendenti (...)
Le genti venete che hanno saputo coniugare in modo efficace famiglia e lavoro sono chiamate oggi a creare strumenti adeguati per conciliare queste due essenziali dimensioni proprie dell'esperienza umana elementare. Anche rinnovando le forme del riposo, il cui compito è dettare il giusto ritmo al rapporto affetti-lavoro.
Politiche per "quale" famiglia?
Da ultimo, non va taciuta un'altra fondamentale questione rispetto alla quale soluzioni diverse possono avere effetti diametralmente opposti. Si tratta della scelta di porre come criterio distintivo della famiglia il vincolo matrimoniale. Quando si parla di politiche familiari, a quale "famiglia" si fa riferimento? Quando, per esempio, si discute di assegni familiari, l'aggettivo "familiare" deve essere sempre riferito a un nucleo di coniugi (anche separati) con i propri figli. Solo così appare chiaro il duplice intreccio tra sessi e generazioni che costituisce l'autentica famiglia. Così si lega il bambino alla coppia che l'ha generato e si promuove la conservazione della relazione genitoriale anche dopo la separazione della coppia. Quindi una valorizzazione dell'istituto matrimoniale è imprescindibile se si vuol perseguire il bene della famiglia quale cellula costitutiva della società.
Spesso però le politiche sociali considerano con un'ottica individualistica relazioni autenticamente familiari e, in modo paradossale, sembrano orientarsi ad assumere un'ottica familiare per le convivenze di soli adulti non basate sul matrimonio (...) Lo ripetiamo: la relazione familiare resta un unicum insostituibile, perché tiene insieme le differenze originarie e fondamentali dell'umano, quella sessuale tra l'uomo e la donna che ha come obiettivo e intrinseco orizzonte la fecondità, e quella tra le generazioni.
Certo, concepire così la famiglia contrasta l'opinione di quanti oggi spingono verso una società fatta di "relazioni impersonali e anonime", tenute a mantenersi "immuni" dal vincolo troppo coinvolgente e impegnativo della relazione familiare, per poter essere massimamente egualitarie e competitive (...) Tuttavia, gli insuccessi sempre più palesi della cultura individualista, che non riesce a svolgere un ruolo veramente educativo nei confronti delle giovani generazioni (sempre più protagoniste di comportamenti antisociali), conducono anche i più scettici a richiamare la necessità di rigenerare il legame sociale, di rafforzarlo, di fondarlo sulle solide basi della fiducia, della reciprocità, della cooperatività. Questi sono appunto i caratteri specifici della relazione familiare intesa in senso proprio. È la ragione per cui si deve investire sul "capitale familiare" per incrementare quello sociale.
L'apporto della Chiesa
Grazie al legame di amore tra i genitori e alla cura che offrono ai propri figli, in questi cresce in modo naturale la speranza. Quella speranza che permette di affrontare la vita positivamente, che ci rende uomini e donne spalancati e non difesi davanti alla realtà. Eppure, lo abbiamo già detto, l'esperienza storica di ogni uomo e di ogni donna è attraversata dal dramma del male. Il male è il nemico più potente della speranza. Infatti la speranza nasce da certezze presenti che la violenza del male sembra infrangere.
Anche la famiglia, lo sappiamo bene, è bisognosa di redenzione. Essa non può pretendere di essere la risposta esauriente e definitiva alla domanda di salvezza che abita il cuore degli uomini. Il potenziale di bene che vive nella famiglia, e che deve essere strenuamente promosso, è sempre alla ricerca della redenzione definitiva.
Gesù Cristo, il Figlio di Dio fattosi carne, non è il Redentore di individui separati dalla comunità. Egli è il Redentore di ciascuno e di tutta l'umanità. Lo è anche della famiglia. Egli ha voluto farne esperienza diretta, è cresciuto nella Santa Famiglia di Nazaret in cui affetti, promessa e compito vivevano in perfetta armonia.
In questo vespero del Santissimo Redentore, Gesù viene incontro alle nostre famiglie per compiere la promessa di felicità insita in questa insostituibile istituzione sociale. La Chiesa santa di Dio - il cui unico compito è lasciar trasparire sul proprio volto quello di Cristo, luce delle genti - promuovendo la famiglia fondata sul matrimonio indissolubile tra l'uomo e la donna e aperta alla vita, umilmente continua a perseguire il mandato del Suo fondatore. Il Vangelo della famiglia e della vita è infatti al cuore del Vangelo del Dio incarnato. Tutti, cristiani e uomini di buona volontà, vorranno riconoscere in questo decisivo aspetto della missione ecclesiale un prezioso contributo all'autentico progresso del nostro Paese.


