mercoledì 16 luglio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) LA CHIESA E LE RESPONSABILITÀ PER IL FUTURO, Card. Camillo Ruini
2) E I GESUITI MILANESI SDOGANANO L’OMOSESSUALITÀ
3) Buddisti Soka Gakkai. Una Sabina vi convertirà, di Sandro Magister
4) La vera storia della Croce dei giovani - Nel racconto del Cardinale Paul Josef Cordes
5) “Non si può spegnere la vita con una sentenza”, Card. Bagnasco
6) Per Vassalli nella sentenza della Corte d’appello su Eluana "mancano le basi giuridiche”, dal Foglio.it
7) Per Pessina la domanda da porsi è: "Eluana avrebbe voluto morire così?" "Una sentenza del genere avalla una discriminazione: Eluana non ha diritto ad essere alimentata", dal Foglio.it


LA CHIESA E LE RESPONSABILITÀ PER IL FUTURO
CAMILLO RUINI
Avvenire 13-7-2008
L’articolo pubblicato ieri da Aldo Schiavo­ne su La Repubblica, con il titolo «La Chie­sa nel mondo che cambia», rinnova con forza sia la critica sia la domanda che l’autore ha già rivolto più volte alla Chiesa, a proposito del suo rapporto con la società e la cultura del nostro tempo. Può essere utile perciò tentare una ri­sposta, che tenga conto di entrambi gli aspetti. Per intenderci è bene però andare subito al cuo­re del problema e cioè alla tesi di Schiavone che le istituzioni e le strutture umane, alla fine l’uo­mo stesso, sono riconducibili «alla storia e so­lo alla storia». A partire da qui egli ritiene sba­gliata e inaccettabile quella che gli appare co­me «l’intransigente chiusura cattolica su tutte le questioni che implicano un rapporto davve­ro trasformatore fra tecnica e naturalità uma­na ». Ora, se l’uomo fosse realmente 'soltanto storia' potrebbe essere difficile non convenire in qualche misura con Schiavone: dico 'in qual­che misura' perché proprio le vicende e le e­sperienze della storia, considerate nella loro concreta realtà e non secondo un unilaterale modello evolutivo-progressista, indicano come determinate istituzioni e strutture, ad esempio la famiglia monogamica, siano state e riman­gano fondamentali per la formazione della per­sona, l’umanizzazione della convivenza e la stessa dinamicità dello sviluppo socio-econo­mico.
Ma proprio la tesi che l’uomo in ultima analisi sarebbe solo storia è in se stessa estranea e in­compatibile rispetto alla fede cristiana, oltre che, a mio parere, ad una seria e rigorosa fon­dazione dell’umanesimo. Schiavone evidente­mente non vede e non condivide una tale e­straneità, e per questo si sente autorizzato a va­lutare, criticare e cercare di orientare i com­portamenti della Chiesa a partire da un principio ('l’uomo è soltanto storia') che in realtà alla Chiesa rimane esterno, anzi, ha ben poco a che fare con essa.
Ritorniamo al punto: l’uomo è certamente storia, in quanto nasce, si sviluppa, vive nella sto­ria, che per lui è qualcosa di intrinseco e di co­stitutivo, non certo di esterno. Ma l’uomo, per la fede cristiana, è anche e ancor prima 'immagine di Dio', in concreto partecipe della non riducibilità di Dio alla natura come alla storia. E per questo ha un senso che Dio chiami l’uomo alla vita eterna, ben aldilà delle vicende del­la storia. Possiamo aggiungere che senza que­sta peculiarità dell’uomo non sarebbe giustifi­cato, anzi non si sarebbe nemmeno costituito, quell’insieme di elementi etici, giuridici, filo­sofici, estetici..., che formano l’ossatura della nostra civiltà e ai quali, nella sostanza, nessu­no vorrebbe rinunciare. D’altra parte Schiavone riconosce cordialmen­te che senza il contributo cattolico non è pos­sibile dar vita a una 'etica forte' adeguata alle responsabilità che dovremo assumerci per il fu­turo della nostra specie. Al riguardo egli con­trappone l’atteggiamento aperto e coraggioso che la Chiesa avrebbe assunto sui grandi temi sociali, dopo «la vittoria sul comunismo» al suo arroccarsi sull’«ordine naturale» in ambito eti­co- antropologico e chiede pertanto che anche su questo terreno la Chiesa abbia il coraggio e la lungimiranza di aprirsi.
Penso di poter rispondere che anche la Chiesa avverte profondamente le comuni responsabi­lità per il futuro gravido di radicali novità che si fa avanti velocemente. Un appello come quel­lo di Aldo Schiavone non la lascia dunque in al­cun modo indifferente. Per rimanere però al confronto critico che egli fa tra gli atteggiamenti della Chiesa, aperti in campo sociale e chiusi in campo antropologico, un’osservazione viene spontanea, anche a prescindere da varie altre precisazioni che mostrerebbero come questa contrapposizione – abbastanza di moda anche in ambienti cattolici – sia più apparente che rea­le. Schiavone stesso afferma che l’apertura del­la Chiesa sui temi sociali sarebbe arrivata dopo la vittoria sul comunismo. Lascio a lui questa va­lutazione, ma è certamente vero che la caduta del comunismo ha, per così dire, sgombrato il campo dal rischio di un fatale fraintendimen­to. Perché non chiedersi allora – in maniera a­naloga – se la condizione base per un atteggia­mento più serenamente aperto da parte della Chiesa in ambito antropologico non sia proprio il superamento di quel riduzionismo del sog­getto umano alla natura e alla storia (per Schia­vone alla storia, che assorbe in sé anche la na­tura) che oggi invece vorrebbe presentarsi co­me il punto più alto e più dinamico dell’attua­le civiltà? In fondo si tratta, in entrambi i casi, di riconoscere che l’uomo non è solo materia.


