Nella rassegna stampa di oggi:
1) L'enciclica sulla speranza commentata da due pensatori non credenti, di Sandro Magister; interventi del Prof. Aldo Schiavone e del Prof. Ernesto Galli della Loggia
2) Uccisa in nome di Satana, l'angelo caduto - Sarà beata suor Maria Laura Mainetti
3) Trattato di Lisbona: bocciato per burocrazia e politiche antivita
4) Storie di conversione: Clive Staples Lewis - Gli incontri pericolosi di un giovane ateo
5) La forza di Nietzsche - La teologia oggi deve misurarsi con lui e non può farlo rifugiandosi nella Bibbia o nel Magistero, di Vito Mancuso
6) OLTRE IL CASO DELLA MOSCHEA DI VIALE JENNER - LA LIBERTÀ RELIGIOSA TRA I DIRITTI E I DOVERI DI TUTTI
L'enciclica sulla speranza commentata da due pensatori non credenti
Sono i professori Aldo Schiavone ed Ernesto Galli della Loggia, sulla prima pagina del giornale della Santa Sede. Papa Joseph Ratzinger li conosce e li ha letti. Risponderà?
di Sandro Magister
ROMA, 7 luglio 2008 – Per la seconda volta in tre mesi "L'Osservatore Romano", il quotidiano della Santa Sede, ha pubblicato in prima pagina dei commenti all'enciclica di Benedetto XVI "Spe salvi" scritti da pensatori non credenti.
Il primo commento, pubblicato il 28 marzo, è del professor Aldo Schiavone (nella foto), presentato in calce all'articolo come “Direttore dell’Istituto Italiano di Scienze Umane”.
Schiavone è uno dei più autorevoli studiosi di diritto romano e di storia e filosofia del diritto. Insegna all’Università di Firenze. Nel suo campo, in Italia, è un luminare come lo è in Germania il professor Ernst-Wolfgang Böckenförde, molto stimato da papa Joseph Ratzinger.
Non è cattolico, anzi, non è credente in alcuna fede rivelata. Ma ha sempre prestato molta attenzione al fatto religioso.
Il secondo commento, pubblicato il 28 giugno, è del professor Ernesto Galli della Loggia.
Galli della Loggia è stato professore ordinario di storia dei partiti e movimenti politici all'Università di Perugia. Ha successivamente insegnato a Firenze all'Istituto Italiano di Scienze Umane diretto dal professor Schiavone. E dal 2005 insegna filosofia della storia presso la facoltà di filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, di cui è stato preside per due anni. Per l'editrice il Mulino dirige la collana "L'identità italiana", inaugurata da un suo volume con lo stesso titolo.
Anche Galli della Loggia non è cattolico, anzi, si dice "privo della fede". Eppure afferma di riconoscere "quel 'di più' che la storia umana priva di Dio non riuscirà mai a colmare".
Sia Schiavone che Galli della Loggia sono molto noti al pubblico colto italiano. Sono editorialisti dei due quotidiani laici più diffusi, il primo di "la Repubblica" e il secondo del "Corriere della Sera".
Sia l'uno che l'altro sono da tempo interlocutori stimati, in Vaticano.
Il 25 ottobre 2004 Galli della Loggia sostenne un dibattito pubblico su l'Occidente e le religioni con l'allora cardinale Ratzinger, dibattito promosso dalla Fondazione Gaetano Rebecchini e tenuto a Roma nello splendido Palazzo Colonna.
Il 30 novembre 2007 sia lui che Schiavone hanno presentato e commentato in Vaticano, alla presenza del cardinale segretario di stato Tarcisio Bertone, gli atti di un seminario del Pontificio Comitato di Scienze Storiche su “Storia del cristianesimo: bilanci e questioni aperte”.
I loro commenti alla "Spe salvi" svolgono argomentazioni diverse. Ma convergono su un punto. Entrambi danno molto rilievo a quel passaggio dell'enciclica in cui Benedetto XVI auspica “un’autocritica dell’età moderna” e insieme “un’autocritica del cristianesimo moderno”.
Sia l'uno che l'altro, però, ritengono che questa auspicata autocritica del cristianesimo sia lontana dall'essere compiuta.
Per Galli della Loggia ad essa "non viene dato alcun seguito", né nell'enciclica nè in altri documenti papali.
Per Schiavone la Chiesa si chiude troppo sulla difensiva. Continua a pensare a “un uomo che abbia da esser protetto da se stesso con il richiamo a presunti vincoli naturali”.
Si può ipotizzare che Benedetto XVI abbia letto con interesse queste critiche così fuori dal comune sul "giornale del papa". E non è escluso che prima o poi non vi risponda.
Ecco qui di seguito i due commenti alla "Spe salvi" apparsi su "L'Osservatore Romano", il primo il 28 marzo 2008, il secondo il 28 giugno 2008:
1. Una nuova alleanza tra Chiesa e modernità laica di Aldo Schiavone
La "Spe salvi" è un testo complesso e coinvolgente, scritto con grande maestria intrecciando una molteplicità di temi, da motivi più propriamente pastorali a riflessioni di ordine dottrinario e dogmatico. E insieme, è anche quel che si direbbe un saggio storico d'interpretazione, dedicato a misurarsi con nodi cruciali disposti su un arco temporale lunghissimo, dall'antichità romana al mondo contemporaneo.
Il filo conduttore, annunciato come di consueto già nelle parole dell'incipit – una bellissima citazione paolina – è un serrato discorso sulla speranza, giustamente considerata come la connessione per eccellenza fra due piani fondamentali: l'orizzonte della storia e quello dell'escatologia.
È una scelta forte, che tocca senza dubbio un nervo scoperto dei nostri giorni: quel che altrove (nel libro "Storia e destino") ho creduto di definire come la perdita del futuro, l'incapacità di attirare "dentro il presente il futuro", in modo che "le cose future si riversino in quelle presenti, e le presenti in quelle future", come adesso scrive suggestivamente il pontefice.
Per lui, e non potrebbe essere altrimenti, l'aspetto escatologico della speranza – della speranza cristiana – si lega alla certezza "che il cielo non è vuoto", che "al di sopra di tutto c'è una volontà personale, c'è uno Spirito che in Gesù si è rivelato come Amore". È il punto di giunzione – insieme limpidissimo e tormentato – fra speranza e fede: e opportunamente Benedetto ricorda in proposito l'elaborazione teologica medievale che arriva a definire appunto la fede come "sostanza delle cose sperate".
Ma l'uomo è anche storia, e la domanda capitale: "che cosa possiamo sperare?" – un dubbio che gli eventi del nostro tempo rendono insieme decisivo e carico d'angoscia – richiede perciò anche una risposta sul terreno della storicità, e non solo su quello dell'escatologia.
Ed è a questo punto che l'interrogarsi di Benedetto sulla speranza – sulla sua forma storica, potremmo dire – si trasforma, inevitabilmente e con grande forza, in un discorso sulla modernità: sulla sua ragione, sulle sue conquiste e sui suoi fallimenti.
La prospettiva è fortemente sintetica, ma mai superficiale, e l'uso che viene proposto in queste pagine di Kant, di Adorno, persino di Marx, è veloce e a volte discutibile, ma sempre pertinente. Seguirne tutti i passaggi sarebbe però ora troppo lungo e complesso, e mi guarderò dal farlo. Cercherò invece di tenermi stretto a quel che mi sembra il dispositivo essenziale e più potente del ragionamento del pontefice. Che si trova a mio avviso nell'affermazione che è oggi indispensabile "un'autocritica dell'età moderna" nella quale possa confluire anche "un'autocritica del cristianesimo moderno".
Si tratta di una posizione di assoluto rilievo, che condivido pienamente. Sono del tutto convinto anch'io che i tempi – se sappiamo davvero interpretarli – siano maturi per una nuova alleanza fra cristianesimo e modernità laica, sulla base di una parallela revisione critica della loro storia, e che essa possa contribuire a quell'autentica rigenerazione dell'umano senza di cui il nostro futuro si riempie di ombre.
Ma come lavorare a questo straordinario obiettivo comune? Benedetto accenna sobriamente ma con efficacia ai principali fallimenti ideologici e politici della modernità, che retrospettivamente ci appaiono in tutta la loro portata: l'idea troppo lineare, ingenua e materialistica di "progresso"; l'idea datata e inadeguata del comunismo come esito ultimo della rivoluzione francese, e come puro capovolgimento della base economica delle nostre società. Su tutto ciò non ci può essere ancora che concordanza. Ma la modernità non è solo questo: e Benedetto lo sa benissimo. Egli ne individua infatti correttamente il cuore nella capacità di instaurare un nuovo e rivoluzionario rapporto fra scienza e prassi – cioè fra conoscenza e tecnica trasformatrice.
Ora, il punto è che questo intreccio fra scienza e tecnica – la potenza trasformatrice della tecnica – non sta solo andando "verso una padronanza sempre più grande della natura"; ma sta facendo molto, molto di più.
Ci sta spingendo – dopo milioni di anni di storia della specie – verso lo sconvolgente punto di fuga oltre il quale la separazione, che finora ci ha dominati, fra storia della vita (nel senso delle nostre basi biologiche) e storia dell'intelligenza (umana) non avrà più ragione di essere. Un punto in cui le basi naturali della nostra esistenza smetteranno di essere un presupposto immodificabile dell'agire umano, e diventeranno un risultato storicamente determinato della nostra ragione, della nostra etica e della nostra cultura. Questo ricongiungimento – il passaggio, almeno potenziale, nel controllo evolutivo della specie dalla natura alla mente – non è lontano: il suo annuncio è già nelle cronache quotidiane.
E allora io mi domando e mi permetto di chiedere sommessamente: ma la forma storica della nostra speranza non dipende anche da come si schiera la Chiesa di fronte all'annuncio di questa novità radicale? È essa davvero pronta ad accoglierla? O forse l'"autocritica" di cui parla il pontefice deve innanzitutto riguardare proprio questo aspetto?
È vero, Benedetto ha ragione: la scienza – nessuna scienza – potrà mai "redimere" l'uomo: c'è bisogno di etica e di valori. Ma può modificare – e lo sta già facendo – in modo drastico la trama esistenziale dell'umano, il suo vissuto più profondo, le prospettive primarie di vita e di morte.
Insomma, il rapporto storico tra modernità e speranza non può evitare di sciogliere questo nodo. Il superamento definitivo e completo dei confini biologici assegnatici finora dal nostro cammino evolutivo può essere integrato all'interno di una forma storica di speranza compatibile con la fede e con l'escatologia? Nella "somiglianza" dell'uomo con Dio – anch'essa richiamata dal pontefice – nell'infinito cui questo abissale paragone allude, può essere incluso il progetto di un umano finalmente libero dai propri vincoli naturali, e completamente padrone del suo destino "storico"?
In altri termini, quel che viene qui in questione è l'irrompere e l'installarsi dell'infinito entro la storicità del finito. Anche questo, come Benedetto sa bene, è un tema cruciale della modernità, ben riflesso in alcuni grandi luoghi della filosofia classica tedesca. E credo proprio che il significato della transizione rivoluzionaria che stiamo attraversando, che chiama la Chiesa ad assumersi responsabilità enormi, sia tutto qui: aver reso effettivo, diretto e determinante innanzi agli occhi di tutti quello che la modernità aveva solo lasciato intravedere ai suoi filosofi. Che cioè l'infinito come assenza di confini materiali alla possibilità del fare, come caduta di ogni determinazione obbligata da una barriera esterna a noi ("omnis determinatio est negatio") sta entrando stabilmente nel mondo degli uomini, e sempre di più dovremo imparare ad averlo accanto, e, se posso dir così, a padroneggiarlo. Con l'aiuto di Dio, starei per dire: ma non oso e mi fermo.
Certo, io non ho alcuna autorità per sostenerlo, ma non riesco a sottrarmi all'idea che un Dio d'amore – come quello che Benedetto ci invita a pensare – non abbia bisogno di un uomo in scacco, di un uomo prigioniero della sua materialità biologica, di un uomo che abbia da esser protetto da se stesso con il richiamo a presunti vincoli "naturali", ma abbia scelto per amore di avere accanto un uomo totalmente libero, e totalmente libero, a sua volta, di sceglierLo.
Non mi nascondo che mettersi in questo vento – arrivare cioè a immaginare un nuovo rapporto fra storia ed escatologia, dove l'infinito non stia solo dal lato della seconda, perché di questo in fondo si tratta – imporrebbe grandi cambiamenti nel magistero e nella dislocazione mondana della Chiesa. Ma davvero, se non ora, quando? Le energie vi sono. E c'è la speranza. Forse, occorre solo un po' più di profezia, senza rinunciare alla dottrina.
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2. Quel di più che la storia umana non riesce a colmare
di Ernesto Galli della Loggia
Il passato e il presente; l'Occidente e la sua tradizione culturale da un lato, la modernità dall'altro: è tra questi due poli che sembra muoversi la riflessione che Benedetto XVI ha fin qui consegnato ai suoi interventi di maggior impegno, in particolare a entrambe le sue encicliche. Una riflessione il cui contenuto vero non è poi altro che il destino del cristianesimo.
Solo se l'Occidente, infatti, l'antico teatro geografico e storico che primo accolse il messaggio proveniente da Gerusalemme per farne anima e forma della sua cultura, intenderà tutta la profondità del rapporto con le proprie origini cristiane, solo a questa condizione – sembra pensare il papa – la religione della Croce potrà reggere la sfida lanciatale dai tempi nuovi, continuando a tenere il suo animo fermo all'antica promessa del non praevalebunt.
Da qui la spinta a ripercorrere in qualche modo l'intero arco della vicenda cristiana, a ripercorrere le molte vie attraverso cui essa non solo ha plasmato l'Occidente dopo essersi mischiata alle sue radici classiche, ma, contrariamente a una convinzione diffusa, ha anche preparato e perfino favorito l'avvento della modernità.
L'obiettivo ambiziosissimo è quello niente di meno, come si legge, di "un'autocritica dell'età moderna in dialogo col cristianesimo" nella quale peraltro "confluisca anche un'autocritica del cristianesimo moderno", cioè – se capisco bene – di una sorta di "nuovo inizio" segnato da quello che appare il vero obiettivo di questo pontificato: la riconciliazione tra religione e modernità.
Nel procedere in questa direzione mi sembra che il papa operi una svolta decisiva non tanto rispetto al Concilio Vaticano II in quanto tale, ma certamente rispetto alla "vulgata" che ne è circolata largamente negli anni seguenti.
Benedetto XVI, infatti, sembra porre al centro dell'attenzione – si badi bene: all'attenzione non politica, ma teologica – della Chiesa non più genericamente il "mondo", bensì l'Occidente, il problema dell'Occidente. Di conserva egli individua con sicurezza i termini teoricamente cruciali per il discorso cristiano sulla modernità non più, come aveva fatto il Vaticano II, nella "giustizia", nella "pace" e nell'autodeterminazione individuale e collettiva, ma nella "ragione" e nella "scienza" (la seconda, in specie, sostanzialmente assente nella tematizzazione conciliare).