(©L'Osservatore Romano - 23 luglio 2008)


A trent'anni dalla nascita di Louise Brown, la tecnoscienza invade l'umano
Seminario a Roma sulla "rivoluzione della provetta"

di Giuseppe Brienza
ROMA, mercoledì, 23 luglio 2008 (ZENIT.org).- Il 25 luglio 1978 nasceva Louise Brown, la prima bambina "concepita" in provetta. Per ricordare il 30° anniversario di questo evento, che da allora ha sconvolto in modo progressivo e inesorabile l'universo simbolico e materiale della procreazione umana e delle relazioni tra uomo e donna e tra genitori e figli, giovedì 17 luglio si è svolto a Roma un Seminario di studi dal titolo "Figli della provetta".
L'evento è stato organizzato su iniziativa del sottosegretario On. Eugenia Roccella dal Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali presso la Biblioteca del Senato "G. Spadolini".
Per dare l'idea di una rivoluzione, quella della provetta, che non ha paragoni nella storia dell'umanità, sono state divulgate a margine del convegno le stime di uno degli istituti di ricerca più accreditati nel settore, l'International Committee for Monitoring Assisted Reproductive Technologies (Icmart), provenienti da 52 Paesi che coprono i due terzi di tutte le procedure in vitro del mondo.
Secondo l'Icmart, sono circa 3 milioni i bambini nati da concepimento in vitro in tutto il mondo dal 1978 al 2006. Si stimano circa duecentomila nati all'anno (112.000 riportati nel 2002), su un milione di cicli di fecondazione (600.000 riportati).
La Danimarca è il Paese al mondo con la più alta percentuale di bambini nati da fecondazione in vitro (3.9% delle nascite) e, quasi la metà dei trattamenti riportati (600.000) viene da quattro Nazioni: Stati Uniti (112.000), Germania (85.000), Francia (64.000) e Gran Bretagna (37.000).
La "tecno-scienza", insomma, è entrata in maniera massiccia nel campo della procreazione umana, ha avvertito l'On. Roccella all'apertura del Seminario con la sua relazione intitolata "Tecnoscienza e trasformazioni della società, della famiglia e della maternità".
"Accanto al positivo, cioè al sostegno alle coppie infertili, che in questi trent'anni ha significato tre milioni di bambini che altrimenti non sarebbero nati, esiste però anche un lato oscuro della tecnomaternità, sia dal punto di vista scientifico, che da quello antropologico, e infine sul piano degli scenari possibili che abbiamo davanti", ha proseguito il "sottosegretario al Welfare".
"Dal punto di vista scientifico - ha spiegato - temiamo innanzitutto il rischio di un eccesso di aspettative, soprattutto femminili, legate a promesse che non si possono realizzare, la principale delle quali è senz'altro quella di poter avere un figlio sempre e comunque, indipendentemente dall'età, dalle condizioni fisiche, dall'esistenza di un compagno. Un altro rischio è quello di cedere al sogno del figlio perfetto, che è soprattutto il figlio sano".
Josephine Quintavalle, fondatrice dell'associazione che opera nel campo della bioetica "CORE" (Comment on Reproductive Ethics), è intervenuta sul tema "Hands off our ovaries: giù le mani dalle nostre ovaie, una campagna internazionale", focalizzandosi sulla descrizione e sulla denuncia delle dinamiche che, con la fecondazione artificiale, fanno oggi della donna una "vittima" (nella propria dignità oltre che integrità psico-fisica) della "tecno-scienza".
Con una relazione sul tema "La fertilità in un mondo che cambia" Massimo Moscarini, Direttore del Dipartimento di Scienze Ginecologiche, Perinatologia e Puericultura dell'Università "La Sapienza" di Roma, ha descritto come la stessa sia in certa misura "responsabile" di molti degli attuali problemi della sterilità di coppia, che risultano in notevole aumento rispetto al passato.
Per le generazioni femminili "post-sessantottine", ha spiegato infatti lo specialista, la carriera "ha preso peso e dignità pari al matrimonio", esponendole maggiormente a fattori di rischio infertilità, fra cui il principale "è sicuramente quello che riguarda il procrastinare la gravidanza ad una età sempre più avanzata".
Il prof. Moscarini ha precisato che il processo di decremento della fertilità s'intraprende proprio nelle trentenni, quelle donne cioè che, avendo raggiunto un posto di lavoro soddisfacente, cominciano spesso a pensare ad avere il primo figlio, senza considerare però che "tra il 10 e il 20% delle donne sono sub fertili a 35 anni".
Risulta quindi ovvio, ha concluso il ginecologo, "quali conseguenze può avere e quali sorprese può portare posporre la maternità dopo i 30 anni e molto spesso anche verso i 40".
La seconda parte del convegno, dedicata al tema "A trent'anni dalla nascita di Louise Brown: bilanci e scenari di una società che cambia", ha visto l'animarsi di un dibattito moderato dall'On. Renato Farina, editorialista del quotidiano Libero.
Sono intervenuti, tra gli altri, il prof. Francesco D'Agostino, Presidente Onorario del Comitato Nazionale per la Bioetica e Ordinario di Filosofia del Diritto all'Università di Roma Tor Vergata, la psicanalista Marisa Fiumanò, direttrice del "laboratorio Freudiano" di Milano e la giornalista, de "Il Foglio" Nicoletta Tiliacos.


