Nella rassegna stampa di oggi:
1) La barca di Vittorio e l'aborto di Valeria. Due come tutti noi
2) Quando i giudici si fanno portavoce della cultura della morte, Il dott. Renzo Puccetti denuncia il tentativo di praticare l’eutanasia
3) Un caso Terry Schiavo anche in Italia. La Corte di appello di Milano condanna una paziente a morire di fame e di sete
4) Non si può dare la morte sulla base di una presunzione, Int. a Roberto Colombo
5) Il dramma giuridico di Eluana Englaro, ovvero la ricostruzione di un'ipotetica volontà
6) Sentenza di morte, Eluana Englaro respira da sola, tolto il sondino morirà di fame e di sete. Non ha espresso volontà in merito, i giudici invitano a dedurle dal suo “vissuto” e dai suoi “convincimenti etici”
7) L’ALIMENTAZIONE NON È TERAPIA, Eluana non era morente Ora è condannata
8) «I pazienti in stato vegetativo? Sono vivi. E vanno curati». Parla il geriatra Giovanni Guizzetti: «I giudici hanno trasformato Eluana in una malata terminale»
Da Il Foglio- Martedì 8 luglio 2008
La barca di Vittorio e l'aborto di Valeria. Due come tutti noi
Lo spiacevole impalcarsi a giudici delle (altre) donne, per insegnare cosa dovrebbero o non dovrebbero fare dei loro legittimi consorti, lo lasciamo alle Lidie Ravera e al loro preteso femminismo, sinistrismo, moralismo.Non abiamo mai puntato il dito sulle donne e le loro persone. Nemmeno su quelle che hanno abortito per partecipare ad un reality show. O per altri futili motivi, e ce ne sono. Non lo faremo nemmeno per una dona che ai piani alti del reality italiano c'è arrivata da tempo, Valeria Marini, e ora racconta della sua ultima gravidanza, per la quale era disposta a qualsiasi sacrificio". Solo che quando ha dato "la notizia a Vittorio, la sua risposta è stata: 'E come facciamo ad andare in barca?' ". Così che "di comune accordo abbiamo deciso di interrompere la gravidanza".
Quel che conta dire, senza la spocchia dell'avevamo detto, è esattamente ciò che nessuno vuol sentirsi dire: trent'anni di mentalità abortista hanno trasformato l'aborto dal "dramma" clandestino che una legge intendeva abolire in una banale pratica anticoncezionale.
Moralmente indifferente, comoda, a disposizione.
Per cui un bambino può valere meno di una gita in barca di una coppia mondana e facoltosa.
E' un problema morale, e non basta a rimuoverlo l'esistenza della legge. Invece la mentalità corrente è tale che la signora in questione ha pure specificato che un figlio oggi, lo vorrebbe pure adottare.
Ma "la legge italiana non me lo consente perchè sono single". Si dovrà fare dunque un'altra legge, per il nuovo desiderio?
Quando i giudici si fanno portavoce della cultura della morte, Il dott. Renzo Puccetti denuncia il tentativo di praticare l’eutanasia
di Antonio Gaspari
ROMA, mercoledì, 9 luglio 2008 (ZENIT.org).- La sentenza con cui la Corte di appello di Milano ha autorizzato la morte per fame e sete di Eluana Englaro ha suscitato le reazioni indignate dei medici.
Intervistato da ZENIT, il dott. Renzo Puccetti, medico-chirurgo, specialista in medicina interna di Pisa, ha affermato: “Credo che la sentenza dei giudici di Milano sia un altro tassello di quella cultura della morte ormai pervasiva nelle nostre istituzioni. Un tempo si diceva ‘finché c’è vita c’è speranza’ ma queste decisioni sembrano fatte apposta per togliere speranza alla vita”.
Alla domanda se sia possibile ritenere Eluana già morta, il medico di Pisa ha risposto che “la risposta scientificamente corretta è no, perché i criteri di accertamento della morte cerebrale non sono assolutamente soddisfatti nel caso di Eluana, tanto è vero che nessuno si sognerebbe mai di richiederne gli organi”.
Per rispondere a chi sostiene che Eluana non ha alcuna possibilità di miglioramento, Puccetti ha poi spiegato: “Ancora una volta la risposta corretta è no. Lo stato vegetativo è una diagnosi; l’aggettivo ‘permanente’ è scorretto perché formula una prognosi di cui nessuno può essere certo”.
A proposito dell’attività della ricerca in questo campo, il medico-chirurgo, Segretario dall’Associazione Scienza & Vita di Pisa-Livorno, ha spiegato che “soltanto da pochissimo tempo la medicina ha imparato che, almeno in alcuni pazienti in stato vegetativo, sono conservate funzioni complesse riconducibili ad uno stato di coscienza; si tratta di trovare il modo per stimolare queste funzioni che sembrano sopite e farle venire a galla”.
Puccetti ha commentato che “siamo troppo poco fiduciosi delle possibilità terapeutiche disponibili nei prossimi anni”. “Purtroppo – ha aggiunto – di fronte alla sfida della malattia la strada che si sceglie è quella di eliminare il portatore della malattia”.
Inspiegabile poi, secondo Puccetti, la sospensione del trattamento di idratazione e alimentazione.
“Per chi è sproporzionato? Non certo per la ragazza – ha risposto –, le cui preferenze sono state appurate sulla base di criteri che definire aleatori è un eufemismo”.
“Sotto le spoglie di una falsa pietà, affermando che il valore della persona risiede non in quello che è, ma in quello che riesce a fare – ha sottolineato Puccetti –, la sentenza promuove una cultura devastante per tutti i soggetti deboli della società”.
“Una cultura di morte – ha denunciato il medico pisano – che nell’eutanasia attiva avrà il prossimo obiettivo, come è già stato candidamente ammesso in un intervento di un’associazione vicina al fronte radicale”.
“Fino ad ora Eluana non ha sofferto – ha precisato Puccetti – almeno così ci dicono le conoscenze scientifiche disponibili, ma se verrà interrotta l’alimentazione e l’idratazione prepariamoci ad un nuovo caso Terry Schiavo”.
“Le ulcere che si formeranno nella pelle, le labbra riarse, le emorragie, le convulsioni, la necessità di morfina, così come è avvenuto per Terry, tutto questo, sarà per il bene di Eluana?”, si è poi chiesto amaramente.
Un caso Terry Schiavo anche in Italia. La Corte di appello di Milano condanna una paziente a morire di fame e di sete
di Antonio Gaspari
ROMA, mercoledì, 9 luglio 2008 (ZENIT.org).- Questo mercoledì, i giudici della Corte di appello di Milano, hanno autorizzato il padre di Eluana Englaro, ad interrompere il trattamento di idratazione e alimentazione della figlia Eluana, che da 16 anni vive in stato vegetativo permanente.
Eluana è in coma permanente dal 18 gennaio del 1992, a causa di un incidente stradale; mentre è dal 1999 che il padre Beppino Englaro chiede di potere sospendere i trattamenti alla figlia.
Dal punto di vista tecnico, il signor Englaro, in qualità di tutore, potrebbe già da subito, chiedere ai responsabili del reparto, dove è in cura la ragazza, di sospendere le cure “nasogastriche”.
La sentenza emessa dalla Corte di appello di Milano ha suscitato reazioni immediate da parte del mondo medico-giuridico.
In un comunicato recapitato a ZENIT, l’associazione Scienza & Vita ha espresso la propria amarezza e stupore, commentando che in questo modo “la società dei sani ha condannato Eluana”.
“Grande amarezza – denuncia l’associazione – perché si legittima l’uccisione di un essere umano privandolo delle cose più elementari: l’alimentazione e l’idratazione. Stupore perché la società dei sani ha deciso di non prendersi cura di un essere umano in condizioni di grandissima fragilità e dipendenza, condannandolo ad una morte atroce per fame e per sete”.
Nello specifico Scienza & Vita denuncia “le errate motivazioni di questa decisione dei magistrati lombardi”, perché da questa sentenza emerge “l’idea che una persona in stato vegetativo sia soltanto una vita biologica, dimenticando che fino a quando c’è vita biologica, quella è sempre e comunque una vita personale, espressione di una dignità che interpella in modo forte le coscienze e la responsabilità di tutti”.
L’associazione denuncia inoltre l’emersione di “un malinteso concetto di libertà, che si può spingere fino ad eliminare il presupposto stesso della libertà, ovvero l’altrui vita fisica”.
“Con questa sentenza – sottolinea Scienza & Vita – si può aprire ad una pericolosa deriva culturale: che si consideri come criterio fondamentale l’esercizio dell’autonomia, anche laddove questa non possa più essere esercitata. E che, in nome di questa falsa autonomia, si metta in gioco anche quel rispetto per la dignità umana che proprio nella vita fisica trova la sua ragion d’essere”.
“Partendo da questo presupposto – prosegue –, dobbiamo immaginare e temere un aumento delle richieste in questo senso”.
Un’ultima annotazione riguarda le famiglie toccate da questi drammi. Scienza & Vita chiede “cosa non è stato fatto in termini di cura e di sostegno ad una famiglia, che, come tante altre, si trova a dover fronteggiare una situazione ingestibile o per la quale la solitudine e la disperazione sono cattive consigliere?”.
Anche l’associazione Medicina e Persona ha espresso una critica nei confronti dei giudici che “creano e stravolgono la legge anziché limitarsi ad applicarla”.
L’associazione ricorda che “non è compito di un giudice stabilire criteri clinici in base ai quali dichiarare non più assistibile un paziente”.
“La condizione di 'stato vegetativo permanente' – sottolinea – non è mai identificabile con uno stato di 'coma irreversibile' dal quale si differenzia per la presenza di risveglio spontaneo o stimolato, di attività elettrica cerebrale presente e variabile, di movimenti di apertura degli occhi spontanei o sotto stimolo ambientale”.
“In medicina, il giudizio di irreversibilità di una condizione patologica, qualunque essa sia, non è criterio sufficiente per richiedere la sospensione delle cure – ribadisce l'associazione –: con questa sentenza viene data priorità assoluta a una selezione della persona, in base al solo criterio della qualità della vita”.
“Il paziente in stato vegetativo persistente non è un paziente terminale e per questo è inappropriato e antiscientifico legare la sua 'idoneità a vivere' ad una eventuale condizione di reversibilità”.
“Questa decisione su Eluana – continua l'associazione – è una condanna a morte perpetrata per legge in nome della pietà”.
