Nella rassegna stampa di oggi:
1) ELUANA/ Non uccidere è un imperativo senza se e senza ma
2) A quarant'anni dall'«Humanae vitae» Un segno di contraddizione
3) Bologna: sì all'affidamento congiunto anche se il padre è gay
4) Perché è importante che l'Ue si allarghi ai Balcani (di Mario Mauro)
5) IN UN SECONDO, SULLA MONTAGNA TUTTO LE VIENE TOLTO DAL VIVO DELLA CARNE
6) A 40 ANNI DALL’HUMANAE VITAE - Luce sulla grandezza dell’amore umano
ELUANA/ Non uccidere è un imperativo senza se e senza ma
Renato Farina25/07/2008
Autore(i): Renato Farina. Pubblicato il 25/07/2008 – IlSussidiario.net
Quanta tristezza c’è a scrivere ancora oggi di Eluana. Mi rendo conto: chi ne scrive può farlo senza sprofondare solo se è disponibile a dare la sua vita per lei. Io non so. Però lo desidero. Non per altruismo, ma perché questo è ciò che mi è stato insegnato dall’unico in cui c’è speranza, e non spreco altre parole.
Ora sta prevalendo questo discorso: l’invocazione del silenzio. Eluana ha diritto al silenzio. Lo si rivendica quasi con rabbia, come se chiedere di non lasciarla uccidere sia una violenza sul corpo inerme di lei.
Bisogna stare attenti a questi discorsi suggestivi. È necessario avere il coraggio con semplicità di reclamare il diritto di dar voce a lei che non ha voce. Amplificando le parole delle persone che dedicano a questa ragazza, da anni, il loro tempo, la loro tenerezza, accarezzandola, nutrendola. Sono le suore di Lecco. Bisogna rendersi conto che quando si chiede di staccare la spina, di eliminare la macchina in realtà non si vuole strappare un filo elettrico, togliere elettricità ad un marchingegno elettronico, ma solo tagliare via le mani che si accostano a Eluana, le frizionano la schiena, la portano a prendere un po’ di sole.
L’umanità, il rapporto d’amore non proclamato sentimentalmente, ma vissuto nelle ore e nei giorni, è quello che nel caso di Eluana viene denominato falsamente accanimento terapeutico.
Dinanzi a questo anche Berlusconi chiede che si faccia una legge. Non lo ritengo necessario, anzi temo si risolva in una corrida dove alla fine il toro sarà infilzato, ed il toro sono i malati senza coscienza apparente, ridotti - come si dice - allo stato vegetativo, per cui sarà consentita l’eliminazione.
Che cosa serve una legge? Basta oggi quella che dice: non uccidere.
Colpisce che personalità di destra e di sinistra la pensino in maniera simile: vuoi per difendere Eluana da chi vuol strapparle il cibo e l’acqua, vuoi per sostenere la necessità che la si faccia finita con un corpo che non c’entrerebbe più nulla con la ragazza. Tra coloro che la vorrebbero già in agonia, prevale una strana concezione spiritualista o dualista. Per cui esisterebbe una Eluana che non c’entra con il suo corpo, una Eluana spirituale che è già morta, e che è la proprietaria di un corpo indipendente da lei, e siccome lei se n’è andata lo si può seppellire o cremare, tanto lì non c’è Eluana.
In realtà noi siamo il nostro corpo. Siamo più grandi di esso, abbiamo desideri infiniti, ma noi su questa terra siamo questa faccia, questa voce: non esiste l’io se non situato dentro la carne, se non fatto carne. Così come Dio non aveva un corpo a prestito, ma era quel grumo di sangue nel seno di Maria. Non c’è bisogno di essere cattolici per riconoscere questo dato di realtà.
O se proprio non riesci ad accettare questo, e cioè che Eluana sia ancora questo corpo, e che la sua dignità non sia legata alla coscienza (apparente) ma al fatto che è una persona! Comunque sia capace di intendere e di volere! Ella è in stato vegetativo apparente, ma non è un vegetale!
Se non accetti questo, come ha scritto sul Tempo Giorgio Stracquadanio, e se hai il dubbio, e non capisci, e non sai che cosa sia davvero quello che è sotto i tuoi occhi; nel dubbio che dietro il cespuglio ci sia un uomo o un coniglio, magari un dubbio piccolissimo, non sparare è la cosa più razionale, non uccidere resta un imperativo senza se e senza ma.
A quarant'anni dall'«Humanae vitae» Un segno di contraddizione
Quarant'anni fa, il 25 luglio 1968, Paolo VI firmava l'Humanae vitae, l'enciclica che respingeva la contraccezione con metodi artificiali, contro l'edonismo e le politiche di pianificazione familiare, spesso imposte ai Paesi poveri da quelli più ricchi. Appena pubblicato, il 29 luglio, il testo sollevò un'opposizione senza precedenti all'interno della stessa Chiesa cattolica, al punto che il Papa decise di non utilizzare più la forma solenne dell'enciclica, con ogni probabilità per non esporre a inutili logoramenti l'autorità pontificia: «Raramente un testo della storia recente del Magistero - scrisse nel 1995 il cardinale Joseph Ratzinger - è divenuto tanto un segno di contraddizione come questa Enciclica, che Paolo VI ha scritto a partire da una decisione profondamente sofferta». A spiegare il dissenso e le reazioni polemiche concorsero molti fattori, dal clima culturale complessivo di quegli anni agli enormi interessi economici implicati.
Su questo tema cruciale Papa Montini non mutò tuttavia il suo atteggiamento. Anzi, poche settimane prima della morte - parlando il 23 giugno 1978 al collegio cardinalizio - ribadiva, «dopo le conferme venute dalla scienza più seria», le decisioni prese allora, in coerenza con il Vaticano II, per affermare il principio del rispetto delle leggi di natura e quello «di una paternità cosciente ed eticamente responsabilizzata». E nel discorso per la festa dei santi Pietro e Paolo, esplicitamente presentato come un bilancio del pontificato, Papa Montini citò le encicliche Populorum progressio e Humanae vitae come espressioni di quella difesa della vita umana che definì elemento imprescindibile nel servizio alla verità della fede.
