Nella rassegna stampa di oggi:
1) “Il rovescio delle medaglie. La Cina e le Olimpiadi”, Ancora, Milano, 2008, pp. 230, capitolo settimo. di Bernardo Cervellera
2) Il no alle donne prete, è una libera scelta di Gesù
3) Clodovis e Leonardo Boff, fratelli separati (sulla teologia della liberazione), di Sandro Magister
4) Ordine vicino a Lefebvre annuncia la comunione con Roma - I Redentoristi Transalpini, con sede centrale in un'isola della Scozia
5) La pienezza della felicità secondo san Bonaventura - Come si educa il desiderio
6) La sete di Eluana, dal Foglio.it
7) «La scienza dimostra: quei pazienti consapevoli» (su Eluana Englaro)
8) Mio figlio Daniele come Eluana Una presenza viva che porta frutto
9) Il cristiano, uomo «senza patria» - Arriva oggi in libreria un inedito di Giussani sul senso dell’essere credenti, in margine ad un incontro avuto con Giovanni Paolo II
Tratto da: “Il rovescio delle medaglie. La Cina e le Olimpiadi”, Ancora, Milano, 2008, pp. 230, capitolo settimo. di Bernardo Cervellera
Bernardo Cervellera, missionario del PIME e giornalista, attualmente è responsabile dell’agenzia giornalistica “Asia News”. È stato direttore (1997-2002) di “Fides”, l’agenzia di informazione internazionale del Vaticano, divenuta sotto la sua guida un’autorevole organo giornalistico molto apprezzato dai media mondiali. Dal ’95 al ’97 ha insegnato all’università di Pechino (Beida) come docente di Storia della Civiltà occidentale. Collaboratore del quotidiano “Avvenire”, interviene come esperto di politica internazionale nei TG nazionali e in numerose trasmissioni televisive, fra cui “Porta a Porta” e “Otto e mezzo”.
“Pechino 2008 sarà all’insegna dell’armonia e della libertà per tutte le religioni”: lo assicura Ye Xiaowen, direttore dell’amministrazione statale per gli affari religiosi, il ministero che si preoccupa di attuare la politica della Cina verso le religioni. [...]
In effetti, al villaggio olimpico, fra stadi e residenze, sta nascendo anche un centro per i servizi religiosi a disposizione dei bisogni degli atleti, secondo le loro diverse convinzioni religiose. Ci saranno locali adibiti alla preghiera per buddisti, indù, cristiani, ebrei e musulmani. [...]
L’impressione però è che tanta apertura verso le fedi religiose degli ospiti olimpici sia solo un altro superbo spettacolo di facciata, una enorme campagna di immagine per mostrare che la Cina del XXI secolo non viola i diritti umani e religiosi. Almeno nel villaggio olimpico.
Il punto è infatti che le regole all’interno del recinto dei Giochi sono diverse dalle regole all’interno del Paese. Nel villaggio olimpico si dà spazio a tutte le religioni, ma in Cina sono riconosciute solo cinque religioni ufficiali: buddismo, taoismo, islam, cristianesimo protestante, cattolicesimo.
Altre comunità religiose presenti nel territorio – come i cristiani ortodossi, gli ebrei, gli indù, i bahai – non hanno luoghi di culto e non possono averli perché il governo non li riconosce.
Nel 2007, in diverse riprese, il patriarca di Mosca ha criticato il governo di Pechino per non concedere piena libertà e riconoscimento alla Chiesa ortodossa cinese, che pure è presente da 300 anni nel Paese. Il gruppo di fedeli – che si aggira sulle 13 mila unità – per le speciali occasioni, come Natale e Pasqua, deve usare i locali dell’ambasciata russa a Pechino. Anche il metropolita greco-ortodosso di Hong Kong, Nikitas Lulias, ha criticato le autorità cinesi per lo stesso motivo.
Una cosa simile vale per gli ebrei. Presenti da secoli sul territorio, essi sono stati spazzati via dal maoismo, che ha sequestrato beni degli israeliti e diverse sinagoghe.
Il rabbino capo di Israele ha chiesto da tempo al governo cinese il ritorno al culto della sinagoga di Shanghai, la Ohel Rachel, ma non ha ottenuto risposta.
A tutt’oggi gli ebrei in Cina, che si aggirano sulle diverse migliaia, sono tollerati finché vivono la loro religione con discrezione e senza coinvolgere cinesi. [...]
Chi pensava che le Olimpiadi sarebbero state il momento per la Cina di assaggiare la libertà religiosa come è praticata in larga maggioranza nella comunità internazionale, dovrà ricredersi: toccherà al resto del mondo assaggiare il controllo religioso “made in China”.
In Cina le comunità religiose “riconosciute” godono di libertà religiosa (o meglio, di culto) solo se praticano la loro fede in strutture registrate presso il governo, con personale registrato, con attività registrate e accettando la supervisione delle Associazioni patriottiche (AP). Questa confusione fra Stato e Chiese produce un effetto ridicolo: membri del Partito – la maggioranza dei segretari delle Associazioni patriottiche sono atei – si mettono a gestire la vita spirituale dei fedeli indicando come svolgere i riti, quali libri stampare, chi può scegliere la vocazione religiosa, chi può diventare prete o leader di una comunità, quali ragazze possono entrare in convento. Questo controllo non è neutrale. Esso tende a un lento soffocamento delle religioni. [...]
C’è anche un effetto violento: a chiunque non si sottoponga al controllo delle AP è proibita ogni attività religiosa. Se osa farlo va in prigione perché compie un’azione “illegale” ed è trattato alla stregua di un comune delinquente. [...]
In prossimità delle Olimpiadi, mentre il governo proclama ai quattro venti che durante le Olimpiadi ci sarà piena libertà religiosa, la polizia di diverse regioni ha fatto retate e piazza pulita di vari leader delle comunità sotterranee.
Fra i cattolici [...] il fatto più terribile è certo la morte di monsignor Giovanni Han Dingxian, vescovo sotterraneo di Yongnian. Da due anni in isolamento nelle mani della polizia, il prelato, che ha passato almeno 35 anni della sua vita in prigione, è morto in un ospedale il 9 settembre 2007. I parenti sono stati chiamati poche ore prima che spirasse. Poche ore dopo la sua morte (avvenuta alle 11 di sera), la salma è stata subito cremata e seppellita in un cimitero pubblico, senza possibilità per parenti, fedeli e sacerdoti di poterlo vedere, salutare o benedire. Secondo alcuni cattolici della diocesi, la polizia “voleva coprire delle prove”, forse di tortura. [...]
La Cina è stata spesso condannata dalla comunità internazionale per la pratica della tortura da parte della polizia. Manfred Nowak, investigatore capo dell’agenzia ONU sulle torture, ha confermato in un suo rapporto del 2006 “l’uso diffuso della tortura in tutta la Cina”, chiedendo il “rilascio immediato di chi è in carcere per aver esercitato il diritto alla libertà religiosa o alla parola”. [...]
L’accanimento del regime è forte soprattutto con i protestanti. Il governo centrale teme infatti che durante le Olimpiadi di Pechino avvengano scontri o manifestazioni di tipo religioso che sfuggano al controllo della polizia, proprio da parte dei cristiani protestanti. E questo per due motivi.
Anzitutto perché già da due anni migliaia di protestanti di vari Paesi si preparano a evangelizzare a tappeto la Cina approfittando della facilità con cui essa darà visti di ingresso in occasione dei Giochi.
Nel terrore che questo possa accadere, già nel 2007 Pechino ha espulso più di cento personalità protestanti straniere, provenienti da Stati Uniti, Corea del Sud, Singapore, Canada, Australia, Israele. Il nome in codice dell’operazione poliziesca era “Tifone numero 5” e mirava a “prevenire le attività missionarie di cristiani stranieri, prima delle Olimpiadi di Pechino dell’agosto 2008”. [...]
L’altro motivo dell’accanimento è che i protestanti rappresentano fra i cristiani il gruppo più folto e meno controllabile. Secondo statistiche ufficiali, i protestanti cinesi sono 16 milioni. Tutte le denominazioni sono radunate nel Movimento delle Tre Autonomie (MTA), che – similmente all’Associazione patriottica dei cattolici – veri***** la loro obbedienza al Partito. Ma grazie a una diffusa evangelizzazione, finanziata da gruppi decisi e potenti con base negli Stati Uniti, in Corea e in Australia, la popolazione protestante è cresciuta fino a oltre 50 milioni (alcune stime dicono anche 80 milioni). Questo squilibrio fra cristiani riconosciuti e non riconosciuti (sotterranei), tra controllati e non controllati, provoca una risposta dura da parte del governo che ormai esige o l’assorbimento delle comunità sotterranee nel MTA, o l’eliminazione della comunità stessa. [...]
L’accanimento del Partito verso le religioni, e soprattutto verso cattolici e protestanti, ha diverse ragioni.