Tutto ciò è ben visibile nell'ultima enciclica del papa. Se con la "Deus caritas est" Joseph Ratzinger aveva esplorato alcuni dei mutamenti rivoluzionari introdotti dal messaggio evangelico nel mondo dell'"intimità morale", in particolare nei rapporti con l'altro, tra quei due "altri" per antonomasia che sono l'uomo e la donna, con la "Spe salvi" egli concentra la propria attenzione su un aspetto altrettanto decisivo di quella che Benedetto Croce chiamò la "rivoluzione cristiana" che è all'origine del mondo moderno: vale a dire il rapporto assolutamente nuovo rispetto alla dimensione del futuro che quella rivoluzione significò per le culture in cui ebbe modo di affermarsi.
Con ciò l'analisi di Benedetto XVI prende il taglio, che in questa enciclica è propriamente suo (ma che già si affacciava in quella precedente), di una declinazione della prospettiva teologica che tende continuamente a configurarsi come filosofia della storia. Anzi meglio, per chi come me guarda queste cose dall'esterno: a porre la religione cristiana come l'origine prima della storia quale dimensione tipica del pensiero occidentale.
Se infatti – come l'enciclica non si stanca di sottolineare facendone il proprio asse – la fede cristiana è per l'essenza speranza, cioè fede in un futuro ("i cristiani hanno un futuro"; "la loro vita non finisce nel vuoto"); se essa – come scrive icasticamente il papa – ha "attirato dentro il presente il futuro", e lo ha fatto – egli aggiunge – avendo in mente il futuro non di questo o quel singolo ma dell'intera comunità dei credenti, ebbene, come non vedere proprio in ciò, allora, la premessa per quella più generale tensione al domani e all'oltre che ha segnato così intimamente tutta quanta la nostra civiltà?
Ma per l'appunto in questa tensione sta l'origine dell'idea che l'oggi prepara il domani, che il senso di quanto accade oggi è in questa preparazione, e quindi che la vicenda umana nel suo complesso, possedendo una direzione, un fine, possiede anche un senso, un significato.
Sta insomma qui l'origine, per dirla con una sola parola, dell'idea di storia. E per conseguenza della frattura di cui si sostanzia la modernità: dal momento che è proprio nell'ambito della "speranza", del "futuro", del significato della storia – lungo un percorso che dall'attesa del Paradiso ha condotto all'attesa del progresso – che si è sviluppato forse il principale momento di laicizzazione della mentalità collettiva moderna.
Lo scritto di papa Ratzinger – mai come in questo caso assolutamente suo: a un certo punto si legge un "io sono convinto" del tutto inusuale per il testo di un'enciclica – è per una buona parte la ricognizione nel campo della storia delle idee delle cause che hanno portato all'espulsione della speranza cristiana dal mondo a opera specialmente del binomio scienza-libertà. Per ribadire naturalmente che però né la scienza, né le sempre parziali realizzazioni politiche della libertà saranno mai in grado di soddisfare il bisogno di giustizia e di amore che si agita in ogni essere umano e che è invece la sostanza della speranza cristiana, garantita da Dio ai credenti: "solo Dio può creare la giustizia", così come solo l'amore può bilanciare la cupa "sofferenza dei secoli".
Anche chi è privo della fede, come me, non fa fatica a convenire sull'esistenza di questo irreparabile "di più" che la storia umana priva di Dio non riuscirà mai a colmare.
Ma questo accordo – che non ha né vuole avere nulla di formale, e del resto dovrebbe essere nella sostanza quasi scontato – non può mettere a tacere un'osservazione critica che investe l'insieme dell'analisi dell'enciclica, pure così convincente in molti passaggi: perché la storia dell'Occidente cristiano è andata così? Perché essa sembra concludersi con uno scacco della religione che pure l'ha così intimamente forgiata?
La risposta sta forse in quella che a un certo punto – l'ho già ricordato – l'enciclica stessa chiama la necessaria "autocritica del cristianesimo moderno": indicazione alla quale però non viene dato alcun seguito.
Mi domando se sia lecito aspettarsi da Benedetto XVI ciò che avremmo senz'altro chiesto al professor Ratzinger. Non lo so. Ma sono certo che se mai in un domani il pontefice volesse far sentire la sua voce per rispondere a questo interrogativo, quella voce susciterebbe forse un'eco non destinata a spegnersi nel tempo.
Uccisa in nome di Satana, l'angelo caduto - Sarà beata suor Maria Laura Mainetti
La beatificazione di suor Maria Laura, la religiosa di Chiavenna uccisa nella notte fra il 6 e il 7 giugno 2000 da tre ragazze minorenni è stata accolta appunto come “causa di martirio” da parte della Congregazione delle Cause dei Santi. Questo significa che non dovranno essere portate prove di miracoli compiuti.
Suor Maria Laura è stata uccisa, viene specificato nel documento della Congregazione, «in odio alla fede». A questo punto la causa prosegue con la redazione della Positio super martyrio, cioè la raccolta di tutta la documentazione relativa al processo in un unico volume. Il “Decreto di validità giuridica” è stato emesso in data 11 gennaio 2008.
«Questo è un primo ma fondamentale atto», afferma monsignor Diego Coletti, vescovo di Como, «attraverso il quale la Santa Sede riconosce la validità del processo diocesano e apre, così, una seconda fase dell’istruttoria che si orienta alla beatificazione di suor Maria Laura, fase che consiste nella stesura di una sorta di sintesi di tutta la documentazione prodotta nel processo diocesano, volta a dimostrare, sullo sfondo della vita di suor Maria Laura, ricca di virtù cristiane e religiose, la realtà di un vero martirio».
Rito satanico
In una sconvolgente intervista, pubblicata recentemente dal settimanale Panorama, Veronica, una delle tre assassine di suor Maria Laura, tenta di descrivere quei momenti terribili in cui si sono abbattute, con furia demoniaca, i colpi sul corpo della suora, mentre lei, sanguinante e agonizzante, si piegava in ginocchio e pregava, perdonando le sue aguzzine.
Veronica spiega che lei, ad esempio, non ricorda questo episodio, ma «l’hanno raccontato le mie amiche». Alla domanda su quale sensazione ha provato ad uccidere, Veronica ha risposto: «Paura allo stato puro. Non ho mai avuto tanta paura come quella sera lì. Ho sentito solo terrore. Una sensazione bruttissima. Prima di farlo pensavo che uccidere fosse come tutte le altre cose, una sciocchezza. Ma non è così».
Una vita per gli altri
Ecco, uccidere per provare un’emozione, e poi sprofondare nel terrore, nel buio, nelle tenebre. E tentare di risalire, da tutto questo. Per Veronica sembra che sia cominciato proprio un cammino a ritroso, per ritrovare se stessa. E, ancora una volta, nel nome di suor Maria Laura.
Che, beninteso, per moltissime persone, in tutta Italia, è già amata, pregata, venerata come una santa. A Chiavenna, nel luogo in cui è caduta sotto le coltellate delle tre giovani assassine, si assiste ad un continuo, commosso pellegrinaggio. Nel punto esatto dove si è inginocchiata e ha pregato c’è adesso una croce. E proprio qui arrivano fedeli da tutta Italia e anche dall’estero.
Suor Maria Laura Mainetti era nata in una famiglia molto povera, a Colico, sul lago di Como. Decima figlia, rimase orfana di madre dopo la nascita. A Chiavenna ha svolto la maggior parte della sua attività e della sua vocazione religiosa con le Figlie della Croce.
Quando è stata uccisa, era madre superiora e dirigeva un convitto di studenti. Per mantenerne la memoria e per continuare il suo apostolato sono nate una fondazione, l’associazione Immacolata e la cooperativa sociale che gestisce una scuola per l’infanzia.
Il “battesimo di sangue”
La venerazione dei martiri (martirio di Policarpo verso il 160) coincide, in un certo senso, con l’inizio del culto dei santi in ambito cristiano; si vedono in essi degli autentici discepoli e discepole di Gesù per la loro sequela nella sofferenza e nel portare la croce.
Dal punto di vista teologico, nel martirio l’accettazione della morte per la testimonianza a Cristo si manifesta inequivocabilmente come atto della fede cristiana e dell’amore verso Dio (non è evento accettato passivamente).
Tramite il martirio la santità della Chiesa acquista, per grazia di Dio, una dimensione sperimentabile e, sempre grazie ad essa, la sua credibilità “verso l’esterno”.
Da Clemente d’Alessandria (215) in poi, al martirio è attribuita la stessa forza giustificante e remissoria dei peccati attribuita al battesimo, ossia il concetto di martirio come “battesimo di sangue”.
Nella Chiesa Cattolica, oggi, per procedere alla beatificazione si richiede un miracolo regolarmente approvato e, per la canonizzazione, un secondo miracolo avvenuto dopo la beatificazione e regolarmente approvato.
Per la beatificazione e la canonizzazione dei martiri non si richiedono miracoli, purché il martirio sia avvenuto «in odio alla fede o alla virtù richiesta dalla fede» e il beatificando o canonizzando abbia accettato, almeno virtualmente, la morte inflittagli per questo motivo. Tutto ciò è stato riconosciuto nella morte di suor Maria Laura che, dunque, si avvia a diventare martire e beata.
Ma che significato ha, per la Chiesa cattolica il martirio? Dal termine greco “testimonianza”, il martirio è inteso come la morte per amore della fede cristiana o della pratica della vita cristiana.
Questa morte è vista, dal II secolo d.C. in poi, come “testimonianza” da distinguersi rispetto al comportamento dei “confessori”, i quali si distinsero per la perseveranza ma non vennero uccisi. Era la notte tra il 6 e il 7 giugno del 2000 quando suor Maria Laura Mainetti viene uccisa a Chiavenna (in provincia di Sondrio) da Ambra G. e Veronica P., di 17 anni, e Milena D.G., di 16: con ben 19 coltellate straziano il corpo della religiosa, che prima viene fatta inginocchiare e poi è tramortita con un cubo di porfido, in una sorta di macabro rituale, come poi è emerso con chiarezza durante l’inchiesta.
Le tre adolescenti le hanno teso una trappola: per poter attirare la suora in un luogo isolato, dove compiere indisturbate la loro cerimonia satanista e di sangue, le hanno chiesto di soccorrere una ragazza, vittima di uno stupro, rimasta incinta.
Una terribile menzogna alla quale la religiosa, sempre pronta a dare una mano a chi ne aveva bisogno, ha creduto, correndo per aiutare un’infelice e abbracciando, invece, la croce del suo martirio.
(Radici Cristiane n. 36 - Luglio 2008) - di Caterina Maniaci
Trattato di Lisbona: bocciato per burocrazia e politiche antivita
Parla il Presidente dell’Associazione per la Fondazione Europa
di Antonio Gaspari
BRUXELLES, lunedì, 7 luglio 2008 (ZENIT.org).- Dopo il voto negativo del popolo irlandese al Trattato di Lisbona, che fa seguito al ‘no’ olandese e francese, la politica di unificazione europea necessita di una seria riflessione.
Per capire quali sono gli argomenti che non convincono i popoli ad operare per una unificazione dell’Europa, ZENIT ha intervistato Giorgio Salina, Presidente dell’Associazione per la Fondazione Europa (AFE), e di Paneuropa Italia.
“Il Trattato di Lisbona è un testo complicatissimo, 358 articoli con frequenti richiami ad articoli di Trattati precedenti, 37 protocolli aggiuntivi, 2 Allegati, 65 dichiarazioni di Stati membri, e 2 tavole di corrispondenza”, ha spiegato Salina.
“Ha richiesto mesi di lavoro – ha precisato – per arrivare ad un testo tradotto nelle 22 lingue ufficiali dell’UE, e pubblicato sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea con il titolo ‘Versione consolidata del Trattato sull’UE e del Trattato sul funzionamento dell’UE'”.
Secondo il presidente dell’AFE, si tratta di “meccanismi tali da ricevere una bocciatura tutte le volte che il processo di ratifica è stato sottoposto al giudizio dei popoli. E questo non si può ignorarlo”.
Salina ha indicato almeno tre tra i dannosi meccanismi che favoriscono la bocciatura, e cioè: “Il caparbio miope rifiuto nel non voler riconoscere l’unica vera matrice unificante i popoli europei: la cultura giudaico cristiana innestatasi sulla quella greco romana. Cultura tuttora condivisa da larghi strati delle popolazioni”.
“Rifiutando questa cultura che ha consentito di far riemergere ogni volta, le ragioni dell’unità, restano gli interminabili sanguinosi conflitti”, ha sostenuto il Presidente dell’AFE.
“Il tentativo di legiferare surrettiziamente attraverso l’accumularsi delle sentenze delle Corti europee, vanificando le competenze riconosciute all’UE e quelle di spettanza dei singoli Stati, accreditando posizioni inaccettabili” è per Salina il secondo dei dannosi meccanismi che irritano i popoli.
E per finire, “La traboccante invadenza della burocrazia di Bruxelles. Sono stati i Burocrati incaricati dei negoziati dell’adesione a porre come condizione che Irlanda e Polonia modificassero le rispettive legislazioni sul controllo delle nascite, e sul diritto matrimoniale, creando guasti ancor oggi non del tutto sanati”.
“È evidente – ha sottolineato Salina –, che per tutti questi tre meccanismi ad essere particolarmente a rischio sono i criteri che si rifanno a posizioni antropologiche fondamentali: vita, famiglia, educazione, obiezione di coscienza”.
“Posizioni – ha spiegato – che hanno a che fare direttamente con quella cultura ‘fattor comune’ europeo, che si vuole discriminare”.
Per il Presidente dell’AFE il cavallo di Troia di questa strategia è un documento ambiguo, e cioè la “Carta dei diritti fondamentali”, approvata dal Parlamento Europeo il 14 novembre 2000, una inutile aggiunta alla “Dichiarazione dei diritti umani” dell’ONU firmata il 10 dicembre 1948.
A questo proposito, Salina ha spiegato che, “come ha argutamente osservato di recente l’on. Mario Mauro, Vice Presidente del Parlamento Europeo, ogni volta che si rimette mano a documenti che trattano dei diritti umani non è per aggiungerne, bensì spesso per toglierne qualcuno”.
Circa la posizione dell’Italia, il Presidente dell’AFE ha invitato i politici italiani, cattolici e non a “dare un segnale chiaro e forte circa la volontà degli italiani di partecipare alla costruzione dell‘Europa, ma contemporaneamente un segnale altrettanto chiaro e forte circa il rifiuto degli italiani delle discriminazioni di culture condivise, di un metodo surrettizio di legiferare, e contro le indebite ingerenze della burocrazia dell’Unione”.
Salina ha ricordato che “se si procedesse con i referendum i no al Trattato di Lisbona non sarebbero solo quelli francesi, olandesi e irlandesi”; per questo motivo “l’Unione deve progredire ma tornando ad essere il luogo dove la diversità della culture, tutte le culture, è stimata un ricchezza irrinunciabile, abbandonando la pretesa di dettare i valori etici ai quali uniformarsi”.
Il Presidente dell’AFE ha concluso affermando che “subordinatamente ma non secondariamente, non occorre tutta la farraginosa impalcatura costruita che va comunque ridimensionata. Altro che i faraonici programmi di cui si sente riportando i Funzionari al rispetto degli indirizzi politici”.