Definito con irrisione «l'enciclica della pillola», il documento papale - in continuità con il magistero di Pio XI e soprattutto di Pio XII, richiamato in proposito anche dalla Gaudium et spes - è coerente con le importanti novità conciliari sul concetto di matrimonio, ma nonostante questo fu sommerso dalle polemiche. Oggi, di fronte agli inquietanti sviluppi dell'ingegneria genetica, l'Humanae vitae appare lucida e antiveggente quando dichiara che «se non si vuole esporre all'arbitrio degli uomini la missione di generare la vita, si devono necessariamente riconoscere limiti invalicabili alla possibilità di dominio dell'uomo sul proprio corpo e sulle sue funzioni; limiti che a nessun uomo, sia privato, sia rivestito di autorità, è lecito infrangere».
La bufera sollevata contro l'enciclica di Paolo VI oscurò soprattutto l'insegnamento sul matrimonio, descritto non come «effetto del caso o prodotto della evoluzione di inconsce forze naturali», ma istituito da Dio. Sacramento per i battezzati, il matrimonio è però «prima di tutto - afferma con forza l'Humanae vitae - amore pienamente umano, vale a dire sensibile e spirituale», come anche «forma tutta speciale di amicizia personale, in cui gli sposi generosamente condividono ogni cosa».
L'elaborazione del testo fu preceduta dai lavori di una commissione pontificia per lo studio della popolazione, della famiglia e della natalità che, com'è noto, nel 1966 concluse a maggioranza e non senza contrasti - e questo è molto meno noto - in favore della liceità della contraccezione nel quadro di una «paternità responsabile». Paolo VI tuttavia non si sentì legato a queste conclusioni, e per la sua decisione fu criticato e attaccato. Non si devono però dimenticare i consensi: su «L'Osservatore Romano» del 6 settembre 1968 Jean Guitton definì l'enciclica ferme mais non fermée («ferma ma non chiusa»), in quanto «se parla della via stretta» mostra che è «la via aperta verso l'avvenire», mentre il cardinale gesuita Jean Daniélou sottolineava che il documento «ci ha fatto sentire il carattere sacro dell'amore umano», esprimendo una «rivolta contro la tecnocrazia».
Autentico segno di contraddizione, l'Humanae vitae non è ricordata volentieri. Certo per il suo insegnamento esigente e controcorrente. Ma anche perché non è utile al gioco ricorrente che mette i Papi l'uno contro l'altro, metodo forse utile dal punto di vista storiografico per delineare ovvie diversità, ma da respingere quando è usato strumentalmente, come avviene di continuo soprattutto nel panorama mediatico. Sostenitori di Paolo VI furono infatti il cardinale Karol Wojtyla - l'arcivescovo di Cracovia che aveva avuto un ruolo importante nella commissione allargata e che avrebbe poi molto innovato con il suo magistero pontificio sul corpo e la sessualità - e Joseph Ratzinger, altro porporato ab eo creatus. A mostrare la vitale continuità della proposta cristiana anche sul problema del controllo delle nascite, che già il 23 giugno 1964 il Papa definiva «estremamente grave» perché «tocca i sentimenti e gli interessi più vicini alla esperienza dell'uomo e della donna».
g. m. v.
(©L'Osservatore Romano - 25 luglio 2008)
Bologna: sì all'affidamento congiunto anche se il padre è gay
Una bambina di 10 anni, figlia di una coppia legalmente separata nella quale il padre è dichiaratamente omosessuale, è stata affidata in egual misura sia alla madre che al padre. Il tribunale, che subito dopo la separazione aveva affidato la bimba alla mamma, con la facoltà per il padre di vederla quando lo desiderava, oggi ha deciso per l’affidamento congiunto...
Una bimba, figlia di genitori separati, potrà stare con il padre, anche se gay. «Il semplice fatto che uno dei genitori sia omosessuale non giustifica - e non consente di motivare - la scelta restrittiva dell’affidamento esclusivo».
Con questa motivazione la prima sezione civile del tribunale di Bologna, presieduta dal giudice Rosario Ziniti, ha deciso l’affidamento condiviso di una bimba di 10 anni a una coppia separata nella quale il padre è dichiaratamente omosessuale. Si tratta di uno dei primi provvedimenti del genere in Italia.
Dopo otto anni di matrimonio e la separazione consensuale, avvenuta nel 2006 perché il genitore si scoprì gay, la bambina era stata affidata alla madre, con la facoltà per il padre di vederla quando lo desiderava, previo accordi. Ma quando, qualche mese fa, lui ha proposto di portare la figlia in vacanza sull'isola di Samos, in Grecia, la madre si è opposta: sosteneva, riferiscono i giudici nel loro provvedimento, che quella località è «notoriamente frequentata quasi esclusivamente da omosessuali» e «può rappresentare la potenziale realizzazione di tutti i timori della madre: che la figlia scopra l’omosessualità del padre senza una graduale e adeguata preparazione». Da qui la decisione del padre, assistito dall’avvocato bolognese Rita Rossi, di chiedere l’affido condiviso, poi concessa. Per il giudice estensore della sentenza, Antonio Costanzo, «non vi è alcuna prova che l’isola di Samos costituisca meta privilegiata del turismo omosessuale» e comunque «il Tribunale non ha motivo – in assenza di pregiudizio per la figlia – di imporre al padre una località di vacanza diversa da quella prescelta». Il vero problema, scrivono i giudici, è che i genitori comunicano poco tra loro (quasi solo tramite sms) e non sono riusciti a informare la figlia sulla sessualità del genitore. Ora si sono impegnati a seguire un percorso con un esperto. Il padre è già partito per le vacanze con la figlia, ma sull’isola della discordia potrà trascorrere sola una settimana. La seconda che gli è concessa per l’affidamento condiviso la passerà, invece, nei comunque più rassicuranti lidi ferraresi, a casa dalla sorella. La bimba manterrà la residenza a casa della madre.
Esulta la comunità omosessuale: per Paola Concia, deputata del Pd e storica figura del movimento lesbico, la sentenza «è molto importante per tutti i gay e le lesbiche che aspettano tutele giuridiche».
di Claudia B. Solimei
Il Giornale 23 luglio 2008
Perché è importante che l'Ue si allarghi ai Balcani (di Mario Mauro)
www.ilsussidiario.net - Più di un anno e mezzo fa il presidente serbo Boris Tadic, in visita in Italia, aveva assicurato il massimo impegno per la cattura dei criminali di guerra la cui latitanza blocca il cammino di avvicinamento di Belgrado all'Ue. Tadic, aveva anche proposto "una clausola condizionale" relativa proprio alla cooperazione con il Tribunale dell'Aja da inserire nei negoziati per l'associazione della Serbia alla Ue e alla Partnership for Peace con la Nato. Dopo la risposta "soft" alla proclamazione di indipendenza del Kosovo e la consegna di Milosevic ai giudici dell'Aja, la cattura di Karadzic rappresenta un passo in più nel processo di avvicinamento di Belgrado all'Ue.