E I GESUITI MILANESI SDOGANANO L’OMOSESSUALITÀ
Nel numero di giugno della prestigiosa rivista dei gesuiti milanesi, Aggiornamenti Sociali, si trova un lungo «contributo alla discussione» sul riconoscimento delle unioni omosessuali. Gli autori del saggio, sono il miglior segno della Chiesa milanese, che trova modo di illuminare i lontani proprio perché "profetica e progressista", diversa e a volte opposta da quella verticistica, magisteriale, ingessata e romana…

Nel numero di giugno della prestigiosa rivista dei gesuiti milanesi, Aggiornamenti Sociali, si trova un lungo «contributo alla discussione» sul riconoscimento delle unioni omosessuali. Il lavoro sarebbe stato elaborato da un fantomatico «gruppo di studio sulla bioetica», il comitato di "studio" è costituito tutto da "autorevoli" cattolici, anche docenti del seminario diocesano di Milano. Gli autori del saggio, sono il miglior segno della Chiesa milanese, quella delle «leggi fasciste», che trova modo di illuminare i lontani proprio perché "profetica e progressista", diversa e a volte opposta da quella verticistica, magisteriale, ingessata e romana. Tuttavia in Vaticano molti sono gli uomini recentemente nominati dal «club dei profeti milanesi».
IL SENTIERO DI TEITAMANZI
Sarà la propensione drammaticamente sinistrorsa del "mitico" Bartolomeo Sorge, tirato a Milano negli ultimi anni del Cardinal Martini, sarà per il sentiero "border-line" intrapreso dal Cardinal Tettamanzi o per l'affidamento totale della Curia milanese (nomine, esternazioni, suggerimenti per incarichi Cei e Vaticani) all'ala "aperturista vetero sessantottina", quel saggio lascia esterrefatti. Naturalmente, duole constatare che il catechismo della Chiesa Cattolica sia assolutamente ignorato, semplicemente non risulta sia una fonte di riflessione sull'argomento, così come gli estensori ignorano la realtà che appare dalla stragrande maggioranza delle reazioni omosessuali (promiscuità, attività compulsava e anonima). Gli atti sessuali non procreativi degli omosessuali vengono messi sullo stesso piano di quelli tra eterosessuali sterili e così si valuta"indifferente" il punto di partenza. Ma il caso di un uomo e di una donna affetti da patologia della fertilità è diverso da comportamenti sessuali tra persone dello stesso sesso, basterebbe usare il buon senso per rendersene conto. L'indifferenza su questo punto, porta dritti alla "gender theology". Nessun turbamento negli autori, anzi, il "politically correct" impone di derubricare i molti casi di persone felicemente uscite da pulsioni omosessuali, con due righette.
Confesso che lo sgomento provato, dopo l'operazione di normalizzazione nelle scuole pubbliche operata dal Governo Prodi, mancava solo la benedizione di tanti "buoni cattolici". Colpisce la sostanziale assenza del principio di "realtà" dello scritto, forse i signorini estensori vivono sommersi da pile di libri da non riuscire a guardar fuori dalle finestre, sconforta per di più il tentativo di camuffare tutto con la "carità", il "dialogo", l'accoglienza, la necessaria "sintesi" per sottolineare il «valore delle relazioni omosessuali stabili». Ogni persona è dono, ricchezza e mistero, ma non così la pulsione omosessuale, che è sempre una profonda ferita dell'identità, comunque la si valuti. Questi testi rappresentano un vero e proprio tradimento al richiamo di papa Benedetto XVI a restare uniti, nell'accoglienza della persona ferita ma anche nella verità, sui principi non negoziabili. Se sono taluni "pastori" e pseudo esperti diocesani ad andare così fuori strada, come pensare che non si crei confusione nelle "pecorelle"? L'insegnamento di Giovanni Paolo Il sulla sessualità è stato ascoltato e recepito dal clero? Questi esperti hanno mai visto un corpo femminile e maschile "sganciato" dalla psiche o dallo spirito? Bisogna essere stralunati quando si esalta il primato della "relazione" in senso teorico, a prescindere dalla fisicità biologica, quando la persona è sessuata. Nella fisicità di una "relazione omosessuale", dove vedono questi signor il rispetto del disegno divino sulla corporeità, differenza chiamata alla "trasparenza" della relazione trinitaria, come ci ha insegnato Giovanni Paolo II?
LEGITTIMATA LA GENDER THEORY
Sussurro un'altra ipotesi, spero solo di scuola, ed è che il tentativo di “normalizzazione” del "club dei profeti milanesi", perché qualcuno è interessato. Si costruirebbero così le premesse per una “autoassoluzione” pseudo teologica o filoso***** alle personali e altrui problematicità, paradossalmente anche questo maldestro tentativo dimostra quel disagio e quella ferita che si vorrebbe negare. Le ricadute negative culturali sociali tuttavia non sono evitabili e di questo si deve tenere conto. L'omosessualità è una ferita e la sua normalizzazione sociale della "gender theory" non è un bene nè per la persona, né per la società. Con buona pace di ogni gruppo di studio gesuitico e del bel "club di potere milanese". Dopo le donne vescovo anglicane, c'è chi vorrebbe introdurre la "gender theology" nella Cattolica?
di Luca Volontè
Libero 10 luglio 2008