Storie di conversione: Clive Staples Lewis - Gli incontri pericolosi di un giovane ateo
di Andrea Monda
"Tutto solo in quella stanza di Magdalen, avvertivo su di me, una notte dopo l'altra, ogniqualvolta la mia mente si distraeva anche un attimo dal lavoro, la ferma, inesorabile stretta di Colui che mi rifiutavo ostinatamente di conoscere. Ciò che avevo più temuto si era alla fine impadronito di me. Durante il trimestre della trinità del 1929 mi arresi, ammisi che Dio era Dio e mi inginocchiai per pregare: fui forse, quella sera, il convertito più disperato e riluttante d'Inghilterra".
Chi parla è Clive Staples Lewis, per gli amici semplicemente Jack, un professore di filologia di Oxford, di famiglia anglo-irlandese di Belfast, nato trentuno anni prima il quale, dopo un'infanzia "blandamente cristiana", si era buttato anima e corpo in un ateismo razionalistico e idealistico professato e vissuto.
L'intelligenza del giovane Jack è sottile, la sua curiosità sconfinata, l'acume fulminante, la forza dialettica eccezionale, ma qualcos'altro entra in ballo a sconquassare la sua apparentemente compatta fede nell'inesistenza di Dio, perché nella vita c'è sempre qualcos'altro, qualcosa di imprevisto, inavvertito, sorprendente.
Sorpreso dalla Gioia è forse il più bel titolo che si possa dare a un libro che racconti la storia di una conversione ed è quello che Lewis ha scelto per la sua autobiografia, scritta a cinquantasette anni ma relativa soltanto ai suoi primi trent'anni, perché, scrive nella prefazione: "Non ho mai letto un'autobiografia in cui la parte dedicata ai primi anni non fosse di gran lunga la più interessante".
Nel 1955 la passione di Lewis per i primi anni della vita degli uomini era una scelta naturale, quasi "obbligata": proprio in quegli anni stava finendo di pubblicare i sette episodi delle Cronache di Narnia, l'opera letteraria che, insieme alle Lettere di Berlicche, lo consacrerà come uno degli autori più letti e conosciuti in tutto il mondo (oscurando peraltro le sue pregevoli ricerche filologiche dedicate alla letteratura anglosassone medioevale).
Anche questi suoi celebri romanzi di pura fantasia hanno al centro il tema della giovinezza e della conversione. In una pagina di Mere Christianity Lewis parla di un ragazzo "emblematico", che chiama Dick, e scrive alcune parole che potrebbero essere prese come il riassunto della saga di Narnia: "Per quanto ne sappiamo, a Dio non costa nulla creare cose belle; ma convertire delle volontà ribelli gli costa la crocifissione (...) fino a quando Dick non si volgerà a Dio, penserà che il suo buon carattere sia una cosa sua, e fino che lo penserà, esso non gli apparterrà. Solo quando Dick capirà che il buon carattere non è una cosa sua ma è un dono di Dio, e solo quando lo offrirà di ritorno a Dio, esso comincerà ad essere veramente suo, perché allora Dick comincerà a partecipare alla sua propria creazione. Le sole cose che possiamo tenere sono quelle che diamo liberamente a Dio; quello che cerchiamo di tenere per noi è proprio ciò che sicuramente perderemo". Dick non è solo Edmund, il ragazzino per cui il leone Aslan si sacrifica lasciandosi uccidere nel secondo episodio di Narnia; Dick è, ovviamente, Jack.
Per dirla con le parole di Bonhoeffer la storia della conversione di Lewis raccontata in Sorpreso dalla Gioia è una storia di resistenza e resa. Da questo punto di vista il libro può essere visto come un diario in cui lo scrittore appunta i movimenti del suo animo scosso, avvinto e poi finalmente vinto dall'assalto di Dio, un diario della Gioia (è questo il "nome" di Dio secondo Lewis) a cui farà seguito sei anni dopo il brevissimo e intensissimo Diario di un dolore scritto a seguito della morte della moglie (che, guarda caso, si chiama Joy).
Scrive Lewis a metà della sua autobiografia: "Agnostici di buona volontà parleranno allegramente della "ricerca di Dio da parte dell'uomo"", ma Lewis non è (più) un agnostico di buona volontà, e non parla più "allegramente" perché ha sperimentato "l'inesorabile stretta" di Dio, e quanto può essere terribile la sua bellezza e la sua gioia. Sono queste due le polarità su cui si gioca l'intera esistenza di Jack, la Bellezza e il suo frutto, la Gioia, "... cioè un desiderio inappagato che è esso stesso più desiderabile di qualsiasi appagamento. Io lo chiamo gioia, che è qui un termine tecnico e va nettamente distinto dalla felicità così come dal piacere. La gioia (nel senso che io le attribuisco) ha in realtà in comune con essi una caratteristica, e una sola; il fatto che chiunque l'abbia provata vorrà provarla nuovamente. A parte questo, e solo in base alla sua natura, potremmo anche considerarla una infelicità o un dolore di genere particolare. Ma di un genere che desideriamo. Dubito che chiunque l'abbia sperimentata la scambierebbe mai, ammesso che fosse in suo potere, con tutti i piaceri del mondo. Ma, mentre il piacere lo è spesso, la gioia non è mai in nostro potere".
Alla luce di questa idea di gioia, così commista al dolore, si intuisce la profondità dell'immagine di Aslan, il divino leone protagonista delle Cronache di Narnia, una delle più sorprendenti figure cristologiche della letteratura novecentesca. Aslan, figura a un tempo del Dio creatore e del Cristo redentore che si sacrifica per amore, è un leone, buono e maestoso, dolce e terribile, perché per Lewis Dio è un leone che si mette alla ricerca dell'uomo, che lo bracca e lo abbraccia. "In realtà, un giovane ateo non ha modo di proteggere la propria fede come si deve" confessa in Sorpreso dalla Gioia, "I pericoli lo assediano da ogni parte".
Un permanente stato d'assedio, ecco cos'è la vita per lo scrittore inglese, un assalto che paradossalmente esalta l'umiltà di Dio che, come il padre del figliol prodigo va alla ricerca di tutti, anche di colui che cerca di sfuggire al suo abbraccio: "Allora non mi avvidi di quello che oggi è così chiaro e lampante: l'umiltà con cui Dio è pronto ad accogliere un convertito anche a queste condizioni. Per lo meno, il figliol prodigo era tornato a casa coi suoi stessi piedi. Ma chi potrà mai adorare adeguatamente quell'amore che schiude i cancelli del cielo a un prodigo che recalcitra e si dibatte, e ruota intorno gli occhi risentito in cerca di scampo? (...) La durezza di Dio è più mite della dolcezza umana, e le Sue costrizioni sono la nostra liberazione".
Un luogo pericoloso è il mondo, soprattutto per chi voglia mantenere incorrotta la sua incredulità e voglia impedire a Dio questo processo di liberazione. E Lewis li enumera tutti questi pericoli che hanno attentato e poi minato alle radici il suo ateismo: la bellezza della natura e dell'arte, il dono della gioia che la vita ci regala in maniera sempre improvvisa e imprevista, e poi l'incontro con gli altri uomini, quelli reali, conosciuti fisicamente e quelli incontrati attraverso la mediazione della lettura dei libri.
Tra i tanti di questi "incontri pericolosi", vale la pena citarne tre che giocheranno un ruolo determinante nel cammino di conversione dello scrittore inglese: Chesterton, MacDonald e Tolkien. "Nel leggere Chesterton, come nel leggere MacDonald, non sapevo a cosa andavo incontro" scrive in Sorpreso dalla Gioia, "Un giovanotto che desidera rimanere un perfetto ateo non può andare troppo per il sottile nelle sue letture. Ci sono trabocchetti sparsi dappertutto: "Bibbie lasciate aperte, milioni di sorprese" come dice Herbert, "reti sottili e stratagemmi". Dio è, se così possiamo dire, pochissimo scrupoloso".
Saranno proprio i libri di Chesterton (in particolare L'uomo eterno) e quelli di MacDonald (in particolare Le fate dell'ombra) che "prepareranno" il giovane Jack alla "capitolazione" che però avverrà solo con il colpo finale assestato dall'incontro con Tolkien. I due si conosceranno alla fine degli anni Venti a Oxford, entrambi innamorati delle antiche saghe e leggende, e tra loro nascerà un'amicizia di oltre quaranta anni da cui poi scaturirà la nascita di quei romanzi che oggi tutto il mondo conosce, Narnia e Il Signore degli Anelli.
Se nel 1929 Jack si era inginocchiato e aveva pregato Dio in modo disperato e riluttante, l'amicizia di Tolkien lo portò all'incontro con Cristo. Il 19 settembre del 1931 Jack e Tollers (com'era chiamato dagli amici più intimi) insieme al comune amico Hugo Dyson, dopo cena, fanno la solita passeggiata sul parco del Magdalen College e incominciano a parlare di antichi miti e della Verità "nascosta" in quei racconti.
Finiranno a parlare oltre le tre del mattino e Lewis qualche giorno più tardi scriverà al suo vecchio amico Arthur Greeves: "Da poco sono passato dal credere in Dio al credere in maniera definitiva in Cristo, nel cristianesimo. Cercherò di spiegartelo un'altra volta. La mia lunga chiacchierata notturna con Dyson e Tolkien ha avuto una grossa parte in questo". Come Nicodemo anche l'intellettuale Lewis ha conosciuto la sua notte piena di luce e la sua vita è radicalmente cambiata. Da quel momento diventerà strenuo difensore della fede riconquistata e raffinato divulgatore della verità del cristianesimo: i suoi saggi sulla fede, sul dolore e sull'amore sono ancora oggi tra le opere più valide dell'apologetica cristiana del Novecento.
In questo senso la sua parabola ricorda proprio quella di Chesterton; anche se Lewis non riuscì mai a fare formalmente il passo per entrare nella Chiesa cattolica (ma sostanzialmente lo fece, tanti sono i segnali di questo suo cripto-cattolicesimo, non ultimo la sua splendida corrispondenza epistolare con san Giovanni Calabria) la sua storia, come quella dell'inventore di Padre Brown, è quella di un cuore e di un'intelligenza che si arrendono di fronte alla Gioia che scaturisce dalla Buona Novella e che spazza via tutte le fantasie e le elucubrazioni del razionalismo umano (cosa diversa dalla ragione, meraviglioso dono di Dio).
Chesterton passò al cattolicesimo nel 1922, qualche anno prima di Lewis e poté quindi regalarci due affermazioni che Jack avrebbe potuto sottoscrivere pienamente: la prima nel saggio La Chiesa cattolica e la conversione in cui ribadisce che "Il marchio della fede non è la tradizione: è la conversione. È il miracolo per cui gli uomini scoprono la verità nonostante la tradizione, e spesso a costo di strappare tutte le radici umane (...) Può darsi che tra un secolo o due saranno diventati una tradizione lo spiritismo, il socialismo e la Christian Science. Ma il cattolicesimo non sarà mai una tradizione. Sarà sempre una cosa scomoda, nuova e pericolosa", la seconda in versi poetici, scritti proprio in occasione del passaggio alla fede cattolica: "I saggi hanno cento mappe che disegnano universi fitti come alberi, scuotono la ragione con mille setacci che accantonano la sabbia e lasciano filtrare l'oro: per me tutto ciò vale meno della polvere perché il mio nome è Lazzaro e sono vivo".
(©L'Osservatore Romano - 7 - 8 luglio 2008)
7 luglio 2008
La forza di Nietzsche - La teologia oggi deve misurarsi con lui e non può farlo rifugiandosi nella Bibbia o nel Magistero
Dal Foglio.it
Presso la Christian Marinotti Edizioni è uscito quest’anno un libro importante, ancorché breve e di lettura scorrevole: titolo “Nietzsche e il cristianesimo”, autore il grande filosofo tedesco Karl Jaspers (1883-1969), traduttore e curatore dell’edizione italiana Giuseppe Dolei. Nel 1937 Jaspers, in quanto marito di un’ebrea, era stato allontanato dall’università di Heidelberg dove insegnava da oltre vent’anni prima Psicologia e poi Filosofia, e l’anno dopo tenne una conferenza a Hannover sul tema, particolarmente caldo per quel momento storico, del rapporto tra Nietzsche e il cristianesimo. La tesi interpretativa di fondo è che “la lotta di Nietzsche contro il cristianesimo nasce dalla sua propria essenza cristiana”, una tesi che condivido per quanto attiene alla genesi della filosofia di Nietzsche, e che però ne fa, proprio per questo, il nemico per eccellenza, colui che si impegnò nella “maledizione del cristianesimo” con la volontà esplicita di distruggerlo, perché “non esistono ai nostri occhi avversari più radicali dei teologi” (“Crepuscolo degli idoli”) e “l’istinto teologico è la forma propriamente sotterranea e più estesa di falsità che esista sulla terra. Quel che un teologo avverte come vero, non può non essere falso” (“L’Anticristo. Maledizione del cristianesimo”).
Era da qualche tempo che volevo parlare di questo libro e ora mi si presenta l’occasione concreta a seguito di alcune reazioni al mio articolo di due settimane fa sul concetto di forza e i tre recenti eventi che ne sono stati ai miei occhi una palese epifania: 1) il ricevimento del presidente Bush da parte di Papa Benedetto XVI con onori mai tributati prima a nessun capo di stato; 2) la decisione della Cassazione sul caso Calipari-Lozano; 3) il voto del Senato sulla sospensione dei processi concernenti reati cosiddetti minori, sospensione di cui godrebbe anche l’attuale capo del governo. Partendo da questi tre eventi io mettevo a tema nel mio articolo la logica che muove la storia del mondo e cercavo di delineare quello che a mio avviso è l’atteggiamento spirituale più maturo di fronte a essa – anzi, non “di fronte”, ma “all’interno” di essa, perché già chi ritiene di poter collocare se stesso di fronte alla storia, su un punto di appoggio esterno rispetto a essa, sbaglia; certo, un punto esterno rispetto alla storia esiste, è quello dell’Eterno, ma lo si può attingere solo misticamente, uscendo dalla storia, per poi necessariamente abbandonarlo quando poi nella storia si ritorna per agire concretamente. Persino il Papa è costretto ad abbandonarlo. Anzi, a ben vedere il dramma spirituale del papato (non ci sono dubbi che il papato costituisca un lacerante dramma spirituale, basta aver studiato anche solo poche ore di storia della chiesa per essersene resi conto) sta tutto qui: nel dover parlare dell’Eterno, anzi nel voler rappresentare addirittura l’Eterno, in una struttura storicamente condizionata.
All’interno del mondo cattolico il mio articolo ha ricevuto delle critiche sia da sinistra sia da destra. Si ritiene il mio pensiero, come ha scritto da destra don Gianni Baget Bozzo, “pericoloso”. Pericoloso perché? Lui non lo spiega, ma io intuisco che la pericolosità del mio articolo dipenderebbe dal fatto che parla della forza come di una realtà da cui non è dato uscire ma con cui fare i conti, a volte anche giungendo alla sottomissione. Io sostengo infatti che il mondo è governato dalla forza, da ciò che i greci chiamavano “ananche” e i latini “necessitas”, una concezione che, per alcuni cattolici, mi collocherebbe addirittura al di fuori del cristianesimo.