Radovan Karadzic, presidente della Repubblica Serba in seguito al riconoscimento della Bosnia Erzegovina come Stato indipendente e sovrano da parte dell'ONU nel '92, era al primo posto nella lista dei ricercati del Tribunale dell'Aja per i crimini nella ex Jugoslavia. Nella guerra che durò dal 1992 al 1995, con 200mila morti in totale, Karadzic, assumendo anche il ruolo di comandante in capo dell'esercito con il potere di nomina e revoca degli ufficiali, si rese infatti colpevole di operazioni di pulizia etnica contro le popolazioni bosniache e croate.
Il suo nome è legato in particolare al massacro di Srebrenica, con l'uccisione di circa 8mila civili, tra i 12 e i 77 anni, massacrati in pochi giorni. Un'operazione che la Corte internazionale di giustizia ha definito «genocidio».
L'arresto di Karadzic, latitante dal 1995, dimostra l'impegno del nuovo governo di Belgrado a contribuire alla pace e alla stabilità nella regione dei Balcani. Esso costituisce una tappa importante sulla via dell'avvicinamento della Serbia all'Ue, la quale incoraggia il governo serbo a proseguire su questa strada al fine di accelerare il suo progresso sulla via dell'avvicinamento all'Ue, compreso lo Statuto di candidato, non appena tutte le condizioni necessarie saranno soddisfatte.
Ed è proprio da questa piena collaborazione con il Tribunale dell'Aja, intesa come precondizione stabilita da Bruxelles per l'avvio del processo di adesione all'Unione europea della Serbia, che si deve partire per analizzare il ruolo dell'UE in Serbia e più in generale nei Balcani. «I Balcani producono più storia di quanta riescono a consumare». Winston Churchill fotografava così le vicende storiche di questa affascinante e inquieta regione che ha continuato a produrre molta storia, sia ai tempi del premier inglese sia negli ultimi quindici anni. I Balcani sono una regione in cui l’Europa può fare la differenza e in cui la prospettiva dell’adesione agisce come una vera e propria forza motrice per le riforme economiche e politiche. Dobbiamo identificare nella prospettiva europea la reale forza motrice del processo di transizione verso la democrazia e l’economia di mercato dei Paesi del sud-ovest europeo. La questione dei Balcani occidentali è una sfida particolare per l’Unione europea. La regione raggruppa piccoli Paesi che si trovano a differenti livelli nel percorso per diventare membri dell’Ue.
Di conseguenza, la politica di allargamento ha bisogno di avvicinarsi ai bisogni specifici di questi Stati deboli e di queste società divise. I capisaldi della strategia europea per integrare la popolazione dei Balcani risiedono nel commercio, nello sviluppo economico, nella mobilità dei giovani, nell’educazione e nella ricerca, nella cooperazione regionale e nel dialogo all’interno della società civile. Se interrompiamo l’allargamento ai Balcani o ne ostacoliamo le naturali conseguenze, questo, non salverà certo le sorti dell’economia europea. Dopo aver vissuto il più grande allargamento della sua storia, l’Ue deve mantenere fra le sue priorità il processo di stabilizzazione e di associazione con i Balcani. Se i Serbi della Bosnia dovessero perdere di vista la concreta possibilità di poter «stare da Serbi» in Europa, non avrebbero certo remore a riprendere la strada della secessione, facendo piombare l’intero continente in una grave crisi. L’Europa ha fatto delle promesse che, per quanto forzate o premature, non può disattendere. Solo tenendo aperta la porta verso i Balcani e passando dall’era degli Accordi di Dayton all’era degli Accordi di Bruxelles, l’Europa potrà mantenere fede al suo originario, vincente, programma politico «mai più la guerra» e dare una speranza di pace al continente. Senza i Balcani occidentali, l’unificazione europea non è completa. L’obiettivo è l’adesione, ma sarà un lungo percorso pieno di ostacoli. Ed è in questo senso che è necessario inquadrare come un grande risultato il forte segnale del governo serbo filo europeista del presidente Tadic, che dimostra di voler continuare a grandi passi il processo di avvicinamento all'UE. L'Unione europea dovrà a sua volta dare un segnale positivo alla Serbia ratificando gli Accordi di stabilizzazione e di associazione (Asa). Il passo successivo sarà pensare poi ad autorizzare Belgrado a presentare una domanda di adesione.
IN UN SECONDO, SULLA MONTAGNA TUTTO LE VIENE TOLTO DAL VIVO DELLA CARNE
Avvenire, 25 luglio 2008
MARINA CORRADI
È il più crudele dei destini, quello toccato alla donna olandese che ieri sul Monte Bianco ha visto precipitare nel vuoto il marito e i tre figli adolescenti. Un momento prima saliva con loro sul ghiacciaio, nella luce accecante di una giornata di sole. Un momento prima, era il paradiso: la montagna, l’alba radiosa di luglio, e quei tre – un maschio e due femmine, fra i 17 e i 23 anni – che seguivano il padre, il passo agile sulle gambe di ragazzi. Forse la madre li guardava con intenerito orgoglio: sono grandi ormai, guarda come vanno su per queste cime. E forse a un certo punto avrà detto: andate voi, io non ce la faccio, mi manca il fiato. “Sono vecchia”, avrà esclamato ridendo, e anche i figli e il marito avranno riso con lei, nel salutarla.
Come è stato? La corda che legava tutti e quattro è diventata in un istante una catena di morte. Da duecento metri di distanza, la madre ha visto. Deve avere pensato di stare sognando. Uno di quegli incubi atroci da cui ci si risveglia sudati, con un sussulto grato: è stato solo un terribile sogno. Ma ieri mattina sul Bianco, dopo le urla, e l’eco che ne tornava indietro nell’assoluto silenzio, più niente. Il ghiacciaio, il sole alto sulla roccia incombente, e nessun risveglio, a dire: è stato un sogno. Il più atroce dei destini, toccato in una mattina di luglio a una donna straniera venuta da lontano per amore di quel gigante di pietra. In un secondo, tutto le è stato tolto, dal vivo della carne. E chi ascolta questa storia fatica a sfuggire alla domanda che eternamente ritorna, davanti alle sciagure più intollerabili: al dubbio del nulla, di un Dio che ieri mattina guardava altrove, e non s’è accorto che, nello schianto di ghiaccio e sassi a precipizio nel vuoto, dietro a quei quattro rimaneva, viva, una moglie, una madre.