I medici di Medicina & Persona sottolineano che “la sospensione dell’idratazione e dell’alimentazione a una persona in condizioni generali stabili, in stato di coma permanente da anni, senza l’evidenza di alcun peggioramento clinico che ne indichi l’approssimarsi della fine, è eutanasia, cioè atto dal quale deriva la morte del paziente”.
“Non esiste oggi una legge in Italia che abbia approvato l’eutanasia – affermano –, la quale neppure è ammessa dal Codice Deontologico della Professione Medica 2006”.
In conclusione, secondo l’Associazione “la decisione della Corte di Appello di Milano, è gravissima ed è la dimostrazione del modo scorretto di operare in questi ultimi decenni di una parte della magistratura italiana, che si arroga il diritto di stravolgere le leggi, addirittura di crearle, come in questo caso, sostituendosi al livello politico di decisioni sulle quali solo le istituzioni specifiche, in rappresentanza dei cittadini, possono pronunciarsi”.
Non si può dare la morte sulla base di una presunzione
Int. a Roberto Colombo10/07/2008
Autore(i): Int. a Roberto Colombo. Pubblicato il 10/07/2008 – IlSussidiario.net
Don Colombo, riflettiamo sulle motivazioni che hanno portato i giudici di Milano ad autorizzare la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione ad Eluana Englaro, la ragazza che vive in stato vegetativo dal 1992. Si parla, nella sentenza, della «straordinaria tensione del suo carattere verso la libertà» e si fa cenno alla sua «visione della vita», che risulterebbe «inconciliabile» con l’attuale condizione. Cosa ne pensa?
Innanzitutto ciascuno può parlare solo per sé a proposito della propria concezione della vita, e dello scopo per cui si alza alla mattina o va a dormire alla sera. Tutto quello che sappiamo è quello che Eluana ha affermato in alcune circostanze, come nel caso di un incidente di un suo amico, rimasto poi in coma. Ma la situazione è assai diversa: quel ragazzo era, appunto, in coma, mentre lei è in uno stato vegetativo persistente dal quale potrebbe risvegliarsi, come in alcuni casi, sebbene rari, è accaduto.
Secondo aspetto che occorre considerare è che non si può partire da una presunzione e, sulla base di questa, impostare un’azione. Ogni azione, come quella che si vorrebbe praticare su Eluana, cioè di toglierle l’alimentazione e l’idratazione, può provenire solo da un’analisi ragionevole della sua situazione clinica, di ciò che le consente di restare in vita, di qual è il suo ruolo ancora dentro a quel corpo che le appartiene e che lei stessa è.
Naturalmente questa sentenza avrà delle conseguenze su quello che è il dibattito politico intorno ai temi dell’eutanasia e del testamento biologico. Cosa accadrà secondo lei?
Da una parte è la prima volta, almeno nel nostro Paese, che una sentenza giudiziaria entra nel merito di un atto medico, che invece era stato sinora lasciato alla scienza e alla coscienza del medico stesso, e all’alleanza terapeutica, al rapporto personale tra medico, paziente e familiari. Si tratta di un’appropriazione da parte della magistratura di un diritto che non le è proprio: il diritto sanitario si limitava infatti a regolare i contratti tra le parti, non a stabilire ciò che fosse dovuto o non dovuto dal punto di vista delle cure. Dall’altra parte mi pare che questo episodio possa prestarsi a pericolosissime strumentalizzazioni, in vista di un dibattito che potrebbe aprirsi a breve in Parlamento su leggi che riguardano la sospensione dei trattamenti e delle cure dei pazienti. Ci auguriamo che questo non accada, anche se occorrerà essere molto vigilanti.
Dalle sue parole emerge l’idea di una sorta di “invasione di campo” della magistratura sul terreno proprio dei medici: nella sentenza si danno addirittura indicazioni tecniche su come operare la sospensione dell’alimentazione, sui farmaci da somministrare. Che significato e che importanza ha tutto questo?
È proprio questo che desta maggiore stupore, il fatto cioè che il “non-medico” – cioè l’autorità giudiziaria – entri nel merito di come alcuni atti medici andrebbero eseguiti o non eseguiti. La ragione è probabilmente la seguente: si vuole tranquillizzare l’opinione pubblica, e in qualche modo anestetizzare le coscienze individuali e collettive presenti nella società circa gli effetti della sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione. Questi atti, come si sa, sono portatori di un deperimento molto rapido e molto doloroso, fino alla morte. Si sono volute stabilire delle condizioni che in qualche modo rassicurassero sul fatto che questa sentenza di morte sarebbe stata, a dir loro, quanto più dolce possibile e meno sofferta. In realtà tutto ciò non cambia la realtà delle cose: non è la modalità con cui si esegue una sospensione dei trattamenti che dice se il trattamento era appropriato o inopportuno. In questo caso si tratta di un trattamento che né la scienza né la coscienza del medico dovrebbero mai permettere, in qualunque forma esso venga eseguito.
Si è anche parlato in queste ore di un parallelismo con la vicenda di Terry Schiavo: le sembra un accostamento opportuno?
Vi sono analogie e dissomiglianze dal punto di vista della condizione clinica dei due pazienti; ma dal punto di vista sociale e culturale mi sembra un parallelismo quanto mai ragionevole. Fu proprio quel caso, infatti, ad aprire negli Stati Uniti alla possibilità di sospendere i trattamenti a pazienti che si trovino in determinate condizioni. Fu proprio una sentenza, che innescò un processo di deriva che portò all’ammissione, in alcuni Stati, dell’eutanasia.
Il dramma giuridico di Eluana Englaro, ovvero la ricostruzione di un'ipotetica volontà
Riccardo Marletta10/07/2008
Autore(i): Riccardo Marletta. Pubblicato il 10/07/2008 – IlSussidiario.net
La drammatica vicenda umana di Eluana Englaro potrebbe essere giunta ad un tristissimo epilogo: la morte per fame e per disidratazione.
Non può non tornare alla mente, da questo punto di vista, il caso di Terry Schiavo che tanto scalpore suscitò nell’opinione pubblica internazionale e che si concluse, come tutti sappiamo, nel peggiore dei modi.
La Prima Sezione Civile della Corte d’Appello di Milano ha infatti autorizzato il padre di Eluana Englaro ed il curatore speciale della stessa ad interrompere l’alimentazione e l’idratazione con sondino naso-gastrico, che attualmente consentono ad Eluana di rimanere in vita.
La Corte d’Appello di Milano si è pronunciata a seguito di una sentenza della Corte di Cassazione dell’ottobre scorso, che aveva cassato con rinvio il decreto, emesso da un’altra Sezione della stessa Corte d’Appello, con cui era stato respinto il ricorso del padre di Eluana.
La sentenza della Cassazione aveva altresì stabilito i principi di diritto a cui la nuova pronuncia dei giudici d’appello si sarebbe dovuta adeguare in assenza di una normativa in materia.
In precedenza il Tribunale di Lecco aveva dichiarato inammissibile il ricorso del padre di Eluana sul presupposto che ai sensi degli articoli 2 e 32 della Costituzione “un trattamento terapeutico o di alimentazione, anche invasivo, indispensabile a tenere in vita una persona non capace di prestarvi consenso, non solo è lecito, ma dovuto in quanto espressione del dovere di solidarietà posto a carico dei consociati, tanto più pregnante quando, come nella specie, il soggetto interessato non sia in grado di manifestare la sua volontà”.
A sua volta la Corte d’Appello, nella prima pronuncia, aveva rilevato che il giudice, chiamato a decidere se sospendere o meno l’alimentazione attraverso il sondino naso-gastrico “non può non tenere in considerazione le irreversibili conseguenze cui porterebbe la chiesta sospensione (morte del soggetto incapace), dovendo necessariamente operare un bilanciamento tra diritti parimenti garantiti dalla Costituzione, quali quello alla autodeterminazione e dignità della persona e quello alla vita”, precisando che tale bilanciamento “non può che risolversi a favore del diritto alla vita, ove si osservi la collocazione sistematica (art. 2 Cost.) dello stesso, privilegiata rispetto agli altri (contemplati dagli artt. 13 e 32 Cost.), all’interno della Carta Costituzionale”.
Secondo la Corte di Cassazione, viceversa, il sondino naso-gastrico che tiene in vita Eluana (e che pur la Corte riconosce non rappresentare un “accanimento terapeutico”) potrebbe essere disattivato in presenza di entrambi i seguenti presupposti, da accertarsi ad opera del giudice:
- che si versi in una condizione di stato vegetativo irreversibile;
- che tale istanza sia realmente espressiva “della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti”.
Come è noto, in campo sanitario vige il principio del “consenso informato”, in base al quale il paziente decide se e fino a quando sottoporsi ad un determinato trattamento medico nel momento in cui si pone la necessità (o quanto meno l’utilità) del trattamento stesso.
Secondo i criteri introdotti dalla Corte di Cassazione sarebbe invece da ritenere non solo che il “consenso” all’interruzione di un trattamento indispensabile per il mantenimento in vita possa considerarsi validamente espresso anche se intervenuto molto tempo prima del sopraggiungere dello stato di incoscienza, ma addirittura che sia possibile desumere tale consenso da elementi tutt’altro che oggettivi, quali la personalità e lo stile di vita.
Il che significa aprire il varco, in sede giudiziaria, ad interpretazioni soggettive dalle quali tuttavia dipendono la vita o la morte delle persone.
Da quanto emerge dallo stesso decreto della Corte d’Appello, prima di cadere in stato d’incoscienza Eluana non ha mai espresso il proprio “consenso preventivo” all’interruzione di un trattamento sanitario che le consentisse il mantenimento in vita qualora si fosse trovata in stato vegetativo (a prescindere da qualsiasi rilievo circa la validità di tale ipotetico “consenso”).
Gli elementi in base ai quali si è ricostruita l’ipotetica volontà di Eluana di non “essere curata per nulla nell’evenienza di uno stato di totale immobilità fisio-psichica” sono rappresentati da alcuni commenti che la stessa aveva espresso in occasione di gravi incidenti occorsi ad amici e ad altre persone, nonché “la straordinaria tensione del suo carattere verso la libertà”. Il che francamente non può non far rabbrividire.