Brunetta: Pa, occorre voltare pagina. Le vere riforme sono sempre impopolari
Int. a Renato Brunetta24/07/2008
Autore(i): Int. a Renato Brunetta. Pubblicato il 24/07/2008 – IlSussidiario.net
Ministro Brunetta, cosa risponde a chi considera alcune delle sue proposte (soprattutto l’ultima circolare sulla visita medica fiscale già dal primo giorno di malattia) come troppo centrate sulla logica che la Pubblica amministrazione è fatta solo di “fannulloni”?
Chi è malato non ha problemi di visita fiscale, né di allargamento dell’orario in cui la visita fiscale può essere fatta. Chi voleva fare il furbo, poteva contare sul fatto che non ci sono medici che fanno visite fiscali, oppure che le visite avvenivano in un orario ristretto. Le lamentele stanno a significare che evidentemente i furbi si stanno preoccupando. Sono loro che voglio combattere, mentre voglio premiare chi lavora bene e gli onesti. Chi ha la coscienza a posto non ha nulla da temere. E pertanto più sono le proteste di poche frange di furbi più sono contento perché la stragrande maggioranza di dipendenti pubblici è dalla mia parte.
Come prevede che sarà il rapporto con i sindacati, nel tentativo di portare a termine la riforma che ha in mente? Troverà un muro o già intravede opportunità di dialogo?
Primo: la riforma non può passare per il confronto con il sindacato dei fannulloni. Secondo: il sindacato non può pensare di alzare troppo la voce, se pensa per un attimo a quello che succede nel settore privato. Sarebbe un po’ difficile spiegare ai metalmeccanici, agli edili, ai chimici, che si fa uno sciopero generale del pubblico impiego perché i soldi per il rinnovo del contratto non sono sufficienti, quando probabilmente i dipendenti privati non avranno neanche il rinnovo del contratto.
Se si vuole aumentare la produttività della Pa, favorendo la convergenza del mercato del lavoro pubblico con quello privato, perché si punta ancora sui concorsi, sia pure su base territoriale, anziché sui contratti di lavoro flessibile?
C’è molta ipocrisia. Per legge e per Costituzione nel pubblico impiego si entra solo per concorso. In realtà il 60% o 70% degli assunti - a seconda dei settori - è entrato nella Pa senza concorso: per sanatorie, ope legis, stabilizzazioni, e via dicendo. È un tema rilevante, questo del concorso, che riguarda la privatizzazione vera della Pa e su questo occorre lavorare ancora un po’. Al momento ho introdotto, nel ddl che accompagna la manovra di stabilizzazione, la norma sui concorsi su base regionale e già questo dovrebbe evitare inutili e dannose mobilità, che finiscono per produrre posti di lavoro vacanti al Nord e eccedenze al Sud.
Una delle più recenti promesse di riforma della pubblica amministrazione è stata fortemente legata all'investimento in nuove tecnologie ICT. La tecnologia da sola senza cambiamento organizzativo può produrre risultati? Quale è il suo parere?
Sono due facce della stessa medaglia. Il cambiamento organizzativo è previsto dal disegno di legge delega: organizzativo, incentivi, premialità. Tutto questo nella riforma va di pari passo con l’innovazione, con le reti, con la concorrenza fatta da altre reti nei confronti del monopolio della pubblica amministrazione.
L’autoreferenzialità è forse il maggior difetto del sistema pubblico italiano. Come aprirla a una collaborazione con la società e con le forze che operano al suo interno, in uno spirito di vera sussidiarietà?
Sto introducendo la class action nel settore pubblico. È un modo di dialogare del cliente finale nei confronti della Pa, che fa leva su un criterio che mi pare legittimo: la soddisfazione del cliente finale. Se il cliente non è soddisfatto, ha in mano lo strumento per contrastare e sanzionare la Pa che non offre beni e servizi di qualità. Finora l’utente finale non aveva alcuno strumento; era solo il cittadino-elettore a giudicare. Da gennaio in poi a farlo sarà anche il cittadino-consumatore.
Nel diffuso clima di antipolitica la riforma della Pa rischia di diventare una guerra di religione. Come arrivare a interventi condivisi, che migliorino il sistema senza deresponsabilizzare chi lavora al suo interno e senza logorare il tessuto sociale?
In questo momento c’è una Pa inefficiente, che è una palla al piede per l’economia ma soprattutto è un elemento negativo nei confronti delle classi più povere e dei ceti più deboli. Questo sistema di privilegi, per essere scalzato, non necessita di condivisione, ma di conflitto. Bisogna far sì che i cittadini e il datore di lavoro facciano sentire la loro voce e che i fannulloni siano colpiti. Siccome stiamo parlando di una minoranza, mente la maggioranza dei dipendenti pubblici è gente per bene che lavora, io voglio parlare a chi lavora, e con loro isolare i furbacchioni.