Perché? Non c’è risposta che si possa dare a questa domanda. Noi non sappiamo. E se tentiamo di immedesimarci in quella sconosciuta, con paura pensiamo che a lei Dio, dei suoi volti, abbia mostrato il più terribile. Per quale disegno? Non possiamo sapere. Restiamo con le mani aperte e vuote, impotenti. Nessuna parola può bastare oggi a quella donna. È ciò che ne “I fratelli Karamazov” intuisce lo starec Zosima, di fronte a una popolana che piange il suo bambino perduto. Il vecchio monaco le ricorda che suo figlio ora è un angelo, ma la donna non smette di singhiozzare: « Ogni cosa – dice – è finita; per me è finita con tutti ». E il monaco comprende che la donna non può smettere di piangere: « È Rachele che piange i suoi figli, e non può consolarsi, perché essi non sono più » . « Non consolarti » , le dice allora, « piangi » : « per un pezzo ti seguiterà questo gran pianto materno, ma alla fine ti si convertirà in pace e gioia».
Ci sono destini dei quali non si può non piangere fino a esserne svuotati. All’apparenza crudeli come tagliole: ti lasciano vivo, e mutilato. Destini che ci rivelano spietatamente la nostra impotenza: e che nulla veramente, nemmeno i nostri figli, ci appartiene.
La differenza sta nel come si fronteggia questa mole opaca di dolore. Si può esserne schiacciati, annichiliti da un Dio ai nostri occhi terribile e distratto. Si può voler morire, o lasciarsi morire. Oppure si può restare muti, senza capire – ciò che, oggi, ci è così intollerabile – e però disperatamente ostinati nel domandare. « Le mie vie non sono le vostre vie, i miei pensieri non sono i vostri pensieri», disse il Dio dell’Antico Testamento. L’apocalisse sul Bianco sotto agli occhi di una madre ricorda a noi, padroni di tutto, che non siamo padroni di nulla. Eppure, nel non capire, chi crede può mantenersi cocciutamente, audacemente certo. Certo che anche il più terribile dolore è per un bene più grande – e niente, di un uomo, è per il nulla.
A 40 ANNI DALL’HUMANAE VITAE - Luce sulla grandezza dell’amore umano
1) ELUANA/ Non uccidere è un imperativo senza se e senza ma
2) A quarant'anni dall'«Humanae vitae» Un segno di contraddizione
3) Bologna: sì all'affidamento congiunto anche se il padre è gay
4) Perché è importante che l'Ue si allarghi ai Balcani (di Mario Mauro)
5) IN UN SECONDO, SULLA MONTAGNA TUTTO LE VIENE TOLTO DAL VIVO DELLA CARNE
6) A 40 ANNI DALL’HUMANAE VITAE - Luce sulla grandezza dell’amore umano
ELUANA/ Non uccidere è un imperativo senza se e senza ma
Renato Farina25/07/2008
Autore(i): Renato Farina. Pubblicato il 25/07/2008 – IlSussidiario.net
Quanta tristezza c’è a scrivere ancora oggi di Eluana. Mi rendo conto: chi ne scrive può farlo senza sprofondare solo se è disponibile a dare la sua vita per lei. Io non so. Però lo desidero. Non per altruismo, ma perché questo è ciò che mi è stato insegnato dall’unico in cui c’è speranza, e non spreco altre parole.
Ora sta prevalendo questo discorso: l’invocazione del silenzio. Eluana ha diritto al silenzio. Lo si rivendica quasi con rabbia, come se chiedere di non lasciarla uccidere sia una violenza sul corpo inerme di lei.
Bisogna stare attenti a questi discorsi suggestivi. È necessario avere il coraggio con semplicità di reclamare il diritto di dar voce a lei che non ha voce. Amplificando le parole delle persone che dedicano a questa ragazza, da anni, il loro tempo, la loro tenerezza, accarezzandola, nutrendola. Sono le suore di Lecco. Bisogna rendersi conto che quando si chiede di staccare la spina, di eliminare la macchina in realtà non si vuole strappare un filo elettrico, togliere elettricità ad un marchingegno elettronico, ma solo tagliare via le mani che si accostano a Eluana, le frizionano la schiena, la portano a prendere un po’ di sole.
L’umanità, il rapporto d’amore non proclamato sentimentalmente, ma vissuto nelle ore e nei giorni, è quello che nel caso di Eluana viene denominato falsamente accanimento terapeutico.
Dinanzi a questo anche Berlusconi chiede che si faccia una legge. Non lo ritengo necessario, anzi temo si risolva in una corrida dove alla fine il toro sarà infilzato, ed il toro sono i malati senza coscienza apparente, ridotti - come si dice - allo stato vegetativo, per cui sarà consentita l’eliminazione.
Che cosa serve una legge? Basta oggi quella che dice: non uccidere.
Colpisce che personalità di destra e di sinistra la pensino in maniera simile: vuoi per difendere Eluana da chi vuol strapparle il cibo e l’acqua, vuoi per sostenere la necessità che la si faccia finita con un corpo che non c’entrerebbe più nulla con la ragazza. Tra coloro che la vorrebbero già in agonia, prevale una strana concezione spiritualista o dualista. Per cui esisterebbe una Eluana che non c’entra con il suo corpo, una Eluana spirituale che è già morta, e che è la proprietaria di un corpo indipendente da lei, e siccome lei se n’è andata lo si può seppellire o cremare, tanto lì non c’è Eluana.
In realtà noi siamo il nostro corpo. Siamo più grandi di esso, abbiamo desideri infiniti, ma noi su questa terra siamo questa faccia, questa voce: non esiste l’io se non situato dentro la carne, se non fatto carne. Così come Dio non aveva un corpo a prestito, ma era quel grumo di sangue nel seno di Maria. Non c’è bisogno di essere cattolici per riconoscere questo dato di realtà.