Esse sono certamente ideologiche – Stato ateo, religioni “oppio dei popoli”, eccetera – ma sono alimentate anche dalla paura nel veder crescere l’influenza delle religioni nei fenomeni mondiali. Per fare solo un esempio: nell’agosto e settembre 2007 i monaci buddisti birmani sono stati la forza trainante di manifestazioni contro il caro-vita, per la democrazia, di critica della giunta al potere. Vi è poi il caso delle Filippine, dove la Chiesa cattolica esige dal governo rispetto per la vita, per l’ambiente, per i diritti dei lavoratori. Ancora prima, i cattolici polacchi e papa Giovanni Paolo II, con le loro pressioni, avevano messo in crisi il comunismo sovietico e contribuito alla caduta del Muro di Berlino.
Il terrore di Pechino è che possa crescere un’alleanza fra le forze religiose e gli scontenti della società cinese, creando una forza innumerevole, impossibile da fermare.
A questo si aggiunge il fatto che ormai il Partito è al suo minimo storico di credibilità, mentre le religioni si danno sempre più spazio.
Una ricerca di due professori dell’Università Normale di Shanghai, Tong Shijun e Liu Zhongyu, dimostra che i credenti in Cina sono almeno 300 milioni, il triplo di quanto stimato anni fa dal governo. Il rapporto sottolinea che la religione più cresciuta è il cristianesimo: il 12 per cento dei credenti, pari a 40 milioni di persone, si dichiara seguace di Cristo. Nel 2005 Pechino aveva stimato i cristiani in 16 milioni, mentre alla fine degli anni Novanta – sempre secondo dati governativi – essi erano poco più di 10 milioni. [...]
Questi dati confermano molte testimonianze di vescovi cristiani che parlano di “una grande sete di Dio” nel popolo cinese, soffocata da decenni di materialismo marxista e da secoli di materialismo confuciano.
Il fatto strabiliante è che questa nuova ricerca religiosa scuote anche il Partito. Secondo dati pubblicati da “Epoch Times” (12 novembre 2005), almeno 20 dei 60 milioni di quadri del Partito credono in qualche religione. Essi sono spinti a credere perché stanchi del materialismo che non dà gioia, o perché disgustati dalla corruzione e dall’immoralità di molti quadri, che affamano la popolazione per godere di privilegi.
Statistiche segrete della Commissione disciplinare del Partito, arrivate in Occidente, stabiliscono che i quadri implicati in attività religiose nelle città sono 12 milioni e di questi, almeno cinque svolgono attività regolari. Nelle aree rurali altri 4 milioni di attivisti del Partito partecipano ad attività religiose con regolarità. [...]
Nel tentativo di contrastare l’ondata religiosa all’interno delle sue file, il Partito comunista cinese ha varato da più di quattro anni una campagna per la diffusione dell’ateismo utilizzando radio, televisione, internet, seminari universitari. Nel 2006 ha anche finanziato con 30 milioni di dollari una campagna per rivitalizzare il marxismo.
Negli ultimi anni, per contrastare la crescita di protestanti e cattolici, il governo ha anche lanciato campagne a sostegno delle religioni “non occidentali”, potenziando buddismo, taoismo e confucianesimo (quest'ultimo non proprio una religione, ma piuttosto una filosofia morale).
A metà aprile 2007, il governo ha finanziato con 1 milione di dollari un convegno in due differenti sedi, Xian e Hong Kong, per promuovere lo studio del “Daodejing”, il libro base del taoismo. Al raduno hanno partecipato Liu Yandong, del Comitato centrale del Partito; Xu Jialu, vicepresidente dell’Assemblea nazionale del popolo e Ye Xiaowen, direttore dell’Amministrazione statale per gli affari religiosi.
Dal 13 al 16 aprile 2006 il governo ha anche sponsorizzato il convegno del World Buddhist Forum. Interrogato dall'agenzia ufficiale Xinhua sull’avvenimento, Ye Xiaowen ha dichiarato: “Il buddismo può offrire un contributo particolare alla 'società armoniosa' perché tende a un’idea di armonia più vicina alla visione cinese... In quanto Paese responsabile la Cina ha una sua visione e una politica precisa nel promuovere l’armonia mondiale. Il potere religioso è una delle forze sociali da cui la Cina può ricevere sostegno”.
Infine, dal 2002 il governo ha stanziato ben 10 miliardi di dollari per rivitalizzare in patria e nel mondo gli insegnamenti di Confucio, con i cosiddetti “Istituti Confucio”. Il desiderio è proprio quello di mostrare un volto noto alla cultura mondiale, rispondendo alla crisi di moralità e di valori spirituali nel Paese.
L’interesse è anche dato dal fatto che la filosofia di Confucio – tanto disprezzato da Mao Zedong – predica soprattutto la pietà filiale, l’obbedienza alle autorità, il sacrificarsi per il clan, tutte doti importanti nella Cina individualista di oggi, che tenta di sfuggire alla massificazione, ma anche alla morsa del controllo del Partito, visto come un padre-padrone.
Anche il sostegno generoso verso il buddismo e il taoismo cinesi si spiega con il fatto che queste due religioni diffondono un credo che ha come ideale il distacco dalla società, la non-azione, senza mai mettere in discussione il potere.
Una parte dei membri del Partito rimane comunque convinta che le religioni, tutte le religioni, possono contribuire all’armonia sociale, alla stabilità e allo sviluppo. Per questo occorre non frenare la loro crescita, permettendo anche ai membri del Partito di partecipare alle attività religiose. [...]
Essendovi in Cina una ricerca religiosa così forte, e una persecuzione altrettanto sistematica, è comprensibile che molti gruppi religiosi nel mondo vogliano sfruttare l’occasione delle Olimpiadi per costringere la Cina ad aprire le maglie del controllo sulle religioni e utilizzare il tempo dei Giochi anche per lanciare nuove occasioni di evangelizzazione. [...]
Quel che è certo è che tutte queste attività metteranno a dura prova la sicurezza cinese e il tentativo di isolare i Giochi, come oasi di libertà, dal resto della vita della Cina, immensa prigione a cielo aperto.
Per questo, il gesto più significativo che Pechino potrebbe fare per proclamare la sua avvenuta maturità nella comunità internazionale sarebbe quello di liberare tutti i prigionieri di coscienza e quelli imprigionati per motivi religiosi.
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Il libro:
Bernardo Cervellera, “Il rovescio delle medaglie. La Cina e le Olimpiadi”, Ancora, Milano, 2008, pp. 230.
Il no alle donne prete, è una libera scelta di Gesù
"«Come scrisse Paolo VI all’arcivescovo di Canterbury, fu Cristo a designare fra gli uomini i suoi apostoli E non fu una concessione alla mentalità del tempo, che mai condizionò il nostro Salvatore»
DA ROMA
GIANNI CARDINALE
L a decisione del Sinodo anglicano d’Inghilterra di dare il via libera alla nomina di « vescovi » donne ha avuto ampio risalto sui media. Sul perché la Chiesa cattolica ammette al sacerdozio solo uomini
Avvenire ha posto alcune domande a monsignor Antonio Miralles, del clero dell’Opus Dei, professore ordinario di teologia sacramentaria alla Pontificia Università della Santa Croce. Spagnolo di Salamanca, ma da 47 anni a Roma, Miralles è consultore della Congregazione per il clero e, dal 1990, della Congregazione per la dottrina della fede.
Monsignor Miralles, perché la Chiesa cattolica non ammette le donne al sacerdozio?
Quando nel 1975 l’arcivescovo di Canterbury, Donald Coggan, informò Paolo VI che gli anglicani erano sul punto di ammettere le donne al sacerdozio, cosa che poi fecero, papa Montini gli scrisse una lettera per spiegare che la Chiesa cattolica non si sentiva autorizzata a farlo perché era obbligata dalla scelta fatta da Gesù Cristo, il Signore, di scegliere i suoi apostoli solo tra gli uomini, e contestualmente chiese alla Congregazione per la dottrina della fede di elaborare un documento che desse ragione di questa posizione. Così nacque la dichiarazione Inter insigniores, pubblicata nel 1976. In essa si spiega più ampiamente la ragione data da Paolo VI. Nel maggio 1994 questa posizione è stata ribadita in modo definitivo con la Lettera apostolica di Giovanni Paolo II Ordinatio sacerdotalis.
Ma la scelta di Gesù, si obietta, non potrebbe essere determinata dal contesto storico, dalla mentalità dell’epoca?
È una obiezione che non ha fondamento. Gesù ha dato dimostrazione di sentirsi libero dai condizionamenti della società in cui è nato. E lo ha dimostrato, ad esempio ma non solo, quando si oppose al costume della società ebraica del suo tempo, ma anche di quella greco- romana, che ammetteva il ripudio della moglie, il divorzio insomma.
Gesù, che pure aveva tra i suoi seguaci più fedeli proprio delle donne, a cominciare dalla madre, la Beata Vergine Maria – ai piedi della Croce c’erano varie donne e un solo discepolo! – scelse deliberatamente e liberamente come apostoli solo degli uomini. E questa scelta non può che essere vincolante per quella che vuole essere la sua Chiesa.
Ma perché Gesù fece questa scelta?