Se i giovani non capiscono quello che leggono
Avvenire, 24 luglio 2008
UMBERTO FOLENA
Saper leggere, ossia saper comprendere, commentare, criticare un testo, serve nella vita? Nella vita: personale e sociale. Per il futuro proprio, della comunità, della nazione. La diciamo grossa: per essere un poco più felici. Serve? Se non serve, possiamo tirare un sospiro di sollievo.
L’Italia mestamente declina, chi la risolleverà saranno i giovani (e chi altri, se no?), i giovani leggono poco e sempre di meno, ma chi se ne importa, chattano e messaggiano che è una meraviglia. Se invece serve, sarà bene prendere provvedimenti, e in fretta, perché la parola scritta, letta e compresa, sembra aggrappata a un piano inclinato saponoso.
Dei pochi, rari, preziosissimi giovani lettori italiani, e della massa di non lettori, si parlerà ai primi di ottobre agli stati generali dell’editoria – tema: 'Scommettere sui giovani' – a partire dai dati dell’Istituto Iard (vedi in Agorà di oggi). Se davvero i giovani sono il futuro, e non corriamo ai ripari, ci attendono tempi grami. I giovani lettori (0-19 anni) italiani sono il 53,8 per cento, rispetto al 66 francese e al 72,3 spagnolo. Il nostro grado di comprensione linguistica è inferiore del 6 per cento rispetto ai giovani tedeschi, del 7 rispetto ai britannici, del 5 rispetto ai francesi. I giovani italiani laureati sono il 31,8 per cento, contro il 34,7 della Spagna e il 55,9 della Gran Bretagna. Il giovane lettore lo trovi più facilmente in una famiglia con genitori lettori e laureati, in possesso di una biblioteca di almeno 200 libri, al nord. Prevedibile? Vuol dire che la scuola – e pure la tv, che nacque anche con questo scopo – non riescono a colmare il gap iniziale. La forbice è comunque amplissima. Se l’8 per cento dei giovani italiani denotano una incoraggiante vivacità culturale, perché leggono libri e giornali ma vanno anche a teatro, al cinema e usano internet in modo intelligente, un terzo non legge nulla e si nutre soltanto di tv di bassa qualità. Né ci consola sapere che in Europa – dove siamo in coda – la tendenza è identica: un quindicenne europeo su quattro fatica a leggere o non ci riesce proprio, e la situazione non fa che peggiorare.
Le cause? Ce ne fosse una sola, saremmo a cavallo. Sono tante, dalla famiglia all’industria dell’intrattenimento alla scuola. Una, però, è forse la Causa Prima: meno risorse – educative, economiche, politiche… – investi in un settore, meno risultati porti a casa. Quanto investe l’Italia sui giovani, da intendersi non come polli d’allevamento da addestrare ai consumi ma persone libere da rendere curiose e autonome, non eterni adolescenti ma adulti? Quanto investe in formazione dei docenti – a volte i primi a litigare con la lingua, parlata e scritta – e in promozione del libro? Poi c’è il marketing: finché l’immagine del giovane che legge, contento di leggere, è quella di un nerd
perdente, mentre l’analfabeta che si nutre di icone modaiole e proteso ai consumi è vincente, ci sarà poco da fare. Un’Italia così è un Paese miope che non ritiene di aver bisogno degli occhiali. Ovvio che non sappia leggere.