Buddisti Soka Gakkai. Una Sabina vi convertirà
Da "L'espresso" n. 35 del 4 settembre 1997
di Sandro Magister
C'è chi rimpiange la messa in latino. Ma c'è anche chi s'infervora a pregare in cinese. Cinese antico, tradotto dal sanscrito e pronunciato alla giapponese. Di italiani che si sono messi a pregare così, ce ne sono già 20 mila. Sono i convertiti alla Soka Gakkai, buddisti d'una corrente nata in Giappone in questo secolo. Tra le religioni orientali che hanno messo radici in Italia, è quella con il più forte tasso di crescita: ogni anno un dieci per cento in più.

Più di tante famose milizie cattoliche. Opus Dei e Focolarini, sommati, neppure eguagliano il numero dei nuovi fedeli della Soka Gakkai in Italia. I gesuiti della "Civiltà Cattolica" avevano i loro bravi motivi, già tre anni fa, di suonare l'allarme su questa ondata di conversioni al verbo del Buddha. Idem Giovanni Paolo II. Nel suo libro best-seller "Varcare la soglia della speranza" s'è sentito in dovere d'ammonire i buoni cattolici a non cadere in tentazione: perché, ha scritto, "il buddismo è in misura rilevante un sistema ateo".

Ma la tentazione prende. Specie col buddismo della Soka Gakkai, che offre benefici molto terra terra. Roberto Baggio, campione del pallone, era sul punto di appendere le scarpe al chiodo. "Mi diagnosticarono l'impossibilità di continuare a giocare. E allora ho iniziato a recitare "Nam Myoho Renge Kyo". Miracolo: "Grazie alla pratica quotidiana buddista sono riuscito a ribaltare di 180 gradi una situazione che non lasciava speranza". Da allora "il mio è un allenamento quotidiano anche con la fede". Conversione contagiosa. Anche sua moglie s'è fatta buddista della Soka Gakkai. E i loro bambini promettono. A Thiene, in quel di Vicenza, poco lontano da Caldogno che è il suo paese natale, Baggio ha aperto una sala di riunione per neobuddisti come lui, proprio sopra un suo negozio di articoli sportivi. Come in tutte le adunanze della Soka Gakkai, anche lì è un gran raccontare di storie di conversione. Sempre a lieto fine.

Soka Gakkai vuol dire: Società creatrice di valore. E a sentire le testimonianze degli adepti, di valore ne crea per davvero. Raccontano il loro passato buio: fatto di disperazioni, fallimenti, spesso anche di droga. Ma poi è arrivata la nuova fede, che li ha rimessi a nuovo. A cominciare dai primi benefici venuti con la recitazione del mantra. Perché non chiedono chissà cosa, quelli che si avvicinano alla Soka Gakkai. Le prime grazie implorate somigliano tanto a quelle richieste ai santi cattolici: trovare una casa, un marito, una macchina; avere bei voti; passare un esame; agguantare un lavoro; vincere alla lotteria. All'aldilà ci si pensa poco, conta molto di più l'aldiquà. Il bello è che il mantra funziona. Ogni mese "Il Nuovo Rinascimento", la rivista diffusa tra gli adepti, ha due pagine con la storia, raccontata in prima persona da un convertito entusiasta, delle grazie ricevute con l'abbraccio del buddismo della Soka Gakkai.

Questa nuova corrente religiosa l'ha fondata nel 1930 un maestro elementare giapponese, Tsunesaburo Makiguchi. Per le sue idee pacifiste finisce in prigione, e lì muore nel 1944. Ma i suoi non s'arrendono e sotto la guida di Josei Toda si producono in una strabiliante espansione missionaria. Oggi in Giappone la Soka Gakkai ha un seguito in otto milioni di famiglie, possiede un'università, un museo e stampa un quotidiano, il "Seikyo Shimbun", che vende cinque milioni e mezzo di copie. Ha soldi in abbondanza: anche per comprarsi un Renoir da 60 miliardi di lire a un'asta di Londra. Ed è capace di orientare il voto di sei milioni e mezzo di elettori. Per trent'anni il terzo partito del Giappone, il Komeito, è stato una sua filiazione diretta. E anche dopo che ha rinunciato al braccio politico, la Soka Gakkai continua a portare in parlamento una settantina di deputati di sua fiducia.