A questa domanda cercano di rispondere i teologi: è il loro mestiere. Ma tutte le spiegazioni che si possono dare a questa domanda sono sempre secondarie e accessorie, rispetto alla scelta compiuta da Gesù che la Chiesa deve seguire e non può cambiare a suo piacimento o in base alle voglie di settori più o meno ampi dell’opinione pubblica.
Ma l’escludere le donne dal sacerdozio non lede la loro dignità?
La dignità delle donne nella Chiesa non dipende certo dall’accesso al sacerdozio. La storia della Chiesa, dalla Beata Vergine Maria alla moltitudine di beate e di sante, sta lì a dimostrarlo.
Perché il Magistero ha atteso il 1975 per proclamare solennemente la non ammissibilità delle donne al sacerdozio?
Semplicemente perché fino a quel momento il fatto che il sacerdozio fosse riservato agli uomini era stata una prassi ininterrotta e mai messa in discussione per circa duemila anni, né quando la Chiesa si diffuse in contesti culturali e religiosi dove pure esistevano forme di « sacerdozio » femminile, penso al mondo greco- romano, né tantomeno in presenza di scarsità vocazionale o di carenza di clero. Il Magistero di norma non interviene in modo risolutivo se una verità è pacificamente considerata e non è messa in discussione.
È possibile che in futuro il Magistero cattolico, approfondendo la questione, possa arrivare a conclusioni diverse e aprire quindi al sacerdozio femminile?
Questa possibilità è esclusa. Perché il sacerdozio maschile è una verità considerata appartenente al deposito inviolabile della fede, alla Tradizione con la « t » maiuscola. Lo ha ricordato in modo formale la Congregazione per la dottrina della fede con la « Risposta al dubbio circa la dottrina della Lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis » pubblicata nell’ottobre 1995 con l’approvazione e per disposizione di Giovanni Paolo II. Degli autori cattolici infatti avevano insinuato che il ' no' al sacerdozio femminile era da considerarsi provvisorio e che non si potevano escludere ripensamenti futuri. Non è così.
Monsignor Miralles, la decisione del Sinodo anglicano d’Inghilterra di ammettere le donne anche all’episcopato aumenta le distanze con la Chiesa cattolica?
Relativamente. La rottura drammatica si è verificata con la decisione anglicana di ammettere le donne al sacerdozio. Quella di ammetterle all’episcopato di per sé è una conseguenza secondaria, che non può peggiorare una situazione già assai deteriore.
Un ultima domanda « accessoria » . Qual è invece lo « status quaestionis » riguardo all’accesso delle donne al diaconato?
A questo riguardo, non c’è stato ancora un pronunciamento del Magistero come c’è stato per l’accesso al sacerdozio. Ma le norme vigenti e la prassi ecclesiastica riservano agli uomini anche il diaconato. È vero che nei primi secoli della cristianità si hanno notizie di « diaconesse » , ma è da ritenersi che non si trattasse di un corrispondente femminile dei « diaconi » . Per questo ad oggi anche il diaconato permanente è riservato agli uomini. Ma la questione è ancora oggetto di studio. «Come scrisse Paolo VI all’arcivescovo di Canterbury, fu Cristo a designare fra gli uomini i suoi apostoli E non fu una concessione alla mentalità del tempo, che mai condizionò il nostro Salvatore».
Clodovis e Leonardo Boff, fratelli separati
La teologia della liberazione che una volta li univa, ora li divide. Il primo la critica a fondo ed è passato nel campo di Ratzinger, mentre il secondo continua a difenderla e si sente tradito. I testi integrali della disputa
di Sandro Magister
ROMA, 14 luglio 2008 – Il primo colpo è di alcuni mesi fa. Ed è un articolo pubblicato su una rivista teologica del Brasile da una celebrità della teologia latinoamericana: Clodovis Boff (nella foto).
Ma è il secondo colpo che è rimbombato di più. Ed è l'aspra replica all'articolo di Clodovis Boff scritta dall'ancor più celebre suo fratello: Leonardo.
Le vie dei due fratelli si sono separate e scontrate proprio su ciò che prima le teneva unite: la teologia della liberazione.
Col suo saggio pubblicato lo scorso autunno sulla "Revista Eclesiástica Brasileira" (curata dai francescani del Brasile e diretta dal 1972 al 1986 proprio da suo fratello Leonardo), Clodovis Boff ha rotto con questa corrente teologica, o meglio, con "l'errore di principio" su cui a suo giudizio si fonda.
Leonardo Boff, invece, nella sua replica diffusa a fine maggio, resta fermissimo sul medesimo principio: "Dal momento che Dio si è fatto uomo-povero, l'uomo-povero diventa la misura di tutte le cose".
Leonardo Boff si autodefinisce oggi "theologus peregrinus", senza fissa dimora. È stato estromesso dall'insegnamento nelle facoltà di teologia cattoliche da una sentenza del 1985 della congregazione per la dottrina della fede, causata principalmente dal suo libro "Chiesa: carisma e potere. Saggio di ecclesiologia militante". Ha lasciato l'abito francescano e si è sposato. Vive a Petrópolis, nello stato di Rio de Janeiro.
Clodovis Boff appartiene invece tuttora ai Servi di Maria. Vive a Curitiba, nello stato del Paraná, e insegna nella Pontificia Università Cattolica della città. Non è stato mai processato dalla congregazione per la dottrina della fede, ma negli anni Ottanta perse la cattedra nella Pontificia Università Cattolica di Rio de Janeiro e gli fu impedito di insegnare al "Marianum", la facoltà teologica del suo ordine, a Roma.
Il fratello Leonardo lo ricorda così, negli anni in cui era fervido fautore della teologia della liberazione: "Passava metà dell'anno tra le comunità di base, offrendo corsi popolari, scendendo e risalendo i fiumi per visitare i popoli della foresta, e dedicava l'altra metà dell'anno all'insegnamento e alla produzione teorica nell'università di Rio".
Oggi invece, sempre a giudizio di Leonardo, Clodovis è passato anima e corpo a sostenere "con ottimismo ingenuo ed entusiasmo giovanile" la linea dettata dai vescovi latinoamericani nella loro conferenza continentale tenuta in Brasile ad Aparecida, nel maggio del 2007, e inaugurata da Benedetto XVI in persona.
Curiosamente, proprio colui che subentrò a Clodovis Boff sulla cattedra di teologia a Rio, l'italiano Filippo Santoro, oggi vescovo di Petrópolis e appartenente a Comunione e Liberazione, è lo stesso che ha più ispirato e seguito la sua "conversione", durata qualche anno e infine sfociata nel saggio pubblicato sulla "Revista Eclesiástica Brasileira".
Al suo apparire, questo saggio di Clodovis Boff ebbe una forte eco soltanto in Brasile. Ma quando, lo scorso maggio, il fratello Leonardo diffuse la sua replica, la disputa rimbombò in tutto il mondo.
A Roma, il quotidiano della conferenza episcopale italiana "Avvenire" ha dato la notizia dello scontro tra i due celebri fratelli in una breve nota, a fine giugno. Ma è stata soprattutto l'agenzia cattolica progressista "Adista" a dare rilievo alla cosa, in ripetuti servizi.
In due altre pagine di www.chiesa trovi riprodotti per intero, nella lingua originale portoghese, sia il saggio di Clodovis Boff che la replica di Leonardo.
Qui di seguito hai i titoli, gli inizi, i link e un breve sommario dei due testi:
1. Teologia da Libertação e volta ao fundamento
por Fr. Dr. Clodovis M. Boff, OSM
Queremos aqui, numa primeira parte, fazer um questionamento de fundo da Teologia da Libertação. A intenção não é desqualificar a TdL, mas, antes, defini-la de modo mais claro e refundá-la sobre bases originárias...
> Testo integrale
Nel prima parte del saggio, Clodovis Boff critica il fondamento su cui si basa la teologia della liberazione, non quella teorica, ma quella "realmente esistente".
A suo giudizio, l'errore "fatale" in cui essa incorre è di collocare il povero come “primo principio operativo della teologia”, sostituendolo a Dio e a Gesù Cristo.
E spiega:
"Da questo errore di principio possono derivare solo effetti funesti. [...] Quando il povero acquista lo statuto di 'primum' epistemologico, cosa avviene con la fede e la sua dottrina a livello di teologia e anche di pastorale? [...] Il risultato inevitabile è la politicizzazione della fede, la sua riduzione a strumento per la liberazione sociale".
Le conseguenze sono gravi anche per la vita della Chiesa:
"La 'pastorale della liberazione' diventa un braccio fra tanti del 'movimento popolare'. La Chiesa si fa simile a una ONG e così si svuota anche fisicamente: perde operatori, militanti e fedeli. Quelli 'di fuori' provano scarsa attrazione per una 'Chiesa della liberazione', poiché, per la militanza, dispongono già delle ONG, mentre per l’esperienza religiosa hanno bisogno di molto più che una semplice liberazione sociale. Inoltre, per il fatto di non percepire l’estensione e la rilevanza sociale dell’attuale inquietudine spirituale, la teologia della liberazione si mostra culturalmente miope e storicamente anacronistica, ossia alienata dal suo tempo".