Cristiano, il convertito di suor Maria Gloria Riva - Una suora di clausura racconta le tappe della conversione al cattolicesimo di Magdi Allam. Una serie di incontri, un’amicizia condivisa con altri cristiani. Fino al Battesimo impartito dal Papa nella notte di Pasqua.

[Da «il Timone», n. 73, Maggio 2008]

Era un giorno di gennaio pieno di sole, senza vento. Immersa nella campagna romana mi pareva d’esser già a primavera e invece, in pieno inverno, mi stavo avvicinando all’abitazione di Magdi Allam, vice direttore ad personam del Corriere della sera.

Era l’incontro atteso con un amico che già al telefono aveva suscitato nella mia anima viva simpatia. Non avevo letto molto di suo, se non articoli del Corriere che i miei fratelli, ammirati, avevano fatto scivolare attraverso la grata o altro materiale inviatomi dagli amici di CulturaCattolica.it o di samizdatonline.it. Don Gabriele Mangiarotti mi fece notare la vettura del carabinieri presso l’ingresso principale. Lo chiamammo al telefono e Magdi ci venne incontro sorridente aprendoci un altro ingresso.

Seguì un abbraccio generoso e caldo come quello di chi è stato separato a lungo e viene ricongiunto da un destino fattosi improvvisamente benevolo. Parlammo a lungo e fin subito mi si rivelò la determinazione di questo egiziano, innamorato dell’Italia più di me, la sua dirittura morale e la sua calda umanità. Lo ascoltavo e pensavo alle dicerie sul suo conto sciorinate da innumerevoli quotidiani: guerrafondaio, opportunista, fondamentalmente “arabo” nel senso comune di poco affidabile. Niente mi pareva più lontano dall’uomo che mi stava davanti, granitico nella lucidità del suo pensiero, ma fanciullesco nell’approccio alla realtà e negli affetti. Quando vidi Valentina, sua moglie, capii che non mi sarei mai più separata loro: ero a casa. E così fu.
La lettura di «Io amo l’Italia» confermò queste impressioni iniziali e mi fornì la base per addentrarmi in punta di piedi nella vita e nell’anima di Magdi.

Fortunate occasioni ci consentirono ripetuti incontri, così da raccogliere preziose confidenze che operarono in don Gabriele e in me una profonda trasformazione. La riflessione sull’Islam fu spesso al centro dei nostri discorsi. Ebbi la fortuna in Monastero di dedicarmi per un certo tempo all’approfondimento della tradizione coranica, cosa che mi convinse della profonda differenza fra le due fedi. Magdi mostrò sempre il suo attaccamento alla tradizione in cui è nato, ma qua e là affiorava il disagio per quelle contraddizioni forti che non sapeva spiegare, per le continue condanne a morte piovute su di lui. Per il Jihad by Court che rende arduo il suo impegno giornalistico. Di fronte a ciò, l’appello accorato dell’Islam moderato del 2003 pareva irrimediabilmente lontano e inadeguato a offrire risposte consolidanti. Questo ed altro ancora, legato certamente al rapporto luminoso con Valentina, lo portarono a revisionare il suo rapporto con a fede dei suoi padri.