O se proprio non riesci ad accettare questo, e cioè che Eluana sia ancora questo corpo, e che la sua dignità non sia legata alla coscienza (apparente) ma al fatto che è una persona! Comunque sia capace di intendere e di volere! Ella è in stato vegetativo apparente, ma non è un vegetale!
Se non accetti questo, come ha scritto sul Tempo Giorgio Stracquadanio, e se hai il dubbio, e non capisci, e non sai che cosa sia davvero quello che è sotto i tuoi occhi; nel dubbio che dietro il cespuglio ci sia un uomo o un coniglio, magari un dubbio piccolissimo, non sparare è la cosa più razionale, non uccidere resta un imperativo senza se e senza ma.
A quarant'anni dall'«Humanae vitae» Un segno di contraddizione
Quarant'anni fa, il 25 luglio 1968, Paolo VI firmava l'Humanae vitae, l'enciclica che respingeva la contraccezione con metodi artificiali, contro l'edonismo e le politiche di pianificazione familiare, spesso imposte ai Paesi poveri da quelli più ricchi. Appena pubblicato, il 29 luglio, il testo sollevò un'opposizione senza precedenti all'interno della stessa Chiesa cattolica, al punto che il Papa decise di non utilizzare più la forma solenne dell'enciclica, con ogni probabilità per non esporre a inutili logoramenti l'autorità pontificia: «Raramente un testo della storia recente del Magistero - scrisse nel 1995 il cardinale Joseph Ratzinger - è divenuto tanto un segno di contraddizione come questa Enciclica, che Paolo VI ha scritto a partire da una decisione profondamente sofferta». A spiegare il dissenso e le reazioni polemiche concorsero molti fattori, dal clima culturale complessivo di quegli anni agli enormi interessi economici implicati.
Su questo tema cruciale Papa Montini non mutò tuttavia il suo atteggiamento. Anzi, poche settimane prima della morte - parlando il 23 giugno 1978 al collegio cardinalizio - ribadiva, «dopo le conferme venute dalla scienza più seria», le decisioni prese allora, in coerenza con il Vaticano II, per affermare il principio del rispetto delle leggi di natura e quello «di una paternità cosciente ed eticamente responsabilizzata». E nel discorso per la festa dei santi Pietro e Paolo, esplicitamente presentato come un bilancio del pontificato, Papa Montini citò le encicliche Populorum progressio e Humanae vitae come espressioni di quella difesa della vita umana che definì elemento imprescindibile nel servizio alla verità della fede.
Definito con irrisione «l'enciclica della pillola», il documento papale - in continuità con il magistero di Pio XI e soprattutto di Pio XII, richiamato in proposito anche dalla Gaudium et spes - è coerente con le importanti novità conciliari sul concetto di matrimonio, ma nonostante questo fu sommerso dalle polemiche. Oggi, di fronte agli inquietanti sviluppi dell'ingegneria genetica, l'Humanae vitae appare lucida e antiveggente quando dichiara che «se non si vuole esporre all'arbitrio degli uomini la missione di generare la vita, si devono necessariamente riconoscere limiti invalicabili alla possibilità di dominio dell'uomo sul proprio corpo e sulle sue funzioni; limiti che a nessun uomo, sia privato, sia rivestito di autorità, è lecito infrangere».
La bufera sollevata contro l'enciclica di Paolo VI oscurò soprattutto l'insegnamento sul matrimonio, descritto non come «effetto del caso o prodotto della evoluzione di inconsce forze naturali», ma istituito da Dio. Sacramento per i battezzati, il matrimonio è però «prima di tutto - afferma con forza l'Humanae vitae - amore pienamente umano, vale a dire sensibile e spirituale», come anche «forma tutta speciale di amicizia personale, in cui gli sposi generosamente condividono ogni cosa».
L'elaborazione del testo fu preceduta dai lavori di una commissione pontificia per lo studio della popolazione, della famiglia e della natalità che, com'è noto, nel 1966 concluse a maggioranza e non senza contrasti - e questo è molto meno noto - in favore della liceità della contraccezione nel quadro di una «paternità responsabile». Paolo VI tuttavia non si sentì legato a queste conclusioni, e per la sua decisione fu criticato e attaccato. Non si devono però dimenticare i consensi: su «L'Osservatore Romano» del 6 settembre 1968 Jean Guitton definì l'enciclica ferme mais non fermée («ferma ma non chiusa»), in quanto «se parla della via stretta» mostra che è «la via aperta verso l'avvenire», mentre il cardinale gesuita Jean Daniélou sottolineava che il documento «ci ha fatto sentire il carattere sacro dell'amore umano», esprimendo una «rivolta contro la tecnocrazia».
Autentico segno di contraddizione, l'Humanae vitae non è ricordata volentieri. Certo per il suo insegnamento esigente e controcorrente. Ma anche perché non è utile al gioco ricorrente che mette i Papi l'uno contro l'altro, metodo forse utile dal punto di vista storiografico per delineare ovvie diversità, ma da respingere quando è usato strumentalmente, come avviene di continuo soprattutto nel panorama mediatico. Sostenitori di Paolo VI furono infatti il cardinale Karol Wojtyla - l'arcivescovo di Cracovia che aveva avuto un ruolo importante nella commissione allargata e che avrebbe poi molto innovato con il suo magistero pontificio sul corpo e la sessualità - e Joseph Ratzinger, altro porporato ab eo creatus. A mostrare la vitale continuità della proposta cristiana anche sul problema del controllo delle nascite, che già il 23 giugno 1964 il Papa definiva «estremamente grave» perché «tocca i sentimenti e gli interessi più vicini alla esperienza dell'uomo e della donna».
g. m. v.
(©L'Osservatore Romano - 25 luglio 2008)
Bologna: sì all'affidamento congiunto anche se il padre è gay
Una bambina di 10 anni, figlia di una coppia legalmente separata nella quale il padre è dichiaratamente omosessuale, è stata affidata in egual misura sia alla madre che al padre. Il tribunale, che subito dopo la separazione aveva affidato la bimba alla mamma, con la facoltà per il padre di vederla quando lo desiderava, oggi ha deciso per l’affidamento congiunto...
Una bimba, figlia di genitori separati, potrà stare con il padre, anche se gay. «Il semplice fatto che uno dei genitori sia omosessuale non giustifica - e non consente di motivare - la scelta restrittiva dell’affidamento esclusivo».