Nella seconda parte del saggio, l'autore mostra come la teologia della liberazione può "salvarsi" con i suoi frutti positivi solo tornando al suo fondamento originario. Che trova nel documento finale della conferenza di Aparecida.
Tale documento – scrive – è la "limpida dimostrazione" di come è possibile coniugare correttamente la fede all'azione liberatrice. A differenza della teologia della liberazione, che “parte dal povero e incontra Cristo”, Aparecida “parte da Cristo e incontra il povero”, avendo ben chiaro che “il principio-Cristo include sempre il povero senza che il principio-povero includa necessariamente Cristo. [...] La fonte originaria della teologia non è altro che la fede in Cristo".
2. Pelos pobres, contra a estreiteza do método
por Leonardo Boff
Clodovis Boff acumulou muitos méritos no âmbito da Teologia da Libertação. Produziu uma reflexão de fôlego sobre o método da teologia, sobre a eclesiologia das comunidades eclesiais de base...
> Testo integrale
Nella sua replica, Leonardo Boff respinge la tesi sostenuta dal fratello Clodovis come "sbagliata, teologicamente erronea e pastoralmente dannosa". Essa infatti, scrive, "corre il rischio di condannare la Chiesa e la teologia all’irrilevanza storica e alla sterilità pastorale".
A giudizio del fratello, la tesi di Clodovis va rovesciata:
"Non è vero che la teologia della liberazione sostituisca Dio e Cristo con il povero. [...] È stato Cristo che ha voluto identificarsi con i poveri. Il luogo del povero è un luogo privilegiato di incontro con il Signore. Chi incontra il povero incontra infallibilmente Cristo, ancora nella forma del crocifisso, che chiede di essere deposto dalla croce e resuscitato".
E quanto alle conseguenze dell'attacco portato da Clodovis contro la teologia della liberazione, Leonardo Boff scrive:
"Il mio sospetto è che le critiche avanzate da Clodovis forniscano alle autorità ecclesiastiche locali e romane le armi per condannarla nuovamente e, chissà, bandirla definitivamente dallo spazio ecclesiale. Poiché le critiche devastanti provengono dall’interno, da uno dei suoi più noti espositori, esse possono prestarsi a questo gioco infelice. [...] La sua posizione è musica per le orecchie di quanti, lontani dal mondo e dalla sofferenza dei poveri, hanno in abominio questa teologia. Rafforza il tentativo di coloro che nella società e in settori del Vaticano la vogliono morta o impediscono che venga studiata o proibiscono che sia un riferimento per la pratica pastorale con i poveri e gli emarginati".
Leonardo Boff concede che l'intenzione del fratello non è di rifiutare in blocco la teologia della liberazione ma di "ricollocarla nei suoi fondamenti originari, poiché solo così potrà essere salva”.
Ma aggiunge:
"È un'intenzione che per me equivale a dire: Fratello mio, io ti pugnalo al cuore, ma stai tranquillo, è per la tua salvezza”.
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La rivista su cui Clodovis Boff ha pubblicato il suo saggio:
> Revista Eclesiástica Brasileira
E il sito web sul quale Leonardo Boff ha pubblicato la sua replica, il 27 maggio 2008:
> Instituto Humanitas Unisinos
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In un paragrafo iniziale del suo saggio, Clodovis Boff cita un famoso teologo della liberazione, il gesuita Jon Sobrino, recentemente inquisito dalla congregazione per la dottrina della fede.
E lo cita proprio per mostrare l'equivocità del linguaggio "liberazionista":
"Jon Sobrino parla dei poveri come l’istanza che dà la 'direzione fondamentale' alla fede e come il suo 'luogo più decisivo' Con ogni evidenza, questi due aggettivi, 'fondamentale' e 'decisivo', sono messi lì senza attenzione. Perché non spettano, in assoluto, ai poveri, ma alla 'fede apostolica trasmessa dalla Chiesa', come ricorda, in modo pertinente, la notificazione romana, mettendo in discussione certi punti della cristologia del citato teologo".
In un commento pubblicato l'8 giugno sullo stesso sito web che ha diffuso la replica di Leonardo Boff un altro teologo della liberazione brasiliano, padre Érico Hammes, ha riferito di un Jon Sobrino "profondamente rattristato" dall'esplicita approvazione data da Clodovis Boff alla condanna vaticana di alcune sue tesi:
> Teologia da Libertação após Aparecida volta ao fundamento? Entrevistas com Luiz Carlos Susin e Érico Hammes
Ordine vicino a Lefebvre annuncia la comunione con Roma - I Redentoristi Transalpini, con sede centrale in un'isola della Scozia
ROMA, lunedì, 14 luglio 2008 (ZENIT.org).- Fra' Michael Mary, C.SS.R., Vicario generale dei Redentoristi Transalpini, con sede centrale in un'isola scozzese, che nella loro storia hanno ricevuto aiuto dall'Arcivescovo Marcel Lefebvre e dalla fraternità sacerdotale di San Pio X, ha annunciato su Internet la comunione con Roma.
L'annuncio ha avuto luogo in una lettera presentata sulla pagina web dell'Ordine (http://www.papastronsay.com) e pubblicata sul suo blog (http://papastronsay.blogspot.com).
L'ordine celebra l'Eucaristia secondo il rito precedente alla riforma liturgica del Concilio Vaticano II.
Questo passo, spiega il religioso, ha avuto luogo dopo che “il 18 giugno scorso, di fronte al Cardinale Darío Castrillón e ai membri della Commissione Pontificia Ecclesia Dei a Roma, ho chiesto umilmente alla Santa Sede a mio nome e a nome del consiglio del monastero che le sanzioni sacerdotali fossero sollevate”.
“Il 26 giugno ho ricevuto a voce la notizia che la Santa Sede aveva accettato la nostra richiesta. Tutte le censure canoniche sono state sollevate”, ha aggiunto.
“Siamo profondamente grati al nostro Santo Padre, Benedetto XVI, per aver pubblicato nel luglio dell'anno scorso il Motu Proprio 'Summorum Pontificum', che ci ha chiamati a una comunione indiscussa e serena con lui”, afferma il Vicario.
“Ora abbiamo questa comunione indiscussa! E' una perla di grande valore; un tesoro nascosto nel campo; una dolcezza impossibile da immaginare se non si è sperimentata”.
Il suo valore, osserva, “non può essere espresso pienamente con il linguaggio umano e per questo speriamo che tutti i sacerdoti tradizionalisti che ancora non l'hanno fatto rispondano all'appello di Papa Benedetto XVI per godere della grazia della serena e indiscussa comunione con lui”.
Guardando al futuro, sostiene, “il prossimo passo sarà erigere canonicamente la nostra comunità”.
Originariamente con base a Joinville, in Francia, l'ordine si è trasferito nell'isola di Sheppey, Kent, e nel 1999 in modo permanente a Papa Stronsay, una piccola isola del nord della Scozia. I frati vivono nel monastero del Golgotha e pubblicano la rivista “The Catholic”.
L'ordine ha istituito di recente un secondo monastero nella città di Christchurch, in Nuova Zelanda. Anche il blog di questo monastero ha reso pubblico l'annuncio della comunione di Roma.
La regola dei Redentoristi Transalpini si basa su quella di Sant'Alfonso Maria de' Liguori, tuttavia non vi è alcun legame gerarchico con l'Ordine Redentorista.
La pienezza della felicità secondo san Bonaventura - Come si educa il desiderio
Si è recentemente svolto a Bagnoregio l'annuale convegno organizzato dal Centro Studi Bonaventuriani sul tema "La felicità in san Bonaventura". Pubblichiamo la sintesi di uno degli interventi.
di Alessandro Ghisalberti - Università Cattolica del Sacro Cuore
Vorrei partire da una breve riflessione sull'oggi, ossia vorrei tentare di mostrare l'attualità del tema della mia lezione su Bonaventura cogliendo spunti di riflessione dalla prassi di oggi, da alcune emergenze del vivere che oggi sono presenti alla coscienza di chiunque intenda coniugare il binomio vita-felicità.
Oggi la ricerca della felicità di ciascun individuo arriva a manifestarsi come un "desiderio assoluto", nel senso che l'uomo d'oggi, così come egli si esprime attraverso le forme di comunicazione mediatica (talk televisivi, interviste o lettere a giornali o a settimanali, e così via), dimostra di avere la convinzione che la felicità sia il fine della vita, in ordine al quale tutto va rapportato. Si rivendica per così dire il diritto alla felicità soggettiva, che si concentra sull'appagamento immediato, hic et nunc, dei bisogni e dei desideri individuali, e in ordine a ciò le passioni vengono assunte tutte come positive. Le passioni, le emozioni, gli affetti, i legami sono tutte modalità attraverso le quali si esprime il desiderio di felicità, proiettate sulla soddisfazione del singolo, concentrato sul presente e sui desideri del proprio io, scarsamente attento ai bisogni e ai diritti degli altri, e reclamante la piena soddisfazione.