Ma anche fuori del Giappone la Soka Gakkai è in piena espansione. È ormai presente in 135 paesi. E man mano che si propaga nei cinque continenti, attenua la sua impronta nipponica. In Europa, l'Italia è in testa per numero di convertiti, seguita dalla Gran Bretagna. Presidente della Soka Gakkai italiana continua a essere un giapponese, Nakajima Tamotsu. Per il leader mondiale, Daisaku Ikeda, i fedeli italiani vanno in visibilio, specie quando arriva in visita pastorale. Ma il cuore della loro fede travalica ogni confine, a cominciare da quello della nazione madre. Palpita per il Buddha, che è apolide, universalissimo.

La Soka Gakkai si rifà al buddismo riformato di un monaco del XIII secolo, Nichiren Daishonin. È contemporaneo del nostro san Francesco. E come questi voleva abbracciare il Vangelo allo stato puro, senza più le glosse degli scribi, così Nichiren voleva tornare al buddismo purissimo, che per lui era quello del Sutra del Loto, testo sacro supremo, che soppiantava tutti gli altri. E infatti oggi la pratica quotidiana dei buddisti della Soka Gakkai è fatta di una doppia recitazione, la mattina e la sera, di pagine scelte del Sutra del Loto. Da leggersi in lingua originale e "con vigore" davanti al Gohonzon, che è la sacra pergamena che ogni fedele si tiene in casa.

Il Gohonzon porta disegnato con dei crittogrammi l'universo con al centro il Buddha eterno. Fino a pochi anni fa erano i monaci del tempio giapponese di Taiseki-ji, sotto il monte Fuji, a vergarlo e a farlo arrivare col loro imprimatur ai nuovi adepti in tutto il mondo. Ma nel 1991 c'è stata rottura tra Ikeda e quei monaci, e la quasi totalità dei fedeli nel mondo ha seguito il primo. La Soka Gakkai non ha dunque più oggi né templi, né santuari, né monasteri, né clero. Piuttosto ha dei centri di riunione, come a Roma nel verde della Marcigliana o a Firenze in una bella villa medicea. Anche per questo è religione così accessibile a tutti, in tutto il mondo. I nuovi Gohonzon sono copie di un archetipo settecentesco. Il nuovo santuario è divenuto per ciascuno la custodia che in un angolo della casa tiene avvolta la pergamena sacra. E il terzo elemento chiave di questa semplicissima liturgia individualizzata è il mantra "Nam Myoho Renge Kyo", instancabilmente recitato non solo di fronte al Gohonzon ma in ogni momento della giornata.

Letteralmente significa: "Lode alla mistica legge simboleggiata dal fiore del loto". Chi lo recita sa che per far sbocciare la "buddhità" che è in noi non occorrono chissà quali esercizi ascetici ma basta aver fede nella saggezza del Buddha che è scritta nel Sutra del Loto. E irradiare questa fede a tutti gli altri che stanno nella melma del mondo, proprio come il bianco fiore del loto allieta la palude.

Quelli della Soka Gakkai sono animati da un forte impulso missionario. Cambiare una sola vita, pensano, aiuta a cambiare il mondo intero, a influire in meglio sul Karma universale: quella legge infallibile per cui tutto ha una causa e tutto produce un effetto, legge così diversa dalla cristiana Provvidenza che invece non si sa mai che cosa ci riserva e perché.

Nel propagandare il loro verbo, in passato sono stati spesso intolleranti, e in Giappone perdura questa loro cattiva fama. Ma oggi si son fatti più ecumenici, tranne che con le altre fedi religiose (vedi più sotto). Ikeda è in perenne dialogo con capi di Stato, scienziati e filosofi di tutte le nazioni. Ha scritto libri a due mani con Arnold Toynbee, Aurelio Peccei, Johann Galtung. Si dà un gran da fare per i diritti umani e aspira al Nobel per la pace. In Italia, il mensile "DuemilaUno", con i suoi 13.500 abbonati, ben riflette questo dialogante aprirsi della Soka Gakkai ai non adepti. Vi si può trovare un'intervistona al comico Roberto Benigni, dentro un dotto dossier sull'arte del ridere. Vi scrive seria seria l'attrice Sabina Guzzanti, da anni felicemente convertita.

Il segreto del successo della Soka Gakkai è in questo suo essere al passo con la modernità. Il suo buddismo non è quello della fuga dal mondo. Il mondo lo accetta piuttosto come sfida. Il veleno lo vuol trasformare in medicina. Il desiderio non lo estingue, lo cavalca come una tigre. Imprenditrice. Di giapponese la Soka Gakkai tiene fermo lo spirito Toyota.

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Tra le nuove religioni presenti in Italia, la Soka Gakkai è l'unica che abbia aperto le porte ad analisti esterni. Maria Immacolata Macioti, cattedra di Sociologia all'università di Roma La Sapienza, ha potuto seguire per anni le sue attività e intervistare i suoi fedeli. I risultati dell'indagine li racconta in un libro edito da Seam con il titolo un po' ermetico: "Il Buddha che è in noi. Germogli del Sutra del Loto".