10 luglio 2008
Non c’è nessuna spina da staccare
Sentenza di morte, Eluana Englaro respira da sola, tolto il sondino morirà di fame e di sete. Non ha espresso volontà in merito, i giudici invitano a dedurle dal suo “vissuto” e dai suoi “convincimenti etici”
Dal Foglio.it
Attorno a Eluana Englaro si affolla la compagnia della pessima morte. Perché è orribile la morte per fame per sete alla quale la ragazza in stato vegetativo dal 1992 è stata condannata con la sentenza emessa ieri dalla prima sezione civile della Corte d’appello di Milano. La sentenza autorizza, “con effetto immediato”, la sospensione della nutrizione e dell’idratazione con sondino della ragazza, per la quale il padre Beppino da tempo chiede di “staccare la spina”. Anche se non c’è nessuna spina da staccare. Eluana respira da sola, vive, forse sogna, nessuno può sapere cosa. C’è ancora, il suo stato è stabile. Vive, e la concretezza di quella vita è insopportabile per chi la considera già morta. Nessuna spina da staccare, dunque, ma interruzione di semplici attività di sostentamento (“sostentamento ordinario di base”, lo aveva definito il Comitato nazionale di bioetica) e cioè della somministrazione di acqua e di cibo: non un atto terapeutico (dunque nessun accanimento) ma semplice cura.
Il nostro ordinamento non prevede la pena di morte per chi non è in grado di mangiare e bere autonomamente. Poi, nello scorso ottobre, una sentenza della Cassazione ha stabilito che il giudice può, su istanza del tutore, autorizzare l’interruzione della nutrizione quando “la condizione di stato vegetativo del paziente sia apprezzata clinicamente come irreversibile, senza alcuna sia pur minima possibilità, secondo standard scientifici internazionalmente riconosciuti, di recupero della coscienza e delle capacità di percezione”. E, insieme, quando “sia univocamente accertato, sulla base di elementi tratti dal vissuto del paziente, dalla sua personalità e dai convincimenti etici, religiosi, culturali e filosofici che ne orientavano i comportamenti e le decisioni, che questi, se cosciente, non avrebbe prestato il suo consenso alla continuazione del trattamento”. Per chi non può esprimersi, vale quindi l’interpretazione, la suggestione, la sensazione di altri. Alla faccia del consenso informato, che viene chiesto per i più banali atti medici ma che pare si possa tranquillamente saltare se si tratta di comminare la morte per fame e per sete.
Il costituzionalista Aldo Loiodice, docente a Bari e a Roma, dice al Foglio che la sentenza di Milano “è abnorme, perché nega il principio primario del diritto alla vita. Non siamo di fronte al diritto di rifiutare le terapie e anche la nutrizione, attraverso una volontà liberamente espressa. In questo caso non c’è nessuna volontà, se non quella dei tutori della Englaro. E’ un fatto moralmente e giuridicamente inaccettabile. Viene invocato il diritto a uccidere una persona attraverso la negazione dei supporti minimi per la sua sopravvivenza. Quello di Eluana non è un corpo privo di valore, ‘è’ Eluana. E il suo tutore non può intervenire su diritti personalissimi, che non ammettono rappresentanza”.
Pietro Crisafulli, fratello di Salvatore, il ragazzo che si è svegliato dopo due anni di stato vegetativo, racconta al Foglio di aver commentato con Bobby Schindler, fratello di Terri Schiavo, “questa assurda sentenza. Siamo preoccupati per una decisione ingiusta che si basa su dichiarazioni non verificabili e che apre scenari neri per tutti coloro che si trovano nelle condizioni in cui si è trovato mio fratello”. Che ci sia da preoccuparsi lo conferma un commento del legale della famiglia Englaro, il quale giudica “paradossale che venga riconosciuto il diritto di rifiutare un trattamento medico a tutti tranne che a chi non può rifiutarsi proprio perché in stato vegetativo”. “Invasiva”, secondo questa logica grottesca, sarebbe la somministrazione di cibo e acqua a Eluana, mentre non sarebbe invasiva la decisione – presa da altri – di negarglieli.
Significa, secondo il sottosegretario al Welfare Eugenia Roccella, che “la decisione di porre fine a una vita umana non richiede dunque nemmeno quelle cautele che riguardano le normali volontà testamentarie su beni materiali”, mentre il Centro di Bioetica della Cattolica di Milano sottolinea che la sentenza della Corte d’appello “introduce un serio e grave problema deontologico nella medicina: sospendere trattamenti ordinari come quelli somministrati a un paziente in stato vegetativo a motivo di una decisione che non ha fondamento clinico, significa di fatto scardinare il dovere fondamentale del prendersi cura dei pazienti che non sono in grado di intendere e volere”.
L’associazione Scienza & Vita parla di “deriva culturale: che si consideri come criterio fondamentale l’esercizio dell’autonomia, anche laddove questa non possa più essere esercitata. E che, in nome di questa falsa autonomia, si metta in gioco anche quel rispetto per la dignità umana che proprio nella vita fisica trova la sua ragion d’essere”. Mentre Medicina e Persona accusa: “Questa decisione su Eluana è una condanna a morte perpetrata per legge in nome della pietà. La decisione della Corte d’appello di Milano è gravissima ed è la dimostrazione del modo scorretto di operare in questi ultimi decenni di una parte della magistratura italiana, che si arroga il diritto di stravolgere le leggi, addirittura di crearle”. Eloquente, a questo proposito, il commento di monsignor Rino Fisichella, presidente della Pontificia accademia pro vita, il quale si chiede “come sia possibile che il giudice si sostituisca in una decisione come questa alla persona coinvolta, al legislatore”. Mentre sottolinea che “Eluana è ancora una ragazza in vita. Il coma è una forma di vita e nessuno può permettersi di porre fine a una vita personale”.
I giudici milanesi fanno di più. Si spingono fino a dettare le procedure mediche che devono accompagnare Eluana alla morte (“occorrerà fare in modo che l’interruzione del trattamento di alimentazione e idratazione artificiale con sondino naso-gastrico la sospensione dell’erogazione di presidi medici collaterali o di altre procedure di assistenza strumentale avvengano in hospice o altro luogo di ricovero confacente…”). Estrema beffa: il padre di Eluana può già ottenere la sospensione dell’alimentazione, mentre il procuratore generale ha due mesi per presentare appello. Per quella data, però, Eluana potrebbe essere già morta.
L’ALIMENTAZIONE NON È TERAPIA, Eluana non era morente Ora è condannata
ROBERTO COLOMBO
Avvenire, 10 luglio 2008
La drammaticità della vita umana appare in tutta la sua incalzante urgenza e nel suo insopprimibile interrogativo quando la malattia e la sofferenza ci colpiscono. Ancor più se esse durano nel tempo e non si aprono punti di fuga, almeno a vista d’uomo.
Della malattia e della sofferenza si dovrebbe parlare in prima persona (alcuni lo hanno fatto, altri non ne hanno avuto modo), perché solo l’esperienza rende più evidente la realtà e lucido il giudizio della ragione. Se la sua situazione fosse rimasta nel dovuto riserbo – protetta come si doveva da ingerenze giornalistiche, giuridiche e politiche – di Eluana non avremmo voluto scrivere, tanto distante è l’esperienza che ci separa da lei e dai suoi familiari. Ma così non è stato. Il suo è diventato un caso pubblico, caricato di valenze e allusioni emotive, simboliche, giurisprudenziali e amministrative, e, dunque, non può restare senza una valutazione clinica, deontologica ed etica, senza una riflessione culturale e sociale. In punta di piedi, bisbigliando – come quando si entra nella stanza di chi sta male – dobbiamo quindi parlare, col massimo rispetto, o meglio, con grande amore verso di lei.
Anzitutto la realtà clinica: Eluana non è morta (né dal punto di vista cardiocircolatorio e polmonare, né sotto il profilo cerebrale) e neppure sta per morire (non è un 'malato' con prognosi terminale). La condizione di «stato vegetativo persistente» in cui versa da anni non è clinicamente identificabile con uno stato di «coma irreversibile» dal quale si differenzia, tra l’altro, per la possibilità (non escludibile) di un risveglio, spontaneo o stimolato, e la presenza di una importante attività elettrica cerebrale e di movimenti di apertura degli occhi, stimolati e non. Anche il 'senso comune' (per non dire dello sguardo clinico) apprezzano queste differenze obiettive.
Inoltre, la paziente non subisce nessun tipo di trattamento che possa ricadere nella fattispecie dell’«accanimento terapeutico»: al contrario, essa viene curata amorevolmente dal personale medico e infermieristico che la assiste e le assicura l’idratazione, l’alimentazione, il ricambio, la mobilizzazione ed altre cure nella forma che corrisponde ai suoi bisogni fisiologici essenziali. Perché privarla di tutto questo per porre fine ai suoi giorni? Come il medico e l’infermiere potrebbero abdicare – seppure in ottemperanza ad una sentenza – alla propria scienza e coscienza, la cui evidenze mostrano ragionevolmente che attuare quanto previsto dalla Corte significa condannare a morte certa questa giovane donna?
Da oltre due millenni e mezzo, la medicina è nata e si è sviluppata in Occidente per curare ogni paziente in qualunque circostanza fisica o morale si trovi; solo in epoca recente, e oggi sempre più e meglio, anche per restituirgli la salute e salvargli la vita. I medici non sono chiamati né a provocare né ad accelerare il processo della morte. Chi può arrogarsi il diritto di infrangere la dignità e la deontologia che hanno fatto di questa professione un valore imprescindibile per la nostra società e un sicuro strumento di miglioramento della vita personale dei cittadini? I giudici hanno considerato l’idratazione e l’alimentazione fornite a Eluana come 'atti medici', al pari di terapie che possono essere intraprese o sospese in ogni momento, sulla base della considerazione della loro efficacia o futilità clinica. Occorre invece sciogliere l’equivoco: anche se posti in essere da personale qualificato come sanitario, la natura di sostegno vitale essenziale per l’esistenza del soggetto non muta. Come ha ricordato lo scorso anno la Congregazione per la Dottrina della Fede, «la somministrazione di cibo e acqua, anche per vie artificiali, è in linea di principio un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita. Essa è quindi obbligatoria, nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente». E nel caso di Eluana, esse continuano a risultare di provata utilità nel sostenere la fisiologia del suo organismo e consentire la vita della persona.
In questa delicata materia il foro giudiziale non appare essere la sede più appropriata per decisioni che, nella lunga storia della cura dell’uomo, hanno trovato nell’alleanza terapeutica tra paziente, congiunti e medico un luogo appropriato e ragionevole di composizione dei diritti e dei doveri, tra i quali figura – secondo il detto evangelico – quello di «dare da mangiare agli affamati e da bere agli assetati».