Di fronte a questa emergenza antropologica, la filosofia di oggi va alla ricerca della felicità su basi assai diverse da quelle innescate da Bonaventura, il quale era molto proiettato su di un cammino ascensionale, simbolico e fortemente teologico; oggi si ricorre infatti a percorsi di introspezione psicologica, che si avvalgono anche dell'incremento della riflessione razionale, ma che restano sempre disposti sul piano dell'immanenza soggettiva.
Un discorso più in verticale, come quello bonaventuriano, muove alla ricerca di un itinerario alla felicità in un ordine trascendente, ossia non legato alla soddisfazione primaria delle attese del soggetto sul piano dell'esistenza storica concreta, bensì volto alla ricerca di qualcosa di beatificante in modo permanente, completo e non più minacciato dall'erosione e dal venir meno.
La partenza dell'itinerario bonaventuriano verso la felicità si confronta certamente con i moti appetitivi e desiderativi dell'uomo storico, non assumendoli però come richieste di una felicità da raggiungere qui e ora interamente, bensì come dati innescanti un cammino di conoscenza esteriore e interiore che consente all'uomo di raggiungere alla fine la soddisfazione e l'appagamento pieno dei propri desideri. Bonaventura sviluppa percorsi di elevazione mentale e di potenziamento del desiderio umano, relativizzando la felicità che si può conseguire nella vicenda storica concreta, e puntando verso la pienezza di una felicità che non possa più cessare. Una prospettiva caratterizzabile, sinteticamente, come passaggio dalla felicità perseguibile nell'immanenza della soggettività alla felicità conseguibile mediante l'elevazione e il radicamento nella trascendenza.
Un tema originale e delicato della speculazione bonaventuriana è costituito dall'espansione della dottrina dell'esemplarismo in quella della "riconduzione" (reductio), cui Bonaventura ha dedicato un opuscolo intitolato: Le scienze ricondotte alla teologia.
Il significato di reductio nell'opera bonaventuriana non è né facile, né univoco: la "riduzione" o "riconduzione" esprime anzitutto la tendenza della metafisica a ricondurre le cause particolari al loro fondamento ultimo. La "riduzione delle arti", ossia delle diverse discipline scientifiche, conosce un primo livello, nel quale ogni singola scienza va posta, secondo un preciso ordine, per essere ricondotta al livello superiore. Segue l'istanza superiore, che ricerca la presenza dell'impronta del creatore nelle cose conosciute dalle scienze, avvalendosi delle conoscenze rivelate dalla Sacra Scrittura.
Tutte le arti vanno pertanto "ricondotte" alla teologia nel senso che, passandone in rassegna i fondamenti epistemologici, si può vedere come il dinamismo specifico di ogni disciplina contenga le basi, le premesse necessarie, per un rinvio a una conoscenza maggiore, che è quella delle idee di Dio; a essa l'uomo partecipa da un lato attraverso il processo di illuminazione, e dall'altro lato mediante la Sacra Scrittura, che è manifestazione della luce e del pensiero di Dio incarnatosi nel linguaggio scritto della rivelazione biblica.
L'Itinerario della mente in Dio è un perfetto modello teorico della riduzione bonaventuriana; esso viene presentato come il percorso del credente che si riconosce "povero" e accetta di camminare "nel deserto". Bonaventura si rivolge alla categoria francescana del "povero" nel senso evangelico ("beati i poveri in spirito"), ossia a quanti non confidano nelle proprie idee in modo tale da non aver bisogno di ricercare nulla di più; povero è colui che non si riconosce nella portata totalizzante della scienza, così come povero è chi si professa socraticamente "ignorante". Anche il deserto è una categoria riferita alla Bibbia, al cammino nel deserto compiuto dal popolo eletto, e assunto come espressione del distacco che deve contrassegnare chi segue il cammino indicato da Dio, che deve liberarsi da ogni forma di possesso o di attaccamento alle persone o alle cose. L'uomo che cammina nel deserto è l'icona perfetta di quello che la teologia francescana chiamava l'homo viator, l'uomo "viatore", nel senso che intende l'esistenza come un camminare, un essere in via (sulla terra) verso la patria (il cielo).
Si noti come il tragitto alla pienezza della felicità sia tutto incentrato sull'interiorità; infatti, nell'ordine, le sei tappe dell'itinerario sono le seguenti: contemplare Dio attraverso le sue tracce nell'universo; contemplare Dio nelle tracce presenti nella struttura degli esseri dotati di sensibilità; ricercare Dio nella struttura interiore (intelletto e volontà) dell'uomo; elevarsi a Dio attraverso i doni della grazia infusa sul credente; contemplare l'unità divina attraverso il nome dell'Essere; contemplare la dinamica trinitaria attraverso il nome del Bene.
La via alla felicità si compie nell'impegno dell'anima a educare il desiderio, a compiere le riduzioni necessarie, per essere libera di accogliere la grazia e i suoi doni, con l'esercizio della pura elevazione e speculazione, contemplando sul modello della riduzione dionisiana dei nomi divini al livello dell'apofatismo che dona la tenebra luminosissima e il silenzio eloquentissimo; solo qui accade l'unione dell'amante con l'amato, nella perfetta consumazione dell'eros che si è agapizzato, nell'appagamento totale dell'unione amorosa unificante, che di due ha fatto uno solo. L'itinerario si completa quando si arresta lo sforzo della speculazione e si apre lo spazio dell'affetto, ossia dell'apertura e dell'invocazione del dono dell'amore divino, perché solo Dio può concedere il passaggio all'"estasi".
I capitoli centrali dell'Itinerario della mente in Dio sono contrassegnati da una forte ripresa sintetica delle categorie filosofiche, che lascia vedere come nella ricerca della felicità vengano accolte istanze dell'ontologia parmenidea, incentrate sul nome dell'essere, accanto a quelle proprie della metafisica del bene e dell'amore propria della tradizione platonico-agostiniana.
Nel contesto dell'opera bonaventuriana, il nome dell'essere è caratterizzato dalla valenza ontologica monoteistica (identità di essere e uno); vengono tuttavia esplicitate anche la valenza trinitaria e quella cristologica: l'essere è "sostanza", ossia coincide con l'essenza stessa di Dio, l'unica e indivisa deitas, che è comune alle tre persone, e che consente alla seconda persona di presentarsi come Io sono (Ego sum). È la stessa modalità della rivelazione del nome descritta dall'Esodo nella fiamma del roveto ardente a richiamare con la sua carica simbolica il mistero del Verbo incarnato. Il nome proprio di Dio è proclamato in un chiaro contesto simbolico: roveto/carne; fiamma/anima di Cristo; luce del roveto in fiamme/divinità congiunta alla carne mediante l'anima.
Potremmo leggere l'esito di questa via alla felicità, che al suo avvio è parsa fortemente intellettuale, come capace alla fine di includere l'aspetto della carne e del desiderio amoroso, che un filosofo contemporaneo, Jean-Luc Marion, considera basilare per la costituzione del fenomeno erotico (il termine fenomeno è assunto secondo il linguaggio rigoroso della fenomenologia). Bonaventura, a proposito dell'essere purissimo, instaura una sorta di riduzione fenomenologica, sforzandosi di collocarlo nella purezza della sua fenomenicità originaria, sottraendolo a ogni volontà di comprenderlo come se si trattasse di un oggetto da conoscere categorialmente o da amare secondo la logica della reciprocità.
L'oggettivazione dell'essere è contro l'esito beatificante della contemplazione pura, così come il bisogno di reciprocità risulta essere la pretesa assurda di catturare l'amore mediante categorie logico-inferenziali, come se l'amore potesse essere negoziato dagli amanti, attraverso un compromesso doveroso. Invero, ogni logica oggettivante o di scambio non può che ostacolare l'estasi, perché né l'essere purissimo né il sommo bene o amore possono essere oggetti da possedere o da scambiare. Nell'opera Il fenomeno erotico Marion osserva molto puntualmente che l'amore non deve essere inteso come essere amato: l'amore permette all'amante di non innescare la razionalità calcolatrice, e la libertà erotica comprende la libertà di perdere. Non si trova che una sola prova d'amore: dare senza essere ricambiati e senza riprendersi niente, quindi rischiando di perdere ed eventualmente di perdersi.
Raccogliendo alcuni spunti conclusivi, si deve anzitutto rilevare che, nel possesso di Dio, la carità ha un ruolo preminente rispetto alle altre virtù teologali: fede e speranza preparano l'uomo in cammino nel tempo alla gloria futura, mentre la carità conduce propriamente alla visione e al godimento di Dio fine ultimo e Sommo Bene. Nella fede e nella speranza vi è come l'inizio dell'amore che conduce ad aderire a Dio, ad accogliere Colui che si rivela; nella circolarità che contrassegna le virtù teologali, la carità si delinea come loro compimento. Quando l'anima beata accede alla vita eterna il bene da futuro diviene presente, e la speranza come tale non ha più ragion d'essere dal momento che Dio è visto, amato e posseduto perfettamente; lo stesso accade per la fede, la cui conoscenza nello stato di gloria viene superata nel perfetto e immutabile possesso della visione divina.