E’ esattamente questo il punto che mi ha fatto subito pensare a Nietzsche, così come lo leggo io e come l’ho visto magistralmente interpretato da Jaspers: al fatto cioè che Nietzsche accusa il cristianesimo di essere una menzogna. Per Nietzsche il cristianesimo è una menzogna non perché annunci la risurrezione o parli di miracoli che non sarebbero mai avvenuti, ma perché parla del mondo, di questo mondo sotto gli occhi di tutti, in modo sbagliato. Loda un mondo che non c’è, e non loda invece il mondo che c’è. Per questo il cristianesimo è la menzogna radicale, responsabile del nichilismo.
Per Nietzsche, filologo di formazione, la prospettiva falsa con cui il cristianesimo guarda la realtà appare anzitutto dall’interpretazione cristiana della Bibbia ebraica, un furto più che un’interpretazione, perché fa dire alle scritture ebraiche cose che esse non hanno la minima intenzione di sostenere. Il fine dei cristiani infatti è “svellere il Vecchio Testamento dalle midolla degli ebrei” col risultato di una “inaudita farsa filologica” (“Aurora”, pag. 84). Il che costituisce un problema che ancora oggi l’esegesi e l’ermeneutica biblica sono ben lontane dall’aver risolto, e che si inquadra in quello più generale del rapporto tra cristianesimo ed ebraismo, se esso sia di relativa continuità (linea Carlo Maria Martini) oppure al contrario di relativa rottura (linea Joseph Ratzinger). Ma la falsità di cui Nietzsche accusa il cristianesimo riguarda ancor più l’incapacità di capire il mondo, come esso si muova e che cosa esso sia. Ora io chiedo a chi condivide la fede cristiana: di che mondo deve parlare la teologia? Di che mondo deve parlare il cristiano? Del mondo descritto dalla Bibbia e dalla dottrina, oppure di quello dell’esperienza quotidiana? Scriveva Karl Barth, il più influente teologo del Novecento, che “il pensiero, quando è autentico, è pensiero della vita, e perciò e in ciò è pensiero di Dio”. Il che significa che il pensiero, se non è pensiero della vita, non è neppure pensiero di Dio, non lo è perché è falso e solo la verità è pensiero di Dio. Chi intraprende il lavoro del pensare non si preoccupa se il suo pensiero possa in prima istanza risultare “pericoloso”, ma se sia o non sia “vero”, anche perché non c’è nulla di più pericoloso della falsità. La salvezza sta solo nella verità, nell’adeguazione alla terra ferma della realtà, e non c’è tensione etica più grande dell’amore per la verità e della volontà di aderire a essa, costi quel che costi. E’ questa la roccia su cui costruire la casa resistente dell’etica, mettendo in pratica il primo decisivo comandamento, troppo spesso dimenticato, cioè l’amore per Dio (l’assioma del pensiero teologico è: Dio = Verità, Verità = Dio; da cui discende che il culto spirituale più gradito a Dio è l’onestà intellettuale).
La teologia, e prima ancora il singolo cristiano, deve servire la verità chiamando le cose col proprio nome. E allora chiedo: lo sa o no Benedetto XVI (giustamente preoccupato per gli embrioni e i feti umani) di che cosa è responsabile Bush? Lo sa di quante vite adulte spezzate è responsabile, e quindi potenzialmente anche di quanti embrioni e quanti feti mai fatti venire alla luce, con una specie di gigantesca ecatombe di aborti preventivi? Benedetto XVI lo sa benissimo ovviamente, e non aspetta certo i moralisti di turno (me compreso) che glielo vadano a ricordare. Avrà digiunato anche lui, immagino, quel giorno che Giovanni Paolo II chiese di farlo a tutti i cattolici supplicando esplicitamente Dio (e implicitamente Bush) di evitare lo scoppio della guerra, anche se quel digiuno e quelle suppliche, come il più delle volte accade, non servirono a fermare il corso della storia. Quindi, sapendo tutto questo, Benedetto XVI prima va a visitare Bush alla Casa Bianca e non dice una sola parola sulla guerra in Iraq, poi lo riceve in Vaticano con il massimo degli onori. Che cosa devo pensare? Che ha dimenticato? Che approva? Che ne è complice magari, e lo incoraggia a iniziare la compagna d’Iran, dopo quella d’Iraq?
Io preferisco pensare quello che ho scritto due settimane fa, cioè che anche il Papa è sottoposto a una logica più grande della sua volontà, quella della forza. Di essa nelle tragedie greche e prima ancora nell’Iliade si ha la più profonda esposizione, con quel disincanto amorevole che è il segno dell’anima liberata dalle ristrette visioni e passioni personali, un’anima che sa guardare dall’alto greci e troiani allo stesso modo, con lo stesso affetto, un’anima per la quale non ci sono più amici e nemici, buoni e cattivi, ma solo poveri mortali, tutti allo stesso modo mossi, agìti, trapassati, da potenze più grandi di loro. Descrivere il mondo per quello che è. E il mondo è forza. Solo così del resto prende senso, almeno ai miei occhi, la croce. Il punto infatti è che il cristiano, sapendo che il mondo è “questo mondo”, questo mondo lo ama e lo serve, disposto a sopportare nel suo corpo e nella sua anima l’imperio della forza per immettervi se stesso come seme di bene. “Resistenza e resa”, ha scritto un uomo che all’imperio della forza, quando oltrepassò il segno e divenne brutalità, si oppose, e per questo venne impiccato nel lager di Flossenbürg, nudo, la mattina presto del 6 aprile 1945 dietro ordine personale di Adolf Hitler. Resistenza e resa: non solo resistenza alla forza, né solo resa, ma resistenza e resa insieme, cioè sinistra e destra, perché la sinistra è la traduzione politica dell’atteggiamento spirituale di chi si oppone alla forza, la destra la traduzione dell’atteggiamento di chi vi si conforma. Scriveva Dietrich Bonhoeffer dal carcere di Tegel il 21 febbraio 1944: “Mi sono chiesto molte volte dove passi il confine tra la necessaria resistenza e l’altrettanto necessaria resa davanti al destino”. Bonhoeffer diede la vita per resistere, e tuttavia vide anche la necessità della resa: “Dobbiamo affrontare decisamente il destino – trovo rilevante che questo concetto sia neutro – e sottometterci ad esso al momento opportuno”. Neutro è il destino (das Schicksal, in tedesco), come neutro è il Principio ordinatore alla guida della natura e della storia di cui parlo nei miei scritti, e di me è facile dire “non è più cristiano”, ma è difficile sostenerlo per Dietrich Bonhoeffer, o anche per Pavel Florenskij, matematico e teologo russo, che diceva le stesse cose prigioniero nel gulag staliniano dove venne fucilato l’8 dicembre 1937. Senza contare che Florenskij e Bonhoeffer non fanno che riecheggiare molti passi del Nuovo Testamento al riguardo, di capitale importanza per una vera teologia della storia.
Ancora Bonhoeffer: “Dio non ci incontra solo nel tu, ma si manifesta anche nell’esso, e il mio problema in sostanza è come in questo esso (destino) possiamo trovare il tu”. Queste parole manifestano la perfetta maturità intellettuale e spirituale di chi vede la forza e, “dentro” di essa (non “di fronte”, tanto meno “di sopra”), cerca di ritrovare la provvidenza personale, il tu. Di fronte a un pensiero così, Nietzsche non avrebbe accusato il cristianesimo di menzogna. La forza del pensiero di Bonhoeffer consiste esattamente nell’aver portato in teologia le ragioni di Nietzsche. Il dramma, e però anche il bello della vita, è che nessuno sa a priori se nella circostanza concreta occorre resistere o arrendersi: “I limiti tra resistenza e resa non si possono determinare sul piano dei principi”. Ne viene che escludere a priori uno dei due atteggiamenti, incasellandosi in modo preconcetto o nella perenne resistenza-opposizione al mondo propria della sinistra, oppure nella perenne resa-conformazione della destra, significa mortificare la libertà e spegnere la profezia.
Concludo su Nietzsche. Egli è di gran lunga il filosofo più letto, e i suoi libri si leggono perché danno il brivido di una scrittura potente, lontana dalle cerimonie accademiche e così vicina ai duelli della vita. Lo si legge a destra, e questo non è sorprendente essendo la destra la sua patria naturale; e lo si legge anche a sinistra, dove da alcuni tra i migliori intellettuali (Scalfari, Cacciari, Giorello) ho sentito parole di grande ammirazione per lui, spesso di convinta condivisione.
Nietzsche è il padre spirituale della nostra epoca. Da qui il terribile compito della teologia, che consiste nel sostenere l’assalto di questo gigante dello spirito e della sua “maledizione”. Non lo si può fare chiudendosi in una autoreferenzialità che, per provare la verità delle proprie tesi, rimanda alla Bibbia e al Magistero, come se alla coscienza contemporanea importasse ancora qualcosa di questo polveroso principio d’autorità. Né lo si può fare ristabilendo il clima di rigida contrapposizione al mondo che fu proprio dell’epoca controriformistica. Questa lotta con chi minaccia le fondamenta stessa dell’etica e della religione deve essere condotta all’altezza spirituale dell’avversario, se vuole avere qualche speranza di successo. Da essa dipende il futuro morale e spirituale dell’occidente, e con esso del cristianesimo.
L’ordine del giorno l’ha già scritto lui: “Compito futuro dei filosofi: il filosofo deve risolvere il problema del valore, deve determinare la gerarchia dei valori” (“Genealogia della morale”, pag. 44; corsivo di Nietzsche). Tutta la filosofia e la teologia si giocano qui. In particolare, il compito specifico della teologia non è informativo, ma performativo: come è fatto il mondo non tocca a lei dirlo, a lei tocca, all’interno di un mondo fatto così, suscitare negli uomini il desiderio di vivere nell’amore di Dio, all’insegna del bene e della giustizia. Il mondo è fatto così, è forza, e tu sei chiamato a immettervi la forma più alta e più pura della forza, che è l’amore. Il cristianesimo vivrà, se saprà rifondare il bene quale valore supremo perché dotato di maggiore “forza”. Il resto sono solo chiacchiere, sterili dispute teologiche che, extra moenia, non interessano più a nessuno.
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di Vito Mancuso
OLTRE IL CASO DELLA MOSCHEA DI VIALE JENNER - LA LIBERTÀ RELIGIOSA TRA I DIRITTI E I DOVERI DI TUTTI
Avvenire, 8 luglio 2008
CARLO CARDIA
La questione della moschea di viale Jenner a Milano ripropone un grande tema legato alla multiculturalità, quello della libertà religiosa e del rispetto dei diritti dei cittadini. La libertà religiosa è un valore di primaria grandezza nel nostro ordinamento, non soltanto dal punto di vista individuale, ma perché la religione e la sua ispirazione etica costituisce un bene prezioso per la collettività, da tutelare e promuovere attraverso il dialogo tra le confessioni. Ogni intervento dei privati e delle istituzioni deve avere come obiettivo primario quello di garantire le condizioni per il rispetto della professione di fede e l’esercizio del culto da parte di tutti, cristiani o ebrei, buddisti o musulmani, e di rimuovere gli ostacoli (quando ve ne sono) per l’eguaglianza dei cittadini e dei gruppi sociali. Qualunque turbamento, sia pure indiretto, di questa esigenza spirituale e sociale urta sensibilità profonde e può provocare danni. Proprio perché la libertà religiosa è al vertice dei valori costituzionali, il suo esercizio deve contribuire a far crescere la coesione sociale, anziché intaccarla, nel rispetto di quelle norme, alcune scritte, altre di buon senso, che la regolano. È necessaria, ad esempio, una proporzione tra gli edifici di culto e i fedeli che vogliono frequentarli; e gli enti locali possono intervenire anche con sostegni finanziari (come previsto da leggi nazionali e regionali) perché si costruiscano le chiese, le moschee, o altri edifici, in luoghi adatti, e in modo che non ne abbia a soffrire la vita comunitaria delle città e dei quartieri. Da questo punto di vista, è errato tanto costruire le cosiddette cattedrali nel deserto, con faraoniche previsioni rispetto alla popolazione reale dei fedeli di un culto, quanto allocare i luoghi di preghiera in ambiti angusti, inadatti, privi dei requisiti necessari. Decoro e rispetto della fede devono essere alla base dell’edificio di culto. Neanche è immaginabile che i fedeli si riversino nelle strade per recitare la preghiera o esercitare il culto; non è dignitoso per il culto, è contrario alle esigenze di ordine sociale. È utile ricordare che anche per una semplice processione la legge prevede il previo avviso, e il consenso, delle autorità competenti. Se ci ispira a questi valori, e a questi principi consolidati nel nostro ordinamento, si possono risolvere problemi come quello delle moschee (a Milano o in altre città), di comune accordo con gli interessati. Soprattutto si possono evitare sia provvedimenti chirurgici inappropriati sia polemiche che non favoriscono il dialogo e l’incontro, ma inaspriscono i toni e il clima, anche al di là delle intenzioni di chi le promuove.
C’è poi un problema di fondo che riguarda il culto musulmano, ed è relativo alla rappresentatività di chi gestisce le moschee, e alla trasparenza con cui queste sono amministrate. Nella Dichiarazione di intenti dei musulmani moderati, resa pubblica al Ministero dell’Interno il 23 aprile 2008, furono importanti personalità musulmane a dichiarare che occorre, tra l’altro, risolvere il problema della «regolazione delle moschee, spesso allocate in luoghi precari e non adeguati, e gestite con modalità non trasparenti»; e occorre «rifiutare ogni collegamento con organizzazioni integraliste e marcare un confine netto nei confronti di ogni tipo di fondamentalismo ». È un fatto prezioso che siano dei musulmani a indicare per primi i problemi da affrontare, e a dichiararsi disponibili a risolverli. Occorre quindi che nella individuazione e costruzione di una moschea non si riconosca rappresentanza sociale a chi non ce l’ha, o ad organizzazioni che non accettano i principi del nostro ordinamento; mentre è opportuno che l’accordo tra gli enti locali e le organizzazioni musulmane prevedano parametri di rappresentatività reale e regole di trasparenza nella gestione del luogo di culto. Nella sostanza così si fa per gli altri culti, ed è opportuno che si faccia altrettanto per il culto musulmano.
Se si procede in questo modo, avendo a cuore i valori fondamentali da tutelare e promuovere, primo tra tutti quello della libertà religiosa, si possono esaminare i problemi relativi a singole moschee. Se, però, si vuole affrontare nel suo insieme la questione della presenza musulmana in Italia si deve essere consapevoli che non bastano singoli interventi, dettati dall’emergenza, e che occorre una strategia di lungo periodo per la quale già nell’ultimo anno si è lavorato con i musulmani moderati, con risultati non effimeri. L’emergenza può risolvere qualche problema di oggi, ma è senza respiro e può essere priva di lungimiranza.