«I pazienti in stato vegetativo? Sono vivi. E vanno curati». Parla il geriatra Giovanni Guizzetti: «I giudici hanno trasformato Eluana in una malata terminale»
Avvenire, 10 luglio 2008
DA MILANO
« P rovo un sentimento di angoscia e, come medico, credo che questa sentenza svaluti completamente il senso della attività mia e della mia équipe». Giovanni Battista Guizzetti, geriatra, da 12 anni è responsabile del reparto Stati vegetativi al Centro Don Orione di Bergamo: «Credo che sia difficile immaginare un atto più crudele nei confronti di un essere umano innocente».
La sentenza della Corte d’Appello di Milano autorizza a sospendere alimentazione e idratazione a Eluana Englaro. Evidentemente ritiene, come voleva la Cassazione, che lo stato di incoscienza sia irreversibile. È possibile stabilire questo parametro?
Lo stato vegetativo è una condizione difficile da definire e diagnosticare. Uno studio britannico (pubblicato sul British Medical Journal) indicava nel 43% la quota di diagnosi errate, perché la condizione di stato vegetativo può essere stabilita solo con osservazioni ripetute, non attraverso esami strumentali. E la task force di esperti che nel 1994 ha definito (sul New England Journal of Medicine) gli aspetti medici dello stato vegetativo ha puntualizzato che la diagnosi di permanenza non ha valore di certezza, ma è solo di tipo probabilistico. In altri termini, nessun medico potrebbe dire una parola definitiva sulla prognosi di un paziente in stato vegetativo, anche se è vero che dopo un anno dall’evento iniziale le probabilità di una ripresa si riducono progressivamente. Esistono però casi riportati di tanto in tanto di persone che si sono riprese dopo decenni.
Si fa spesso riferimento allo stato di coscienza. Come si può determinare se e cosa sentono le persone in stato vegetativo?
È praticamente impossibile saperlo. Lo scorso anno lo psichiatra Owen, di Cambridge, ha pubblicato su Nature i risultati di uno studio con la risonanza magnetica funzionale, che indicava come una donna in stato vegetativo, cui veniva chiesto di muoversi per casa sua, pur senza dare segni esteriori di capire, in realtà aveva in alcune aree corticali le stesse reazioni di un soggetto sano. Del resto anch’io ho assistito a casi di ripresa della coscienza anche a distanza di anni.
Che assistenza date ai vostri pazienti?
Non hanno bisogno di alte tecnologie, ma vengono seguiti con amore da tutta l’équipe, in particolare dagli infermieri, che li lavano, li muovono, li nutrono, li profumano, li accudiscono: portano anche le mollette per fare la permanente. Anche i parenti, che sono sottoposti a stress fortissimi, si accorgono che negli anni il nostro impegno di cura verso i loro cari non viene mai meno. Credo che tra gli scopi di un intervento medico non ci sia solo la guarigione, ma anche il mantenere in vita ed evitare peggioramenti. Comunque esploriamo la possibilità di togliere la cannula tracheale, curiamo i decubiti, studiamo terapie innovative. La nostra è una riabilitazione estensiva: si punta a migliorare il confort di una persona indipendentemente dal suo deficit e mantenerlo nel tempo.
Fondamento della sentenza c’è il ritenere l’alimentazione artificiale un atto medico che si può rifiutare. Cosa ne pensa?
Che si tratta di un artificio, non è un trattamento che possa essere sospeso per nessun paziente. Anzi, è evidente che proprio la migliore assistenza possibile (che comprende l’alimentazione) è condizione necessaria, anche se non sufficiente, per lavorare a un recupero della coscienza.
I giudici forniscono anche indicazioni pratiche: togliere il sondino nasogastrico in un hospice, somministrare sedativi, idratare le mucose e prevenire «l’eventuale disagio da carenza di liquidi», curare l’igiene e l’abbigliamento. Che cosa vogliono dire?
La morte per disidratazione è dolorosa. Quindi si pensa di dare morfina. E il riferimento all’hospice è indicativo: non è una paziente terminale, viene obbligata a diventarlo. Ma se lavorassi in un hospice, mi ribellerei dicendo: qui non ammazziamo la gente. Non si può chiedere questo a un medico, e poi dire che la paziente può avere il rossetto. Quanto al sondino nasogastrico, mi meraviglio che dopo tanti anni non le sia stata praticata la Peg, intervento minimamente invasivo ma che evita inutili sofferenze.
I medici quindi potrebbero ricorrere all’obiezione di coscienza?
Direi di sì perché si tratta di un’azione malvagia: non riesco a definire diversamente l’uccisione di un essere umano innocente.
Enrico Negrotti
A Margherita Hack: il razionalismo cancella la speranza
DI PIERO BENVENUTI *
Avvenire, 10 luglio 2008
Cara Margherita, ho letto la tua recente intervista pubblicata da 'Liberazione' il 14 giugno scorso con il titolo 'Come posso credere che ci sia qualcuno che crea tutto e poi ci dice: scoprìtelo?'. Al termine della lettura ho provato un senso di profonda tristezza, mi è rimasto dell’amaro in bocca che non riuscivo ad eliminare: per l’affetto che ti porto – nonostante le nostre divergenze d’opinioni – vorrei cercare di spiegartene il motivo. Tu sai certamente di essere ormai un’icona dell’astrofisica e della donna scienziato: ad ogni scoperta astronomica i giornalisti si rivolgono solo a te per un commento e la tua opinione è richiesta anche nei dibattiti su svariate questioni etiche, politiche, di costume. Spero non ti sfugga quale formidabile potere di convinzione, soprattutto sui giovani, abbiano le tue parole, i tuoi giudizi, i tuoi libri.
Ora, non credo esista un tuo scritto o un tuo intervento orale nel quale, dopo poche righe o pochi minuti, tu non abbia inserito l’affermazione di essere atea. Naturalmente questa è una rispettabile opinione personale, ma, nell’attuale contesto culturale, il problema collegato alla tua apodittica dichiarazione è che l’ateismo cui tu fai riferimento, quello serio, filosofico, meritevole di attenzione e confronto serrato, l’atesimo di Nietzsche, di Feuerbach, di Marx, non esiste più. È stato ormai soppiantato dall’indifferenza, figlia del frastuono sommergente della pubblicità e della in-civiltà del benessere, o dallo scherno beffardo e superficiale. Forse non era nelle tue intenzioni, ma il tuo sardonico suggerimento – nell’intervista – di sganciare una bomba atomica sul Vaticano, invece che scendere in campo seriamente sul piano del confronto delle idee, rivela una mescolanza di fondamentalismo e di scarso rispetto per chi non la pensa come te, che, solo per questo, sbeffeggi come un povero ingenuo. Vedi Margherita, mi preoccupa il messaggio che lasci ai giovani: le tue parole li inducono a non approfondire, a non formarsi un’opinione critica per poi rispondere autonomamente, in libertà, alla domanda primordiale: «Cos’è la Verità?».
Nei fatti, forse non nelle intenzioni, li consigli di lasciar perdere, tanto «sono solo ingenuità del passato». Lungi da me cercare di farti cambiare idea, ma sei certa di voler proporre ai giovani di relegare tra gli 'ingenui', scienziati (non filosofi o teologi !) come Planck, Einstein, Heisenberg, Pauli, e tutti coloro che hanno cercato con passione per tutta la vita non solo le 'leggi' della natura, ma anche il senso ultimo dell’esistenza? Nell’intervista ti si chiede cosa ne pensi del nuovo ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Mariastella Gelmini.
Rispondi avanzando dubbi sulla possibilità che un avvocato a te sconosciuto sia la persona più adatta a guidare tale ministero. Ho ascoltato il giovane ministro nel suo primo – credo – discorso pubblico, durante l’inaugurazione in Campidoglio di un Simposio europeo di docenti universitari dal titolo – che forse tu troverai provocatorio – «Allargare gli orizzonti della razionalità».
Ha detto poche parole, dense di significato, citando Wittgenstein dove dice: «Anche quando la Scienza avesse dato risposta a tutte le sue domande, non avrebbe ancora risposto alla domanda esistenziale dell’Uomo» e ha concluso, conseguentemente, con la promessa dell’impegno del suo ministero a rilanciare lo studio della Filosofia in tutte le scuole. A questo punto, mi sembra quasi di sentirti sbottare, nel tuo accento inconfondibile: «Son tutte bubbole!». Prima però di chiudere la porta, senza appello, ad ogni apertura metafisica, vorrei sottoporti due considerazioni. La prima discende dalla rivoluzione epistemologica della Fisica moderna, rispetto a quella di Galileo e Newton. Nella tua intervista tu indichi come compito dello scienziato quello di scoprire le «leggi della natura»: come sai questo termine ottocentesco è ormai desueto e ha lasciato il posto ad espressioni come 'teoria', 'equazioni', 'modello'. Non si tratta di mere distinzioni linguistiche: il significato profondo è che la Fisica moderna ha riconosciuto l’impossibilità di giungere, dal suo interno, ad una comprensione esaustiva della realtà. Anche se tu volessi limitare la totalità della realtà ai soli 'fenomeni' fisici, la Fisica attuale non ti assicura di poter arrivare alle sue radici. La soluzione del cruciverba dell’Universo da parte dello scienziato, cui fai riferimento nella tua intervista, non avrà mai fine. Forse val la pena di meditare, filosoficamente, che senso abbia tutto questo.
Ma c’è dell’altro. Ogni mattina e sera ho davanti agli occhi il sorriso di un bambino: non parla, sorride solamente, ma con quel sorriso esprime un amore profondo ed incondizionato che si propaga e contagia chiunque entri in comunicazione con lui. La mia razionalità si ribella al pensare che quell’amore sia meno reale di un fenomeno fisico, di un atomo o di una stella, né mi si può convincere che sia riducibile alla semplice somma di reazioni biochimiche e di impulsi sinaptici. Se anche quell’amore giacesse ormai sottoterra putrefatto, non servirebbe e non sarebbe servito a nulla. Ma allora, se l’amore non è credibile, anche tutto lo svolgersi dell’Universo lungo i suoi 13,7 miliardi di anni non avrebbe più senso, né avrebbe senso alzarsi ogni mattina per iniziare un nuovo giorno: per far cosa? per attendere penosamente la dissoluzione nel Nulla?
Il tuo credo razionalistico, togliendo significato essenziale all’unica realtà credibile, l’amore, tronca alla radice ogni speranza. È veramente questo il messaggio che vuoi trasmettere alle generazioni future? Pensaci, Margherita.
Con affetto.