Benedetto XVI, soprattutto nel suo discorso all’università di Regensburg, lo illuminò. Magdi ci disse che considerava l’evento di Ratisbona ancora più epocale di quello delle torri gemelle. Il Papa lo aveva introdotto da intellettuale nel mistero dell’Incarnazione del Verbo che salva l’uomo dal di dentro, ma soprattutto dall’idolo più subdolo di ogni tempo: l’ideologia. Definendo il fondamentalismo islamico l’ultimo colpo di coda del relativismo assoluto che permea le filosofie moderne, Papa Ratzinger aveva aperto un nuovo orizzonte dentro la sua ricerca di pensiero.

Il nesso tra fede e ragione che conduce l’uomo a un rapporto con Dio libero e liberante fu la nota dominante del percorso spirituale di Magdi Allam. Si comprende, dunque, come mai, accanto a papa Benedetto XVI, gli scritti di don Giussani contribuirono enormemente allo sviluppo positivo della sua ricerca.

Fra gli aderenti al movimento di CL, Magdi si è sentito a casa e ha certamente trovato un popolo che lo ha compreso, senza l’invisibile schermo del pregiudizio politico che ha ottenebrato lo sguardo di tanti giornalisti cattolici. Nel vescovo Mons Luigi Negri, Magdi trovò un interlocutore intelligente e preparato, capace di fornirgli risposte adeguate alle sue aspettative.
Quando nacque Davide, suo figlio, don Gabriele ed io fummo avvisati in tempo reale. Avevamo partecipato con intensa preghiera allo sviluppo della gravidanza di Valentina che come migliaia di gravidanze aveva conosciuto momenti delicati. È nato un bimbo straordinario per robustezza, bellezza e simpatia. Un bimbo che, come afferma Magdi, è la vita, il cui nome, Davide, riassume simbolicamente molte delle riflessioni che hanno accompagnato Magdi nel corso del 2007. Tali riflessioni, presenti nel suo libro «Viva Israele», dicono non solo l’acutezza della sua indagine, ma anche la pedagogia divina.

Un dato fondamentale per l’approdo alla fede cattolica fu certamente per Magdi l’amicizia e il sostegno di molti ebrei praticanti, penso all’amico comune Guido Guastalla, ma se ne potrebbero citare molti altri. Conoscere dal di dentro la tradizione ebraica vivente ha offerto a Magdi un modo di sentire la fede e la Parola di Dio che gli ha giovato nella scelta di farsi cattolico.

Nell’estate del 2007 vivemmo un altro momento di grande intensità spirituale. Don Gabriele ed io trovammo Valentina in soggiorno, aveva in braccio il piccolo Davide ed era bellissima. Avevo deciso di regalarle un camicino per il Battesimo, fatto dalle monache del mio Monastero di Monza. Sul bianco della tela spiccava a lettere d’oro il nome Davide. Magdi sopraggiunse in quel momento, vide l’oggetto, lo prese tra le mani e con un largo sorriso disse: «Se c’è un camicino ora è necessario il Battesimo!». Calò nella stanza un silenzio profondo, tutti fummo presi da grande commozione. Io abbracciai Magdi: ero senza parole. Fu questa la prima volta che affrontammo in modo indiretto l’aspetto confessionale della fede.

Magdi non avrebbe mai fatto battezzare Davide senza riconoscere per il piccolo un bene evidente. Il desiderio per il figlio esprimeva già in nuce quello che era il suo desiderio. I nostri dialoghi sulla fede si intensificarono. Magdi trovò un grande aiuto spirituale in S. Ecc. mons. Rino Fisichella, che per primo conobbe il desiderio di farsi cristiano. Dopo aver avuto il parere positivo del prelato, Magdi ci disse che aveva qualcosa da comunicarci. Non dimenticherò mai quel giorno. Si era in giardino sotto un bersò. Magdi ci guardò negli occhi, trattene per un attimo il respiro poi disse tutto d’un fiato: «Voglio essere di Cristo!». Il tempo si fermò, ml parve che persino gli uccelli cessarono per un attimo di cinguettare: «Voglio farlo pubblicamente», aggiunse. Esplodemmo in un no, dettato anzitutto dall’affetto, dalla consapevolezza della gravità del gesto. Avevamo condiviso con lui parte della sua vita coatta, lo sgomento per nuove minacce a morte: non era producente per nessuno, tanto meno per lui! Non avrebbe più fatto notizia un ex mussulmano che combatte l’integralismo, non avrebbe più avuto la protezione di quanti sfruttavano a proprio vantaggio la sua originale posizione.

