domenica 27 luglio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Maria a Medjugorje: messaggio del 25 luglio 2008
2) “Humanae vitae”: atto di magistero ordinario universale della Chiesa
3) Intervista a mons. Elio Sgreccia - Eutanasia, aborto, provetta selvaggia. «Ciò che si fonda sul principio di autonomia è autoreferenziale, perciò, in nuce, anche antisociale». Il presidente emerito della Pontificia Accademia pro Vita e la bioetica “laicista”...
4) La famiglia italiana, fattore di progresso - Discorso del Cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia
5) Testamento biologico, quali considerazioni?
6) Come «guadagnare Cristo» nella visione paolina - Se pensate di essere arrivati continuate a correre


Maria a Medjugorje: messaggio del 25 luglio 2008
Cari figli, in questo tempo in cui pensate al riposo del corpo, io vi invito alla conversione. Pregate e lavorate in modo che il vostro cuore aneli al Dio creatore che è il vero riposo della vostra anima e del vostro corpo. Che Egli vi riveli il suo volto e vi doni la sua pace. Io sono con voi e intercedo davanti a Dio per ciascuno di voi. Grazie per aver risposto alla mia chiamata.


“Humanae vitae”: atto di magistero ordinario universale della Chiesa
Monsignor Livio Melina, presidente del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per gli studi su matrimonio e famiglia, rilegge quelle parole «controcorrente» nel 40° della pubblicazione...


«Humanae vitae, fedeli alla verità dell’amore umano»
Un «atto di magistero autentico», poi «confermato da altri atti di magistero fino a configurarsi oggi come parte del magistero ordinario universale della Chiesa». Un insegnamento «che si inserisce nel contesto organico della dottrina cattolica, nella quale non è mai possibile separare la verità su Dio da quella sull’uomo, la fede da credere dalla prassi da attuare nella vita quotidiana». È monsignor Livio Melina, preside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per gli studi su matrimonio e famiglia, a sintetizzare in questo modo il significato e, soprattutto, l’attualità della Humanae vitae, firmata il 25 luglio del 1968 da Paolo VI.
Che cosa significò, 40 anni fa, la pubblicazione di questa enciclica?
Da parte di Papa Paolo VI, fu un atto di fedeltà a Cristo e alla verità dell’amore umano, in un contesto di opinione pubblica fortemente manipolato in senso contrario alla morale cattolica. Gli allarmi sulla sovrappopolazione e le lusinghe della rivoluzione sessuale avevano fatto breccia anche all’interno della comunità cristiana. Inoltre non mancava chi pensò che l’«aggiornamento» auspicato dal Vaticano II dovesse comportare una rottura con la tradizione. Con grande coraggio il Papa seppe levare la sua voce controcorrente per rivendicare l’integrale verità dell’amore coniugale come dono di sé, mai intenzionalmente chiuso alla vita.
Ci furono, all’epoca, molte contestazioni, anche in seno alla Chiesa, e ancora oggi si continua spesso a presentare la «Humanae vitae» come «oscurantista». Erano e sono tutte infondate quelle contestazioni? Perché non pochi teologi dissentirono dalla posizione espressa in quel testo?
Di fronte ad un contesto culturale profondamente cambiato, credo che ci fosse un grave ritardo della teologia, in particolare della teologia morale, nel comprendere i fondamenti di quella posizione che appartiene, peraltro, alla grande tradizione vissuta e predicata della Chiesa. L’impostazione casistica e legalistica della morale, bloccata in una contrapposizione tra coscienza e legge, non era in grado di fondare la norma etica. I primi tentativi di personalismo, pur giusti nella loro intenzione di superare una visione riduttiva della sessualità, finivano per non rendere conto del valore del corpo e del significato procreativo iscritto da Dio nel sesso. In questo contesto di insufficienza del pensiero teologico, sembrava a molti che l’attenzione pastorale verso le coppie dovesse portare a un cambiamento della norma morale, da sempre insegnata nella Chiesa, circa la verità integrale dell’atto coniugale. Il successivo sviluppo dell’antropologia teologica e della morale, maturato in piena fedeltà alle indicazioni di Humanae vitae, ha mostrato che altra era la via per dare ragione ad alcune giuste istanze percepite da chi dissentiva.
Quanto, del magistero successivo, può dirsi ispirato dall’enciclica?
Il magistero della Chiesa si è successivamente sviluppato non nella rottura, ma nella continuità, confermando la dottrina dell’enciclica e approfondendone le motivazioni. Preparando e accompagnando il Sinodo dei Vescovi del 1980 sulla famiglia, Giovanni Paolo II ha offerto alla Chiesa il grande tesoro delle sue catechesi del mercoledì – 1979-1984 – sulla «teologia del corpo», che costituiscono un corpo dottrinale la cui ricchezza attende ancora di venire pienamente esplorata e messa in valore. In esse il significato nuziale del corpo, nella sua differenza sessuale e nella sua chiamata al dono di sé, è intimamente connesso con la dimensione procreativa, che è costitutiva della verità dell’atto coniugale.
E che si può dire di Papa Ratzinger?
Il suo insegnamento, in particolare quello sulla teologia dell’amore dell’enciclica Deus caritas est, ha permesso di vedere il radicamento dell’amore umano nell’amore divino, collegando la questione dell’amore coniugale non solo alla questione antropologica, ma anche a quella teologica: l’uomo e la donna sono infatti creati a immagine di un Dio trinitario, in cui dono di sé e fecondità sono costitutivi. Così si può vedere che l’insegnamento dell’enciclica di Paolo VI non è un episodio isolato e imbarazzante, che si potrebbe mettere facilmente da parte nella pastorale.
Perché ancora oggi quel testo può considerarsi completamente «moderno»?
Più che moderno come si suol dire: «chi sposa la moda rimane presto vedovo» – direi piuttosto che l’enciclica montiniana è attuale, proprio perché è autenticamente profetica: dice cioè quella parola che viene da Dio e che ha un valore permanente, perché non è ispirata dalle mode o dal desiderio di compiacere, ma dalla carità autentica sempre radicata nella verità. Il profeta dice una parola che talvolta è scomoda ed anche rifiutata, ma che contiene in sé una giudizio ed un’indicazione di vita, che alla lunga si afferma. A distanza di quarant’anni siamo in grado di comprendere come quella parola difficile e scomoda sia ancor oggi un giudizio discriminante sull’evoluzione dei costumi in un ambito così decisivo per la vita dell’uomo, com’è quello della sessualità. L’erotismo pervasivo e devastante la vita quotidiana di tante persone, di tanti giovani, e che si è affermato come un nuovo idolo che chiede le sue vittime, non è forse già giudicato dalla parola che aveva indicato nell’amore il contesto della sessualità e nell’unità del significato unitivo e procreativo il criterio per un esercizio della sessualità come autentico dono di sé? Tutto ciò non è solo teoria, e lo so bene per tanti incontri e tante esperienze, in Italia e in tante parti del mondo.
Che cosa rileva da queste esperienze?
Ci sono innumerevoli coppie di sposi, riunite in associazioni e movimenti, che nella fiducia alla Chiesa e nel sacrificio, hanno seguito una via forse più difficile, ma certo felice ed hanno scoperto che la norma della Chiesa non è un limite oscurantista, ma la condizione perché la libertà possa svilupparsi e crescere nell’amore. Esse sono la dimostrazione vivente della verità della Humanae vitae, quarant’anni dopo. Per concludere direi che oggi, celebrando il quarantesimo dell’enciclica, possiamo dire di essere molto più consapevoli che non si tratta semplicemente di un moralismo arretrato, ma di una visione nuova dell’uomo e della donna, dell’amore e del corpo: una visione che certamente la fede illumina, ma che trova una profondissima corrispondenza nel cuore di ciascuno.
di Salvatore Mazza
Avvenire 26 luglio 2008


Intervista a mons. Elio Sgreccia - Eutanasia, aborto, provetta selvaggia. «Ciò che si fonda sul principio di autonomia è autoreferenziale, perciò, in nuce, anche antisociale». Il presidente emerito della Pontificia Accademia pro Vita e la bioetica “laicista”...