* Università di Padova
1) La barca di Vittorio e l'aborto di Valeria. Due come tutti noi
2) Quando i giudici si fanno portavoce della cultura della morte, Il dott. Renzo Puccetti denuncia il tentativo di praticare l’eutanasia
3) Un caso Terry Schiavo anche in Italia. La Corte di appello di Milano condanna una paziente a morire di fame e di sete
4) Non si può dare la morte sulla base di una presunzione, Int. a Roberto Colombo
5) Il dramma giuridico di Eluana Englaro, ovvero la ricostruzione di un'ipotetica volontà
6) Sentenza di morte, Eluana Englaro respira da sola, tolto il sondino morirà di fame e di sete. Non ha espresso volontà in merito, i giudici invitano a dedurle dal suo “vissuto” e dai suoi “convincimenti etici”
7) L’ALIMENTAZIONE NON È TERAPIA, Eluana non era morente Ora è condannata
8) «I pazienti in stato vegetativo? Sono vivi. E vanno curati». Parla il geriatra Giovanni Guizzetti: «I giudici hanno trasformato Eluana in una malata terminale»
Da Il Foglio- Martedì 8 luglio 2008
La barca di Vittorio e l'aborto di Valeria. Due come tutti noi
Lo spiacevole impalcarsi a giudici delle (altre) donne, per insegnare cosa dovrebbero o non dovrebbero fare dei loro legittimi consorti, lo lasciamo alle Lidie Ravera e al loro preteso femminismo, sinistrismo, moralismo.Non abiamo mai puntato il dito sulle donne e le loro persone. Nemmeno su quelle che hanno abortito per partecipare ad un reality show. O per altri futili motivi, e ce ne sono. Non lo faremo nemmeno per una dona che ai piani alti del reality italiano c'è arrivata da tempo, Valeria Marini, e ora racconta della sua ultima gravidanza, per la quale era disposta a qualsiasi sacrificio". Solo che quando ha dato "la notizia a Vittorio, la sua risposta è stata: 'E come facciamo ad andare in barca?' ". Così che "di comune accordo abbiamo deciso di interrompere la gravidanza".
Quel che conta dire, senza la spocchia dell'avevamo detto, è esattamente ciò che nessuno vuol sentirsi dire: trent'anni di mentalità abortista hanno trasformato l'aborto dal "dramma" clandestino che una legge intendeva abolire in una banale pratica anticoncezionale.
Moralmente indifferente, comoda, a disposizione.
Per cui un bambino può valere meno di una gita in barca di una coppia mondana e facoltosa.
E' un problema morale, e non basta a rimuoverlo l'esistenza della legge. Invece la mentalità corrente è tale che la signora in questione ha pure specificato che un figlio oggi, lo vorrebbe pure adottare.
Ma "la legge italiana non me lo consente perchè sono single". Si dovrà fare dunque un'altra legge, per il nuovo desiderio?
Quando i giudici si fanno portavoce della cultura della morte, Il dott. Renzo Puccetti denuncia il tentativo di praticare l’eutanasia
di Antonio Gaspari
ROMA, mercoledì, 9 luglio 2008 (ZENIT.org).- La sentenza con cui la Corte di appello di Milano ha autorizzato la morte per fame e sete di Eluana Englaro ha suscitato le reazioni indignate dei medici.
Intervistato da ZENIT, il dott. Renzo Puccetti, medico-chirurgo, specialista in medicina interna di Pisa, ha affermato: “Credo che la sentenza dei giudici di Milano sia un altro tassello di quella cultura della morte ormai pervasiva nelle nostre istituzioni. Un tempo si diceva ‘finché c’è vita c’è speranza’ ma queste decisioni sembrano fatte apposta per togliere speranza alla vita”.
Alla domanda se sia possibile ritenere Eluana già morta, il medico di Pisa ha risposto che “la risposta scientificamente corretta è no, perché i criteri di accertamento della morte cerebrale non sono assolutamente soddisfatti nel caso di Eluana, tanto è vero che nessuno si sognerebbe mai di richiederne gli organi”.
Per rispondere a chi sostiene che Eluana non ha alcuna possibilità di miglioramento, Puccetti ha poi spiegato: “Ancora una volta la risposta corretta è no. Lo stato vegetativo è una diagnosi; l’aggettivo ‘permanente’ è scorretto perché formula una prognosi di cui nessuno può essere certo”.
A proposito dell’attività della ricerca in questo campo, il medico-chirurgo, Segretario dall’Associazione Scienza & Vita di Pisa-Livorno, ha spiegato che “soltanto da pochissimo tempo la medicina ha imparato che, almeno in alcuni pazienti in stato vegetativo, sono conservate funzioni complesse riconducibili ad uno stato di coscienza; si tratta di trovare il modo per stimolare queste funzioni che sembrano sopite e farle venire a galla”.
Puccetti ha commentato che “siamo troppo poco fiduciosi delle possibilità terapeutiche disponibili nei prossimi anni”. “Purtroppo – ha aggiunto – di fronte alla sfida della malattia la strada che si sceglie è quella di eliminare il portatore della malattia”.
Inspiegabile poi, secondo Puccetti, la sospensione del trattamento di idratazione e alimentazione.
“Per chi è sproporzionato? Non certo per la ragazza – ha risposto –, le cui preferenze sono state appurate sulla base di criteri che definire aleatori è un eufemismo”.
“Sotto le spoglie di una falsa pietà, affermando che il valore della persona risiede non in quello che è, ma in quello che riesce a fare – ha sottolineato Puccetti –, la sentenza promuove una cultura devastante per tutti i soggetti deboli della società”.
“Una cultura di morte – ha denunciato il medico pisano – che nell’eutanasia attiva avrà il prossimo obiettivo, come è già stato candidamente ammesso in un intervento di un’associazione vicina al fronte radicale”.
“Fino ad ora Eluana non ha sofferto – ha precisato Puccetti – almeno così ci dicono le conoscenze scientifiche disponibili, ma se verrà interrotta l’alimentazione e l’idratazione prepariamoci ad un nuovo caso Terry Schiavo”.
“Le ulcere che si formeranno nella pelle, le labbra riarse, le emorragie, le convulsioni, la necessità di morfina, così come è avvenuto per Terry, tutto questo, sarà per il bene di Eluana?”, si è poi chiesto amaramente.
Un caso Terry Schiavo anche in Italia. La Corte di appello di Milano condanna una paziente a morire di fame e di sete
di Antonio Gaspari
ROMA, mercoledì, 9 luglio 2008 (ZENIT.org).- Questo mercoledì, i giudici della Corte di appello di Milano, hanno autorizzato il padre di Eluana Englaro, ad interrompere il trattamento di idratazione e alimentazione della figlia Eluana, che da 16 anni vive in stato vegetativo permanente.
Eluana è in coma permanente dal 18 gennaio del 1992, a causa di un incidente stradale; mentre è dal 1999 che il padre Beppino Englaro chiede di potere sospendere i trattamenti alla figlia.
Dal punto di vista tecnico, il signor Englaro, in qualità di tutore, potrebbe già da subito, chiedere ai responsabili del reparto, dove è in cura la ragazza, di sospendere le cure “nasogastriche”.
La sentenza emessa dalla Corte di appello di Milano ha suscitato reazioni immediate da parte del mondo medico-giuridico.
In un comunicato recapitato a ZENIT, l’associazione Scienza & Vita ha espresso la propria amarezza e stupore, commentando che in questo modo “la società dei sani ha condannato Eluana”.
“Grande amarezza – denuncia l’associazione – perché si legittima l’uccisione di un essere umano privandolo delle cose più elementari: l’alimentazione e l’idratazione. Stupore perché la società dei sani ha deciso di non prendersi cura di un essere umano in condizioni di grandissima fragilità e dipendenza, condannandolo ad una morte atroce per fame e per sete”.
Nello specifico Scienza & Vita denuncia “le errate motivazioni di questa decisione dei magistrati lombardi”, perché da questa sentenza emerge “l’idea che una persona in stato vegetativo sia soltanto una vita biologica, dimenticando che fino a quando c’è vita biologica, quella è sempre e comunque una vita personale, espressione di una dignità che interpella in modo forte le coscienze e la responsabilità di tutti”.
L’associazione denuncia inoltre l’emersione di “un malinteso concetto di libertà, che si può spingere fino ad eliminare il presupposto stesso della libertà, ovvero l’altrui vita fisica”.
“Con questa sentenza – sottolinea Scienza & Vita – si può aprire ad una pericolosa deriva culturale: che si consideri come criterio fondamentale l’esercizio dell’autonomia, anche laddove questa non possa più essere esercitata. E che, in nome di questa falsa autonomia, si metta in gioco anche quel rispetto per la dignità umana che proprio nella vita fisica trova la sua ragion d’essere”.
“Partendo da questo presupposto – prosegue –, dobbiamo immaginare e temere un aumento delle richieste in questo senso”.
Un’ultima annotazione riguarda le famiglie toccate da questi drammi. Scienza & Vita chiede “cosa non è stato fatto in termini di cura e di sostegno ad una famiglia, che, come tante altre, si trova a dover fronteggiare una situazione ingestibile o per la quale la solitudine e la disperazione sono cattive consigliere?”.
Anche l’associazione Medicina e Persona ha espresso una critica nei confronti dei giudici che “creano e stravolgono la legge anziché limitarsi ad applicarla”.
L’associazione ricorda che “non è compito di un giudice stabilire criteri clinici in base ai quali dichiarare non più assistibile un paziente”.
“La condizione di 'stato vegetativo permanente' – sottolinea – non è mai identificabile con uno stato di 'coma irreversibile' dal quale si differenzia per la presenza di risveglio spontaneo o stimolato, di attività elettrica cerebrale presente e variabile, di movimenti di apertura degli occhi spontanei o sotto stimolo ambientale”.
“In medicina, il giudizio di irreversibilità di una condizione patologica, qualunque essa sia, non è criterio sufficiente per richiedere la sospensione delle cure – ribadisce l'associazione –: con questa sentenza viene data priorità assoluta a una selezione della persona, in base al solo criterio della qualità della vita”.
“Il paziente in stato vegetativo persistente non è un paziente terminale e per questo è inappropriato e antiscientifico legare la sua 'idoneità a vivere' ad una eventuale condizione di reversibilità”.
“Questa decisione su Eluana – continua l'associazione – è una condanna a morte perpetrata per legge in nome della pietà”.