Con questa motivazione la prima sezione civile del tribunale di Bologna, presieduta dal giudice Rosario Ziniti, ha deciso l’affidamento condiviso di una bimba di 10 anni a una coppia separata nella quale il padre è dichiaratamente omosessuale. Si tratta di uno dei primi provvedimenti del genere in Italia.
Dopo otto anni di matrimonio e la separazione consensuale, avvenuta nel 2006 perché il genitore si scoprì gay, la bambina era stata affidata alla madre, con la facoltà per il padre di vederla quando lo desiderava, previo accordi. Ma quando, qualche mese fa, lui ha proposto di portare la figlia in vacanza sull'isola di Samos, in Grecia, la madre si è opposta: sosteneva, riferiscono i giudici nel loro provvedimento, che quella località è «notoriamente frequentata quasi esclusivamente da omosessuali» e «può rappresentare la potenziale realizzazione di tutti i timori della madre: che la figlia scopra l’omosessualità del padre senza una graduale e adeguata preparazione». Da qui la decisione del padre, assistito dall’avvocato bolognese Rita Rossi, di chiedere l’affido condiviso, poi concessa. Per il giudice estensore della sentenza, Antonio Costanzo, «non vi è alcuna prova che l’isola di Samos costituisca meta privilegiata del turismo omosessuale» e comunque «il Tribunale non ha motivo – in assenza di pregiudizio per la figlia – di imporre al padre una località di vacanza diversa da quella prescelta». Il vero problema, scrivono i giudici, è che i genitori comunicano poco tra loro (quasi solo tramite sms) e non sono riusciti a informare la figlia sulla sessualità del genitore. Ora si sono impegnati a seguire un percorso con un esperto. Il padre è già partito per le vacanze con la figlia, ma sull’isola della discordia potrà trascorrere sola una settimana. La seconda che gli è concessa per l’affidamento condiviso la passerà, invece, nei comunque più rassicuranti lidi ferraresi, a casa dalla sorella. La bimba manterrà la residenza a casa della madre.
Esulta la comunità omosessuale: per Paola Concia, deputata del Pd e storica figura del movimento lesbico, la sentenza «è molto importante per tutti i gay e le lesbiche che aspettano tutele giuridiche».
di Claudia B. Solimei
Il Giornale 23 luglio 2008
Perché è importante che l'Ue si allarghi ai Balcani (di Mario Mauro)
www.ilsussidiario.net - Più di un anno e mezzo fa il presidente serbo Boris Tadic, in visita in Italia, aveva assicurato il massimo impegno per la cattura dei criminali di guerra la cui latitanza blocca il cammino di avvicinamento di Belgrado all'Ue. Tadic, aveva anche proposto "una clausola condizionale" relativa proprio alla cooperazione con il Tribunale dell'Aja da inserire nei negoziati per l'associazione della Serbia alla Ue e alla Partnership for Peace con la Nato. Dopo la risposta "soft" alla proclamazione di indipendenza del Kosovo e la consegna di Milosevic ai giudici dell'Aja, la cattura di Karadzic rappresenta un passo in più nel processo di avvicinamento di Belgrado all'Ue.
Radovan Karadzic, presidente della Repubblica Serba in seguito al riconoscimento della Bosnia Erzegovina come Stato indipendente e sovrano da parte dell'ONU nel '92, era al primo posto nella lista dei ricercati del Tribunale dell'Aja per i crimini nella ex Jugoslavia. Nella guerra che durò dal 1992 al 1995, con 200mila morti in totale, Karadzic, assumendo anche il ruolo di comandante in capo dell'esercito con il potere di nomina e revoca degli ufficiali, si rese infatti colpevole di operazioni di pulizia etnica contro le popolazioni bosniache e croate.
Il suo nome è legato in particolare al massacro di Srebrenica, con l'uccisione di circa 8mila civili, tra i 12 e i 77 anni, massacrati in pochi giorni. Un'operazione che la Corte internazionale di giustizia ha definito «genocidio».
L'arresto di Karadzic, latitante dal 1995, dimostra l'impegno del nuovo governo di Belgrado a contribuire alla pace e alla stabilità nella regione dei Balcani. Esso costituisce una tappa importante sulla via dell'avvicinamento della Serbia all'Ue, la quale incoraggia il governo serbo a proseguire su questa strada al fine di accelerare il suo progresso sulla via dell'avvicinamento all'Ue, compreso lo Statuto di candidato, non appena tutte le condizioni necessarie saranno soddisfatte.
Ed è proprio da questa piena collaborazione con il Tribunale dell'Aja, intesa come precondizione stabilita da Bruxelles per l'avvio del processo di adesione all'Unione europea della Serbia, che si deve partire per analizzare il ruolo dell'UE in Serbia e più in generale nei Balcani. «I Balcani producono più storia di quanta riescono a consumare». Winston Churchill fotografava così le vicende storiche di questa affascinante e inquieta regione che ha continuato a produrre molta storia, sia ai tempi del premier inglese sia negli ultimi quindici anni. I Balcani sono una regione in cui l’Europa può fare la differenza e in cui la prospettiva dell’adesione agisce come una vera e propria forza motrice per le riforme economiche e politiche. Dobbiamo identificare nella prospettiva europea la reale forza motrice del processo di transizione verso la democrazia e l’economia di mercato dei Paesi del sud-ovest europeo. La questione dei Balcani occidentali è una sfida particolare per l’Unione europea. La regione raggruppa piccoli Paesi che si trovano a differenti livelli nel percorso per diventare membri dell’Ue.
Di conseguenza, la politica di allargamento ha bisogno di avvicinarsi ai bisogni specifici di questi Stati deboli e di queste società divise. I capisaldi della strategia europea per integrare la popolazione dei Balcani risiedono nel commercio, nello sviluppo economico, nella mobilità dei giovani, nell’educazione e nella ricerca, nella cooperazione regionale e nel dialogo all’interno della società civile. Se interrompiamo l’allargamento ai Balcani o ne ostacoliamo le naturali conseguenze, questo, non salverà certo le sorti dell’economia europea. Dopo aver vissuto il più grande allargamento della sua storia, l’Ue deve mantenere fra le sue priorità il processo di stabilizzazione e di associazione con i Balcani. Se i Serbi della Bosnia dovessero perdere di vista la concreta possibilità di poter «stare da Serbi» in Europa, non avrebbero certo remore a riprendere la strada della secessione, facendo piombare l’intero continente in una grave crisi. L’Europa ha fatto delle promesse che, per quanto forzate o premature, non può disattendere. Solo tenendo aperta la porta verso i Balcani e passando dall’era degli Accordi di Dayton all’era degli Accordi di Bruxelles, l’Europa potrà mantenere fede al suo originario, vincente, programma politico «mai più la guerra» e dare una speranza di pace al continente. Senza i Balcani occidentali, l’unificazione europea non è completa. L’obiettivo è l’adesione, ma sarà un lungo percorso pieno di ostacoli. Ed è in questo senso che è necessario inquadrare come un grande risultato il forte segnale del governo serbo filo europeista del presidente Tadic, che dimostra di voler continuare a grandi passi il processo di avvicinamento all'UE. L'Unione europea dovrà a sua volta dare un segnale positivo alla Serbia ratificando gli Accordi di stabilizzazione e di associazione (Asa). Il passo successivo sarà pensare poi ad autorizzare Belgrado a presentare una domanda di adesione.