Eutanasia, aborto, procreazione medicalmente assistita, clonazione, mercificazione della “materia” umana. I temi che in maniera più diretta riguardano l’uomo, la sua vita, la sua morte, la sua carne, sono entrati oramai a pieno titolo nella vulgata modernista che caratterizza la nostra civiltà occidentale, spesso però subendo uno svilimento nella loro trattazione. Svilimento inevitabile in un mondo iper-relativista dove ogni desiderio diventa diritto e tutto, perfino l’uomo, è misurabile con il metro dell’utilitarismo. Ad offrire, in controtendenza con i venti scientisti, una coscienza critica e responsabile sulle cosiddette questioni eticamente sensibili, è rimasta quasi solo la Chiesa cattolica, che si è dotata di uno strumento ad hoc: la Pontificia Accademia pro Vita, creata da Giovanni Paolo II con il motu proprio Vitae mysterium dell’11 febbraio 1994. A guidare il “comitato bioetico” della Santa Sede è stato, fino al mese scorso, monsignor Elio Sgreccia, che il 17 giugno ha comunicato a Benedetto XVI la sua rinunzia per raggiunti limiti d’età (lo ha sostituito monsignor Rino Fisichella, rettore della Pontificia Università Lateranense e ausiliare della diocesi di Roma). Tempi ha incontrato monsignor Sgreccia per ripercorrere con lui questi ultimi quattordici anni, caratterizzati da un intenso lavoro di studio e ricerca a stretto contatto con esperti di tutto il mondo. Marchigiano, tra i promotori dell’Istituto di bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore presso il Policlinico Gemelli di Roma, Sgreccia è stato segretario del Consiglio Pontificio della Famiglia. Ottantenne con una lucidità intellettuale e un’acutezza di pensiero da fare invidia, prima di cominciare a parlare dei suoi studi e delle battaglie che hanno riempito le pagine dei giornali negli ultimi anni, ci tiene a precisare che, come lo statuto dell’organismo prevedeva in origine, il primo presidente dell’Accademia Pontificia pro Vita, fu un laico: Jerome Lejeune.
«Lejeune, fu un pioniere della genetica. Nel lontano 1958 scoprì, a soli 32 anni, la prima anomalia cromosomica umana, responsabile della trisomia 21, conosciuta anche col nome di mongolismo. Nei congressi internazionali dell’epoca si prodigò non poco a difendere il diritto alla vita per il concepito. E questa posizione contro l’aborto gli costò molto sul piano intellettuale: fu a lungo censurato e tenuto in disparte. Il premio Nobel gli fu negato proprio per le sue posizioni antiabortiste. Aveva una grande sintonia con papa Giovanni Paolo II. Fu proprio assieme a lui e al cardinale Fiorenzo Angelini che ebbe l’idea di dar vita ad una accademia per la vita. Io da subito fui nominato vicepresidente. Lejeune, però, morì poche settimane dopo la sua nomina. Suo successore venne nominato sempre un laico, il biologo cileno Juan de Dios Vial Correa, e io per dieci anni feci da vice anche a lui, fino a quando sono passato a ricoprire, negli ultimi quattro anni, in via eccezionale, la carica di presidente».
Eccellenza, in questi decenni il concetto di inviolabilità della vita è andato sempre più “precarizzandosi”. Può ripercorrere, nei passaggi più significativi, il lavoro che ha svolto l’Accademia per rispondere a questo attacco all’idea di “umano”?
Potrei riassumere il nostro operato in tre momenti principali. Il primo riguarda l’identità dello statuto dell’embrione umano, sul quale siamo tornati due volte con i congressi internazionali. Il primo dopo due anni dalla nascita della fondazione, e ancora nel 2006, limitatamente all’embrione preimpiantatorio, cioè a quella fase in cui si concentrano le negazioni dell’identità dell’embrione umano. Da lì abbiamo rifatto la storia biologica e biografica di questo essere, che transita, cresce e si afferma. Un lavoro che ci ha fornito ancora una volta la possibilità di attestare che dal momento della fecondazione siamo in presenza di un essere umano nuovo e individualizzato. Naturalmente non basta la biologia per dire cos’è la persona, ma il presupposto è necessario per poi elaborare, come abbiamo fatto, le varie riflessioni filosofiche e antropologiche. Il secondo punto riguarda le cellule staminali, che sono una risorsa e una novità nella storia della medicina. Queste cellule primitive non ancora differenziate si trovano in deposito per soccorrere l’organismo dove esistono cellule logorate. Si trovano nell’organismo adulto e anche nell’embrione. Nelle primissime fasi di quest’ultimo, le cellule staminali sono in grado di produrre altri embrioni, poi quando si differenziano sono valide per più organi ma non per tutto l’organismo. Di fronte a chi si è gettato a capofitto sulle cellule dell’embrione pensando di trovarvi chissà quali tesori nascosti per curare malattie neurologiche e degenerative, noi abbiamo preso la posizione contraria: no allo sfruttamento e alla distruzione dell’embrione. In ogni caso, anche se fosse vero che quelle cellule fossero miracolose, non si può uccidere un essere umano per guarirne un altro. Abbiamo indicato come strada feconda il prelievo dall’organismo delle cellule staminali adulte (dal cordone ombelicale o dal sangue) e giornalmente si hanno notizie di successi, sia nelle ricerche sia nelle sperimentazioni, e anche nelle applicazioni cliniche. Senza vanterie o polemiche, abbiamo costruito posizioni accertate e documentate che hanno avuto il pregio di sbarazzare il campo da quei tentativi che miravano a giustificare la distruzione dell’embrione per fini terapeutici. Il terzo punto che vorrei sottolineare è quello legato alla difesa del momento finale della vita, dove l’organismo umano viene meno o nella capacità neurologico-percettiva (stato vegetativo persistente), o negli ultimi stadi di malattia, dove si cerca di giustificare l’intervento eutanasiaco. Abbiamo definito gli obblighi di assistenza, di continuità della cura, e precisato anche le terapie obbligatorie, quelle proporzionate, ordinarie e quelle vietate perché sproporzionate. È stato un lavoro in protezione del morente.
Su tutti i temi legati all’uomo, nella nostra società secolarizzata si tende a far prevalere il concetto di libertà. Si parla della libertà di morire, della libertà di avere un figlio a tutti i costi, della libertà di negare la vita a un nascituro. Crede che il problema sia legato a un’idea errata di libertà?
Certamente. La cosiddetta bioetica che si autodefinisce laica per nascondere, in realtà, il laicismo, cioè il rifiuto di Dio attraverso una visione riduttiva, temporalistica e individualistica dell’essere umano, fonda tutto sul principio di autonomia. Quest’ultimo è autoreferenziale e perciò esposto alla conflittualità sociale: quello che è autonomo e si fonda sull’io soggettivo, ovviamente, genera scelte che sono diverse da soggetto a soggetto. Esiste quindi in nuce il presupposto di una frantumazione della solidarietà umana. Questo principio è falso perché il concetto di autonomia presuppone un concetto di dipendenza. Io sono autonomo negli atti, non nell’essere. C’è un falso radicale nel concetto di autonomia. Qui si pone il problema da dove arriva il mio essere e l’interpellazione della creazione. Né il caso né l’evoluzione rispondono al quesito. Poi c’è il problema se la mia autonomia possa essere scissa dalla mia responsabilità. Nel concetto di scelta c’entra sempre una responsabilità. L’individuo è libero quando è responsabile.
Il professor Pietro Barcellona, docente di Filosofia del diritto all’Università di Catania, ex membro del Pci berlingueriano, un non credente, sostiene che il sacro è tutto ciò che non mi è dato, che non ho nelle mie disponibilità, e quando pretendo di andare a modificarlo rischio di mutare il concetto antropologico di uomo. In un suo recente libro, Barcellona afferma che il genoma umano diventerà il petrolio del nuovo millennio. Come è possibile, a suo avviso, evitare che la vita si trasformi in oggetto della speculazione?