Ulteriore elemento determinante del pensiero bonaventuriano: l'unione con Dio nella visione beatifica si attua attraverso un superamento della dimensione propriamente intellettiva, per realizzarsi nella sfera affettiva della volontà-amore: se è con l'intelletto che l'anima partecipa alla conoscenza di Dio, è con la volontà che essa fruisce dell'eterno amore divino nel quale raggiunge l'unione perfetta. Per Bonaventura dunque vi è una superiorità della forza unitiva della volontà rispetto all'intelletto, come scrive in un passo del Breviloquio: "Sulla gloria celeste, questo in sintesi si deve sostenere, cioè che in essa il premio sostanziale consiste nella visione, nella fruizione e nel possesso dell'unico Sommo Bene, cioè di Dio, che i beati vedranno faccia a faccia, cioè apertamente e senza veli; del quale fruiranno avidamente e con diletto, che possederanno inoltre eternamente".
Per adattarsi alla nuova situazione in cui si troverà immesso, il corpo sarà trasfigurato, glorificato: per restare in unione con un'anima resa totalmente spirituale dall'amore di Dio, si spiritualizzerà assottigliandosi, rendendosi conforme alla sua anima, diventata conforme a Dio.
"Che cosa vedrò?" si domanda l'anima nel Soliloquio; la risposta di Bonaventura è che all'anima beata sarà concessa la visione dell'essenza di Dio, della luce divina: l'anima deiforme potrà vedere Dio chiaramente con la ragione, amarlo con la volontà e possederlo eternamente con la memoria, e questa è l'eternità della beatitudine, la felicità posseduta attraverso una vita senza fine e soddisfatta nel possesso di ciò che ha massimamente desiderato. Teologicamente va comunque aggiunto che non ci sarà coincidenza ontologica totale tra Creatore e creatura; la contemplazione dell'essenza divina non potrà esaurire l'assimilazione dell'oggetto contemplato, dal momento che la Sapienza increata non può essere assimilata completamente e nella sua totalità dalla creatura, che è beata in Dio, proprio perché Dio resta il solo e unico Dio.
(©L'Osservatore Romano - 14-15 luglio 2008)
15 luglio 2008
La sete di Eluana
La procura generale invita alla cautela e riflette sul ricorso. Storie di “vite differenti”
Roma. La Procura generale di Milano deciderà entro la metà della prossima settimana se ricorrere in Cassazione contro il decreto con il quale la Corte civile d’appello ha autorizzato il padre di Eluana Englaro a staccare il sondino attraverso cui la ragazza viene dissetata e nutrita da sedici anni. Rispetto all’ipotesi che Beppino Englaro (come lui stesso ha annunciato di voler fare) possa procedere al distacco prima che la Procura generale decida o no il ricorso, il procuratore generale facente funzione, Gianfranco Montera, ha dichiarato inoltre che “se dovesse farlo, se ne assumerebbe la responsabilità”. Nel frattempo, l’hospice “Il Nespolo” di Lecco, al quale Englaro ha chiesto di ricoverare la figlia per farla morire, ha comunicato di poter accogliere Eluana solo se “già in uno stato terminale”.
C’è qualche granello di polvere, forse, nello spaventoso ingranaggio che condanna a morte per compassione una persona viva, assolutamente non terminale, che ha solo bisogno di acqua e cibo, come chiunque, per continuare a vivere. “Come consideriamo queste vite differenti? Perché di questo si tratta. Quella di Eluana è una vita differente, non una non vita”. Fulvio De Nigris è il papà di Luca, morto quindicenne nel 1998, dopo otto mesi di coma in seguito a un intervento chirurgico. In suo nome è stata fondata un’associazione (il sito è amicidiluca.it) che si occupa di persone in coma e delle loro famiglie, e in suo nome è nata a Bologna la Casa dei risvegli Luca De Nigris, struttura pubblica che “è considerata un modello terapeutico e riabilitativo unico. La Casa nasce dall’idea che il risveglio non è qualcosa che riguarda solo la persona in coma ma tutta la sua famiglia”.
“Una conclusione aberrante”. La sentenza della Corte civile d’appello di Milano, secondo De Nigris, “porta a una conclusione aberrante: con il sondino sei in stato vegetativo, senza sondino sei un malato terminale. Ma Eluana non è una malata terminale. Per questo, vorrei invitare tutti a fare un passo indietro, a considerare che cos’è la vita e che cosa è la vita nella difficoltà”. A preoccuparlo è soprattutto una constatazione: “Dopo il caso Terri Schiavo è stato detto che niente del genere sarebbe potuto succedere in Italia. Lo stesso Comitato nazionale di bioetica, nel suo parere su come valutare la somministrazione di cibo e acqua a persone in stato vegetativo, aveva escluso che quelli potessero essere considerati trattamenti sanitari”. Arrivano i giudici, “e scopriamo che la nostra tranquillità era infondata”. De Nigris sottolinea che “non sarebbe giusto dare giudizi sul papà di Eluana, che rispetto totalmente. Ma temo che la sentenza su sua figlia avrà ricadute negative per tutte le famiglie con persone in analoghe situazioni. Beppino Englaro ha parlato di legge ad personam, ma non sarà così”.
Nel giudizio della Cassazione che ha spianato la strada alla sentenza di morte per Eluana non spicca soltanto l’assurdità di quell’“univoco giudizio” di parenti e conoscenti che sostituisce la documentata volontà della persona. Arbitraria è anche l’idea, accolta dalla Cassazione, di poter “apprezzare clinicamente” lo stato vegetativo “irreversibile, senza alcuna sia pur minima possibilità, secondo standard scientifici internazionalmente riconosciuti, di recupero della coscienza e delle capacità di percezione”. De Nigris ricorda che “contro il concetto di irreversibilità si levano autorevoli voci scientifiche. Conosciamo casi nei quali la presunta e ‘accertata’ irreversibilità è stata smentita. I nuovi studi tendono infatti a non specificare nessun aggettivo (come ‘permanente’ o ‘persistente’) accanto a ‘stato vegetativo’. Sappiamo solo che ogni caso fa storia a sé”. E anche se il risveglio non arrivasse mai, quella che vivono le persone in stato vegetativo “è vita a tutti gli effetti”, insiste De Nigris. Nel senso comune non deve passare, aggiunge, “la sciatteria, la pigrizia, l’approssimazione. Sentiamo parlare del ‘calvario’ di Eluana, di ‘staccarla dalle macchine’. Questo nega il percorso delle persone che lottano per non perdere la speranza, e nega le buone pratiche e i buoni luoghi dedicati alle persone in stato vegetativo e alle loro famiglie”.
«La scienza dimostra: quei pazienti consapevoli»
DI ANDREA LAVAZZA
Avvenire, 15 luglio 2008
«Da quando è stato dimostrato che i pazienti in stato vegetativo possono mantenere qualche forma nascosta di consapevolezza, dovrebbe valere il principio di precauzione: non possiamo fare morire una persona che forse ci sta sentendo e capisce che cosa accade a lei e intorno a lei».
Giuseppe Sartori, ordinario di Neuroscienze cognitive all’Università di Padova, conduce studi all’avanguardia sul cervello. Recentemente ha realizzato una 'macchina della verità' che è stata giudicata lo strumento potenzialmente più affidabile in questo settore. Oggi, da ricercatore rigoroso, è per lo meno stupito dall’approssimazione con cui è stato giudicato il caso di Eluana Englaro, «se la giovane è davvero in stato vegetativo, come tutti dicono».
Professor Sartori, a quale studio fa riferimento?
Si tratta di una ricerca pubblicata sulla rivista Science nel settembre 2006, che all’epoca ebbe un’eco internazionale (ne parlò anche Avvenire, ndr). Adrian Owen, dell’università di Cambridge, e Steven Laureys, dell’università di Liegi, hanno dimostrato che una ragazza di 23 anni, in acclarato stato vegetativo a seguito di un incidente stradale con grave trauma cranico, mostrava di essere «coscientemente consapevole».
In che modo si è potuto appurarlo?
È stato utilizzato uno scanner per la risonanza magnetica funzionale, che misura l’attivazione delle aree cerebrali attraverso l’afflusso di sangue ossigenato, indicatore di un metabolismo cellulare accelerato. Alla giovane, una volta inserita nella macchina, assolutamente non invasiva, è stato chiesto verbalmente di immaginare di giocare a tennis. Il risultato è che si è vista un’attivazione dell’area motoria supplementare, esattamente come accade in un gruppo di controllo composto da persone sane. Si è poi detto alla ragazza di immaginare di percorrere la propria abitazione, e in quel caso si è notata l’attivazione di una serie di altre regioni cerebrali, le stesse coinvolte nell’esecuzione del compito da parte di soggetti sani.
Che cosa ne consegue dal punto di vista scientifico?
Ne discende un ragionamento molto stringente, del quale non si trova traccia nei resoconti giornalistici sul caso. Se è vero che il correlato cerebrale della consapevolezza consiste nell’attivazione di alcune aree del cervello – le neuroscienze cognitive si basano proprio su quest’assunto –, e almeno alcuni pazienti in stato vegetativo hanno un’attivazione del tutto simile a quella delle persone sane, se ne deve dedurre che questi pazienti possono essere consapevoli.