Porte chiuse, invece, alle altre religioni, comprese le correnti buddiste diverse da essa. Queste ultime, nel nostro paese, fanno capo all'Unione buddista italiana. L'Ubi associa 32 centri buddisti appartenenti a tre principali tradizioni: Vajrayana (Tibet), Mahayana Zen (Estremo Oriente) e Theravada (Sudest asiatico). Ogni anno i suoi aderenti si danno appuntamento nel plenilunio di maggio per la festa del Vesak, a celebrare i tre momenti chiave della vita del Buddha: nascita, illuminazione ed entrata nel nirvana. La Soka Gakkai non vi ha mai partecipato.

Quest'anno il Vesak si è tenuto a Salsomaggiore, dove ha sede un importante monastero Zen. E ha incluso per la prima volta un convegno finalizzato al dialogo tra il buddismo e la Chiesa cattolica. Intensi anche i contatti con il governo italiano: l'Ubi punta a ottenere anche per i buddisti quel regime d'intesa che consentirebbe loro di beneficiare dell'8 per mille del gettito Irpef. Ma anche da questo la Soka Gakkai si è sempre tenuta lontana: tanto dal dialogo con la Chiesa quanto dai negoziati con lo Stato. Al Vesak di quest'anno, l'unica comparsa di un esponente della Soka Gakkai si è avuta nella serata di gala: quando tra cerimonie del tè, tamburi giapponesi, tiro con l'arco e monaci danzatori, il tutto presentato da Marco Columbro, è spuntata Sabina Guzzanti a leggere brani del Sutra del Loto.

In Italia, senza contare la Soka Gakkai che è il gruppo più numeroso, i convertiti al buddismo sono circa 50 mila.


La vera storia della Croce dei giovani - Nel racconto del Cardinale Paul Josef Cordes
ROMA, martedì, 15 luglio 2008 (ZENIT.org).- Tutti i partecipanti alla Giornata Mondiale della Gioventù hanno visto la Croce dei giovani, arrivata questo lunedì alla baia di Sydney, tuttavia pochi conoscono le peripezie delle sue origini.
A rivelarle per la prima volta è stato il Cardinale Paul Josef Cordes, oggi Presidente del Pontificio Consiglio "Cor Unum", che nella prima GMG del 1984, era Vicepresidente del Pontificio Consiglio per i Laici.
Il porporato ha raccontato questa storia legata alla GMG in occasione della celebrazione a Roma dei 25 anni del Centro Internazionale Giovanile San Lorenzo, il 15 marzo scorso.
* * *
Le giornate della gioventù sono diventate una catena che congiunge paesi e continenti. Questo si è reso palese anche in Colonia allorché il Paese è stato invaso dal grande stuolo internazionale di giovani globals pacifici, entusiasmati per la prima volta da un Papa tedesco. La forza comunionale della fede s'incarna in modo particolarmente tangibile tutte le volte che nella giornata conclusiva avviene la consegna della Croce dell'Anno Santo. Data l'importanza di tale Croce, vorrei concludere col dire quel che so della sua storia; perché questa storia inizia pure nel Centro San Lorenzo.
Agli inizi dell'Anno Santo straordinario 1983/84 il nostro Santo Padre si accorse che nella basilica di San Pietro mancava una croce alta che attirasse gli occhi di chi vi pregava. Fece quindi collocare sulla Confessione una croce lignea di due metri buoni. Quando attraversò per l'ultima volta la Porta Santa, consegnò questa croce ai giovani del Centro San Lorenzo e, come se parlasse in privato, disse ai cinque che la ricevevano: "A conclusione dell'Anno Santo affido a voi il segno di questo anno giubilare: la Croce di Cristo. Portatela nel mondo come segno dell'amore di Gesù per l'umanità e annunciate a tutti che solo in Cristo, il Signore morto e risorto, è salvezza e redenzione".
I giovani del Centro san Lorenzo erano già stati conquistati quando mi raccontarono questo. Erano intenzionati a portare davvero la Croce nel mondo. Pensai di ridimensionare i loro fervidi entusiasmi dicendo che ognuno porta la sua croce nel mondo. Ma essi intendevano prendere proprio alla lettera la consegna del Papa. Finii per cedere alla loro insistenza. Ma a chi interessava una croce di legno, anche se era stata innalzata in San Pietro in Vaticano, anche se potevamo rifarci al desiderio del Papa? Dovemmo quindi conferire un posto specifico alla Croce con un atto di culto. Ed eccoci allora in piccola comitiva a pregare e cantare per le vie di Roma, diretti verso i centri dei vari movimenti spirituali: Comunione e liberazione, i carismatici, la parrocchia dei Martiri Canadesi per il Cammino neocatecumenale. Alla fine delle processioni, catechesi, liturgia e solenne adorazione della Croce, spesso nello stile della comunità monastica di Taizé.
Poco dopo – luglio 1984 – ebbe luogo a Monaco il Katholikentag. Con una copertura di metallo rendemmo trasportabile la nostra croce e volammo in Baviera. Il vescovo ausiliare Mons. Tewes, poi defunto, era il responsabile della liturgia. Lo pregammo di far erigere per la celebrazione conclusiva nell'Olympiastadion una grande e semplice croce di legno che fosse visibile a tutti. Ma faceva fatica a capire la nostra richiesta: portare da Roma una croce di legno! A Monaco scarseggiavano forse croci abbastanza belle? Insistemmo: si trattava della Croce dell'Anno Santo, e il Papa ci aveva esortati a portarla nel mondo come segno della salvezza che viene da Cristo. Monsignor Tewes temporeggiò ancora. Allora ci rimettemmo di nuovo per le strade, stavolta della capitale bavarese, armati di un megafono, pregando e cantando. Grande fu poi la nostra gioia allorché il Vescovo accondiscese al nostro desiderio e la Croce ebbe il suo posto d'onore durante la cerimonia conclusiva.
Nel successivo incontro col Santo Padre potei riferirgli: "I giovani del Centro San Lorenzo hanno adempiuto l'incarico ricevuto di portare la Croce dell'Anno Santo per il mondo". Per tutta risposta il Papa dice: "Ma allora portatela anche al cardinal Tomaček a Praga". Non era per niente semplice farlo, e per ragioni politiche. La Cecoslovacchia era uno dei paesi più fortemente asserviti al comunismo. La Chiesa non vi aveva libertà né spazio vitale. E il grande oppositore del regime, il Cardinale di Praga, era perfettamente isolato e controllato a vista. Solo con qualche stratagemma ci sarebbe riuscito di portar la Croce fino all'eroe della resistenza anticomunista, allora già ottantaseienne, e consolarlo nei suoi arresti domiciliari.
I giovani architettarono il piano: ottenere il visto per un gruppo di studenti dell'università di Tubinga in viaggio di studio alla volta di Praga. Le autorità comuniste concessero il visto d'entrata, ed essi riuscirono a camuffarsi da squadra di operai edili, ad entrare nell'abitazione del Cardinale e trasportarvi di nascosto la Croce. Il Cardinale era commosso fino alle lacrime e benedisse quei giovani temerari che a loro gran rischio e pericolo gli avevano manifestato l'affetto del Papa. Furono scattate delle foto, che in seguito, pubblicate su uno dei maggiori giornali tedeschi, suscitarono grande sensazione.
Da allora ad oggi la Croce dell'Anno Santo ha fatto, per così dire, carriera. Ora la si chiama non più "Croce dell'Anno Santo", bensì "Croce della Giornata della Gioventù". Il desiderio di averla è tale che se ne sono dovuti approntare dei duplicati, perché davanti ad essa nel mondo intero ci si possa ricordare dell'amore di Gesù. Davanti ad essa hanno pregato giovani di tutti i continenti, e, grazie a tali preghiere, qualcuno ha riscoperto il nesso fra i propri peccati e la passione del Signore e dopo anni e anni, ha ritrovato la via del confessionale. Davvero la Croce è stata un segno efficace di salvezza!