Dovessi dare un consiglio a chi si occupa di ricerca, direi di fermarsi prima, di porsi la domanda su cosa devo ricercare e su cosa non è lecito. Il filosofo tedesco Jürgen Habermas, che non è un uomo di fede, concepisce la libertà senza basarsi su alcun assoluto e ritiene che solo il dialogo ci consenta di valutare cosa è necessario fare o non fare. Pur non concependo assoluti, è arrivato a identificare il presupposto indispensabile per la discussione: lui lo chiama “principio genetico”, cioè la necessità ineludibile di non toccare l’essere umano e la sua costituzione genetica, perché facendolo modificheremmo anche il nostro interlocutore. Su questo punto ha dialogato proficuamente anche con l’allora professor Joseph Ratzinger, e lì è necessario tornare. Se io prendo la padronanza sul tuo essere corporeo, io divento il peggior dittatore e carnefice dell’esser umano.
Ma il sistema economico e sociale in cui viviamo, le multinazionali, l’ultraliberismo sono permeabili alle leggi dell’etica?
Io dico che è necessario, è indispensabile che anche colui che segue il profitto, la globalizzazione, l’utilitarismo si chieda dove è il punto finale di tutto questo e dove si possa basare la sicurezza che quanto si sta facendo non sia contro l’uomo. Porsi questa domanda è imprescindibile per tutti.
La Chiesa cattolica su questi temi è, da sempre, coscienza critica. A volte però sembra timida. Lei ritiene che, nel corso di questi anni, la Chiesa abbia dimostrato limiti che andrebbero indagati?
Indubbiamente rispetto alle provocazioni che arrivano dalle scienze biologiche, dalle legislazioni sociali e dagli intrecci economici, a volte si può aver l’impressione che la Chiesa risponda in ritardo, che arrivi una risposta solo dopo una provocazione. Ovviamente sarebbe auspicabile che ogni volta si possa prevenire come fa il profeta, ma non sempre le condizioni reali permettono di ammonire in precedenza. Credo però che questa parte di profezia la Chiesa l’abbia sempre fatta, richiamando ai princìpi intoccabili. Il “non negoziabile”, come dice Benedetto XVI, che riguarda l’essere umano, la famiglia, la coscienza e la libertà religiosa. Sono contento di aver partecipato a questo coro, e sono felice e orgoglioso di appartenere a questa voce anticipatrice. Se fosse mio potere, direi, specialmente ai ricercatori che stanno in laboratori dove non si vede il volto dell’uomo, che ciò che si fa sugli altri ricade sempre su tutta la specie. È necessario riaffermare che l’essere umano non si può guastare o strumentalizzare, pena la caduta nel delirio superumanista.
La difesa dell’essere umano dovrebbe riguardare tutti, credenti e non. In questi anni alcuni laici hanno condotto al fianco della Chiesa una battaglia culturale molto efficace. Come Giuliano Ferrara, prima sulla legge 40 e poi con la moratoria sull’aborto.
Per me questa è la laicità forte del futuro, una laicità “maior” che riguarda chi vuole dialogare con gli uomini di fede. Certi princìpi di razionalità stanno a cuore ai cattolici e a tutti quelli che vogliono preservare all’uomo la razionalità. Senza di essa si fa dell’uomo carne da macello. Questo sviluppo della laicità che dialoga su un piano di serietà e lealtà con i cattolici è una speranza da coltivare.
Monsignore, ora che ha raggiunto i limiti d’età per incarichi istituzionali, come metterà a frutto la sua esperienza?
Voglio dedicarmi alla pastorale della vita. Io sogno questo ultimo passaggio nella mia ottantenne anzianità: mi voglio dedicare al dialogo tra fede e ragione in mezzo alla gente, cioè là dove le cose accadono. È nella famiglia che avvengono i concepimenti, gli aborti, la pianificazione delle nascite, le rotture tra amore e vita, l’educazione dei giovani. Si deve dialogare con i ricercatori e gli scienziati, ma è indispensabile comunicare anche con la gente. Se è stato possibile mettere uno stop al Far west sulla fecondazione artificiale con la legge 40 è proprio perché abbiamo dialogato con le persone.
di Fabio Cavallari
Tempi 22 Luglio 2008


La famiglia italiana, fattore di progresso - Discorso del Cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia
VENEZIA, sabato, 26 luglio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso pronunciato nella Basilica del Santissimo Redentore di Venezia dal Cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia, su "La famiglia italiana fattore di progresso" in occasione della festa del Santissimo Redentore, domenica 20 luglio 2008.
* * *
1. Colui che si prende cura
«Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura» (Ez 34, 11, Prima Lettura). La promessa che il Signore, per bocca del profeta Ezechiele, fa al suo popolo, risuona ancora una volta in questa splendida basilica del Palladio e riempie il nostro cuore di speranza.
Anche quest'anno, con un gesto che si ripropone da secoli, il popolo veneziano, guidato dalle sue autorità e accompagnato da numerosi visitatori, confluisce ai piedi del Santissimo Redentore per ringraziarLo del dono della guarigione e della salvezza. Per tutti noi il ponte votivo rappresenta un po' la strada che porta a casa, da Colui che si prende cura fino in fondo delle nostre persone.
Il profeta Ezechiele ci parla del Pastore che passa in rassegna il suo gregge, lo raccoglie, lo fa pascolare con giustizia sui monti della terra promessa, lo fa riposare in un buon ovile, fascia le sue ferite e ha cura di ogni singola pecora .
2. La strada del Padre
Il Beato Giovanni XXIII, che fu nostro amato Patriarca e di cui quest'anno abbiamo celebrato il 50° di elezione al papato, nelle preziose Agende veneziane, ritorna continuamente sulla figura del Buon Pastore evangelico (cfr Gv 10). Tutti noi conosciamo bene il tratto pastorale che Egli, sulla scorta della sua esperienza, impresse al Concilio Vaticano II.
Il patriarca Roncalli, riflettendo sull'insuperabile profondità della cura di cui siamo oggetto da parte di Dio, associò alla figura del Pastore quella del Padre ricco e misericordioso. Non a caso il Vangelo di questa Festa afferma: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui» (Gv 3, 16-17).
Il Padre non solo ha cura del Suo gregge, ma vuole renderlo partecipe della Sua stessa vita donandogli il Figlio. Una partecipazione che si configura come filiazione. Dio ci vuole Suoi figli in Gesù Buon Pastore.
Questo dono, assolutamente gratuito e misericordioso, in nessun modo immaginabile o esigibile da parte degli uomini, ci viene offerto attraverso la misteriosa strada del sacrificio del Figlio.
La cura che Dio si prende di noi facendoci figli nel Figlio, tiene conto fino in fondo della situazione storica in cui versa l'uomo, segnato dal peccato e dalla morte provocati dalla disobbedienza. L'enorme peso del male nel mondo - ne siamo così spesso testimoni anche oggi - non di rado insinua il dubbio nei nostri cuori: davvero il male e l'ingiustizia non prevarranno?
Le piaghe del Crocifisso Risorto ci dicono che la salvezza di Cristo non cancella il male con un beffardo colpo di spugna, non nega la sua laida presenza nella vita degli uomini. Il Redentore lo prende su di Sé, lo delimita col bene, lo abbraccia e lo vince trasformandolo in un'occasione di sovrabbondante grazia.
Noi siamo figli di un Padre misericordioso che «dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5, 8): come possiamo cercare di comprenderlo?
3. Una risorsa decisiva
Io credo che una via privilegiata per penetrare il senso profondo della paternità cui Gesù Buon Pastore ci introduce sia l'esperienza, comune ad ogni uomo, della famiglia. Per questo, oggi, sulla scorta della Dottrina Sociale della Chiesa, vorrei dedicare qualche riflessione alla realtà della famiglia nel nostro Paese.