I medici di Medicina & Persona sottolineano che “la sospensione dell’idratazione e dell’alimentazione a una persona in condizioni generali stabili, in stato di coma permanente da anni, senza l’evidenza di alcun peggioramento clinico che ne indichi l’approssimarsi della fine, è eutanasia, cioè atto dal quale deriva la morte del paziente”.
“Non esiste oggi una legge in Italia che abbia approvato l’eutanasia – affermano –, la quale neppure è ammessa dal Codice Deontologico della Professione Medica 2006”.
In conclusione, secondo l’Associazione “la decisione della Corte di Appello di Milano, è gravissima ed è la dimostrazione del modo scorretto di operare in questi ultimi decenni di una parte della magistratura italiana, che si arroga il diritto di stravolgere le leggi, addirittura di crearle, come in questo caso, sostituendosi al livello politico di decisioni sulle quali solo le istituzioni specifiche, in rappresentanza dei cittadini, possono pronunciarsi”.
Non si può dare la morte sulla base di una presunzione
Int. a Roberto Colombo10/07/2008
Autore(i): Int. a Roberto Colombo. Pubblicato il 10/07/2008 – IlSussidiario.net
Don Colombo, riflettiamo sulle motivazioni che hanno portato i giudici di Milano ad autorizzare la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione ad Eluana Englaro, la ragazza che vive in stato vegetativo dal 1992. Si parla, nella sentenza, della «straordinaria tensione del suo carattere verso la libertà» e si fa cenno alla sua «visione della vita», che risulterebbe «inconciliabile» con l’attuale condizione. Cosa ne pensa?
Innanzitutto ciascuno può parlare solo per sé a proposito della propria concezione della vita, e dello scopo per cui si alza alla mattina o va a dormire alla sera. Tutto quello che sappiamo è quello che Eluana ha affermato in alcune circostanze, come nel caso di un incidente di un suo amico, rimasto poi in coma. Ma la situazione è assai diversa: quel ragazzo era, appunto, in coma, mentre lei è in uno stato vegetativo persistente dal quale potrebbe risvegliarsi, come in alcuni casi, sebbene rari, è accaduto.
Secondo aspetto che occorre considerare è che non si può partire da una presunzione e, sulla base di questa, impostare un’azione. Ogni azione, come quella che si vorrebbe praticare su Eluana, cioè di toglierle l’alimentazione e l’idratazione, può provenire solo da un’analisi ragionevole della sua situazione clinica, di ciò che le consente di restare in vita, di qual è il suo ruolo ancora dentro a quel corpo che le appartiene e che lei stessa è.
Naturalmente questa sentenza avrà delle conseguenze su quello che è il dibattito politico intorno ai temi dell’eutanasia e del testamento biologico. Cosa accadrà secondo lei?
Da una parte è la prima volta, almeno nel nostro Paese, che una sentenza giudiziaria entra nel merito di un atto medico, che invece era stato sinora lasciato alla scienza e alla coscienza del medico stesso, e all’alleanza terapeutica, al rapporto personale tra medico, paziente e familiari. Si tratta di un’appropriazione da parte della magistratura di un diritto che non le è proprio: il diritto sanitario si limitava infatti a regolare i contratti tra le parti, non a stabilire ciò che fosse dovuto o non dovuto dal punto di vista delle cure. Dall’altra parte mi pare che questo episodio possa prestarsi a pericolosissime strumentalizzazioni, in vista di un dibattito che potrebbe aprirsi a breve in Parlamento su leggi che riguardano la sospensione dei trattamenti e delle cure dei pazienti. Ci auguriamo che questo non accada, anche se occorrerà essere molto vigilanti.
Dalle sue parole emerge l’idea di una sorta di “invasione di campo” della magistratura sul terreno proprio dei medici: nella sentenza si danno addirittura indicazioni tecniche su come operare la sospensione dell’alimentazione, sui farmaci da somministrare. Che significato e che importanza ha tutto questo?
È proprio questo che desta maggiore stupore, il fatto cioè che il “non-medico” – cioè l’autorità giudiziaria – entri nel merito di come alcuni atti medici andrebbero eseguiti o non eseguiti. La ragione è probabilmente la seguente: si vuole tranquillizzare l’opinione pubblica, e in qualche modo anestetizzare le coscienze individuali e collettive presenti nella società circa gli effetti della sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione. Questi atti, come si sa, sono portatori di un deperimento molto rapido e molto doloroso, fino alla morte. Si sono volute stabilire delle condizioni che in qualche modo rassicurassero sul fatto che questa sentenza di morte sarebbe stata, a dir loro, quanto più dolce possibile e meno sofferta. In realtà tutto ciò non cambia la realtà delle cose: non è la modalità con cui si esegue una sospensione dei trattamenti che dice se il trattamento era appropriato o inopportuno. In questo caso si tratta di un trattamento che né la scienza né la coscienza del medico dovrebbero mai permettere, in qualunque forma esso venga eseguito.
Si è anche parlato in queste ore di un parallelismo con la vicenda di Terry Schiavo: le sembra un accostamento opportuno?
Vi sono analogie e dissomiglianze dal punto di vista della condizione clinica dei due pazienti; ma dal punto di vista sociale e culturale mi sembra un parallelismo quanto mai ragionevole. Fu proprio quel caso, infatti, ad aprire negli Stati Uniti alla possibilità di sospendere i trattamenti a pazienti che si trovino in determinate condizioni. Fu proprio una sentenza, che innescò un processo di deriva che portò all’ammissione, in alcuni Stati, dell’eutanasia.
Il dramma giuridico di Eluana Englaro, ovvero la ricostruzione di un'ipotetica volontà
Riccardo Marletta10/07/2008
Autore(i): Riccardo Marletta. Pubblicato il 10/07/2008 – IlSussidiario.net
La drammatica vicenda umana di Eluana Englaro potrebbe essere giunta ad un tristissimo epilogo: la morte per fame e per disidratazione.
Non può non tornare alla mente, da questo punto di vista, il caso di Terry Schiavo che tanto scalpore suscitò nell’opinione pubblica internazionale e che si concluse, come tutti sappiamo, nel peggiore dei modi.
La Prima Sezione Civile della Corte d’Appello di Milano ha infatti autorizzato il padre di Eluana Englaro ed il curatore speciale della stessa ad interrompere l’alimentazione e l’idratazione con sondino naso-gastrico, che attualmente consentono ad Eluana di rimanere in vita.
La Corte d’Appello di Milano si è pronunciata a seguito di una sentenza della Corte di Cassazione dell’ottobre scorso, che aveva cassato con rinvio il decreto, emesso da un’altra Sezione della stessa Corte d’Appello, con cui era stato respinto il ricorso del padre di Eluana.
La sentenza della Cassazione aveva altresì stabilito i principi di diritto a cui la nuova pronuncia dei giudici d’appello si sarebbe dovuta adeguare in assenza di una normativa in materia.
In precedenza il Tribunale di Lecco aveva dichiarato inammissibile il ricorso del padre di Eluana sul presupposto che ai sensi degli articoli 2 e 32 della Costituzione “un trattamento terapeutico o di alimentazione, anche invasivo, indispensabile a tenere in vita una persona non capace di prestarvi consenso, non solo è lecito, ma dovuto in quanto espressione del dovere di solidarietà posto a carico dei consociati, tanto più pregnante quando, come nella specie, il soggetto interessato non sia in grado di manifestare la sua volontà”.
A sua volta la Corte d’Appello, nella prima pronuncia, aveva rilevato che il giudice, chiamato a decidere se sospendere o meno l’alimentazione attraverso il sondino naso-gastrico “non può non tenere in considerazione le irreversibili conseguenze cui porterebbe la chiesta sospensione (morte del soggetto incapace), dovendo necessariamente operare un bilanciamento tra diritti parimenti garantiti dalla Costituzione, quali quello alla autodeterminazione e dignità della persona e quello alla vita”, precisando che tale bilanciamento “non può che risolversi a favore del diritto alla vita, ove si osservi la collocazione sistematica (art. 2 Cost.) dello stesso, privilegiata rispetto agli altri (contemplati dagli artt. 13 e 32 Cost.), all’interno della Carta Costituzionale”.
Secondo la Corte di Cassazione, viceversa, il sondino naso-gastrico che tiene in vita Eluana (e che pur la Corte riconosce non rappresentare un “accanimento terapeutico”) potrebbe essere disattivato in presenza di entrambi i seguenti presupposti, da accertarsi ad opera del giudice:
- che si versi in una condizione di stato vegetativo irreversibile;
- che tale istanza sia realmente espressiva “della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti”.
Come è noto, in campo sanitario vige il principio del “consenso informato”, in base al quale il paziente decide se e fino a quando sottoporsi ad un determinato trattamento medico nel momento in cui si pone la necessità (o quanto meno l’utilità) del trattamento stesso.
Secondo i criteri introdotti dalla Corte di Cassazione sarebbe invece da ritenere non solo che il “consenso” all’interruzione di un trattamento indispensabile per il mantenimento in vita possa considerarsi validamente espresso anche se intervenuto molto tempo prima del sopraggiungere dello stato di incoscienza, ma addirittura che sia possibile desumere tale consenso da elementi tutt’altro che oggettivi, quali la personalità e lo stile di vita.
Il che significa aprire il varco, in sede giudiziaria, ad interpretazioni soggettive dalle quali tuttavia dipendono la vita o la morte delle persone.
Da quanto emerge dallo stesso decreto della Corte d’Appello, prima di cadere in stato d’incoscienza Eluana non ha mai espresso il proprio “consenso preventivo” all’interruzione di un trattamento sanitario che le consentisse il mantenimento in vita qualora si fosse trovata in stato vegetativo (a prescindere da qualsiasi rilievo circa la validità di tale ipotetico “consenso”).
Gli elementi in base ai quali si è ricostruita l’ipotetica volontà di Eluana di non “essere curata per nulla nell’evenienza di uno stato di totale immobilità fisio-psichica” sono rappresentati da alcuni commenti che la stessa aveva espresso in occasione di gravi incidenti occorsi ad amici e ad altre persone, nonché “la straordinaria tensione del suo carattere verso la libertà”. Il che francamente non può non far rabbrividire.