1) L'enciclica sulla speranza commentata da due pensatori non credenti, di Sandro Magister; interventi del Prof. Aldo Schiavone e del Prof. Ernesto Galli della Loggia
2) Uccisa in nome di Satana, l'angelo caduto - Sarà beata suor Maria Laura Mainetti
3) Trattato di Lisbona: bocciato per burocrazia e politiche antivita
4) Storie di conversione: Clive Staples Lewis - Gli incontri pericolosi di un giovane ateo
5) La forza di Nietzsche - La teologia oggi deve misurarsi con lui e non può farlo rifugiandosi nella Bibbia o nel Magistero, di Vito Mancuso
6) OLTRE IL CASO DELLA MOSCHEA DI VIALE JENNER - LA LIBERTÀ RELIGIOSA TRA I DIRITTI E I DOVERI DI TUTTI
L'enciclica sulla speranza commentata da due pensatori non credenti
Sono i professori Aldo Schiavone ed Ernesto Galli della Loggia, sulla prima pagina del giornale della Santa Sede. Papa Joseph Ratzinger li conosce e li ha letti. Risponderà?
di Sandro Magister
ROMA, 7 luglio 2008 – Per la seconda volta in tre mesi "L'Osservatore Romano", il quotidiano della Santa Sede, ha pubblicato in prima pagina dei commenti all'enciclica di Benedetto XVI "Spe salvi" scritti da pensatori non credenti.
Il primo commento, pubblicato il 28 marzo, è del professor Aldo Schiavone (nella foto), presentato in calce all'articolo come “Direttore dell’Istituto Italiano di Scienze Umane”.
Schiavone è uno dei più autorevoli studiosi di diritto romano e di storia e filosofia del diritto. Insegna all’Università di Firenze. Nel suo campo, in Italia, è un luminare come lo è in Germania il professor Ernst-Wolfgang Böckenförde, molto stimato da papa Joseph Ratzinger.
Non è cattolico, anzi, non è credente in alcuna fede rivelata. Ma ha sempre prestato molta attenzione al fatto religioso.
Il secondo commento, pubblicato il 28 giugno, è del professor Ernesto Galli della Loggia.
Galli della Loggia è stato professore ordinario di storia dei partiti e movimenti politici all'Università di Perugia. Ha successivamente insegnato a Firenze all'Istituto Italiano di Scienze Umane diretto dal professor Schiavone. E dal 2005 insegna filosofia della storia presso la facoltà di filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, di cui è stato preside per due anni. Per l'editrice il Mulino dirige la collana "L'identità italiana", inaugurata da un suo volume con lo stesso titolo.
Anche Galli della Loggia non è cattolico, anzi, si dice "privo della fede". Eppure afferma di riconoscere "quel 'di più' che la storia umana priva di Dio non riuscirà mai a colmare".
Sia Schiavone che Galli della Loggia sono molto noti al pubblico colto italiano. Sono editorialisti dei due quotidiani laici più diffusi, il primo di "la Repubblica" e il secondo del "Corriere della Sera".
Sia l'uno che l'altro sono da tempo interlocutori stimati, in Vaticano.
Il 25 ottobre 2004 Galli della Loggia sostenne un dibattito pubblico su l'Occidente e le religioni con l'allora cardinale Ratzinger, dibattito promosso dalla Fondazione Gaetano Rebecchini e tenuto a Roma nello splendido Palazzo Colonna.
Il 30 novembre 2007 sia lui che Schiavone hanno presentato e commentato in Vaticano, alla presenza del cardinale segretario di stato Tarcisio Bertone, gli atti di un seminario del Pontificio Comitato di Scienze Storiche su “Storia del cristianesimo: bilanci e questioni aperte”.
I loro commenti alla "Spe salvi" svolgono argomentazioni diverse. Ma convergono su un punto. Entrambi danno molto rilievo a quel passaggio dell'enciclica in cui Benedetto XVI auspica “un’autocritica dell’età moderna” e insieme “un’autocritica del cristianesimo moderno”.
Sia l'uno che l'altro, però, ritengono che questa auspicata autocritica del cristianesimo sia lontana dall'essere compiuta.
Per Galli della Loggia ad essa "non viene dato alcun seguito", né nell'enciclica nè in altri documenti papali.
Per Schiavone la Chiesa si chiude troppo sulla difensiva. Continua a pensare a “un uomo che abbia da esser protetto da se stesso con il richiamo a presunti vincoli naturali”.
Si può ipotizzare che Benedetto XVI abbia letto con interesse queste critiche così fuori dal comune sul "giornale del papa". E non è escluso che prima o poi non vi risponda.
Ecco qui di seguito i due commenti alla "Spe salvi" apparsi su "L'Osservatore Romano", il primo il 28 marzo 2008, il secondo il 28 giugno 2008:
1. Una nuova alleanza tra Chiesa e modernità laica di Aldo Schiavone
La "Spe salvi" è un testo complesso e coinvolgente, scritto con grande maestria intrecciando una molteplicità di temi, da motivi più propriamente pastorali a riflessioni di ordine dottrinario e dogmatico. E insieme, è anche quel che si direbbe un saggio storico d'interpretazione, dedicato a misurarsi con nodi cruciali disposti su un arco temporale lunghissimo, dall'antichità romana al mondo contemporaneo.
Il filo conduttore, annunciato come di consueto già nelle parole dell'incipit – una bellissima citazione paolina – è un serrato discorso sulla speranza, giustamente considerata come la connessione per eccellenza fra due piani fondamentali: l'orizzonte della storia e quello dell'escatologia.
È una scelta forte, che tocca senza dubbio un nervo scoperto dei nostri giorni: quel che altrove (nel libro "Storia e destino") ho creduto di definire come la perdita del futuro, l'incapacità di attirare "dentro il presente il futuro", in modo che "le cose future si riversino in quelle presenti, e le presenti in quelle future", come adesso scrive suggestivamente il pontefice.
Per lui, e non potrebbe essere altrimenti, l'aspetto escatologico della speranza – della speranza cristiana – si lega alla certezza "che il cielo non è vuoto", che "al di sopra di tutto c'è una volontà personale, c'è uno Spirito che in Gesù si è rivelato come Amore". È il punto di giunzione – insieme limpidissimo e tormentato – fra speranza e fede: e opportunamente Benedetto ricorda in proposito l'elaborazione teologica medievale che arriva a definire appunto la fede come "sostanza delle cose sperate".
Ma l'uomo è anche storia, e la domanda capitale: "che cosa possiamo sperare?" – un dubbio che gli eventi del nostro tempo rendono insieme decisivo e carico d'angoscia – richiede perciò anche una risposta sul terreno della storicità, e non solo su quello dell'escatologia.
Ed è a questo punto che l'interrogarsi di Benedetto sulla speranza – sulla sua forma storica, potremmo dire – si trasforma, inevitabilmente e con grande forza, in un discorso sulla modernità: sulla sua ragione, sulle sue conquiste e sui suoi fallimenti.
La prospettiva è fortemente sintetica, ma mai superficiale, e l'uso che viene proposto in queste pagine di Kant, di Adorno, persino di Marx, è veloce e a volte discutibile, ma sempre pertinente. Seguirne tutti i passaggi sarebbe però ora troppo lungo e complesso, e mi guarderò dal farlo. Cercherò invece di tenermi stretto a quel che mi sembra il dispositivo essenziale e più potente del ragionamento del pontefice. Che si trova a mio avviso nell'affermazione che è oggi indispensabile "un'autocritica dell'età moderna" nella quale possa confluire anche "un'autocritica del cristianesimo moderno".
Si tratta di una posizione di assoluto rilievo, che condivido pienamente. Sono del tutto convinto anch'io che i tempi – se sappiamo davvero interpretarli – siano maturi per una nuova alleanza fra cristianesimo e modernità laica, sulla base di una parallela revisione critica della loro storia, e che essa possa contribuire a quell'autentica rigenerazione dell'umano senza di cui il nostro futuro si riempie di ombre.
Ma come lavorare a questo straordinario obiettivo comune? Benedetto accenna sobriamente ma con efficacia ai principali fallimenti ideologici e politici della modernità, che retrospettivamente ci appaiono in tutta la loro portata: l'idea troppo lineare, ingenua e materialistica di "progresso"; l'idea datata e inadeguata del comunismo come esito ultimo della rivoluzione francese, e come puro capovolgimento della base economica delle nostre società. Su tutto ciò non ci può essere ancora che concordanza. Ma la modernità non è solo questo: e Benedetto lo sa benissimo. Egli ne individua infatti correttamente il cuore nella capacità di instaurare un nuovo e rivoluzionario rapporto fra scienza e prassi – cioè fra conoscenza e tecnica trasformatrice.
Ora, il punto è che questo intreccio fra scienza e tecnica – la potenza trasformatrice della tecnica – non sta solo andando "verso una padronanza sempre più grande della natura"; ma sta facendo molto, molto di più.
Ci sta spingendo – dopo milioni di anni di storia della specie – verso lo sconvolgente punto di fuga oltre il quale la separazione, che finora ci ha dominati, fra storia della vita (nel senso delle nostre basi biologiche) e storia dell'intelligenza (umana) non avrà più ragione di essere. Un punto in cui le basi naturali della nostra esistenza smetteranno di essere un presupposto immodificabile dell'agire umano, e diventeranno un risultato storicamente determinato della nostra ragione, della nostra etica e della nostra cultura. Questo ricongiungimento – il passaggio, almeno potenziale, nel controllo evolutivo della specie dalla natura alla mente – non è lontano: il suo annuncio è già nelle cronache quotidiane.
E allora io mi domando e mi permetto di chiedere sommessamente: ma la forma storica della nostra speranza non dipende anche da come si schiera la Chiesa di fronte all'annuncio di questa novità radicale? È essa davvero pronta ad accoglierla? O forse l'"autocritica" di cui parla il pontefice deve innanzitutto riguardare proprio questo aspetto?
È vero, Benedetto ha ragione: la scienza – nessuna scienza – potrà mai "redimere" l'uomo: c'è bisogno di etica e di valori. Ma può modificare – e lo sta già facendo – in modo drastico la trama esistenziale dell'umano, il suo vissuto più profondo, le prospettive primarie di vita e di morte.
Insomma, il rapporto storico tra modernità e speranza non può evitare di sciogliere questo nodo. Il superamento definitivo e completo dei confini biologici assegnatici finora dal nostro cammino evolutivo può essere integrato all'interno di una forma storica di speranza compatibile con la fede e con l'escatologia? Nella "somiglianza" dell'uomo con Dio – anch'essa richiamata dal pontefice – nell'infinito cui questo abissale paragone allude, può essere incluso il progetto di un umano finalmente libero dai propri vincoli naturali, e completamente padrone del suo destino "storico"?
In altri termini, quel che viene qui in questione è l'irrompere e l'installarsi dell'infinito entro la storicità del finito. Anche questo, come Benedetto sa bene, è un tema cruciale della modernità, ben riflesso in alcuni grandi luoghi della filosofia classica tedesca. E credo proprio che il significato della transizione rivoluzionaria che stiamo attraversando, che chiama la Chiesa ad assumersi responsabilità enormi, sia tutto qui: aver reso effettivo, diretto e determinante innanzi agli occhi di tutti quello che la modernità aveva solo lasciato intravedere ai suoi filosofi. Che cioè l'infinito come assenza di confini materiali alla possibilità del fare, come caduta di ogni determinazione obbligata da una barriera esterna a noi ("omnis determinatio est negatio") sta entrando stabilmente nel mondo degli uomini, e sempre di più dovremo imparare ad averlo accanto, e, se posso dir così, a padroneggiarlo. Con l'aiuto di Dio, starei per dire: ma non oso e mi fermo.
Certo, io non ho alcuna autorità per sostenerlo, ma non riesco a sottrarmi all'idea che un Dio d'amore – come quello che Benedetto ci invita a pensare – non abbia bisogno di un uomo in scacco, di un uomo prigioniero della sua materialità biologica, di un uomo che abbia da esser protetto da se stesso con il richiamo a presunti vincoli "naturali", ma abbia scelto per amore di avere accanto un uomo totalmente libero, e totalmente libero, a sua volta, di sceglierLo.
Non mi nascondo che mettersi in questo vento – arrivare cioè a immaginare un nuovo rapporto fra storia ed escatologia, dove l'infinito non stia solo dal lato della seconda, perché di questo in fondo si tratta – imporrebbe grandi cambiamenti nel magistero e nella dislocazione mondana della Chiesa. Ma davvero, se non ora, quando? Le energie vi sono. E c'è la speranza. Forse, occorre solo un po' più di profezia, senza rinunciare alla dottrina.
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2. Quel di più che la storia umana non riesce a colmare
di Ernesto Galli della Loggia
Il passato e il presente; l'Occidente e la sua tradizione culturale da un lato, la modernità dall'altro: è tra questi due poli che sembra muoversi la riflessione che Benedetto XVI ha fin qui consegnato ai suoi interventi di maggior impegno, in particolare a entrambe le sue encicliche. Una riflessione il cui contenuto vero non è poi altro che il destino del cristianesimo.
Solo se l'Occidente, infatti, l'antico teatro geografico e storico che primo accolse il messaggio proveniente da Gerusalemme per farne anima e forma della sua cultura, intenderà tutta la profondità del rapporto con le proprie origini cristiane, solo a questa condizione – sembra pensare il papa – la religione della Croce potrà reggere la sfida lanciatale dai tempi nuovi, continuando a tenere il suo animo fermo all'antica promessa del non praevalebunt.
Da qui la spinta a ripercorrere in qualche modo l'intero arco della vicenda cristiana, a ripercorrere le molte vie attraverso cui essa non solo ha plasmato l'Occidente dopo essersi mischiata alle sue radici classiche, ma, contrariamente a una convinzione diffusa, ha anche preparato e perfino favorito l'avvento della modernità.
L'obiettivo ambiziosissimo è quello niente di meno, come si legge, di "un'autocritica dell'età moderna in dialogo col cristianesimo" nella quale peraltro "confluisca anche un'autocritica del cristianesimo moderno", cioè – se capisco bene – di una sorta di "nuovo inizio" segnato da quello che appare il vero obiettivo di questo pontificato: la riconciliazione tra religione e modernità.
Nel procedere in questa direzione mi sembra che il papa operi una svolta decisiva non tanto rispetto al Concilio Vaticano II in quanto tale, ma certamente rispetto alla "vulgata" che ne è circolata largamente negli anni seguenti.
Benedetto XVI, infatti, sembra porre al centro dell'attenzione – si badi bene: all'attenzione non politica, ma teologica – della Chiesa non più genericamente il "mondo", bensì l'Occidente, il problema dell'Occidente. Di conserva egli individua con sicurezza i termini teoricamente cruciali per il discorso cristiano sulla modernità non più, come aveva fatto il Vaticano II, nella "giustizia", nella "pace" e nell'autodeterminazione individuale e collettiva, ma nella "ragione" e nella "scienza" (la seconda, in specie, sostanzialmente assente nella tematizzazione conciliare).