“Non si può spegnere la vita con una sentenza”
Da Sydeny il Cardinale Bagnasco ribadisce il no alla morte di Eluana
SYDNEY/ROMA, martedì, 15 luglio 2008 (ZENIT.org).- Appena arrivato a Sydney per la Giornata Mondiale della Gioventù (GMG), questo martedì, il Cardinale Angelo Bagnasco ha respinto nettamente ogni tentativo di togliere la vita a Eluana Englaro.
Nel corso di una conferenza stampa, tenutasi presso il Radisson Plaza Hotel, alla domanda su cosa pensasse della sentenza pronunciata mercoledì scorso dalla Corte d'Appello civile di Milano che autorizza a interrompere l’alimentazione e l’idratazione di Emanuela Englaro, il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) ha risposto che “è drammatico consumare una vita con una sentenza”.
In particolare il Cardinale Bagnasco ha spiegato che "anche se a tanti chilometri di distanza, purtroppo in questo momento viviamo tutti sentimenti di partecipazione, di dolore, di preoccupazione e di rispetto per una situazione di sofferenza, ma non possiamo tacere che è un momento delicato e drammatico se si dovesse procedere alla consumazione della vita con una sentenza".
Secondo il Presidente dei Vescovi Italiani, “è un momento che fa veramente preoccupare e che deve far preoccupare tutti noi e tutte le persone di buona volontà”, perché “togliere idratazione e nutrimento nel caso specifico è come togliere da mangiare e da bere a una persona che ne ha bisogno, come ne ha bisogno ognuno di noi”.
Nel frattempo in Italia, la comunità civile si sta sollevando. Giuliano Ferrara, Direttore de “il Foglio” e già autore di una mobilitazione per la moratoria sull’aborto, e Luigi Amicone, Direttore del settimanale “Tempi”, hanno proposto di raccogliere bottigliette d’acqua sul sagrato del Duomo di Milano, come gesto simbolico di chi vuole continuare a dissetare Eluana.
E già dal 14 luglio, sul sagrato del Duomo di Milano, sempre più persone lasciano una bottiglia d’acqua per Eluana.
Il Movimento per la Vita Ambrosiano ha già annunciato che giovedì 17 luglio, alle ore 18.30, porterà simbolicamente una bottiglia d'acqua sul sagrato del Duomo di Milano. Il gesto della bottiglia d’acqua verrà riproposto dal Movimento per la Vita Ambrosiano lunedì 21 luglio, alle ore 20.30, a Lecco fuori dalla clinica dov’è ricoverata Eluana e la serata avrà anche un momento di preghiera con la recita del Rosario per la Vita.
L’associazione “Scienza & Vita” ha lanciato invece un appello dal titolo “No alla condanna a morte di Eluana Englaro” su cui sta raccogliendo le firme (segreteria@scienzaevita.org; fax: 06/68195205).
L’appello dice: “No alla prima esecuzione capitale della storia Repubblicana italiana. No alla sentenza di morte pronunciata da alcuni giudici italiani contro Eluana Englaro”.
Ricordando la vocazione favorevole alla vita del popolo italiano i Presidenti dell’associazione,
Maria Luisa Di Pietro e Bruno Dalla piccola, chiedono di “fermare la mano di chi si appresta a togliere la vita dando attuazione alla sentenza di un tribunale”, perché “le stesse leggi italiane non ammettono l’eutanasia”.
Scienza & Vita si rivolge a tutta l’opinione pubblica, ai mondi della cultura e della scienza, del diritto e dell’economia, dell’informazione e del sociale perché “sappiano pronunciare un grande 'sì' alla vita e un 'no' insuperabile alla condanna a morte di Eluana”.
L’appello è rivolto anche alla famiglia di Eluana “ad accogliere l’invito di chi ha dichiarato di voler continuare ad assisterla amorevolmente”, con la garanzia che Scienza & Vita ed i firmatari dell’appello si impegnano “a sostenere tutti gli sforzi per garantire la vita di Eluana”.
Tra i primi firmatari dell’appello il Rinnovamento nello Spirito Santo (RnS) che attraverso la voce del suo Presidente nazionale, Salvatore Martinez, ha ribadito che “nessun tribunale umano può decretare la morte”.
Martinez ha aggiunto che “tutta la nazione italiana deve reagire con coraggio e determinazione perché la difesa dei piccoli e degli indifesi è la più alta espressione di civiltà per qualsiasi organizzazione umana”.
Immediata anche l’adesione del Movimento per la Vita. Il Presidente Carlo Casini ha spiegato: “Rispettiamo il dolore di una famiglia da anni sottoposta ad una prova terribile. Ma abbiamo anche a cuore il destino di Eluana che un tribunale ha deciso che debba svolgere il ruolo di martire sulla strada della legalizzazione dell’eutanasia”.
Il Presidente del MpV ha precisato che “di eutanasia si tratta senza dubbio, visto che togliere i supporti alle funzioni vitali equivale a dare attivamente la morte, solo in modo ancora più crudele e disumano”.
Tra le prime adesioni anche quella dei Cristiani per l’Ambiente (www.cristianiambient.org), il cui presidente Antonio Gaspari ha scritto: “Con immenso rispetto del dolore e della sofferenza dei genitori di Eluana, per la difesa del dono unico e inestimabile della vita, nell’impegno per costruire una civiltà dell’amore, noi ci impegniamo a nutrire e dissetare ogni persona, soprattutto i più bisognosi, in particolare ci impegniamo ad amare ogni vita umana”.
Parlando anche a nome dei suoi associati il Presidente dei CpA ha commentato: “Non capiamo perché Eluana debba essere condannata a morire. In una società dove ci sono associazioni e gruppi che difendono i diritti anche dei vegetali, perché per Eluana non c’è diritto alla vita?”.
“In una società dove tanti si battono per garantire il diritto all’acqua potabile per milioni di individui, perché si vuole togliere questo diritto a Eluana?”.
“Come ci si può opporre alla tortura ed alla pena di morte se poi si intende far morire per sete e per fame un innocente?”, ha chiesto Gaspari.
Il Presidente dei CpA, citando il Cardinale Carlo Caffarra, ha sostenuto che “la civiltà cristiana, in cui noi ci riconosciamo, sottolinea che 'tutto l’universo impersonale non vale una sola persona' qualsiasi siano le sue condizioni”.
“Per questo – ha concluso Gaspari – salvare la vita di Eluana è la prova che la nostra civiltà ha ancora abbastanza umanità per non cadere nella barbarie”.