Tanto più che in occasione della Festa del Redentore, secondo tradizione, il Patriarca è solito rivolgersi ai fedeli cristiani e a tutti i membri della società civile della nostra Venezia per riflettere insieme su qualche importante aspetto della vita del nostro popolo.
In un contesto sociale in rapida e spesso caotica trasformazione, divenuto più "liquido" come dicono gli studiosi, bisogna porre un fondamento solido, come i pali su cui da secoli si reggono gli edifici della nostra mirabile Venezia.
Se guardiamo i recenti dati ISTAT e CENSIS scopriamo che in Italia la famiglia, così come la definisce la Costituzione (cfr. articoli 29-31; 37), rappresenta nei fatti una risorsa decisiva per il progresso dell'intera società.
Quando si parla di progresso bisogna evitare un grave equivoco. Quello di identificarlo con l'inedito, bollando come immobile conservatorismo tutto ciò che rinnova la tradizione. Il vero progresso invece sa innestare il nuovo sull'antico.
Analogamente le analisi sulla secolarizzazione devono tenersi alla larga da generalizzazioni e luoghi comuni. La situazione dell'Italia non è la stessa, per esempio, di quella della Francia, della Germania o della Spagna.
E la famiglia è proprio uno dei fattori che fanno la differenza.
È vero che sono sempre più numerose le coppie che scelgono di formare una famiglia al di fuori del vincolo del matrimonio. Tuttavia in Italia tale fenomeno non solo è ancora abbastanza esiguo ma rappresenta assai spesso un passaggio verso il matrimonio, più che un'alternativa allo stesso. Da noi il tasso di divorzio è tra i più bassi d'Europa. Pur mutando il proprio ruolo sociale, la donna italiana di oggi, che lavora di più fuori casa, dichiara che matrimonio e maternità sono al primo posto tra le sue aspirazioni. Infine, nonostante i cambiamenti demografici, i legami intergenerazionali sono molto intensi e le reti di solidarietà familiare si rafforzano: più della metà degli italiani che hanno i genitori viventi abita con entrambi o almeno con uno dei due. Non solo: allontanarsi dai genitori in generale non significa allentare i contatti, anzi. La famiglia d'origine ha un ruolo di supporto molto importante e fondamentale, in un contesto caratterizzato da una carenza nei servizi e da misure politiche ed economiche per molti aspetti ancora deficitarie.
Non possiamo, tuttavia, ignorare che i rapidi e profondi cambiamenti della mentalità e dei comportamenti e la presenza di diversi stili e modalità di convivenza, sollecitino con forza una domanda radicale: è ancora possibile parlare di famiglia in modo univoco? Di una sua inalienabile identità basata su alcuni caratteri fondanti, rintracciabili in ogni cultura e società?
Esiste un proprium della famiglia? Promuovere la famiglia così intesa è un modo efficace per affrontare le questioni antropologiche scottanti?
4. Il proprium della famiglia
Il celebre antropologo Lévi-Strauss parlava dell'unione socialmente approvata di un uomo e una donna e i loro figli come di «un fenomeno universale, presente in ogni e qualunque tipo di società». Identificava in tal modo il proprium della famiglia. Reputo che questo dato sia ancora attuale e non possa essere ragionevolmente smentito.
L'affermazione di Lévi-Strauss è chiara nel contenuto di fondo, anche se va interpretata in modo adeguato. Riconosce il fatto che esiste una sorta di "società naturale", fondata su un doppio legame: quello tra l'uomo e la donna e quello tra genitori e figli. Il che non significa far riferimento ad un modello storico particolare di famiglia, tantomeno sostenere che la realtà della famiglia coincide con la famiglia nucleare così come noi oggi in Italia generalmente la conosciamo. Questo importante rilievo si limita a registrare l'esistenza di una sorta di "universale sociale e culturale", che però è ben riscontrabile empiricamente, e lo è, praticamente, in ogni società.
Il dato costitutivo del proprium della famiglia è la sua natura intrinsecamente relazionale.
La famiglia infatti non si definisce soltanto in riferimento ai soggetti che la compongono (l'uomo, la donna e i loro figli), ma mette contemporaneamente in campo il legame di appartenenza che si instaura tra di loro. È quella specifica forma di "società primaria" che tiene insieme e di fatto permette un armonico sviluppo delle differenze costitutive dell'umano - quella sessuale tra l'uomo e la donna e quella tra le generazioni (nonni, padri, figli). La famiglia è istituita per dare forma sociale alla differenza dei sessi in quanto generatrice di vita.
Il riconoscimento della famiglia come relazione specifica tra i sessi e le generazioni richiede pertanto una chiara valorizzazione dell'istituto matrimoniale.
Si capisce bene perché il Servo di Dio Giovanni Paolo II, nella Familiaris consortio (n. 43) affermi che la famiglia è il luogo insostituibile di «esperienza di comunione e di partecipazione».
5. Al servizio dell'identità dell'io
Il quotidiano e stabile rapporto "io-tu" che passa attraverso le relazioni primarie vissute in famiglia favorisce normalmente la equilibrata crescita della persona.
L'identità della persona è strettamente connessa sia alla presenza della coppia generativa, sia alla storia delle generazioni di cui è espressione. È questo un dato costante, comune ad ogni esperienza familiare. Né si tratta di un dato puramente biologico. Infatti «con la famiglia si collega la genealogia di ogni uomo: "la genealogia della persona"» (Giovanni Paolo II).
In questo sta la forza drammatica della famiglia. Essa, infatti, costituisce per ogni uomo, tanto nei suoi aspetti positivi che in quelli negativi, la via privilegiata per cogliere e sviluppare la propria identità personale. Quello che siamo e pensiamo di noi, la fiducia che nutriamo in noi stessi, in una parola il valore della nostra singolare persona sono in larga misura fondati sulla possibilità di sperimentare un senso di appartenenza al corpo familiare nel succedersi delle generazioni. La fiducia di base di un bambino nei confronti della vita, la sua consapevolezza di essere un soggetto degno di essere amato e capace di amare nella sua irripetibile unicità di persona, nasce e si sviluppa all'interno del contesto familiare.
Come spesso accade, la verità di queste affermazioni diventa più evidente in presenza di situazioni limite che ripropongono la domanda sulla propria origine: «Il più lo può la nascita ed il raggio di luce che al neonato va incontro» (Hölderlin).
Pensiamo, ad esempio, ai dubbi che accompagnano la vita dei bambini adottati. L'interrogarsi sulla loro provenienza è esperienza comune, spesso anche dolorosa e travagliata, per questi ragazzi. è difficile vivere pensando che i tuoi genitori non siano stati in grado di volerti e di starti accanto, qualunque sia stata la motivazione della loro scelta. L'interrogativo profondo che agita questi figli ripropone una domanda che vale per ciascuno di noi perché riguarda l'essenza originaria della nostra consistenza antropologica. Noi riusciamo a riconoscerci pienamente, quando sentiamo che qualcuno ci ha precedentemente riconosciuti e voluti, cioè quando la nostra autocoscienza, anche irriflessa, poggia su un legame e un'appartenenza originaria nella quale ci possiamo in ogni momento ritrovare. La mancanza di questa certezza non impedisce di crescere, ma rende la crescita più difficile e incerta.
Pensiamo ad un'altra situazione critica, che coinvolge un numero sempre crescente di figli: la separazione o il divorzio dei genitori. Molto è stato detto e scritto sugli effetti a breve e a lungo termine che la dissoluzione del legame coniugale provoca sulla vita dei figli. Al di là delle difficoltà di adattamento personale e sociale alla nuova situazione, quello che è più duro da accettare per loro è proprio la perdita di senso del legame di coppia da cui hanno avuto origine. Le letture più serie ed approfondite di questo fenomeno ci dicono che l'ostacolo più forte per l'identità dei figli non sta nel tasso di conflittualità a cui possono essere stati esposti nel processo di separazione dei genitori, quanto nel venire meno della certezza fondamentale legata all'unione originaria dei genitori. Un figlio sa che esiste in virtù dell'unione dei suoi genitori, e di conseguenza non può facilmente adattarsi all'idea che quest'unione possa venir meno.