Tutto ciò è ben visibile nell'ultima enciclica del papa. Se con la "Deus caritas est" Joseph Ratzinger aveva esplorato alcuni dei mutamenti rivoluzionari introdotti dal messaggio evangelico nel mondo dell'"intimità morale", in particolare nei rapporti con l'altro, tra quei due "altri" per antonomasia che sono l'uomo e la donna, con la "Spe salvi" egli concentra la propria attenzione su un aspetto altrettanto decisivo di quella che Benedetto Croce chiamò la "rivoluzione cristiana" che è all'origine del mondo moderno: vale a dire il rapporto assolutamente nuovo rispetto alla dimensione del futuro che quella rivoluzione significò per le culture in cui ebbe modo di affermarsi.
Con ciò l'analisi di Benedetto XVI prende il taglio, che in questa enciclica è propriamente suo (ma che già si affacciava in quella precedente), di una declinazione della prospettiva teologica che tende continuamente a configurarsi come filosofia della storia. Anzi meglio, per chi come me guarda queste cose dall'esterno: a porre la religione cristiana come l'origine prima della storia quale dimensione tipica del pensiero occidentale.
Se infatti – come l'enciclica non si stanca di sottolineare facendone il proprio asse – la fede cristiana è per l'essenza speranza, cioè fede in un futuro ("i cristiani hanno un futuro"; "la loro vita non finisce nel vuoto"); se essa – come scrive icasticamente il papa – ha "attirato dentro il presente il futuro", e lo ha fatto – egli aggiunge – avendo in mente il futuro non di questo o quel singolo ma dell'intera comunità dei credenti, ebbene, come non vedere proprio in ciò, allora, la premessa per quella più generale tensione al domani e all'oltre che ha segnato così intimamente tutta quanta la nostra civiltà?
Ma per l'appunto in questa tensione sta l'origine dell'idea che l'oggi prepara il domani, che il senso di quanto accade oggi è in questa preparazione, e quindi che la vicenda umana nel suo complesso, possedendo una direzione, un fine, possiede anche un senso, un significato.
Sta insomma qui l'origine, per dirla con una sola parola, dell'idea di storia. E per conseguenza della frattura di cui si sostanzia la modernità: dal momento che è proprio nell'ambito della "speranza", del "futuro", del significato della storia – lungo un percorso che dall'attesa del Paradiso ha condotto all'attesa del progresso – che si è sviluppato forse il principale momento di laicizzazione della mentalità collettiva moderna.
Lo scritto di papa Ratzinger – mai come in questo caso assolutamente suo: a un certo punto si legge un "io sono convinto" del tutto inusuale per il testo di un'enciclica – è per una buona parte la ricognizione nel campo della storia delle idee delle cause che hanno portato all'espulsione della speranza cristiana dal mondo a opera specialmente del binomio scienza-libertà. Per ribadire naturalmente che però né la scienza, né le sempre parziali realizzazioni politiche della libertà saranno mai in grado di soddisfare il bisogno di giustizia e di amore che si agita in ogni essere umano e che è invece la sostanza della speranza cristiana, garantita da Dio ai credenti: "solo Dio può creare la giustizia", così come solo l'amore può bilanciare la cupa "sofferenza dei secoli".
Anche chi è privo della fede, come me, non fa fatica a convenire sull'esistenza di questo irreparabile "di più" che la storia umana priva di Dio non riuscirà mai a colmare.
Ma questo accordo – che non ha né vuole avere nulla di formale, e del resto dovrebbe essere nella sostanza quasi scontato – non può mettere a tacere un'osservazione critica che investe l'insieme dell'analisi dell'enciclica, pure così convincente in molti passaggi: perché la storia dell'Occidente cristiano è andata così? Perché essa sembra concludersi con uno scacco della religione che pure l'ha così intimamente forgiata?
La risposta sta forse in quella che a un certo punto – l'ho già ricordato – l'enciclica stessa chiama la necessaria "autocritica del cristianesimo moderno": indicazione alla quale però non viene dato alcun seguito.
Mi domando se sia lecito aspettarsi da Benedetto XVI ciò che avremmo senz'altro chiesto al professor Ratzinger. Non lo so. Ma sono certo che se mai in un domani il pontefice volesse far sentire la sua voce per rispondere a questo interrogativo, quella voce susciterebbe forse un'eco non destinata a spegnersi nel tempo.
Uccisa in nome di Satana, l'angelo caduto - Sarà beata suor Maria Laura Mainetti
La beatificazione di suor Maria Laura, la religiosa di Chiavenna uccisa nella notte fra il 6 e il 7 giugno 2000 da tre ragazze minorenni è stata accolta appunto come “causa di martirio” da parte della Congregazione delle Cause dei Santi. Questo significa che non dovranno essere portate prove di miracoli compiuti.
Suor Maria Laura è stata uccisa, viene specificato nel documento della Congregazione, «in odio alla fede». A questo punto la causa prosegue con la redazione della Positio super martyrio, cioè la raccolta di tutta la documentazione relativa al processo in un unico volume. Il “Decreto di validità giuridica” è stato emesso in data 11 gennaio 2008.
«Questo è un primo ma fondamentale atto», afferma monsignor Diego Coletti, vescovo di Como, «attraverso il quale la Santa Sede riconosce la validità del processo diocesano e apre, così, una seconda fase dell’istruttoria che si orienta alla beatificazione di suor Maria Laura, fase che consiste nella stesura di una sorta di sintesi di tutta la documentazione prodotta nel processo diocesano, volta a dimostrare, sullo sfondo della vita di suor Maria Laura, ricca di virtù cristiane e religiose, la realtà di un vero martirio».
Rito satanico
In una sconvolgente intervista, pubblicata recentemente dal settimanale Panorama, Veronica, una delle tre assassine di suor Maria Laura, tenta di descrivere quei momenti terribili in cui si sono abbattute, con furia demoniaca, i colpi sul corpo della suora, mentre lei, sanguinante e agonizzante, si piegava in ginocchio e pregava, perdonando le sue aguzzine.
Veronica spiega che lei, ad esempio, non ricorda questo episodio, ma «l’hanno raccontato le mie amiche». Alla domanda su quale sensazione ha provato ad uccidere, Veronica ha risposto: «Paura allo stato puro. Non ho mai avuto tanta paura come quella sera lì. Ho sentito solo terrore. Una sensazione bruttissima. Prima di farlo pensavo che uccidere fosse come tutte le altre cose, una sciocchezza. Ma non è così».
Una vita per gli altri
Ecco, uccidere per provare un’emozione, e poi sprofondare nel terrore, nel buio, nelle tenebre. E tentare di risalire, da tutto questo. Per Veronica sembra che sia cominciato proprio un cammino a ritroso, per ritrovare se stessa. E, ancora una volta, nel nome di suor Maria Laura.
Che, beninteso, per moltissime persone, in tutta Italia, è già amata, pregata, venerata come una santa. A Chiavenna, nel luogo in cui è caduta sotto le coltellate delle tre giovani assassine, si assiste ad un continuo, commosso pellegrinaggio. Nel punto esatto dove si è inginocchiata e ha pregato c’è adesso una croce. E proprio qui arrivano fedeli da tutta Italia e anche dall’estero.
Suor Maria Laura Mainetti era nata in una famiglia molto povera, a Colico, sul lago di Como. Decima figlia, rimase orfana di madre dopo la nascita. A Chiavenna ha svolto la maggior parte della sua attività e della sua vocazione religiosa con le Figlie della Croce.
Quando è stata uccisa, era madre superiora e dirigeva un convitto di studenti. Per mantenerne la memoria e per continuare il suo apostolato sono nate una fondazione, l’associazione Immacolata e la cooperativa sociale che gestisce una scuola per l’infanzia.
Il “battesimo di sangue”
La venerazione dei martiri (martirio di Policarpo verso il 160) coincide, in un certo senso, con l’inizio del culto dei santi in ambito cristiano; si vedono in essi degli autentici discepoli e discepole di Gesù per la loro sequela nella sofferenza e nel portare la croce.
Dal punto di vista teologico, nel martirio l’accettazione della morte per la testimonianza a Cristo si manifesta inequivocabilmente come atto della fede cristiana e dell’amore verso Dio (non è evento accettato passivamente).
Tramite il martirio la santità della Chiesa acquista, per grazia di Dio, una dimensione sperimentabile e, sempre grazie ad essa, la sua credibilità “verso l’esterno”.
Da Clemente d’Alessandria (215) in poi, al martirio è attribuita la stessa forza giustificante e remissoria dei peccati attribuita al battesimo, ossia il concetto di martirio come “battesimo di sangue”.
Nella Chiesa Cattolica, oggi, per procedere alla beatificazione si richiede un miracolo regolarmente approvato e, per la canonizzazione, un secondo miracolo avvenuto dopo la beatificazione e regolarmente approvato.
Per la beatificazione e la canonizzazione dei martiri non si richiedono miracoli, purché il martirio sia avvenuto «in odio alla fede o alla virtù richiesta dalla fede» e il beatificando o canonizzando abbia accettato, almeno virtualmente, la morte inflittagli per questo motivo. Tutto ciò è stato riconosciuto nella morte di suor Maria Laura che, dunque, si avvia a diventare martire e beata.
Ma che significato ha, per la Chiesa cattolica il martirio? Dal termine greco “testimonianza”, il martirio è inteso come la morte per amore della fede cristiana o della pratica della vita cristiana.
Questa morte è vista, dal II secolo d.C. in poi, come “testimonianza” da distinguersi rispetto al comportamento dei “confessori”, i quali si distinsero per la perseveranza ma non vennero uccisi. Era la notte tra il 6 e il 7 giugno del 2000 quando suor Maria Laura Mainetti viene uccisa a Chiavenna (in provincia di Sondrio) da Ambra G. e Veronica P., di 17 anni, e Milena D.G., di 16: con ben 19 coltellate straziano il corpo della religiosa, che prima viene fatta inginocchiare e poi è tramortita con un cubo di porfido, in una sorta di macabro rituale, come poi è emerso con chiarezza durante l’inchiesta.
Le tre adolescenti le hanno teso una trappola: per poter attirare la suora in un luogo isolato, dove compiere indisturbate la loro cerimonia satanista e di sangue, le hanno chiesto di soccorrere una ragazza, vittima di uno stupro, rimasta incinta.
Una terribile menzogna alla quale la religiosa, sempre pronta a dare una mano a chi ne aveva bisogno, ha creduto, correndo per aiutare un’infelice e abbracciando, invece, la croce del suo martirio.
(Radici Cristiane n. 36 - Luglio 2008) - di Caterina Maniaci
Trattato di Lisbona: bocciato per burocrazia e politiche antivita
Parla il Presidente dell’Associazione per la Fondazione Europa
di Antonio Gaspari
BRUXELLES, lunedì, 7 luglio 2008 (ZENIT.org).- Dopo il voto negativo del popolo irlandese al Trattato di Lisbona, che fa seguito al ‘no’ olandese e francese, la politica di unificazione europea necessita di una seria riflessione.
Per capire quali sono gli argomenti che non convincono i popoli ad operare per una unificazione dell’Europa, ZENIT ha intervistato Giorgio Salina, Presidente dell’Associazione per la Fondazione Europa (AFE), e di Paneuropa Italia.
“Il Trattato di Lisbona è un testo complicatissimo, 358 articoli con frequenti richiami ad articoli di Trattati precedenti, 37 protocolli aggiuntivi, 2 Allegati, 65 dichiarazioni di Stati membri, e 2 tavole di corrispondenza”, ha spiegato Salina.
“Ha richiesto mesi di lavoro – ha precisato – per arrivare ad un testo tradotto nelle 22 lingue ufficiali dell’UE, e pubblicato sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea con il titolo ‘Versione consolidata del Trattato sull’UE e del Trattato sul funzionamento dell’UE'”.
Secondo il presidente dell’AFE, si tratta di “meccanismi tali da ricevere una bocciatura tutte le volte che il processo di ratifica è stato sottoposto al giudizio dei popoli. E questo non si può ignorarlo”.
Salina ha indicato almeno tre tra i dannosi meccanismi che favoriscono la bocciatura, e cioè: “Il caparbio miope rifiuto nel non voler riconoscere l’unica vera matrice unificante i popoli europei: la cultura giudaico cristiana innestatasi sulla quella greco romana. Cultura tuttora condivisa da larghi strati delle popolazioni”.
“Rifiutando questa cultura che ha consentito di far riemergere ogni volta, le ragioni dell’unità, restano gli interminabili sanguinosi conflitti”, ha sostenuto il Presidente dell’AFE.
“Il tentativo di legiferare surrettiziamente attraverso l’accumularsi delle sentenze delle Corti europee, vanificando le competenze riconosciute all’UE e quelle di spettanza dei singoli Stati, accreditando posizioni inaccettabili” è per Salina il secondo dei dannosi meccanismi che irritano i popoli.
E per finire, “La traboccante invadenza della burocrazia di Bruxelles. Sono stati i Burocrati incaricati dei negoziati dell’adesione a porre come condizione che Irlanda e Polonia modificassero le rispettive legislazioni sul controllo delle nascite, e sul diritto matrimoniale, creando guasti ancor oggi non del tutto sanati”.
“È evidente – ha sottolineato Salina –, che per tutti questi tre meccanismi ad essere particolarmente a rischio sono i criteri che si rifanno a posizioni antropologiche fondamentali: vita, famiglia, educazione, obiezione di coscienza”.
“Posizioni – ha spiegato – che hanno a che fare direttamente con quella cultura ‘fattor comune’ europeo, che si vuole discriminare”.
Per il Presidente dell’AFE il cavallo di Troia di questa strategia è un documento ambiguo, e cioè la “Carta dei diritti fondamentali”, approvata dal Parlamento Europeo il 14 novembre 2000, una inutile aggiunta alla “Dichiarazione dei diritti umani” dell’ONU firmata il 10 dicembre 1948.
A questo proposito, Salina ha spiegato che, “come ha argutamente osservato di recente l’on. Mario Mauro, Vice Presidente del Parlamento Europeo, ogni volta che si rimette mano a documenti che trattano dei diritti umani non è per aggiungerne, bensì spesso per toglierne qualcuno”.
Circa la posizione dell’Italia, il Presidente dell’AFE ha invitato i politici italiani, cattolici e non a “dare un segnale chiaro e forte circa la volontà degli italiani di partecipare alla costruzione dell‘Europa, ma contemporaneamente un segnale altrettanto chiaro e forte circa il rifiuto degli italiani delle discriminazioni di culture condivise, di un metodo surrettizio di legiferare, e contro le indebite ingerenze della burocrazia dell’Unione”.
Salina ha ricordato che “se si procedesse con i referendum i no al Trattato di Lisbona non sarebbero solo quelli francesi, olandesi e irlandesi”; per questo motivo “l’Unione deve progredire ma tornando ad essere il luogo dove la diversità della culture, tutte le culture, è stimata un ricchezza irrinunciabile, abbandonando la pretesa di dettare i valori etici ai quali uniformarsi”.
Il Presidente dell’AFE ha concluso affermando che “subordinatamente ma non secondariamente, non occorre tutta la farraginosa impalcatura costruita che va comunque ridimensionata. Altro che i faraonici programmi di cui si sente riportando i Funzionari al rispetto degli indirizzi politici”.