16 luglio 2008
Oggi sul Foglio l'intervista integrale
Per Vassalli nella sentenza della Corte d’appello su Eluana "mancano le basi giuridiche”
Il presidente Emerito della Corte Costituzionale: "Non riesco a trovare un fondamento giuridico positivo a favore di quelle decisioni giudiziarie”
Il penalista Giuliano Vassali, presidente emerito della Corte Costituzionale ed ex ministro della Giustizia, commenta gli ultimi sviluppi del caso Eluana Englaro: “Ognuno sta cercando una soluzione secondo le proprie vedute ideologiche, morali, religiose o non religiose. Io non voglio entrare nel merito di questi aspetti, ma solo della questione strettamente giuridica, di diritto positivo. E secondo il diritto positivo vigente italiano io non trovo una base per la decisione della suprema Corte di Cassazione”. Quella decisione è alla base del decreto esecutivo con il quale la Corte d’appello civile di Milano ha autorizzato pochi giorni fa il padre di Eluana a interrompere la nutrizione e l’idratazione della ragazza attraverso un sondino. Vassalli afferma di nutrire “il massimo rispetto nei confronti del giudice che ha firmato quella sentenza, la dottoressa Maria Gabriella Luccioli, la quale si era laureata con me in Diritto penale a Roma ed è stata la prima donna magistrato. Ma non trovo né nella decisione della Corte di Cassazione, né nel decreto esecutivo della Corte civile d’appello di Milano la base giuridica rispetto al diritto vigente. Decisioni simili a quelle riguardanti il caso Englaro le si può forse trarre da principi umanitari e ideali, ma certo non in base al diritto vigente. Sento parlare di continuo del fatto che sarà risolutivo il testamento biologico. Ma di per sé il testamento biologico non risolve proprio niente, esso dovrebbe essere elemento di una legge che disciplini la materia per intero. Il parlamento affronti, se vuole, la questione. Altrimenti le vie extralegali non sono ammissibili. Io almeno non ne vedo la praticabilità”. Così conclude il presidente merito della Corte costituzionale: “Ogni giorno sentiamo invocare la certezza del diritto, il principio di legalità, ma al dunque, di fronte a certi casi tragici, vogliamo aggirare quella certezza. Le leggi scritte esistono: possiamo discutere da punti di vista sentimentali, ideali, di principio. Ma dal punto di vista del diritto positivo non ci sono equivoci possibili. Non posso far altro che ribadire la mia impotenza a trovare un fondamento giuridico positivo a favore di quelle decisioni giudiziarie”.