6. Un insostituibile luogo educativo
Un'altra caratteristica dell' "universale sociale" che è la famiglia è il suo essere luogo educativo fondamentale. «La famiglia costituisce "una comunità di amore e di solidarietà che è in modo unico adatta ad insegnare e a trasmettere valori culturali, etici, sociali, spirituali e religiosi, essenziali per lo sviluppo e il benessere dei propri membri e della società"» (Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa n. 238).
La famiglia infatti trasmette, quasi per osmosi, l'esperienza morale elementare (ethos). È la società elementare in cui ognuno, attraverso il bene primario degli affetti, è "riconosciuto" come persona - il sorriso della madre al bambino gli dice: "è bene che tu sia" - e fiduciosamente spalancato al futuro da una "promessa" di felicità da cui scaturisce un "compito" che deve essere assunto nel rapporto tra le persone e nello scambio tra le generazioni.
La famiglia è per eccellenza il luogo di un'educazione basata sulla scansione "riconoscimento-promessa-compito". Questi tre fattori costitutivi dell'esperienza morale elementare comune ad ogni uomo non si possono mai separare.
Il benessere di una famiglia coincide anzitutto con la sua capacità di rispettare e promuovere questo ethos sostanziale che educa alla fiducia, alla speranza, alla giustizia e alla lealtà.
7. La famiglia alla prova
Non si deve però credere che questo ethos familiare sia di per sé garantito dai rischi di un suo impoverimento. In ogni relazione familiare, la fiducia e la giustizia convivono con il loro opposto. Nessuna famiglia ne è immune: in ognuna vive una certa quota di mancanza di fiducia, di ingiustizia e di prevaricazione.
In particolare nell'odierna cultura la famiglia è messa alla prova dalla riduzione degli affetti a pure emozioni, per loro natura transitorie e instabili. Le emozioni però non generano quella duratura promessa che rende ragionevole la vita come compito.
Dare consistenza alla famiglia come luogo di educazione morale elementare e contrastarne i processi degenerativi domanda una forte ripresa educativa dei parentes. Non solo dei genitori, ma anche dei nonni.
A tal fine però la società civile e chi la governa non deve trattare la famiglia come una privata joint-venture, ma vedere in essa la cellula elementare della società stessa, come del resto fa la nostra Costituzione. Anzi la famiglia è in se stessa la prima forma di società.
8. Una risorsa per tutta la società
Nella società italiana, pur tra molteplici e crescenti difficoltà, si registra ancora una fitta rete di scambi, di prestazioni di cure, di solidarietà che legano i vari membri della famiglia e delle generazioni, anche se ciò raramente viene messo in evidenza con la dovuta consapevolezza.
In questo possiamo vedere all'opera l'ethos tipico dei legami familiari e la loro fecondità sia sul piano personale, sia su quello sociale.
C'è una stretta relazione tra appartenenza alla società e appartenenza ad una famiglia: la famiglia è matrice dell'appartenenza sociale, in essa nasce la fiducia, si sviluppa la capacità di cooperare responsabilmente al bene comune in un incessante scambio reciproco. Per queste sue prerogative la famiglia viene considerata un capitale sociale primario che, se consolidato e incrementato genererà benessere per l'intera comunità sociale, se consumato o indebolito porterà inesorabilmente allo sfaldamento del tessuto societario.
Fino ad oggi la forza della famiglia ha compensato, fungendo da volano, la spinta destabilizzante di scelte compiute a livello politico sociale in un'ottica prettamente individualistica. Penso alla mancata equità generazionale e alla notevole penalizzazione delle generazioni più giovani. Il rapporto tra generazioni diverse all'interno di una stessa famiglia ha fatto sì che laddove la circolazione equa di risorse veniva interrotta a livello sociale, essa si riattivasse attraverso il codice della reciprocità e della solidarietà nelle reti familiari. La famiglia sostiene i costi prevalenti del ricambio generazionale: in questo suo essenziale ruolo sociale dovrebbe essere favorita.
9. La famiglia come attore economico
La famiglia non è semplicemente un attore importante sul "mercato". Essa, infatti, è il luogo normale della soddisfazione dei bisogni elementari dei suoi membri, anche attraverso il godimento dei beni e dei servizi che vi vengono autoprodotti. Spesso è il lavoro femminile che sostiene direttamente o indirettamente la produzione di beni veri e propri che, pur non transitando per il mercato, sono consumati e contribuiscono al benessere. Le misure economiche standard del benessere sono però costruite in modo da ignorare sistematicamente il contributo delle famiglie - e segnatamente delle donne: il lavoro non pagato non entra nel calcolo del reddito nazionale, pur contribuendo al benessere.
Ci sono alcuni aspetti della "produzione" della famiglia che non sono facilmente rimpiazzabili dal "mercato" (a differenza di una torta casalinga o della stiratura delle camicie) e che meritano particolare attenzione.
Ci riferiamo ancora una volta alla famiglia come luogo della produzione di "cura": dei piccoli, degli anziani... Il ruolo economico della famiglia, dunque, deve essere adeguatamente compreso e valorizzato in qualunque riflessione sulla sostenibilità dei sistemi di welfare. Infatti la lettura che ipotizzava un venir meno degli aiuti familiari dovuto all'intervento statale, viene smentita.
Innumerevoli studi, relativi ai più diversi contesti mondiali, indicano che l'appartenenza alla rete familiare rappresenta un fattore cruciale di sviluppo economico e imprenditoriale, di elevata performance nel sistema educativo, di riduzione della partecipazione a reti criminali e così via.
La famiglia inoltre è un ambito di "assicurazione" reciproca: è importante poter contare su una struttura intergenerazionale sia nelle economie ad alto reddito, in cui si osservano cambiamenti economici repentini, sia nei contesti di povertà.
Questi dati indicano con chiarezza che nessuna politica per il rilancio dello sviluppo economico può essere ragionevolmente pensata senza attenzione al ruolo economico della famiglia.
10. Urgenza di politiche sociali per la famiglia
L'indebolimento della famiglia trascina con sé quello della intera comunità e rende vano ogni tentativo di rafforzare la coesione sociale. Ecco perché è urgente che lo Stato e le istituzioni pubbliche (sia centrali sia locali) comprendano quali sono le strategie più opportune per tutelare e promuovere la famiglia.
Chi proclama di avere il massimo interesse per il benessere della società, ma non propone interventi autenticamente tesi a rafforzare la famiglia, si illude di compiere scelte ‘neutrali' nei confronti della famiglia. In realtà ogni azione che non passi attraverso di essa, la indebolisce ed erode il benessere sociale alle fondamenta.
Una autentica politica familiare non va confusa con una generica politica di lotta alla povertà, o tesa a contrastare il calo demografico, o finalizzata ai minori o al lavoro. Deve essere un insieme interconnesso d'interventi, in cui la coerenza è garantita dal fatto che l'obiettivo finale è il potenziamento delle relazioni familiari tra i sessi e le generazioni.
È opportuno fermare l'attenzione su due aspetti che oggi costituiscono un nodo cruciale delle politiche familiari. La possibilità che le famiglie si organizzino autonomamente per rispondere ai propri bisogni, nell'ottica di una piena sussidiarietà, dipende sostanzialmente dal fatto che dispongano in misura adeguata sia di risorse economiche che di tempo.
Dal punto di vista delle politiche sociali, questo significa occuparsi di due temi cruciali: l' "equità fiscale" e la conciliazione tra "famiglia e lavoro".
11. Un fisco a misura di famiglia
Il nucleo centrale di tali interventi, in assenza del quale l'intero castello non può sostenersi, è l'attuazione di "un fisco a misura di famiglia" - già attuato in buona parte dei paesi europei -, unico in grado di garantire un'autentica equità fiscale, riconoscendo il ruolo insostituibile della famiglia quale luogo in cui avviene il ricambio generazionale.