Storie di conversione: Clive Staples Lewis - Gli incontri pericolosi di un giovane ateo
di Andrea Monda
"Tutto solo in quella stanza di Magdalen, avvertivo su di me, una notte dopo l'altra, ogniqualvolta la mia mente si distraeva anche un attimo dal lavoro, la ferma, inesorabile stretta di Colui che mi rifiutavo ostinatamente di conoscere. Ciò che avevo più temuto si era alla fine impadronito di me. Durante il trimestre della trinità del 1929 mi arresi, ammisi che Dio era Dio e mi inginocchiai per pregare: fui forse, quella sera, il convertito più disperato e riluttante d'Inghilterra".
Chi parla è Clive Staples Lewis, per gli amici semplicemente Jack, un professore di filologia di Oxford, di famiglia anglo-irlandese di Belfast, nato trentuno anni prima il quale, dopo un'infanzia "blandamente cristiana", si era buttato anima e corpo in un ateismo razionalistico e idealistico professato e vissuto.
L'intelligenza del giovane Jack è sottile, la sua curiosità sconfinata, l'acume fulminante, la forza dialettica eccezionale, ma qualcos'altro entra in ballo a sconquassare la sua apparentemente compatta fede nell'inesistenza di Dio, perché nella vita c'è sempre qualcos'altro, qualcosa di imprevisto, inavvertito, sorprendente.
Sorpreso dalla Gioia è forse il più bel titolo che si possa dare a un libro che racconti la storia di una conversione ed è quello che Lewis ha scelto per la sua autobiografia, scritta a cinquantasette anni ma relativa soltanto ai suoi primi trent'anni, perché, scrive nella prefazione: "Non ho mai letto un'autobiografia in cui la parte dedicata ai primi anni non fosse di gran lunga la più interessante".
Nel 1955 la passione di Lewis per i primi anni della vita degli uomini era una scelta naturale, quasi "obbligata": proprio in quegli anni stava finendo di pubblicare i sette episodi delle Cronache di Narnia, l'opera letteraria che, insieme alle Lettere di Berlicche, lo consacrerà come uno degli autori più letti e conosciuti in tutto il mondo (oscurando peraltro le sue pregevoli ricerche filologiche dedicate alla letteratura anglosassone medioevale).
Anche questi suoi celebri romanzi di pura fantasia hanno al centro il tema della giovinezza e della conversione. In una pagina di Mere Christianity Lewis parla di un ragazzo "emblematico", che chiama Dick, e scrive alcune parole che potrebbero essere prese come il riassunto della saga di Narnia: "Per quanto ne sappiamo, a Dio non costa nulla creare cose belle; ma convertire delle volontà ribelli gli costa la crocifissione (...) fino a quando Dick non si volgerà a Dio, penserà che il suo buon carattere sia una cosa sua, e fino che lo penserà, esso non gli apparterrà. Solo quando Dick capirà che il buon carattere non è una cosa sua ma è un dono di Dio, e solo quando lo offrirà di ritorno a Dio, esso comincerà ad essere veramente suo, perché allora Dick comincerà a partecipare alla sua propria creazione. Le sole cose che possiamo tenere sono quelle che diamo liberamente a Dio; quello che cerchiamo di tenere per noi è proprio ciò che sicuramente perderemo". Dick non è solo Edmund, il ragazzino per cui il leone Aslan si sacrifica lasciandosi uccidere nel secondo episodio di Narnia; Dick è, ovviamente, Jack.
Per dirla con le parole di Bonhoeffer la storia della conversione di Lewis raccontata in Sorpreso dalla Gioia è una storia di resistenza e resa. Da questo punto di vista il libro può essere visto come un diario in cui lo scrittore appunta i movimenti del suo animo scosso, avvinto e poi finalmente vinto dall'assalto di Dio, un diario della Gioia (è questo il "nome" di Dio secondo Lewis) a cui farà seguito sei anni dopo il brevissimo e intensissimo Diario di un dolore scritto a seguito della morte della moglie (che, guarda caso, si chiama Joy).
Scrive Lewis a metà della sua autobiografia: "Agnostici di buona volontà parleranno allegramente della "ricerca di Dio da parte dell'uomo"", ma Lewis non è (più) un agnostico di buona volontà, e non parla più "allegramente" perché ha sperimentato "l'inesorabile stretta" di Dio, e quanto può essere terribile la sua bellezza e la sua gioia. Sono queste due le polarità su cui si gioca l'intera esistenza di Jack, la Bellezza e il suo frutto, la Gioia, "... cioè un desiderio inappagato che è esso stesso più desiderabile di qualsiasi appagamento. Io lo chiamo gioia, che è qui un termine tecnico e va nettamente distinto dalla felicità così come dal piacere. La gioia (nel senso che io le attribuisco) ha in realtà in comune con essi una caratteristica, e una sola; il fatto che chiunque l'abbia provata vorrà provarla nuovamente. A parte questo, e solo in base alla sua natura, potremmo anche considerarla una infelicità o un dolore di genere particolare. Ma di un genere che desideriamo. Dubito che chiunque l'abbia sperimentata la scambierebbe mai, ammesso che fosse in suo potere, con tutti i piaceri del mondo. Ma, mentre il piacere lo è spesso, la gioia non è mai in nostro potere".
Alla luce di questa idea di gioia, così commista al dolore, si intuisce la profondità dell'immagine di Aslan, il divino leone protagonista delle Cronache di Narnia, una delle più sorprendenti figure cristologiche della letteratura novecentesca. Aslan, figura a un tempo del Dio creatore e del Cristo redentore che si sacrifica per amore, è un leone, buono e maestoso, dolce e terribile, perché per Lewis Dio è un leone che si mette alla ricerca dell'uomo, che lo bracca e lo abbraccia. "In realtà, un giovane ateo non ha modo di proteggere la propria fede come si deve" confessa in Sorpreso dalla Gioia, "I pericoli lo assediano da ogni parte".
Un permanente stato d'assedio, ecco cos'è la vita per lo scrittore inglese, un assalto che paradossalmente esalta l'umiltà di Dio che, come il padre del figliol prodigo va alla ricerca di tutti, anche di colui che cerca di sfuggire al suo abbraccio: "Allora non mi avvidi di quello che oggi è così chiaro e lampante: l'umiltà con cui Dio è pronto ad accogliere un convertito anche a queste condizioni. Per lo meno, il figliol prodigo era tornato a casa coi suoi stessi piedi. Ma chi potrà mai adorare adeguatamente quell'amore che schiude i cancelli del cielo a un prodigo che recalcitra e si dibatte, e ruota intorno gli occhi risentito in cerca di scampo? (...) La durezza di Dio è più mite della dolcezza umana, e le Sue costrizioni sono la nostra liberazione".
Un luogo pericoloso è il mondo, soprattutto per chi voglia mantenere incorrotta la sua incredulità e voglia impedire a Dio questo processo di liberazione. E Lewis li enumera tutti questi pericoli che hanno attentato e poi minato alle radici il suo ateismo: la bellezza della natura e dell'arte, il dono della gioia che la vita ci regala in maniera sempre improvvisa e imprevista, e poi l'incontro con gli altri uomini, quelli reali, conosciuti fisicamente e quelli incontrati attraverso la mediazione della lettura dei libri.
Tra i tanti di questi "incontri pericolosi", vale la pena citarne tre che giocheranno un ruolo determinante nel cammino di conversione dello scrittore inglese: Chesterton, MacDonald e Tolkien. "Nel leggere Chesterton, come nel leggere MacDonald, non sapevo a cosa andavo incontro" scrive in Sorpreso dalla Gioia, "Un giovanotto che desidera rimanere un perfetto ateo non può andare troppo per il sottile nelle sue letture. Ci sono trabocchetti sparsi dappertutto: "Bibbie lasciate aperte, milioni di sorprese" come dice Herbert, "reti sottili e stratagemmi". Dio è, se così possiamo dire, pochissimo scrupoloso".
Saranno proprio i libri di Chesterton (in particolare L'uomo eterno) e quelli di MacDonald (in particolare Le fate dell'ombra) che "prepareranno" il giovane Jack alla "capitolazione" che però avverrà solo con il colpo finale assestato dall'incontro con Tolkien. I due si conosceranno alla fine degli anni Venti a Oxford, entrambi innamorati delle antiche saghe e leggende, e tra loro nascerà un'amicizia di oltre quaranta anni da cui poi scaturirà la nascita di quei romanzi che oggi tutto il mondo conosce, Narnia e Il Signore degli Anelli.
Se nel 1929 Jack si era inginocchiato e aveva pregato Dio in modo disperato e riluttante, l'amicizia di Tolkien lo portò all'incontro con Cristo. Il 19 settembre del 1931 Jack e Tollers (com'era chiamato dagli amici più intimi) insieme al comune amico Hugo Dyson, dopo cena, fanno la solita passeggiata sul parco del Magdalen College e incominciano a parlare di antichi miti e della Verità "nascosta" in quei racconti.
Finiranno a parlare oltre le tre del mattino e Lewis qualche giorno più tardi scriverà al suo vecchio amico Arthur Greeves: "Da poco sono passato dal credere in Dio al credere in maniera definitiva in Cristo, nel cristianesimo. Cercherò di spiegartelo un'altra volta. La mia lunga chiacchierata notturna con Dyson e Tolkien ha avuto una grossa parte in questo". Come Nicodemo anche l'intellettuale Lewis ha conosciuto la sua notte piena di luce e la sua vita è radicalmente cambiata. Da quel momento diventerà strenuo difensore della fede riconquistata e raffinato divulgatore della verità del cristianesimo: i suoi saggi sulla fede, sul dolore e sull'amore sono ancora oggi tra le opere più valide dell'apologetica cristiana del Novecento.
In questo senso la sua parabola ricorda proprio quella di Chesterton; anche se Lewis non riuscì mai a fare formalmente il passo per entrare nella Chiesa cattolica (ma sostanzialmente lo fece, tanti sono i segnali di questo suo cripto-cattolicesimo, non ultimo la sua splendida corrispondenza epistolare con san Giovanni Calabria) la sua storia, come quella dell'inventore di Padre Brown, è quella di un cuore e di un'intelligenza che si arrendono di fronte alla Gioia che scaturisce dalla Buona Novella e che spazza via tutte le fantasie e le elucubrazioni del razionalismo umano (cosa diversa dalla ragione, meraviglioso dono di Dio).
Chesterton passò al cattolicesimo nel 1922, qualche anno prima di Lewis e poté quindi regalarci due affermazioni che Jack avrebbe potuto sottoscrivere pienamente: la prima nel saggio La Chiesa cattolica e la conversione in cui ribadisce che "Il marchio della fede non è la tradizione: è la conversione. È il miracolo per cui gli uomini scoprono la verità nonostante la tradizione, e spesso a costo di strappare tutte le radici umane (...) Può darsi che tra un secolo o due saranno diventati una tradizione lo spiritismo, il socialismo e la Christian Science. Ma il cattolicesimo non sarà mai una tradizione. Sarà sempre una cosa scomoda, nuova e pericolosa", la seconda in versi poetici, scritti proprio in occasione del passaggio alla fede cattolica: "I saggi hanno cento mappe che disegnano universi fitti come alberi, scuotono la ragione con mille setacci che accantonano la sabbia e lasciano filtrare l'oro: per me tutto ciò vale meno della polvere perché il mio nome è Lazzaro e sono vivo".
(©L'Osservatore Romano - 7 - 8 luglio 2008)
7 luglio 2008
La forza di Nietzsche - La teologia oggi deve misurarsi con lui e non può farlo rifugiandosi nella Bibbia o nel Magistero
Dal Foglio.it
Presso la Christian Marinotti Edizioni è uscito quest’anno un libro importante, ancorché breve e di lettura scorrevole: titolo “Nietzsche e il cristianesimo”, autore il grande filosofo tedesco Karl Jaspers (1883-1969), traduttore e curatore dell’edizione italiana Giuseppe Dolei. Nel 1937 Jaspers, in quanto marito di un’ebrea, era stato allontanato dall’università di Heidelberg dove insegnava da oltre vent’anni prima Psicologia e poi Filosofia, e l’anno dopo tenne una conferenza a Hannover sul tema, particolarmente caldo per quel momento storico, del rapporto tra Nietzsche e il cristianesimo. La tesi interpretativa di fondo è che “la lotta di Nietzsche contro il cristianesimo nasce dalla sua propria essenza cristiana”, una tesi che condivido per quanto attiene alla genesi della filosofia di Nietzsche, e che però ne fa, proprio per questo, il nemico per eccellenza, colui che si impegnò nella “maledizione del cristianesimo” con la volontà esplicita di distruggerlo, perché “non esistono ai nostri occhi avversari più radicali dei teologi” (“Crepuscolo degli idoli”) e “l’istinto teologico è la forma propriamente sotterranea e più estesa di falsità che esista sulla terra. Quel che un teologo avverte come vero, non può non essere falso” (“L’Anticristo. Maledizione del cristianesimo”).
Era da qualche tempo che volevo parlare di questo libro e ora mi si presenta l’occasione concreta a seguito di alcune reazioni al mio articolo di due settimane fa sul concetto di forza e i tre recenti eventi che ne sono stati ai miei occhi una palese epifania: 1) il ricevimento del presidente Bush da parte di Papa Benedetto XVI con onori mai tributati prima a nessun capo di stato; 2) la decisione della Cassazione sul caso Calipari-Lozano; 3) il voto del Senato sulla sospensione dei processi concernenti reati cosiddetti minori, sospensione di cui godrebbe anche l’attuale capo del governo. Partendo da questi tre eventi io mettevo a tema nel mio articolo la logica che muove la storia del mondo e cercavo di delineare quello che a mio avviso è l’atteggiamento spirituale più maturo di fronte a essa – anzi, non “di fronte”, ma “all’interno” di essa, perché già chi ritiene di poter collocare se stesso di fronte alla storia, su un punto di appoggio esterno rispetto a essa, sbaglia; certo, un punto esterno rispetto alla storia esiste, è quello dell’Eterno, ma lo si può attingere solo misticamente, uscendo dalla storia, per poi necessariamente abbandonarlo quando poi nella storia si ritorna per agire concretamente. Persino il Papa è costretto ad abbandonarlo. Anzi, a ben vedere il dramma spirituale del papato (non ci sono dubbi che il papato costituisca un lacerante dramma spirituale, basta aver studiato anche solo poche ore di storia della chiesa per essersene resi conto) sta tutto qui: nel dover parlare dell’Eterno, anzi nel voler rappresentare addirittura l’Eterno, in una struttura storicamente condizionata.
All’interno del mondo cattolico il mio articolo ha ricevuto delle critiche sia da sinistra sia da destra. Si ritiene il mio pensiero, come ha scritto da destra don Gianni Baget Bozzo, “pericoloso”. Pericoloso perché? Lui non lo spiega, ma io intuisco che la pericolosità del mio articolo dipenderebbe dal fatto che parla della forza come di una realtà da cui non è dato uscire ma con cui fare i conti, a volte anche giungendo alla sottomissione. Io sostengo infatti che il mondo è governato dalla forza, da ciò che i greci chiamavano “ananche” e i latini “necessitas”, una concezione che, per alcuni cattolici, mi collocherebbe addirittura al di fuori del cristianesimo.