Parole che ci vennero fuori di getto e che trovano drammatico riscontro nella polemica suscitata dalla sua conversione. Parole che però non trovarono spazio nel cuore del nostro grande amico: «Non posso nascondermi, proprio io che sto combattendo per la libertà di pensiero e di religione. Esiste un mondo sommerso di musulmani convertiti al cattolicesimo che vivono la loro fede clandestinamente per paura di una condanna a morte. Esiste una filosofia del terrore che induce a vivere nel ricatto. In seno alla Chiesa non si compiono gesti pubblici nei confronti dei musulmani per evitare ritorsioni verso i cristiani che vivono in paesi islamici fondamentalisti. Ciò è assurdo: il Santo Padre a Regensburg ha dimostrato che quando si parla con verità alla fine si è più rispettati. La mia è una presa di coscienza personale e tale deve rimanere. Chi strumentalizzerà le mie parole dimostrerà di cadere nel politico e nell’ideologico».

Seguirono mesi di preparazione, che avvenne nella diocesi di Roma sotto la direzione di mons. Fisichella. Noi gli fummo vicini, vedendo passo dopo passo la sua anima consolidarsi nella fede e nel desiderio di conoscere sempre più profondamente Cristo e la fede cattolica. Quando ci disse che il Papa intendeva battezzarlo la notte di Pasqua e mi chiese di fargli da madrina, rimanemmo senza fiato. Era la dimensione più pubblica che potevo immaginare.

Magdi era ammirato per il coraggio del Papa, il quale intendeva lanciare un messaggio a quei sacerdoti costretti a somministrare il Battesimo in incognito a musulmani. E mentre noi ci preoccupavamo per le ulteriori condanne a morte che gli sarebbero derivate, Magdi si preoccupava per l’incolumità del Santo Padre.

Al termine della cerimonia, Magdi Cristiano ci ha abbracciati, fuori di sé dalla gioia. Cristiano, un nome scelto insieme e con cura. Un nome che coronava degnamente l’impegno da anni assunto contro una crisi identitaria che pervade ormai ogni ambito della società. Un nome che fa riflettere anche chi, come noi, lo porta da sempre senza spesso comprenderne la valenza.


Grande scienziato, ma pro-life: censurato, di Francesco Agnoli - Era un grande genetista ma contro l’aborto. Così Lejeune fu messo ai margini dal mondo scientifico.

[Da «Il Foglio», 12 Giugno 2008]

In Italia su di lui si sa molto poco. Gli unici quattro libri, a quanto mi consta, li ha pubblicati Cantagalli (l’ultimo è di Clara Lejeune, sua figlia: “La vita è una sfida”). Il suo nome è sconosciuto ai più, anche in tempi in cui di genetica si parla spesso. Eppure Jérôme Lejeune è uno dei grandi scienziati che ha fatto fare alla conoscenza umana un balzo in avanti. Nato nel 1926 a Montrouge sur Seine, è infatti colui che ha scoperto la prima anomalia genetica, la trisomia 21, quella che determina la sindrome di down. Sino alla sua scoperta si credeva che il mongolismo fosse una tara razziale, oppure che fosse determinato da genitori alcolisti o sifilitici. Lejeune dimostrò che non vi era nulla di disdicevole nei genitori di quei bambini, nessuna contagiosità, in quelle creature in cui era avvenuta la triplicazione di un cromosoma, un eccesso di informazione genetica, e che vengono colpite nella facoltà dell’intelligenza, dell’astrazione, anche se conservano integre affettività e memoria. Lejeune per questa scoperta, e per altre che la seguirono, ottenne riconoscimenti internazionali, premi e onoreficenze. Divenne famoso e per lui fu creata la prima cattedra di Genetica Fondamentale all’Università di Parigi.