È noto che, fino ad oggi, le politiche fiscali del nostro Paese (al di fuori dei nostri confini la situazione è sensibilmente diversa) non solo non riconoscono, ma penalizzano in modo notevole le famiglie con figli ("più figli hai peggio stai").
Chi si oppone all'attuazione di un fisco a misura di famiglia, spesso considera tali interventi antitetici alle politiche di contrasto alla povertà. A questo proposito occorre rimuovere alla radice il pregiudizio secondo il quale politiche fiscali chiaramente orientate alla famiglia penalizzerebbero le classi povere a vantaggio di quelle medie. In realtà, una buona politica familiare costituisce una misura estremamente efficace nella prevenzione della povertà, facendo contribuire ciascuno secondo le reali disponibilità economiche, ma lasciando alle persone e alle famiglie risorse sufficienti per rispondere in modo libero e responsabile ai propri bisogni.
Come distinguere tra misure fiscali che aiutano realmente la famiglia e misure che, dietro questa apparente intenzione, nascondono l'effetto di penalizzarla? Il criterio discriminante è la considerazione di chi sia il contribuente e quindi il beneficiario dell'eventuale agevolazione: se è l'individuo, qualsiasi provvedimento non avrà un carattere familiare.
Ovviamente non è mio compito declinare tecnicamente questo importante criterio di valore.
12. Le politiche di conciliazione famiglia-lavoro
Su un fronte diverso da quello prettamente fiscale, si collocano poi le politiche di conciliazione famiglia-lavoro.
Relativamente ad esse, occorre in prima battuta evidenziare come l'attuale assetto dei sistemi di welfare europei da una parte si sia consolidato attraverso l'introduzione, per via legislativa, di norme vincolanti i contesti lavorativi al rispetto dei diritti del dipendente a un sufficiente tempo per sé e per le proprie relazioni personali (ad esempio: normative che stabiliscono l'orario massimo di lavoro settimanale o leggi sui congedi); dall'altra incentivando agevolazioni, solitamente di tipo fiscale, per chi organizza il sistema lavoro in maniera sensibile alle esigenze personali dei dipendenti.
A noi pare che sia urgente un ampio ripensamento culturale a partire dal riconoscimento delle reciproche implicazioni delle due sfere di vita: famiglia e lavoro. E questo col coinvolgimento di tutte le componenti (mercato, mondo del lavoro, lavoratori, famiglie, Stato, enti locali, terzo settore e privato sociale).
Le genti venete che hanno saputo coniugare in modo efficace famiglia e lavoro, sono chiamate oggi a creare strumenti adeguati per conciliare queste due essenziali dimensioni proprie dell'esperienza umana elementare. Anche rinnovando le forme del riposo, il cui compito è dettare il giusto ritmo al rapporto affetti/lavoro.
13. Politiche familiari per "quale" famiglia?
Da ultimo, non va taciuta un'altra fondamentale questione rispetto alla quale soluzioni diverse possono avere effetti diametralmente opposti.
Si tratta della scelta di porre come criterio distintivo della famiglia il vincolo matrimoniale.
Quando si parla di politiche familiari, a quale "famiglia" si fa riferimento? Quando, ad esempio, si discute di assegni familiari, l'aggettivo "familiare" deve essere sempre riferito ad un nucleo di coniugi (anche separati) con i propri figli. Solo così appare chiaro il duplice intreccio tra sessi e generazioni che costituisce l'autentica famiglia. Così si lega il bambino alla coppia che l'ha generato e si promuove la conservazione della relazione genitoriale anche dopo la separazione della coppia. Quindi una valorizzazione dell'istituto matrimoniale è imprescindibile se si vuol perseguire il bene della famiglia quale cellula costitutiva della società.
Spesso però le politiche sociali considerano con un'ottica individualistica relazioni autenticamente familiari e, in modo paradossale, sembrano orientarsi ad assumere un'ottica familiare per le convivenze di soli adulti non basate sul matrimonio. Invece in queste situazioni, proprio per distinguere con chiarezza il valore dei legami familiari, le relazioni possono essere regolate con il regime dei diritti delle persone senza che esse debbano essere considerate "famiglia".
Lo ripetiamo: la relazione familiare resta un unicum insostituibile, perché tiene insieme le differenze originarie e fondamentali dell'umano, quella sessuale tra l'uomo e la donna che ha come obiettivo e intrinseco orizzonte la fecondità, e quella tra le generazioni.
Certo, concepire così la famiglia contrasta l'opinione di quanti oggi spingono verso una società fatta di "relazioni impersonali e anonime", tenute a mantenersi "immuni" dal vincolo troppo coinvolgente e impegnativo della relazione familiare, per poter essere massimamente egualitarie e competitive.
Ed è per questo motivo che nell'ambito di alcune politiche sociali il legame coniugale, in quanto vincolo responsabilizzante, perde il ruolo di punto di riferimento, mentre si afferma un uso assolutamente generico (e improprio) dell'aggettivo "familiare", assegnato anche a legami a basso investimento affettivo ed etico, che possono essere sciolti e ricomposti con facilità e rapidità.
Tuttavia gli insuccessi sempre più palesi della cultura individualista, che non riesce a svolgere un ruolo veramente educativo nei confronti delle giovani generazioni (sempre più protagoniste di comportamenti antisociali), conducono anche i più scettici a richiamare la necessità di rigenerare il legame sociale, di rafforzarlo, di fondarlo sulle solide basi della fiducia, della reciprocità, della cooperatività. Questi sono appunto i caratteri specifici della relazione familiare intesa in senso proprio. È la ragione per cui si deve investire sul "capitale familiare" per incrementare quello sociale.
14. L'apporto della Chiesa
Grazie al legame di amore tra i genitori e alla cura che offrono ai propri figli in questi cresce in modo naturale la speranza. Quella speranza che permette di affrontare la vita positivamente, che ci rende uomini e donne spalancati e non difesi davanti alla realtà.
Eppure, lo abbiamo già detto, l'esperienza storica di ogni uomo e di ogni donna è attraversata dal dramma del male. Il male è il nemico più potente della speranza. Infatti la speranza nasce da certezze presenti che la violenza del male sembra infrangere.
Anche la famiglia, lo sappiamo bene, è bisognosa di redenzione. Essa non può pretendere di essere la risposta esauriente e definitiva alla domanda di salvezza che abita il cuore degli uomini.
Il potenziale di bene che vive nella famiglia, e che deve essere strenuamente promosso, è sempre alla ricerca della redenzione definitiva.
Gesù Cristo, il Figlio di Dio fattosi carne, non è il Redentore di individui separati dalla comunità. Egli è il Redentore di ciascuno e di tutta l'umanità. Lo è anche della famiglia. Egli ha voluto farne esperienza diretta, è cresciuto nella Santa Famiglia di Nazaret in cui affetti, promessa e compito vivevano in perfetta armonia.
In questo vespero del Santissimo Redentore Gesù viene incontro alle nostre famiglie per compiere la promessa di felicità insita in questa insostituibile istituzione sociale.
La Chiesa santa di Dio - il cui unico compito è lasciar trasparire sul proprio volto quello di Cristo, luce delle genti - promuovendo la famiglia fondata sul matrimonio indissolubile tra l'uomo e la donna e aperta alla vita, umilmente continua a perseguire il mandato del Suo fondatore.
Il Vangelo della famiglia e della vita è infatti al cuore del Vangelo del Dio incarnato.
Tutti, cristiani e uomini di buona volontà, vorranno riconoscere in questo decisivo aspetto della missione ecclesiale un prezioso contributo all'autentico progresso del nostro Paese.


Testamento biologico, quali considerazioni?