IN UN SECONDO, SULLA MONTAGNA TUTTO LE VIENE TOLTO DAL VIVO DELLA CARNE
Avvenire, 25 luglio 2008
MARINA CORRADI
È il più crudele dei destini, quello toccato alla donna olandese che ieri sul Monte Bianco ha visto precipitare nel vuoto il marito e i tre figli adolescenti. Un momento prima saliva con loro sul ghiacciaio, nella luce accecante di una giornata di sole. Un momento prima, era il paradiso: la montagna, l’alba radiosa di luglio, e quei tre – un maschio e due femmine, fra i 17 e i 23 anni – che seguivano il padre, il passo agile sulle gambe di ragazzi. Forse la madre li guardava con intenerito orgoglio: sono grandi ormai, guarda come vanno su per queste cime. E forse a un certo punto avrà detto: andate voi, io non ce la faccio, mi manca il fiato. “Sono vecchia”, avrà esclamato ridendo, e anche i figli e il marito avranno riso con lei, nel salutarla.
Come è stato? La corda che legava tutti e quattro è diventata in un istante una catena di morte. Da duecento metri di distanza, la madre ha visto. Deve avere pensato di stare sognando. Uno di quegli incubi atroci da cui ci si risveglia sudati, con un sussulto grato: è stato solo un terribile sogno. Ma ieri mattina sul Bianco, dopo le urla, e l’eco che ne tornava indietro nell’assoluto silenzio, più niente. Il ghiacciaio, il sole alto sulla roccia incombente, e nessun risveglio, a dire: è stato un sogno. Il più atroce dei destini, toccato in una mattina di luglio a una donna straniera venuta da lontano per amore di quel gigante di pietra. In un secondo, tutto le è stato tolto, dal vivo della carne. E chi ascolta questa storia fatica a sfuggire alla domanda che eternamente ritorna, davanti alle sciagure più intollerabili: al dubbio del nulla, di un Dio che ieri mattina guardava altrove, e non s’è accorto che, nello schianto di ghiaccio e sassi a precipizio nel vuoto, dietro a quei quattro rimaneva, viva, una moglie, una madre.
Perché? Non c’è risposta che si possa dare a questa domanda. Noi non sappiamo. E se tentiamo di immedesimarci in quella sconosciuta, con paura pensiamo che a lei Dio, dei suoi volti, abbia mostrato il più terribile. Per quale disegno? Non possiamo sapere. Restiamo con le mani aperte e vuote, impotenti. Nessuna parola può bastare oggi a quella donna. È ciò che ne “I fratelli Karamazov” intuisce lo starec Zosima, di fronte a una popolana che piange il suo bambino perduto. Il vecchio monaco le ricorda che suo figlio ora è un angelo, ma la donna non smette di singhiozzare: « Ogni cosa – dice – è finita; per me è finita con tutti ». E il monaco comprende che la donna non può smettere di piangere: « È Rachele che piange i suoi figli, e non può consolarsi, perché essi non sono più » . « Non consolarti » , le dice allora, « piangi » : « per un pezzo ti seguiterà questo gran pianto materno, ma alla fine ti si convertirà in pace e gioia».
Ci sono destini dei quali non si può non piangere fino a esserne svuotati. All’apparenza crudeli come tagliole: ti lasciano vivo, e mutilato. Destini che ci rivelano spietatamente la nostra impotenza: e che nulla veramente, nemmeno i nostri figli, ci appartiene.
La differenza sta nel come si fronteggia questa mole opaca di dolore. Si può esserne schiacciati, annichiliti da un Dio ai nostri occhi terribile e distratto. Si può voler morire, o lasciarsi morire. Oppure si può restare muti, senza capire – ciò che, oggi, ci è così intollerabile – e però disperatamente ostinati nel domandare. « Le mie vie non sono le vostre vie, i miei pensieri non sono i vostri pensieri», disse il Dio dell’Antico Testamento. L’apocalisse sul Bianco sotto agli occhi di una madre ricorda a noi, padroni di tutto, che non siamo padroni di nulla. Eppure, nel non capire, chi crede può mantenersi cocciutamente, audacemente certo. Certo che anche il più terribile dolore è per un bene più grande – e niente, di un uomo, è per il nulla.
A 40 ANNI DALL’HUMANAE VITAE - Luce sulla grandezza dell’amore umano
Avvenire, 25 luglio 2008
GIACOMO SAMEK LODOVICI
I l 25 luglio di quarant’anni fa Paolo VI firmava l’Humanae vitae, che è probabilmente l’enciclica più criticata, anche all’interno dello stesso mondo cattolico. È un testo divenuto «segno di contraddizione» – come prevedeva ampiamente il Papa – e che viene riduttivamente ricordato solo per la valutazione morale della contraccezione, dimenticando la profonda visione antropologica che funge da premessa a tale valutazione. Di tale sfondo antropologico, spesso dimenticato, cerchiamo allora di ricordare qualche aspetto.
Il Papa, con realismo, dice che la generazione e la cura dei figli comportano diverse difficoltà e fatiche, ma illumina nel contempo la grandezza dell’amore umano e della procreazione. «L’amore coniugale – dice Paolo VI – rivela massimamente la sua vera natura e nobiltà quando è considerato nella sua sorgente suprema, Dio, che è 'Amore', che è il Padre «da cui ogni paternità, in cielo e in terra, trae il suo nome». In effetti, mediante l’effusione del suo amore, solo Dio può creare (cioè elargire l’essere) il mondo e l’uomo, nonché farli perdurare (altrimenti essi scomparirebbero nel nulla). Ma l’uomo, con il suo amore, può comunque pro-creare, sia biologicamente (con l’atto sessuale), sia spiritualmente (con la cura e l’educazione). In tal modo, l’uomo continua e, in certo senso, porta a compimento l’azione divina.