Ma lo studio di Owen riguarda una determinata giovane, pur diagnosticata in stato vegetativo secondo tutti i criteri internazionalmente riconosciuti...
È vero. Ci sono però due considerazioni da fare. La prima è la risposta alle obiezioni svolta dallo stesso Owen: risultati negativi all’esame della risonanza non possono costituire una prova definitiva di mancanza di consapevolezza, perché i cosiddetti falsi negativi sono comuni negli studi di neuroimmagine. In altre parole, anche nei sani capita di non riuscire a rilevare l’attivazione cerebrale, ma è evidente che essa avviene. In secondo luogo, una volta dimostrato che in qualche paziente in stato vegetativo rimane un barlume di consapevolezza, deve vigere, per così dire, il forte sospetto che anche altre persone nelle stesse condizioni siano almeno parzialmente consapevoli, mentre la malattia renda loro impossibile manifestarlo.
Alcuni neuroscienziati hanno contestato le conclusioni di Owen e Laureys, dicendo che la risposta registrata è sostanzialmente un riflesso automatico...
Non mi sembrano obiezioni conclusive. Non possiamo qui scendere nei dettagli tecnici, ma la ricerca è di grande rilevanza. E apre possibili nuove applicazioni degli studi di neuroimmagine.
A che cosa si riferisce?
Come già Owen accenna, la risonanza magnetica potrà permettere a questi pazienti di sfruttare le loro residue capacità cognitive per comunicare i loro pensieri modulando la propria attività cerebrale. Mi viene in mente un esperimento non troppo fantascientifico: si potrebbero fare domande al paziente, il quale dovrebbe rispondere immaginando di muovere la mano destra per il sì e di muovere la mano sinistra per il no. La premessa è che noi, oggi, da una ' fotografia' del cervello sappiamo capire quale mano viene mossa o, il che è lo stesso, quale mano si vorrebbe muovere.
Viene spontaneo pensare che tali test potrebbero essere realizzati anche su Eluana?
Certo. Non si può basare una sentenza che ha conseguenze irreversibili su assunti non dimostrati. Forse Eluana vede e capisce. Non cercare di appurarlo potrebbe originare un errore gigantesco. Un errore che ovviamente sarebbe irrimediabile.
Il neuroscienziato Giuseppe Sartori dell’Università di Padova: «A una giovane in stato vegetativo è stato chiesto di immaginare di giocare a tennis, nel suo cervello si sono attivate le stesse aree che si accendono nelle persone sane Non si può ignorare un fatto di questa portata Si rischia un errore gigantesco, che non è rimediabile»
la testimonianza
Mio figlio Daniele come Eluana Una presenza viva che porta frutto
Avvenire, 15 luglio 2008
S pesso le notizie dei giornali e dei media ci interrogano sui fatti della vita, portano a chiederci che cosa faremmo in certe situazioni che peraltro non viviamo in prima persona.
Ma viene anche il momento in cui ci si confronta con qualcosa che si conosce benissimo: potrei dire troppo bene. Ed è precisamente quanto mi accade rispetto alla vicenda di Eluana.
Mio figlio Daniele oggi ha 9 anni, all’età di 4 ha riportato una grave anossia da annegamento e la sua attuale situazione è di 'stato vegetativo persistente'. Ho vissuto quindi l’angoscia al momento dell’incidente, l’ansia dei giorni che passavano segnati da continui peggioramenti, le speranze frustrate di un suo risveglio, il dolore lancinante sia fisico che psicologico di trovarsi catapultati per mesi in ospedale dove impari a convivere e gestire la tracheotomia e l’alimentazione assistita, dove sei costretto a vivere la realtà del 'tuo splendido e meraviglioso bambino' che non parla più, non mangia più, non ti sorride più... non ti corre più incontro.
Da quattro anni siamo tornati a casa, dove con mio marito e gli altri due figli abbiamo dovuto ricominciare una vita diversa, molto diversa.
L’impegno per assistere Daniele ci ha assorbito giorno e notte per molti mesi: solo per alimentarlo ci volevano 18 ore al giorno e tuttora ci alziamo diverse volte ogni notte per girarlo. Se abbiamo potuto fisicamente resistere è perché attorno a noi si è formata una rete di volontari che ci ha permesso di riposare e seguire gli altri due figli. Abbiamo dovuto anche cambiare casa per la necessità di un letto da ospedale e tante attrezzature che in quella precedente non era possibile collocare. Eppure… nonostante queste e tantissime altre fatiche e difficoltà, per tutti noi e per chi frequenta la nostra casa Daniele è una presenza viva: non parla, però nel suo silenzio aiuta e sostiene tanti, stanchi e sfiduciati. I suoi grandissimi occhi azzurri che ci fissano e che riescono a trasmetterci i suoi stati di tranquillità e di fastidio, ci dicono che la vita può avere forme ed espressioni difficilissime da capire ma che è vita piena. Un amico ha scritto che «lo scalpello del dolore è strumento rude e pesante, ma che produce capolavori di grazia», ed è una frase che io pienamente condivido. È difficile da dire, ma in un mondo che insegue l’effimero è la sofferenza che ci obbliga a riflettere sul fine ultimo della nostra vita e a coglierne il senso.
Noi continueremo a chiedere a Dio che ci faccia la grazia di questa guarigione e tanti amici con noi continuano a pregare, ma sappiamo anche che lo stato di Daniele a suo modo porta frutto. Si è vero, la nostra fede, anche se messa a dura prova, ci ha aiutato e sostenuto, ma è anche vero che il valore assoluto della vita è un dato non solo di fede ma oggettivo. Il nostro vivere ci pone di fronte a responsabilità ben precise nei confronti degli altri: non credo che il 'supposto bene' del singolo possa andare contro il bene generale. In particolare, riferendomi alla sospensione dell’alimentazione a Eluana, penso che oltre ad essere un atto di violenza, anche se compiuto come gesto di pietà, in realtà fa innescare il dubbio che l’uomo possa decidere della vita e della morte e pertanto diventa un atto immorale. Non tutto ciò che è legalmente possibile è eticamente accettabile. Ognuno di noi è chiamato, anche se con sacrificio estremo, ad assumersi grandi responsabilità.
Giancarla Saglio Dominoni
I suoi grandi occhi azzurri ci guardano e ci dicono che la vita può avere forme ed espressioni difficili da capire. Ma che è vita piena
Il cristiano, uomo «senza patria» - Arriva oggi in libreria un inedito di Giussani sul senso dell’essere credenti, in margine ad un incontro avuto con Giovanni Paolo II
Avvenire, 15 luglio 2008
DI LUIGI GIUSSANI
O ltre allo spunto dei contributi che avete inviato, come da richiesta, e che sarà rispettato, ce n’è un altro, nel frattempo succeduto, che travolge anche la pertinenza dei vostri fogli e porta in modo suggestivamente drammatico la questione a un livello che noi abbiamo subìto, soprattutto dal ’68 in poi, specialmente in certi anni, ma senza prenderne coscienza. Il fatto successo è l’incontro col Papa che abbiamo avuto settimana scorsa. A parte l’interesse che il Papa aveva per il Meeting, sul quale voleva da noi qualche apporto o qualche osservazione, la cosa più impressionante di quella conversazione, durata un’ora e mezza, è stata scoprire nel Papa, come persuasione ovvia, come atteggiamento acquisito, quello che almeno due altre volte aveva esplicitato con parole che per noi sono state subito preziose, che ci hanno destato entusiasmo, ma che è come se non avessimo accolto secondo tutta la serietà definitiva con cui il Papa le aveva pronunciate. Mi riferisco innanzitutto a quella frase che poi abbiamo collocato sulla copertina di un Litterae communionis: «Il vostro modo di affrontare i problemi umani è molto simile al mio, anzi, dirò, è lo stesso». E la disse una seconda volta, con gli universitari di Roma, in un raduno a Castelgandolfo. (…) Il Papa, per almeno due o tre volte, ha ripetuto questa identificazione per così dire - del destino della sua figura con il destino della nostra esperienza.
Mentre scendevamo per la colazione (…), parlando del fatto che il malanno della Chiesa è stato quello di introdurre, nel post-concilio, categorie della mentalità laica dominante, per esempio le categorie di «integrista» e di «aperturista», dove solo l’aperturista avrebbe nella società di oggi il diritto a esistere, ha detto: «Esattamente come dicono di me, dicono di voi; definiscono voi così, come definisco- no me così». E ancora: «Dove il Papa viene accolto, venite accolti anche voi». (…) Mentre era ancora seduto, e stava per girarsi sulla sedia per alzarsi, ha detto: «Voi non avete patria, perché voi siete inassimilabili a questa società». Poi ha fatto un momento di silenzio e, quasi mentre si alzava dalla sedia, ha ripetuto questa parola: «Voi non avete patria», in cui era commoventemente visibile la proiezione della sua situazione su di noi. (…) Il che vuole dire: uno che non ha patria è continuamente senza sicurezze umane, senza protezioni, senza soste, sempre in qualche modo attraversando, perciò «contro», ma contro nel senso di attraversando. In fondo in fondo, se mettete insieme queste parole, esse rappresentano la descrizione o la definizione dell’anti-borghese, di ciò che non è borghese, di ciò che non è consolidato socialmente, di ciò che non è established. (…). Ma, dentro a tutto questo, è incosciente ciò che adesso dico essere il primo passo nella comprensione del come mai noi siamo senza patria. Perché, guardate, in fondo in fondo, tutta la nostra attività, da quando è nata Comunione e Liberazione, dal ’70, specialmente dal ’73, (…) tutto quello che noi facciamo è per avere una patria, è per avere una patria in questo mondo. Non dico che non sia giusto.