10 luglio 2008
Non c’è nessuna spina da staccare
Sentenza di morte, Eluana Englaro respira da sola, tolto il sondino morirà di fame e di sete. Non ha espresso volontà in merito, i giudici invitano a dedurle dal suo “vissuto” e dai suoi “convincimenti etici”
Dal Foglio.it
Attorno a Eluana Englaro si affolla la compagnia della pessima morte. Perché è orribile la morte per fame per sete alla quale la ragazza in stato vegetativo dal 1992 è stata condannata con la sentenza emessa ieri dalla prima sezione civile della Corte d’appello di Milano. La sentenza autorizza, “con effetto immediato”, la sospensione della nutrizione e dell’idratazione con sondino della ragazza, per la quale il padre Beppino da tempo chiede di “staccare la spina”. Anche se non c’è nessuna spina da staccare. Eluana respira da sola, vive, forse sogna, nessuno può sapere cosa. C’è ancora, il suo stato è stabile. Vive, e la concretezza di quella vita è insopportabile per chi la considera già morta. Nessuna spina da staccare, dunque, ma interruzione di semplici attività di sostentamento (“sostentamento ordinario di base”, lo aveva definito il Comitato nazionale di bioetica) e cioè della somministrazione di acqua e di cibo: non un atto terapeutico (dunque nessun accanimento) ma semplice cura.
Il nostro ordinamento non prevede la pena di morte per chi non è in grado di mangiare e bere autonomamente. Poi, nello scorso ottobre, una sentenza della Cassazione ha stabilito che il giudice può, su istanza del tutore, autorizzare l’interruzione della nutrizione quando “la condizione di stato vegetativo del paziente sia apprezzata clinicamente come irreversibile, senza alcuna sia pur minima possibilità, secondo standard scientifici internazionalmente riconosciuti, di recupero della coscienza e delle capacità di percezione”. E, insieme, quando “sia univocamente accertato, sulla base di elementi tratti dal vissuto del paziente, dalla sua personalità e dai convincimenti etici, religiosi, culturali e filosofici che ne orientavano i comportamenti e le decisioni, che questi, se cosciente, non avrebbe prestato il suo consenso alla continuazione del trattamento”. Per chi non può esprimersi, vale quindi l’interpretazione, la suggestione, la sensazione di altri. Alla faccia del consenso informato, che viene chiesto per i più banali atti medici ma che pare si possa tranquillamente saltare se si tratta di comminare la morte per fame e per sete.
Il costituzionalista Aldo Loiodice, docente a Bari e a Roma, dice al Foglio che la sentenza di Milano “è abnorme, perché nega il principio primario del diritto alla vita. Non siamo di fronte al diritto di rifiutare le terapie e anche la nutrizione, attraverso una volontà liberamente espressa. In questo caso non c’è nessuna volontà, se non quella dei tutori della Englaro. E’ un fatto moralmente e giuridicamente inaccettabile. Viene invocato il diritto a uccidere una persona attraverso la negazione dei supporti minimi per la sua sopravvivenza. Quello di Eluana non è un corpo privo di valore, ‘è’ Eluana. E il suo tutore non può intervenire su diritti personalissimi, che non ammettono rappresentanza”.
Pietro Crisafulli, fratello di Salvatore, il ragazzo che si è svegliato dopo due anni di stato vegetativo, racconta al Foglio di aver commentato con Bobby Schindler, fratello di Terri Schiavo, “questa assurda sentenza. Siamo preoccupati per una decisione ingiusta che si basa su dichiarazioni non verificabili e che apre scenari neri per tutti coloro che si trovano nelle condizioni in cui si è trovato mio fratello”. Che ci sia da preoccuparsi lo conferma un commento del legale della famiglia Englaro, il quale giudica “paradossale che venga riconosciuto il diritto di rifiutare un trattamento medico a tutti tranne che a chi non può rifiutarsi proprio perché in stato vegetativo”. “Invasiva”, secondo questa logica grottesca, sarebbe la somministrazione di cibo e acqua a Eluana, mentre non sarebbe invasiva la decisione – presa da altri – di negarglieli.
Significa, secondo il sottosegretario al Welfare Eugenia Roccella, che “la decisione di porre fine a una vita umana non richiede dunque nemmeno quelle cautele che riguardano le normali volontà testamentarie su beni materiali”, mentre il Centro di Bioetica della Cattolica di Milano sottolinea che la sentenza della Corte d’appello “introduce un serio e grave problema deontologico nella medicina: sospendere trattamenti ordinari come quelli somministrati a un paziente in stato vegetativo a motivo di una decisione che non ha fondamento clinico, significa di fatto scardinare il dovere fondamentale del prendersi cura dei pazienti che non sono in grado di intendere e volere”.
L’associazione Scienza & Vita parla di “deriva culturale: che si consideri come criterio fondamentale l’esercizio dell’autonomia, anche laddove questa non possa più essere esercitata. E che, in nome di questa falsa autonomia, si metta in gioco anche quel rispetto per la dignità umana che proprio nella vita fisica trova la sua ragion d’essere”. Mentre Medicina e Persona accusa: “Questa decisione su Eluana è una condanna a morte perpetrata per legge in nome della pietà. La decisione della Corte d’appello di Milano è gravissima ed è la dimostrazione del modo scorretto di operare in questi ultimi decenni di una parte della magistratura italiana, che si arroga il diritto di stravolgere le leggi, addirittura di crearle”. Eloquente, a questo proposito, il commento di monsignor Rino Fisichella, presidente della Pontificia accademia pro vita, il quale si chiede “come sia possibile che il giudice si sostituisca in una decisione come questa alla persona coinvolta, al legislatore”. Mentre sottolinea che “Eluana è ancora una ragazza in vita. Il coma è una forma di vita e nessuno può permettersi di porre fine a una vita personale”.
I giudici milanesi fanno di più. Si spingono fino a dettare le procedure mediche che devono accompagnare Eluana alla morte (“occorrerà fare in modo che l’interruzione del trattamento di alimentazione e idratazione artificiale con sondino naso-gastrico la sospensione dell’erogazione di presidi medici collaterali o di altre procedure di assistenza strumentale avvengano in hospice o altro luogo di ricovero confacente…”). Estrema beffa: il padre di Eluana può già ottenere la sospensione dell’alimentazione, mentre il procuratore generale ha due mesi per presentare appello. Per quella data, però, Eluana potrebbe essere già morta.
L’ALIMENTAZIONE NON È TERAPIA, Eluana non era morente Ora è condannata
ROBERTO COLOMBO
Avvenire, 10 luglio 2008
La drammaticità della vita umana appare in tutta la sua incalzante urgenza e nel suo insopprimibile interrogativo quando la malattia e la sofferenza ci colpiscono. Ancor più se esse durano nel tempo e non si aprono punti di fuga, almeno a vista d’uomo.
Della malattia e della sofferenza si dovrebbe parlare in prima persona (alcuni lo hanno fatto, altri non ne hanno avuto modo), perché solo l’esperienza rende più evidente la realtà e lucido il giudizio della ragione. Se la sua situazione fosse rimasta nel dovuto riserbo – protetta come si doveva da ingerenze giornalistiche, giuridiche e politiche – di Eluana non avremmo voluto scrivere, tanto distante è l’esperienza che ci separa da lei e dai suoi familiari. Ma così non è stato. Il suo è diventato un caso pubblico, caricato di valenze e allusioni emotive, simboliche, giurisprudenziali e amministrative, e, dunque, non può restare senza una valutazione clinica, deontologica ed etica, senza una riflessione culturale e sociale. In punta di piedi, bisbigliando – come quando si entra nella stanza di chi sta male – dobbiamo quindi parlare, col massimo rispetto, o meglio, con grande amore verso di lei.
Anzitutto la realtà clinica: Eluana non è morta (né dal punto di vista cardiocircolatorio e polmonare, né sotto il profilo cerebrale) e neppure sta per morire (non è un 'malato' con prognosi terminale). La condizione di «stato vegetativo persistente» in cui versa da anni non è clinicamente identificabile con uno stato di «coma irreversibile» dal quale si differenzia, tra l’altro, per la possibilità (non escludibile) di un risveglio, spontaneo o stimolato, e la presenza di una importante attività elettrica cerebrale e di movimenti di apertura degli occhi, stimolati e non. Anche il 'senso comune' (per non dire dello sguardo clinico) apprezzano queste differenze obiettive.
Inoltre, la paziente non subisce nessun tipo di trattamento che possa ricadere nella fattispecie dell’«accanimento terapeutico»: al contrario, essa viene curata amorevolmente dal personale medico e infermieristico che la assiste e le assicura l’idratazione, l’alimentazione, il ricambio, la mobilizzazione ed altre cure nella forma che corrisponde ai suoi bisogni fisiologici essenziali. Perché privarla di tutto questo per porre fine ai suoi giorni? Come il medico e l’infermiere potrebbero abdicare – seppure in ottemperanza ad una sentenza – alla propria scienza e coscienza, la cui evidenze mostrano ragionevolmente che attuare quanto previsto dalla Corte significa condannare a morte certa questa giovane donna?
Da oltre due millenni e mezzo, la medicina è nata e si è sviluppata in Occidente per curare ogni paziente in qualunque circostanza fisica o morale si trovi; solo in epoca recente, e oggi sempre più e meglio, anche per restituirgli la salute e salvargli la vita. I medici non sono chiamati né a provocare né ad accelerare il processo della morte. Chi può arrogarsi il diritto di infrangere la dignità e la deontologia che hanno fatto di questa professione un valore imprescindibile per la nostra società e un sicuro strumento di miglioramento della vita personale dei cittadini? I giudici hanno considerato l’idratazione e l’alimentazione fornite a Eluana come 'atti medici', al pari di terapie che possono essere intraprese o sospese in ogni momento, sulla base della considerazione della loro efficacia o futilità clinica. Occorre invece sciogliere l’equivoco: anche se posti in essere da personale qualificato come sanitario, la natura di sostegno vitale essenziale per l’esistenza del soggetto non muta. Come ha ricordato lo scorso anno la Congregazione per la Dottrina della Fede, «la somministrazione di cibo e acqua, anche per vie artificiali, è in linea di principio un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita. Essa è quindi obbligatoria, nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente». E nel caso di Eluana, esse continuano a risultare di provata utilità nel sostenere la fisiologia del suo organismo e consentire la vita della persona.
In questa delicata materia il foro giudiziale non appare essere la sede più appropriata per decisioni che, nella lunga storia della cura dell’uomo, hanno trovato nell’alleanza terapeutica tra paziente, congiunti e medico un luogo appropriato e ragionevole di composizione dei diritti e dei doveri, tra i quali figura – secondo il detto evangelico – quello di «dare da mangiare agli affamati e da bere agli assetati».