16 luglio 2008
Parla il direttore del centro di Bioetica dell'Università Cattolica di Milano
Per Pessina la domanda da porsi è: "Eluana avrebbe voluto morire così?"
"Una sentenza del genere avalla una discriminazione: Eluana non ha diritto ad essere alimentata"

Che il legame necessario tra vita e coscienza sia una vulgata, un pensiero dominante, è dimostrato dal caso di Eluana Englaro, la ragazza che a causa di uno stato di incoscienza pare non meriti di vivere. Un assunto avallato di fatto dalla sentenza del tribunale di Milano che ha concesso la sospensione degli alimenti che la tengono in vita. Sul rapporto tra vita e coscienza Adriano Pessina, direttore del Centro di Bioetica dell’Università Cattolica di Milano, spiega al Foglio.it che “non è vero che l’assenza di coscienza è incompatibile con la vita. Nel dibattito prevale un’idea superficiale della coscienza, ridotta al semplice aspetto relazionale”. Eppure Eluana non reagisce agli stimoli, non comunica, non si nutre se non con un sondino nasogastrico: qual è il valore da salvare? “Il valore della persona sta nella sua identità, e l’identità è un dato di fatto che precede la coscienza. La coscienza opera il riconoscimento dell’identità, non la istituisce. L’offuscamento della coscienza è un’esperienza comune, e non parlo solo della malattia, del caso estremo, ma anche, ad esempio, del sonno”.
La sentenza del tribunale di Milano contiene punti oscuri e controversie. Obiezioni di marca liberale sono piovute sulla presunzione della volontà di Eluana, che, ancora sana, non avrebbe voluto vivere in queste condizioni. “Tutti – continua Pessina –, compreso il tribunale si sono chiesti se Eluana avrebbe voluto vivere così, mentre la vera domanda è: avrebbe voluto morire così? La ricostruzione, oltre a un errore intrinseco, di metodo, ne commette anche uno di contenuto, cioè tralascia ogni riferimento al retroterra cattolico di Eluana, un fatto che mi pare abbia più valore delle affermazioni sulle quali si sono basati i giudici”.
La coda della sentenza prevede un particolare trattamento, questo sì terapeutico, per “accompagnare” Eluana dopo l’eventuale sospensione degli alimenti. “Anche qui c’è un conflitto. E’ chiaro che l’intento è evitarle il dolore, ma come si può parlare di eventuali trattamenti per accompagnarla alla morte senza dolore, quando si è già stabilito che lei è incosciente? Se non ha coscienza non può avere sofferenza”. La decisione dei giudici rischia di indurre un nuovo modello teorico: “Proprio questo mi spaventa – spiega Pessina –, la sentenza vuole introdurre un’impostazione antropologica che lo stato laico, proprio perché laico e non confessionale, non può permettersi. Una sentenza del genere avalla una discriminazione: Eluana non ha diritto ad essere alimentata. La tutela della vita, invece, è laica proprio perché non risponde ad un’idea pregiudizialmente contenustica. Non si è vivi, e quindi titolari di diritti, solo a certe condizioni, solo se si ottempera a un’idea qualitativa della vita. Lo stato laico dovrebbe tutelare la vita in quanto dato di fatto inconfutabile”.
di Mattia Ferraresi