Così, scrive Paolo VI, «il matrimonio non è quindi effetto del puro caso», bensì «è stato sapientemente e provvidenzialmente istituito da Dio creatore per realizzare nell’umanità il suo disegno d’amore».
Inoltre, l’enciclica esamina da vicino la natura dell’amore umano che è «sensibile e spirituale», che è sì trasporto fisico e di sentimento, «ma anche e principalmente è atto della volontà libera». Infatti, dire a qualcuno «ti voglio bene», significa dirgli «io voglio per te il bene», come spiegava, in una certa misura, già Aristotele; il che testimonia che la piena comprensione di questo insegnamento di Paolo VI arriva con la fede, ma può essere già raggiunta anche da chi non è cristiano.
Cosi come in Aristotele si possono trovare parole simili a quelle del Papa, quando l’enciclica aggiunge che l’amore, in quanto atto della volontà, è «destinato non solo a mantenersi, ma anche ad accrescersi mediante le gioie e i dolori della vita quotidiana; così che gli sposi diventano un cuor solo e un’anima sola».
Inoltre, prosegue Paolo VI, tale amore può essere gratuito quando chi ama il proprio coniuge lo ama per se stesso, per quello che è, non per quello che fa o che produce.
L’amore umano, insomma, è opera della libertà, che può trascendere la ricerca della propria utilità-gratificazione e può accedere alla sollecitudine affettuosa e premurosa verso il bene dell’altro. L’Humanae vitae, così, mette in risalto la grandezza della libertà e quindi dell’uomo, ben sapendo che «il dominio dell’istinto, mediante la ragione e la libera volontà, impone indubbiamente una ascesi», che, però, «ben lungi dal nuocere all’amore coniugale, gli conferisce invece un più alto valore umano», inoltre «apporta alla vita famigliare frutti di serenità e di pace» e «favorisce l’attenzione verso l’altro coniuge».
Ci dobbiamo limitare a questi elementi del prezioso insegnamento dell’enciclica. Se esso venisse ascoltato potrebbe (non da solo, ovviamente), per fare solo due esempi, restituire dignità alla donna, spesso utilizzata dall’uomo e non già realmente amata, e contribuire ad affrontare la grave crisi demografica che attanaglia l’Europa.
È opera della libertà, che può trascendere la ricerca dell’utilità fino a più alti risultati
GIACOMO SAMEK LODOVICI
I l 25 luglio di quarant’anni fa Paolo VI firmava l’Humanae vitae, che è probabilmente l’enciclica più criticata, anche all’interno dello stesso mondo cattolico. È un testo divenuto «segno di contraddizione» – come prevedeva ampiamente il Papa – e che viene riduttivamente ricordato solo per la valutazione morale della contraccezione, dimenticando la profonda visione antropologica che funge da premessa a tale valutazione. Di tale sfondo antropologico, spesso dimenticato, cerchiamo allora di ricordare qualche aspetto.
Il Papa, con realismo, dice che la generazione e la cura dei figli comportano diverse difficoltà e fatiche, ma illumina nel contempo la grandezza dell’amore umano e della procreazione. «L’amore coniugale – dice Paolo VI – rivela massimamente la sua vera natura e nobiltà quando è considerato nella sua sorgente suprema, Dio, che è 'Amore', che è il Padre «da cui ogni paternità, in cielo e in terra, trae il suo nome». In effetti, mediante l’effusione del suo amore, solo Dio può creare (cioè elargire l’essere) il mondo e l’uomo, nonché farli perdurare (altrimenti essi scomparirebbero nel nulla). Ma l’uomo, con il suo amore, può comunque pro-creare, sia biologicamente (con l’atto sessuale), sia spiritualmente (con la cura e l’educazione). In tal modo, l’uomo continua e, in certo senso, porta a compimento l’azione divina.
Così, scrive Paolo VI, «il matrimonio non è quindi effetto del puro caso», bensì «è stato sapientemente e provvidenzialmente istituito da Dio creatore per realizzare nell’umanità il suo disegno d’amore».
Inoltre, l’enciclica esamina da vicino la natura dell’amore umano che è «sensibile e spirituale», che è sì trasporto fisico e di sentimento, «ma anche e principalmente è atto della volontà libera». Infatti, dire a qualcuno «ti voglio bene», significa dirgli «io voglio per te il bene», come spiegava, in una certa misura, già Aristotele; il che testimonia che la piena comprensione di questo insegnamento di Paolo VI arriva con la fede, ma può essere già raggiunta anche da chi non è cristiano.
Cosi come in Aristotele si possono trovare parole simili a quelle del Papa, quando l’enciclica aggiunge che l’amore, in quanto atto della volontà, è «destinato non solo a mantenersi, ma anche ad accrescersi mediante le gioie e i dolori della vita quotidiana; così che gli sposi diventano un cuor solo e un’anima sola».
Inoltre, prosegue Paolo VI, tale amore può essere gratuito quando chi ama il proprio coniuge lo ama per se stesso, per quello che è, non per quello che fa o che produce.
L’amore umano, insomma, è opera della libertà, che può trascendere la ricerca della propria utilità-gratificazione e può accedere alla sollecitudine affettuosa e premurosa verso il bene dell’altro. L’Humanae vitae, così, mette in risalto la grandezza della libertà e quindi dell’uomo, ben sapendo che «il dominio dell’istinto, mediante la ragione e la libera volontà, impone indubbiamente una ascesi», che, però, «ben lungi dal nuocere all’amore coniugale, gli conferisce invece un più alto valore umano», inoltre «apporta alla vita famigliare frutti di serenità e di pace» e «favorisce l’attenzione verso l’altro coniuge».
Ci dobbiamo limitare a questi elementi del prezioso insegnamento dell’enciclica. Se esso venisse ascoltato potrebbe (non da solo, ovviamente), per fare solo due esempi, restituire dignità alla donna, spesso utilizzata dall’uomo e non già realmente amata, e contribuire ad affrontare la grave crisi demografica che attanaglia l’Europa.
È opera della libertà, che può trascendere la ricerca dell’utilità fino a più alti risultati