«I pazienti in stato vegetativo? Sono vivi. E vanno curati». Parla il geriatra Giovanni Guizzetti: «I giudici hanno trasformato Eluana in una malata terminale»
Avvenire, 10 luglio 2008
DA MILANO
« P rovo un sentimento di angoscia e, come medico, credo che questa sentenza svaluti completamente il senso della attività mia e della mia équipe». Giovanni Battista Guizzetti, geriatra, da 12 anni è responsabile del reparto Stati vegetativi al Centro Don Orione di Bergamo: «Credo che sia difficile immaginare un atto più crudele nei confronti di un essere umano innocente».
La sentenza della Corte d’Appello di Milano autorizza a sospendere alimentazione e idratazione a Eluana Englaro. Evidentemente ritiene, come voleva la Cassazione, che lo stato di incoscienza sia irreversibile. È possibile stabilire questo parametro?
Lo stato vegetativo è una condizione difficile da definire e diagnosticare. Uno studio britannico (pubblicato sul British Medical Journal) indicava nel 43% la quota di diagnosi errate, perché la condizione di stato vegetativo può essere stabilita solo con osservazioni ripetute, non attraverso esami strumentali. E la task force di esperti che nel 1994 ha definito (sul New England Journal of Medicine) gli aspetti medici dello stato vegetativo ha puntualizzato che la diagnosi di permanenza non ha valore di certezza, ma è solo di tipo probabilistico. In altri termini, nessun medico potrebbe dire una parola definitiva sulla prognosi di un paziente in stato vegetativo, anche se è vero che dopo un anno dall’evento iniziale le probabilità di una ripresa si riducono progressivamente. Esistono però casi riportati di tanto in tanto di persone che si sono riprese dopo decenni.
Si fa spesso riferimento allo stato di coscienza. Come si può determinare se e cosa sentono le persone in stato vegetativo?
È praticamente impossibile saperlo. Lo scorso anno lo psichiatra Owen, di Cambridge, ha pubblicato su Nature i risultati di uno studio con la risonanza magnetica funzionale, che indicava come una donna in stato vegetativo, cui veniva chiesto di muoversi per casa sua, pur senza dare segni esteriori di capire, in realtà aveva in alcune aree corticali le stesse reazioni di un soggetto sano. Del resto anch’io ho assistito a casi di ripresa della coscienza anche a distanza di anni.
Che assistenza date ai vostri pazienti?
Non hanno bisogno di alte tecnologie, ma vengono seguiti con amore da tutta l’équipe, in particolare dagli infermieri, che li lavano, li muovono, li nutrono, li profumano, li accudiscono: portano anche le mollette per fare la permanente. Anche i parenti, che sono sottoposti a stress fortissimi, si accorgono che negli anni il nostro impegno di cura verso i loro cari non viene mai meno. Credo che tra gli scopi di un intervento medico non ci sia solo la guarigione, ma anche il mantenere in vita ed evitare peggioramenti. Comunque esploriamo la possibilità di togliere la cannula tracheale, curiamo i decubiti, studiamo terapie innovative. La nostra è una riabilitazione estensiva: si punta a migliorare il confort di una persona indipendentemente dal suo deficit e mantenerlo nel tempo.
Fondamento della sentenza c’è il ritenere l’alimentazione artificiale un atto medico che si può rifiutare. Cosa ne pensa?
Che si tratta di un artificio, non è un trattamento che possa essere sospeso per nessun paziente. Anzi, è evidente che proprio la migliore assistenza possibile (che comprende l’alimentazione) è condizione necessaria, anche se non sufficiente, per lavorare a un recupero della coscienza.
I giudici forniscono anche indicazioni pratiche: togliere il sondino nasogastrico in un hospice, somministrare sedativi, idratare le mucose e prevenire «l’eventuale disagio da carenza di liquidi», curare l’igiene e l’abbigliamento. Che cosa vogliono dire?
La morte per disidratazione è dolorosa. Quindi si pensa di dare morfina. E il riferimento all’hospice è indicativo: non è una paziente terminale, viene obbligata a diventarlo. Ma se lavorassi in un hospice, mi ribellerei dicendo: qui non ammazziamo la gente. Non si può chiedere questo a un medico, e poi dire che la paziente può avere il rossetto. Quanto al sondino nasogastrico, mi meraviglio che dopo tanti anni non le sia stata praticata la Peg, intervento minimamente invasivo ma che evita inutili sofferenze.
I medici quindi potrebbero ricorrere all’obiezione di coscienza?
Direi di sì perché si tratta di un’azione malvagia: non riesco a definire diversamente l’uccisione di un essere umano innocente.
Enrico Negrotti
A Margherita Hack: il razionalismo cancella la speranza
DI PIERO BENVENUTI *
Avvenire, 10 luglio 2008
Cara Margherita, ho letto la tua recente intervista pubblicata da 'Liberazione' il 14 giugno scorso con il titolo 'Come posso credere che ci sia qualcuno che crea tutto e poi ci dice: scoprìtelo?'. Al termine della lettura ho provato un senso di profonda tristezza, mi è rimasto dell’amaro in bocca che non riuscivo ad eliminare: per l’affetto che ti porto – nonostante le nostre divergenze d’opinioni – vorrei cercare di spiegartene il motivo. Tu sai certamente di essere ormai un’icona dell’astrofisica e della donna scienziato: ad ogni scoperta astronomica i giornalisti si rivolgono solo a te per un commento e la tua opinione è richiesta anche nei dibattiti su svariate questioni etiche, politiche, di costume. Spero non ti sfugga quale formidabile potere di convinzione, soprattutto sui giovani, abbiano le tue parole, i tuoi giudizi, i tuoi libri.
Ora, non credo esista un tuo scritto o un tuo intervento orale nel quale, dopo poche righe o pochi minuti, tu non abbia inserito l’affermazione di essere atea. Naturalmente questa è una rispettabile opinione personale, ma, nell’attuale contesto culturale, il problema collegato alla tua apodittica dichiarazione è che l’ateismo cui tu fai riferimento, quello serio, filosofico, meritevole di attenzione e confronto serrato, l’atesimo di Nietzsche, di Feuerbach, di Marx, non esiste più. È stato ormai soppiantato dall’indifferenza, figlia del frastuono sommergente della pubblicità e della in-civiltà del benessere, o dallo scherno beffardo e superficiale. Forse non era nelle tue intenzioni, ma il tuo sardonico suggerimento – nell’intervista – di sganciare una bomba atomica sul Vaticano, invece che scendere in campo seriamente sul piano del confronto delle idee, rivela una mescolanza di fondamentalismo e di scarso rispetto per chi non la pensa come te, che, solo per questo, sbeffeggi come un povero ingenuo. Vedi Margherita, mi preoccupa il messaggio che lasci ai giovani: le tue parole li inducono a non approfondire, a non formarsi un’opinione critica per poi rispondere autonomamente, in libertà, alla domanda primordiale: «Cos’è la Verità?».
Nei fatti, forse non nelle intenzioni, li consigli di lasciar perdere, tanto «sono solo ingenuità del passato». Lungi da me cercare di farti cambiare idea, ma sei certa di voler proporre ai giovani di relegare tra gli 'ingenui', scienziati (non filosofi o teologi !) come Planck, Einstein, Heisenberg, Pauli, e tutti coloro che hanno cercato con passione per tutta la vita non solo le 'leggi' della natura, ma anche il senso ultimo dell’esistenza? Nell’intervista ti si chiede cosa ne pensi del nuovo ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Mariastella Gelmini.
Rispondi avanzando dubbi sulla possibilità che un avvocato a te sconosciuto sia la persona più adatta a guidare tale ministero. Ho ascoltato il giovane ministro nel suo primo – credo – discorso pubblico, durante l’inaugurazione in Campidoglio di un Simposio europeo di docenti universitari dal titolo – che forse tu troverai provocatorio – «Allargare gli orizzonti della razionalità».
Ha detto poche parole, dense di significato, citando Wittgenstein dove dice: «Anche quando la Scienza avesse dato risposta a tutte le sue domande, non avrebbe ancora risposto alla domanda esistenziale dell’Uomo» e ha concluso, conseguentemente, con la promessa dell’impegno del suo ministero a rilanciare lo studio della Filosofia in tutte le scuole. A questo punto, mi sembra quasi di sentirti sbottare, nel tuo accento inconfondibile: «Son tutte bubbole!». Prima però di chiudere la porta, senza appello, ad ogni apertura metafisica, vorrei sottoporti due considerazioni. La prima discende dalla rivoluzione epistemologica della Fisica moderna, rispetto a quella di Galileo e Newton. Nella tua intervista tu indichi come compito dello scienziato quello di scoprire le «leggi della natura»: come sai questo termine ottocentesco è ormai desueto e ha lasciato il posto ad espressioni come 'teoria', 'equazioni', 'modello'. Non si tratta di mere distinzioni linguistiche: il significato profondo è che la Fisica moderna ha riconosciuto l’impossibilità di giungere, dal suo interno, ad una comprensione esaustiva della realtà. Anche se tu volessi limitare la totalità della realtà ai soli 'fenomeni' fisici, la Fisica attuale non ti assicura di poter arrivare alle sue radici. La soluzione del cruciverba dell’Universo da parte dello scienziato, cui fai riferimento nella tua intervista, non avrà mai fine. Forse val la pena di meditare, filosoficamente, che senso abbia tutto questo.
Ma c’è dell’altro. Ogni mattina e sera ho davanti agli occhi il sorriso di un bambino: non parla, sorride solamente, ma con quel sorriso esprime un amore profondo ed incondizionato che si propaga e contagia chiunque entri in comunicazione con lui. La mia razionalità si ribella al pensare che quell’amore sia meno reale di un fenomeno fisico, di un atomo o di una stella, né mi si può convincere che sia riducibile alla semplice somma di reazioni biochimiche e di impulsi sinaptici. Se anche quell’amore giacesse ormai sottoterra putrefatto, non servirebbe e non sarebbe servito a nulla. Ma allora, se l’amore non è credibile, anche tutto lo svolgersi dell’Universo lungo i suoi 13,7 miliardi di anni non avrebbe più senso, né avrebbe senso alzarsi ogni mattina per iniziare un nuovo giorno: per far cosa? per attendere penosamente la dissoluzione nel Nulla?
Il tuo credo razionalistico, togliendo significato essenziale all’unica realtà credibile, l’amore, tronca alla radice ogni speranza. È veramente questo il messaggio che vuoi trasmettere alle generazioni future? Pensaci, Margherita.
Con affetto.
* Università di Padova