Ma Lejeune non era solo un ricercatore. Il suo intento fu sempre quello di guarire i suoi malati, così socievoli, così allegri, così fanciulleschi. “Se si riuscisse a scoprire come poter curare la trisomia 21 – scrive la figlia Clara – allora sì la strada sarebbe aperta per poter curare ogni altra malattia genetica”. Scoprire la prima aberrazione cromosomica è, nella mente di Lejeune, il primo passo per compiere l’opera del medico, che è, da sempre, quella di curare. Così anche la scoperta della diagnosi prenatale, a opera dell’amico di Lejeune, il professor Liley, originario della Nuova Zelanda, è collegata al desiderio di poter individuare quanto prima e curare più precocemente i bambini. Curare il prima possibile, in utero: è l’idea che entusiasma entrambi. Ma i due scienziati, che “si conoscono e si stimano”, “impotenti, assisteranno allo snaturamento delle loro scoperte”. Infatti nel 1970 in Francia la proposta di legge Peyret apre il dibattito sull’aborto, sull’eliminazione dei bambini che sono identificati come portatori di handicap già prima della nascita. In quel momento, ricorda Clara, “l’unico handicap riconosciuto prima della nascita è la trisomia”. Lejeune, di fronte alla proposta Peyeret e al dibattito sull’aborto in generale, dinanzi alle menzogne sulla natura del feto o sul numero degli aborti clandestini, non riesce a tacere: sostiene la sacralità della vita, palesa il suo amore per i suoi piccoli malati, ovunque, arrivando ad affermare, all’ONU: “Ecco una istituzione per la salute che si trasforma in istituzione di morte”. Lejeune non è un ingenuo: sa di aver intrapreso una strada pericolosa fonte di innumerevoli antipatie. La sera stessa del suo discorso all’ONU, scrive alla moglie: “Oggi pomeriggio ho perduto il premio Nobel”. Ed è proprio così. Non garba, a coloro che lo insultano, a coloro che scrivono sui muri: “A morte Lejeune e i suoi mostriciattoli”, che qualcuno rivendichi con carità e con forza la verità, e lo faccia con l’evidenza della scienza. Scrive Lejeune: “La genetica moderna si riassume in questo credo elementare: all’inizio è dato un messaggio, questo messaggio è nella vita, questo messaggio è la vita. Vera e propria perifrasi dell’inizio di un vecchio libro che ben conoscete, tale credo è quello del genetista più materialista possibile…”.

In principio è il Logos, al principio della vita è l’informazione del dna, tutta già compresa nella prima cellula: “Tutto questo lo sappiamo con una certezza assoluta che vince ogni dubbio perché se tale informazione non fosse già contenuta in essa, non potrebbe entrarvi mai più; nessuna informazione, infatti, entra in un uovo dopo che sia stato fecondato”. Per stroncare Lejeune le proveranno tutte: odio, molestie anche fisiche, controlli fiscali… Gli verrà negato l’avanzamento di carriera per ben 17 anni, verrà escluso dai congressi scientifici, gli verranno soppressi i crediti per la ricerca e negati i finanziamenti per i suoi pionieristici studi sull’acido folico per le mamme in gravidanza. Può continuare a lavorare grazie a sussidi americani, inglesi, neozelandesi. Si batte in questi anni per evitare il disastro nucleare, e confuta il darwinismo materialista e ideologico di Jacques Monod, che riduce l’uomo a un figlio del caso. In nome dei suoi studi di genetica Lejeune sostiene la credibilità di Adamo ed Eva e, anticipando di dieci anni le scoperte di Gould ed Eldredge, confuta il gradualismo step by step di Darwin, sostenendo che l’evoluzione ha dovuto per forza fare dei salti In ogni cosa, come padre di cinque figli, come scienziato, come polemista contro l’aborto e il darwinismo materialista, ciò che più colpiva, in lui, come rammenta la figlia, era “l’assenza di paura. Non aveva paura. Cosa si può fare contro un uomo che non desidera niente per se stesso?”. "Timete Dominum et nihil aliud", diceva.

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