ROMA, domenica, 27 luglio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica l'intervento di Chiara Mantovani, Presidente dell'Associazione Medici Cattolici Italiani (AMCI) di Ferrara e Presidente di Scienza & Vita di Ferrara, in risposta alle questioni sollevate da due lettori di ZENIT a commento di articoli che abbiamo pubblicato nei giorni scorsi, rispettivamente Il caso Eluana e la dimensione della dipendenza e Il caso Eluana, quando i giudici vanno contro la Costituzione.
* * *
Mi spiace ma non sono d'accordo: io non voglio diventare un soprammobile sopra un letto. Io non voglio dipendere da un sondino e da un respiratore. Io esisto solo se indipendente. E sono convinto che le macchine che tengono in vita Eluana e prima di lei Piergiorgio Welby siano una violenza contro la natura: la vita umana finisce quando si smette di respirare, poco importa se cuore e cervello vivano ancora. Non respiro più? Allora sono morto e voglio essere decretato morto. Questo pretendo di poter scrivere sul mio testamento biologico se mai ci sarà: io rifiuto l'alimentazione e la respirazione artificiale a meno che non siano trattamenti reversibili, se io posso sopravvivere solo grazie a tubi allora chiedo di essere lasciato morire perché i tubi impediscono la morte naturale.
D.R.
Gentile signor R.,
mi permetta di dirle che nessuno diventa mai un soprammobile su di un letto! Si immagina come sarebbe il nostro mondo, se così avessero pensato i medici e le persone che degli ammalati (non delle malattie!) hanno fatto la loro ragione di vita fino all'eroismo laico e alla santità? Un immenso lazzaretto, nella migliore delle ipotesi. O forse una landa deserta, visto che non ci sarebbero molti uomini in giro.
Vorrei inoltre dirle con tutta la dolcezza ma anche la competenza necessarie che Eluana non è tenuta in vita da alcuna macchina: non ha il respiratore, respira da sola. Non ha bisogno di dialisi, i suoi reni funzionano. Non ha alcun tubo, solo alla notte le viene collegato un tubicino simile a quello delle flebo che le porta acqua e sostanze nutritive nello stomaco. Non ci sarà alcuna spina da staccare, per farla morire: solo (!) non le sarà più dato né da bere né da mangiare. Anche il biberon è artificiale, ma il neonato lo rivendica molto rumorosamente: Eluana non può.
Dimenticavo: si dovranno darle molti farmaci per lenire il grido silenzioso che la sua biologia (umana, forse più della nostra titubanza) violentemente renderà evidente. Farmaci di cui ora non ha alcun bisogno: antidolorifici, anticonvulsivi, tranquillanti. Forse tramite un sondino simile a quello che ora le consente di non morire, forse con endovene.
E da ultimo (ma non per importanza): mi dispiace, ma nessuno di noi è davvero indipendente. Provi a pensare a quanto si sta male se gli altri, o almeno qualcuno, non si prende cura di noi! "Io esisto solo se indipendente", lei ha scritto; è vero piuttosto il contrario: ciascuno esiste solo perché Qualcuno si prende cura di lui.
Tanti cari auguri
in J et M
Chiara Mantovani
* * *
Ho seguito con interesse la dotta disquisizione giuridica costituzionale ma non ho capito poi alla fine le conclusioni.
Sembra infatti che il testamento biologico non sia accettabile da un punto di vista, non solo etico religioso e questo è ovvio anche per me, ma anche dal punto di vista della libertà personale di non voler essere tenuto in vita a ogni costo perché comunque (il paradosso) alla fine sono altri a decidere.
Nel caso delle disposizioni testamentarie è valido quello che è stato detto e scritto dal defunto in un momento di pieno possesso delle facoltà mentali anche molti anni prima della morte; a nessuno verrebbe in mente di impugnare un testamento dicendo che forse in punto di morte il defunto se avesse potuto lo avrebbe cambiato.
Il problema purtroppo è che se si affronta il caso da un punto di vista etico religioso la risposta è scontata e semplice, ma entrando nel diritto allora ci si accorge che il problema non è poi così semplice e che occorrono quindi delle leggi giuste da seguire che attualmente mancano; vista poi la serietà dell'argomento dovrebbe essere vietata la manipolazione e l'interpretazione di parte di quel poco che si può evincere e capire dal diritto vigente e da quanto scritto nella nostra costituzione.
V.R.
Caro signor R.,
non so entrare nel merito giuridico delle sue considerazioni, ma mi sento di proporle una domanda. La mia sostanziale avversione nei confronti del testamento biologico nasce da essa: la vita è un bene alla pari di quelli patrimoniali? La legge italiana (se non sbaglio) permette che io disponga dei miei beni materiali ma non completamente, poiché - mi piaccia o no - una quota di essi andrà comunque al miei familiari, dal momento che anche su ciò che è mio a tutti gli effetti vige comunque un obbligo di provvedere a coloro che fanno parte della mia prima società di origine, la famiglia. E' come se - dal mio punto di vista giustamente - si considerasse il patrimonio come avente una valenza sociale, non solo strettamente privata. Bene, se questo ha una sua ratio per quanto riguarda la proprietà delle cose, a maggior ragione non dovrebbe valere per ciò che è più importante delle cose, ovvero la vita?
Se mi considero un individuo, solo e bastante a me stesso, se non reputo di avere importanza per la costruzione di una società, allora più facilmente anche la mia vita sarà un accessorio isolato di cui disporre a pieno piacimento. Ma se sono consapevole che è la mia vita, io stesso, ciò che costruisce anche il vivere altrui, allora avrò nei suoi confronti una stima ed una considerazione più alti.
Resto del parere che, al di là dei pur gravi problemi giuridici, la questione essenziale riguardi l'antropologia: che cosa pensiamo davvero che valga la vita umana.
E anche il legislatore e il giudice credo siano tenuti a dichiarare, in testa ad ogni loro pronunciamento, a quale ordine di valori fanno riferimento.
Grazie per il suo stimolante contributo
cordialmente
in J et M
Chiara Mantovani


Come «guadagnare Cristo» nella visione paolina - Se pensate di essere arrivati continuate a correre
di Carlo Ghidelli
"Guadagnare Cristo": anche questa espressione, come quella di "imparare Cristo" - che abbiamo recentemente analizzato in queste pagine - presenta qualche stranezza. In genere si dice di guadagnare qualcosa, o anche guadagnare un traguardo, ma non una persona. Se prestiamo attenzione al verbo greco katalambàno possiamo forse riconoscere in esso una nota di aggressività, quasi di prepotenza. Tant'è che alcuni traducono: "Continuo la mia corsa per tentare di afferrare il premio, perché anch'io sono stato afferrato da Cristo Gesù" (Filippesi, 3, 12).
Ad essere sincero devo dire che non mi dispiace affatto questa interpretazione del verbo scelto da Paolo, per il semplice motivo che vi riconosco qualcosa della sua psicologia: la violenza che egli ha sfogato contro i cristiani e contro Cristo prima della sua conversione ora Paolo la mette a servizio della verità. Non è forse vero che anche Gesù ebbe a dire: "Dai giorni di Giovanni il Battista il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono" (Matteo, 11, 12)?
È ovvio che qui Paolo allude al grande evento della sua conversione sulla via di Damasco, allorquando egli ha subito violenza da parte di Cristo e ha dovuto dichiararsi vinto dalla potenza di Dio. Sappiamo che da quell'evento dipende tutta la vita, tutta la teologia, tutta la spiritualità di Paolo. Da esso pertanto dipende anche la sua pedagogia, sia nei contenuti sia nel metodo.
Per valutare esattamente il punto di arrivo di questo sorprendente cammino di conversione Paolo ci invita anzitutto a considerare quello che egli chiama "il guadagno di ieri". Ascoltiamo la sua testimonianza: "Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l'ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura".
Dunque Paolo riconosce di essere caduto in un tremendo errore; si rende conto di aver sposato una causa sbagliata. Ora egli, illuminato da quella stessa luce che in un primo momento lo aveva accecato, confessa candidamente che quello era un falso guadagno, anzi un guadagno dannoso, alludendo ovviamente ad ogni privilegio di nascita e di educazione, ad ogni sforzo religioso e morale. Ogni volta che Paolo si scaglia contro quelli che stigmatizza come "i nemici della croce di Cristo" (Filippesi, 3, 18), lo fa sempre e solo per affermare questo tratto - solo apparentemente negativo - del suo metodo pedagogico, senza del quale ogni sforzo umano genererebbe illusione e sconforto.