E’ esattamente questo il punto che mi ha fatto subito pensare a Nietzsche, così come lo leggo io e come l’ho visto magistralmente interpretato da Jaspers: al fatto cioè che Nietzsche accusa il cristianesimo di essere una menzogna. Per Nietzsche il cristianesimo è una menzogna non perché annunci la risurrezione o parli di miracoli che non sarebbero mai avvenuti, ma perché parla del mondo, di questo mondo sotto gli occhi di tutti, in modo sbagliato. Loda un mondo che non c’è, e non loda invece il mondo che c’è. Per questo il cristianesimo è la menzogna radicale, responsabile del nichilismo.
Per Nietzsche, filologo di formazione, la prospettiva falsa con cui il cristianesimo guarda la realtà appare anzitutto dall’interpretazione cristiana della Bibbia ebraica, un furto più che un’interpretazione, perché fa dire alle scritture ebraiche cose che esse non hanno la minima intenzione di sostenere. Il fine dei cristiani infatti è “svellere il Vecchio Testamento dalle midolla degli ebrei” col risultato di una “inaudita farsa filologica” (“Aurora”, pag. 84). Il che costituisce un problema che ancora oggi l’esegesi e l’ermeneutica biblica sono ben lontane dall’aver risolto, e che si inquadra in quello più generale del rapporto tra cristianesimo ed ebraismo, se esso sia di relativa continuità (linea Carlo Maria Martini) oppure al contrario di relativa rottura (linea Joseph Ratzinger). Ma la falsità di cui Nietzsche accusa il cristianesimo riguarda ancor più l’incapacità di capire il mondo, come esso si muova e che cosa esso sia. Ora io chiedo a chi condivide la fede cristiana: di che mondo deve parlare la teologia? Di che mondo deve parlare il cristiano? Del mondo descritto dalla Bibbia e dalla dottrina, oppure di quello dell’esperienza quotidiana? Scriveva Karl Barth, il più influente teologo del Novecento, che “il pensiero, quando è autentico, è pensiero della vita, e perciò e in ciò è pensiero di Dio”. Il che significa che il pensiero, se non è pensiero della vita, non è neppure pensiero di Dio, non lo è perché è falso e solo la verità è pensiero di Dio. Chi intraprende il lavoro del pensare non si preoccupa se il suo pensiero possa in prima istanza risultare “pericoloso”, ma se sia o non sia “vero”, anche perché non c’è nulla di più pericoloso della falsità. La salvezza sta solo nella verità, nell’adeguazione alla terra ferma della realtà, e non c’è tensione etica più grande dell’amore per la verità e della volontà di aderire a essa, costi quel che costi. E’ questa la roccia su cui costruire la casa resistente dell’etica, mettendo in pratica il primo decisivo comandamento, troppo spesso dimenticato, cioè l’amore per Dio (l’assioma del pensiero teologico è: Dio = Verità, Verità = Dio; da cui discende che il culto spirituale più gradito a Dio è l’onestà intellettuale).
La teologia, e prima ancora il singolo cristiano, deve servire la verità chiamando le cose col proprio nome. E allora chiedo: lo sa o no Benedetto XVI (giustamente preoccupato per gli embrioni e i feti umani) di che cosa è responsabile Bush? Lo sa di quante vite adulte spezzate è responsabile, e quindi potenzialmente anche di quanti embrioni e quanti feti mai fatti venire alla luce, con una specie di gigantesca ecatombe di aborti preventivi? Benedetto XVI lo sa benissimo ovviamente, e non aspetta certo i moralisti di turno (me compreso) che glielo vadano a ricordare. Avrà digiunato anche lui, immagino, quel giorno che Giovanni Paolo II chiese di farlo a tutti i cattolici supplicando esplicitamente Dio (e implicitamente Bush) di evitare lo scoppio della guerra, anche se quel digiuno e quelle suppliche, come il più delle volte accade, non servirono a fermare il corso della storia. Quindi, sapendo tutto questo, Benedetto XVI prima va a visitare Bush alla Casa Bianca e non dice una sola parola sulla guerra in Iraq, poi lo riceve in Vaticano con il massimo degli onori. Che cosa devo pensare? Che ha dimenticato? Che approva? Che ne è complice magari, e lo incoraggia a iniziare la compagna d’Iran, dopo quella d’Iraq?
Io preferisco pensare quello che ho scritto due settimane fa, cioè che anche il Papa è sottoposto a una logica più grande della sua volontà, quella della forza. Di essa nelle tragedie greche e prima ancora nell’Iliade si ha la più profonda esposizione, con quel disincanto amorevole che è il segno dell’anima liberata dalle ristrette visioni e passioni personali, un’anima che sa guardare dall’alto greci e troiani allo stesso modo, con lo stesso affetto, un’anima per la quale non ci sono più amici e nemici, buoni e cattivi, ma solo poveri mortali, tutti allo stesso modo mossi, agìti, trapassati, da potenze più grandi di loro. Descrivere il mondo per quello che è. E il mondo è forza. Solo così del resto prende senso, almeno ai miei occhi, la croce. Il punto infatti è che il cristiano, sapendo che il mondo è “questo mondo”, questo mondo lo ama e lo serve, disposto a sopportare nel suo corpo e nella sua anima l’imperio della forza per immettervi se stesso come seme di bene. “Resistenza e resa”, ha scritto un uomo che all’imperio della forza, quando oltrepassò il segno e divenne brutalità, si oppose, e per questo venne impiccato nel lager di Flossenbürg, nudo, la mattina presto del 6 aprile 1945 dietro ordine personale di Adolf Hitler. Resistenza e resa: non solo resistenza alla forza, né solo resa, ma resistenza e resa insieme, cioè sinistra e destra, perché la sinistra è la traduzione politica dell’atteggiamento spirituale di chi si oppone alla forza, la destra la traduzione dell’atteggiamento di chi vi si conforma. Scriveva Dietrich Bonhoeffer dal carcere di Tegel il 21 febbraio 1944: “Mi sono chiesto molte volte dove passi il confine tra la necessaria resistenza e l’altrettanto necessaria resa davanti al destino”. Bonhoeffer diede la vita per resistere, e tuttavia vide anche la necessità della resa: “Dobbiamo affrontare decisamente il destino – trovo rilevante che questo concetto sia neutro – e sottometterci ad esso al momento opportuno”. Neutro è il destino (das Schicksal, in tedesco), come neutro è il Principio ordinatore alla guida della natura e della storia di cui parlo nei miei scritti, e di me è facile dire “non è più cristiano”, ma è difficile sostenerlo per Dietrich Bonhoeffer, o anche per Pavel Florenskij, matematico e teologo russo, che diceva le stesse cose prigioniero nel gulag staliniano dove venne fucilato l’8 dicembre 1937. Senza contare che Florenskij e Bonhoeffer non fanno che riecheggiare molti passi del Nuovo Testamento al riguardo, di capitale importanza per una vera teologia della storia.
Ancora Bonhoeffer: “Dio non ci incontra solo nel tu, ma si manifesta anche nell’esso, e il mio problema in sostanza è come in questo esso (destino) possiamo trovare il tu”. Queste parole manifestano la perfetta maturità intellettuale e spirituale di chi vede la forza e, “dentro” di essa (non “di fronte”, tanto meno “di sopra”), cerca di ritrovare la provvidenza personale, il tu. Di fronte a un pensiero così, Nietzsche non avrebbe accusato il cristianesimo di menzogna. La forza del pensiero di Bonhoeffer consiste esattamente nell’aver portato in teologia le ragioni di Nietzsche. Il dramma, e però anche il bello della vita, è che nessuno sa a priori se nella circostanza concreta occorre resistere o arrendersi: “I limiti tra resistenza e resa non si possono determinare sul piano dei principi”. Ne viene che escludere a priori uno dei due atteggiamenti, incasellandosi in modo preconcetto o nella perenne resistenza-opposizione al mondo propria della sinistra, oppure nella perenne resa-conformazione della destra, significa mortificare la libertà e spegnere la profezia.
Concludo su Nietzsche. Egli è di gran lunga il filosofo più letto, e i suoi libri si leggono perché danno il brivido di una scrittura potente, lontana dalle cerimonie accademiche e così vicina ai duelli della vita. Lo si legge a destra, e questo non è sorprendente essendo la destra la sua patria naturale; e lo si legge anche a sinistra, dove da alcuni tra i migliori intellettuali (Scalfari, Cacciari, Giorello) ho sentito parole di grande ammirazione per lui, spesso di convinta condivisione.
Nietzsche è il padre spirituale della nostra epoca. Da qui il terribile compito della teologia, che consiste nel sostenere l’assalto di questo gigante dello spirito e della sua “maledizione”. Non lo si può fare chiudendosi in una autoreferenzialità che, per provare la verità delle proprie tesi, rimanda alla Bibbia e al Magistero, come se alla coscienza contemporanea importasse ancora qualcosa di questo polveroso principio d’autorità. Né lo si può fare ristabilendo il clima di rigida contrapposizione al mondo che fu proprio dell’epoca controriformistica. Questa lotta con chi minaccia le fondamenta stessa dell’etica e della religione deve essere condotta all’altezza spirituale dell’avversario, se vuole avere qualche speranza di successo. Da essa dipende il futuro morale e spirituale dell’occidente, e con esso del cristianesimo.
L’ordine del giorno l’ha già scritto lui: “Compito futuro dei filosofi: il filosofo deve risolvere il problema del valore, deve determinare la gerarchia dei valori” (“Genealogia della morale”, pag. 44; corsivo di Nietzsche). Tutta la filosofia e la teologia si giocano qui. In particolare, il compito specifico della teologia non è informativo, ma performativo: come è fatto il mondo non tocca a lei dirlo, a lei tocca, all’interno di un mondo fatto così, suscitare negli uomini il desiderio di vivere nell’amore di Dio, all’insegna del bene e della giustizia. Il mondo è fatto così, è forza, e tu sei chiamato a immettervi la forma più alta e più pura della forza, che è l’amore. Il cristianesimo vivrà, se saprà rifondare il bene quale valore supremo perché dotato di maggiore “forza”. Il resto sono solo chiacchiere, sterili dispute teologiche che, extra moenia, non interessano più a nessuno.
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di Vito Mancuso
OLTRE IL CASO DELLA MOSCHEA DI VIALE JENNER - LA LIBERTÀ RELIGIOSA TRA I DIRITTI E I DOVERI DI TUTTI
Avvenire, 8 luglio 2008
CARLO CARDIA
La questione della moschea di viale Jenner a Milano ripropone un grande tema legato alla multiculturalità, quello della libertà religiosa e del rispetto dei diritti dei cittadini. La libertà religiosa è un valore di primaria grandezza nel nostro ordinamento, non soltanto dal punto di vista individuale, ma perché la religione e la sua ispirazione etica costituisce un bene prezioso per la collettività, da tutelare e promuovere attraverso il dialogo tra le confessioni. Ogni intervento dei privati e delle istituzioni deve avere come obiettivo primario quello di garantire le condizioni per il rispetto della professione di fede e l’esercizio del culto da parte di tutti, cristiani o ebrei, buddisti o musulmani, e di rimuovere gli ostacoli (quando ve ne sono) per l’eguaglianza dei cittadini e dei gruppi sociali. Qualunque turbamento, sia pure indiretto, di questa esigenza spirituale e sociale urta sensibilità profonde e può provocare danni. Proprio perché la libertà religiosa è al vertice dei valori costituzionali, il suo esercizio deve contribuire a far crescere la coesione sociale, anziché intaccarla, nel rispetto di quelle norme, alcune scritte, altre di buon senso, che la regolano. È necessaria, ad esempio, una proporzione tra gli edifici di culto e i fedeli che vogliono frequentarli; e gli enti locali possono intervenire anche con sostegni finanziari (come previsto da leggi nazionali e regionali) perché si costruiscano le chiese, le moschee, o altri edifici, in luoghi adatti, e in modo che non ne abbia a soffrire la vita comunitaria delle città e dei quartieri. Da questo punto di vista, è errato tanto costruire le cosiddette cattedrali nel deserto, con faraoniche previsioni rispetto alla popolazione reale dei fedeli di un culto, quanto allocare i luoghi di preghiera in ambiti angusti, inadatti, privi dei requisiti necessari. Decoro e rispetto della fede devono essere alla base dell’edificio di culto. Neanche è immaginabile che i fedeli si riversino nelle strade per recitare la preghiera o esercitare il culto; non è dignitoso per il culto, è contrario alle esigenze di ordine sociale. È utile ricordare che anche per una semplice processione la legge prevede il previo avviso, e il consenso, delle autorità competenti. Se ci ispira a questi valori, e a questi principi consolidati nel nostro ordinamento, si possono risolvere problemi come quello delle moschee (a Milano o in altre città), di comune accordo con gli interessati. Soprattutto si possono evitare sia provvedimenti chirurgici inappropriati sia polemiche che non favoriscono il dialogo e l’incontro, ma inaspriscono i toni e il clima, anche al di là delle intenzioni di chi le promuove.
C’è poi un problema di fondo che riguarda il culto musulmano, ed è relativo alla rappresentatività di chi gestisce le moschee, e alla trasparenza con cui queste sono amministrate. Nella Dichiarazione di intenti dei musulmani moderati, resa pubblica al Ministero dell’Interno il 23 aprile 2008, furono importanti personalità musulmane a dichiarare che occorre, tra l’altro, risolvere il problema della «regolazione delle moschee, spesso allocate in luoghi precari e non adeguati, e gestite con modalità non trasparenti»; e occorre «rifiutare ogni collegamento con organizzazioni integraliste e marcare un confine netto nei confronti di ogni tipo di fondamentalismo ». È un fatto prezioso che siano dei musulmani a indicare per primi i problemi da affrontare, e a dichiararsi disponibili a risolverli. Occorre quindi che nella individuazione e costruzione di una moschea non si riconosca rappresentanza sociale a chi non ce l’ha, o ad organizzazioni che non accettano i principi del nostro ordinamento; mentre è opportuno che l’accordo tra gli enti locali e le organizzazioni musulmane prevedano parametri di rappresentatività reale e regole di trasparenza nella gestione del luogo di culto. Nella sostanza così si fa per gli altri culti, ed è opportuno che si faccia altrettanto per il culto musulmano.
Se si procede in questo modo, avendo a cuore i valori fondamentali da tutelare e promuovere, primo tra tutti quello della libertà religiosa, si possono esaminare i problemi relativi a singole moschee. Se, però, si vuole affrontare nel suo insieme la questione della presenza musulmana in Italia si deve essere consapevoli che non bastano singoli interventi, dettati dall’emergenza, e che occorre una strategia di lungo periodo per la quale già nell’ultimo anno si è lavorato con i musulmani moderati, con risultati non effimeri. L’emergenza può risolvere qualche problema di oggi, ma è senza respiro e può essere priva di lungimiranza.