Non si può non vedere in questa "rilettura" o "revisione di vita" il frutto della grazia sanante, quella che si sprigiona dall'evento della passione e morte di Gesù; ma possiamo anche riconoscere l'azione della grazia illuminante che può venire solo dall'evento della risurrezione di Cristo, dalla persona di Cristo risorto. Interpellati come siamo oggi dagli immani problemi annessi al compito educativo non guasta affatto richiamare quello che Paolo ha compreso a partire dalla sua esperienza personale: l'essere stato violentemente scaraventato da cavallo a terra è solo un pallido segno della vittoria pasquale che Gesù ha riportato su di lui.
Il giudizio di Paolo sul suo passato è estremamente lucido: Cristo Signore lo ha portato a formulare una nuova scala di valori, sovvertendo quella che precedentemente aveva caratterizzato la sua vita: ciò che sembrava guadagno ora è diventato perdita, quello che sembrava ricchezza ora è diventato spazzatura, quello che sembrava giusto ora è diventato ingiusto. Ovviamente questo sovvertimento di valori ha influito decisamente anche sul metodo pedagogico di Paolo, che si fa coraggio a chiedere agli altri ciò che Cristo ha chiesto a lui: una conoscenza di Gesù non generica ma esperienziale, a seguito di un incontro non fortuito ma provvidenziale. Dentro questo orizzonte interpretativo possiamo far convergere e comprendere tutte le indicazioni pratiche che costellano la pedagogia paolina.
Ma quello che più conta è definire "il guadagno di oggi", quello che ora a Paolo preme salvaguardare ad ogni costo. Lo afferma con estrema chiarezza: "al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo". Rileviamo: "guadagnare Cristo" ed "essere trovato il lui": un verbo attivo e l'altro passivo, certamente per indicare sia l'azione dell'amore preveniente e incondizionato di Dio, sia la corrispondenza dell'uomo. "Conoscere Cristo", "guadagnare Cristo", "essere trovato in Cristo" vuol dire essere introdotto negli eventi passati la cui presenza rimane attiva anche oggi. Solo a partire da questa certezza si può dare vita ad un progetto educativo serio e valido, capace cioè di produrre ciò per cui è ipotizzato e realizzato.
Il richiamo al passato giudaico dell'apostolo offre l'occasione per una definizione delle due giustizie: una che deriva dalla legge e genera nell'uomo un senso di autosufficienza e di superbia dinanzi a Dio; e l'altra che è dono di Dio "per la fede di Cristo". Come interpretare questo genitivo "di Cristo"? È importante saperlo non solo per un motivo di retta interpretazione del pensiero di Paolo e quindi per una ragione teologica, ma anche per definire meglio il suo metodo pedagogico.
Sono almeno tre i significati possibili: si può intendere la fede in Cristo Gesù (genitivo oggettivo): in questo caso Gesù è l'oggetto della fede. Ma può voler dire anche che la fede ha Gesù Cristo come sua origine (genitivo di origine): Gesù allora è inteso come la sorgente della nostra fede; egli ci dà il credere. Infine si può pensare a un genitivo soggettivo: allora la fede è un atteggiamento di Gesù verso il Padre suo, una fede totale, nel senso che Gesù si affida a lui, gli obbedisce filialmente: con questa fede Gesù ci rende giusti dinanzi al Padre suo e nostro. Per questa sua fede Gesù può essere considerato come il modello della nostra fede. Non è affatto difficile vedere l'incidenza di questi tre significati sul metodo pedagogico di Paolo e la loro ricaduta sul cammino di conversione e di piena adesione di ogni credente a Cristo, oggetto, causa e modello della nostra fede.
All'esperienza di Paolo possiamo certamente accostare anche la nostra. Tutti siamo sollecitati dalla parola di Dio ad entrare in questo dinamismo della fede che salva: essa è anzitutto dono che scaturisce dal cuore di Dio e dal costato di Cristo. Ma la fede è anche riconoscimento dell'opera salvifica operata da Dio mediante la totale e incondizionata obbedienza di Cristo alla volontà del Padre. Infine la fede è atto umano libero e consapevole con il quale ogni uomo si lascia attrarre dall'amore di Dio che si è manifestato a noi pienamente in Cristo Gesù. Nessun educatore potrà mai prescindere da questi dati incontrovertibili, pena la totale inefficacia del suo metodo pedagogico.
Infine Paolo indica a chiare lettere "il guadagno di domani": quale sarà questo guadagno? Ascoltiamo ancora le parole di Paolo: "Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch'io sono stato conquistato da Gesù Cristo". Paolo è cosciente di essere stato oggetto della grazia divina, ma sa anche che questo non deve diventare un pretesto per evitare ogni sforzo. E se lui, Paolo, non ha ancora raggiunto la mèta, neppure i cristiani di Filippi devono illudersi (e neppure noi!); perciò Paolo invita loro e noi a camminare in avanti come lui. La maturità cristiana - è sempre un pensiero di Paolo (3, 15-16) - non consiste affatto nella definitiva acquisizione di una presunta perfezione, ma nell'essere fedeli alla parola data, nel perseverare nella corsa intrapresa.
Il passaggio che qui Paolo opera va dal "già" al "non-ancora": Paolo è già proprietà di Cristo perché Cristo si è impadronito di lui sulla via di Damasco, ma non può ancora dire di aver realizzato in pienezza la vocazione alla quale è stato chiamato. Paolo sta già correndo verso la mèta, ma non può ancora dire di essere arrivato al traguardo. Paolo vive già la vita nuova in Cristo, ma non può ancora dire di viverla nella pienezza di luce che lo renderà perfettamente somigliante al Figlio di Dio (vedi anche Colossesi, 3, 3-4 e 1 Giovanni, 3, 1-2). Questa tensione vitale è nota caratteristica di ogni cammino di fede: con essa devono misurarsi tutti coloro che di Cristo vogliono essere non solo discepoli ma anche testimoni.
Con maggior precisione Paolo si augura di poter approfondire la sua personale "conoscenza di Gesù e la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti". Ricordiamo che il termine "forma" (morphè) non va preso come una semplice metafora; esso sta ad indicare qualcosa di più di una apparenza: è la figura visibile che manifesta una realtà invisibile. Nel nostro caso Paolo vuol dire che alla morte di Cristo il credente partecipa realmente (altre traduzioni sono "divenuto della stessa forma della morte di lui" oppure "per diventare simile a lui nella sua morte"). Si direbbe che un cristiano, per poter dire di essere tale fino in fondo, per poter dire di essersi formato alla scuola di Gesù, deve riprodurre in se stesso le fattezze di Cristo crocifisso, addirittura deve assomigliare a Gesù morto.
Ricordiamo che quando Paolo si presenta ai cristiani di Corinto avanza un'unica pretesa: "Avevo infatti deciso di non insegnarvi altro che Cristo e Cristo crocifisso". E per non predicare a vuoto aggiunge: "Mi presentai a voi debole, pieno di timore e di preoccupazione" (1 Corinzi, 2, 2-3). Ancora una volta dobbiamo rilevare che Paolo, da ottimo pedagogo quale è, propone agli altri ciò che prima ha sperimentato su se stesso. Ogni educatore sa di non potersi sottrarre a questa regola che lo vincola fino al dono totale di se stesso.
Una sintesi stupenda di tutto questo itinerario Paolo la offre al termine di questa sua testimonianza: "Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere in Cristo Gesù" (3, 13-14). Passato, presente e futuro per Paolo costituiscono solo tre tappe di un unico itinerario che, nel piano di Dio, ha una sua profonda unità.


(©L'Osservatore Romano - 27 luglio 2008)