Dico che lo facciamo per avere una patria e che questa patria non l’avremo. »Voi siete senza patria». (…) Siamo andati avanti per dieci anni lavorando sui valori cristiani e dimenticando Cristo, senza conoscere Cristo. Il problema è Cristo, conoscere Cristo. Come dice san Paolo, nel terzo capitolo della Lettera ai Filippesi: «Io, se dovessi mettermi a paragone con voi, starei molto bene, perché sono molto più di voi, sono professore all’università diciamo che per l’età era un Associato , ho superato molto in fretta la prova di Ricercatore, sono diventato, giovanissimo ancora, Associato all’università, so quel che sapete voi e ne so anche molto di più, ho fatto per la mia religione quello che voi non avete fatto, ma tutto questo io ho capito che è sterco di fronte alla conoscenza di Cristo». L’avvenimento cristiano ha questo come suo oggetto, come suo contenuto: la conoscenza di Cristo.
Non è una conoscenza riducibile, sia pure in analogia, allo studio che facciamo dei fossili o di Giulio Cesare. Per questo la parola più giusta è «riconoscimento» di Cristo: perché non si conosce una Presenza, la si riconosce. (…). Non ha patria da nessuna parte nella società di oggi colui che riconosce la presenza di Cristo - una presenza diversa da tutte le altre - nella propria vita, nella trama dei propri rapporti, nella società in cui vive; talmente riconosce questa Presenza che è essa a determinare la modalità di veduta, la modalità di percezione, quindi la modalità di giudizio e la modalità di comportamento. Non ha patria l’uomo che dice: «Dio è un fatto presente, con un nome storico che coglie e tocca fisiologicamente la mia vita, e quindi pretende di determinarla in ogni senso, affinché attraverso la mia vita possa determinare la vita della società».
Costui non ha patria. Fino a quando il cristianesimo è sostenere dialetticamente e anche praticamente valori cristiani, esso trova spazio e accoglienza dovunque.
Ma là dove il cristiano è l’uomo che annuncia nella realtà umana, storica, la presenza permanente la presenza e la presenza permanente di Dio fatto Uno tra noi, oggetto di esperienza (come quella di un amico, di un padre o di una madre), attivamente determinante come orizzonte totale, come l’ultimo amore («Nell’esperienza di un grande amore […] tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito »), la presenza di Cristo centro del modo di vedere, di concepire e di affrontare la vita, senso di ogni azione, sorgente di tutta l’attività dell’uomo intero, vale a dire dell’attività culturale dell’uomo, questo uomo non ha patria.
Colui che riconosce la presenza di Cristo come fatto presente non è assimilabile a questa società, perchè cambia il modo di affrontare la sua vita.
1) “Il rovescio delle medaglie. La Cina e le Olimpiadi”, Ancora, Milano, 2008, pp. 230, capitolo settimo. di Bernardo Cervellera
2) Il no alle donne prete, è una libera scelta di Gesù
3) Clodovis e Leonardo Boff, fratelli separati (sulla teologia della liberazione), di Sandro Magister
4) Ordine vicino a Lefebvre annuncia la comunione con Roma - I Redentoristi Transalpini, con sede centrale in un'isola della Scozia
5) La pienezza della felicità secondo san Bonaventura - Come si educa il desiderio
6) La sete di Eluana, dal Foglio.it
7) «La scienza dimostra: quei pazienti consapevoli» (su Eluana Englaro)
8) Mio figlio Daniele come Eluana Una presenza viva che porta frutto
9) Il cristiano, uomo «senza patria» - Arriva oggi in libreria un inedito di Giussani sul senso dell’essere credenti, in margine ad un incontro avuto con Giovanni Paolo II
Tratto da: “Il rovescio delle medaglie. La Cina e le Olimpiadi”, Ancora, Milano, 2008, pp. 230, capitolo settimo. di Bernardo Cervellera
Bernardo Cervellera, missionario del PIME e giornalista, attualmente è responsabile dell’agenzia giornalistica “Asia News”. È stato direttore (1997-2002) di “Fides”, l’agenzia di informazione internazionale del Vaticano, divenuta sotto la sua guida un’autorevole organo giornalistico molto apprezzato dai media mondiali. Dal ’95 al ’97 ha insegnato all’università di Pechino (Beida) come docente di Storia della Civiltà occidentale. Collaboratore del quotidiano “Avvenire”, interviene come esperto di politica internazionale nei TG nazionali e in numerose trasmissioni televisive, fra cui “Porta a Porta” e “Otto e mezzo”.
“Pechino 2008 sarà all’insegna dell’armonia e della libertà per tutte le religioni”: lo assicura Ye Xiaowen, direttore dell’amministrazione statale per gli affari religiosi, il ministero che si preoccupa di attuare la politica della Cina verso le religioni. [...]
In effetti, al villaggio olimpico, fra stadi e residenze, sta nascendo anche un centro per i servizi religiosi a disposizione dei bisogni degli atleti, secondo le loro diverse convinzioni religiose. Ci saranno locali adibiti alla preghiera per buddisti, indù, cristiani, ebrei e musulmani. [...]
L’impressione però è che tanta apertura verso le fedi religiose degli ospiti olimpici sia solo un altro superbo spettacolo di facciata, una enorme campagna di immagine per mostrare che la Cina del XXI secolo non viola i diritti umani e religiosi. Almeno nel villaggio olimpico.
Il punto è infatti che le regole all’interno del recinto dei Giochi sono diverse dalle regole all’interno del Paese. Nel villaggio olimpico si dà spazio a tutte le religioni, ma in Cina sono riconosciute solo cinque religioni ufficiali: buddismo, taoismo, islam, cristianesimo protestante, cattolicesimo.
Altre comunità religiose presenti nel territorio – come i cristiani ortodossi, gli ebrei, gli indù, i bahai – non hanno luoghi di culto e non possono averli perché il governo non li riconosce.
Nel 2007, in diverse riprese, il patriarca di Mosca ha criticato il governo di Pechino per non concedere piena libertà e riconoscimento alla Chiesa ortodossa cinese, che pure è presente da 300 anni nel Paese. Il gruppo di fedeli – che si aggira sulle 13 mila unità – per le speciali occasioni, come Natale e Pasqua, deve usare i locali dell’ambasciata russa a Pechino. Anche il metropolita greco-ortodosso di Hong Kong, Nikitas Lulias, ha criticato le autorità cinesi per lo stesso motivo.
Una cosa simile vale per gli ebrei. Presenti da secoli sul territorio, essi sono stati spazzati via dal maoismo, che ha sequestrato beni degli israeliti e diverse sinagoghe.
Il rabbino capo di Israele ha chiesto da tempo al governo cinese il ritorno al culto della sinagoga di Shanghai, la Ohel Rachel, ma non ha ottenuto risposta.
A tutt’oggi gli ebrei in Cina, che si aggirano sulle diverse migliaia, sono tollerati finché vivono la loro religione con discrezione e senza coinvolgere cinesi. [...]
Chi pensava che le Olimpiadi sarebbero state il momento per la Cina di assaggiare la libertà religiosa come è praticata in larga maggioranza nella comunità internazionale, dovrà ricredersi: toccherà al resto del mondo assaggiare il controllo religioso “made in China”.
In Cina le comunità religiose “riconosciute” godono di libertà religiosa (o meglio, di culto) solo se praticano la loro fede in strutture registrate presso il governo, con personale registrato, con attività registrate e accettando la supervisione delle Associazioni patriottiche (AP). Questa confusione fra Stato e Chiese produce un effetto ridicolo: membri del Partito – la maggioranza dei segretari delle Associazioni patriottiche sono atei – si mettono a gestire la vita spirituale dei fedeli indicando come svolgere i riti, quali libri stampare, chi può scegliere la vocazione religiosa, chi può diventare prete o leader di una comunità, quali ragazze possono entrare in convento. Questo controllo non è neutrale. Esso tende a un lento soffocamento delle religioni. [...]
C’è anche un effetto violento: a chiunque non si sottoponga al controllo delle AP è proibita ogni attività religiosa. Se osa farlo va in prigione perché compie un’azione “illegale” ed è trattato alla stregua di un comune delinquente. [...]
In prossimità delle Olimpiadi, mentre il governo proclama ai quattro venti che durante le Olimpiadi ci sarà piena libertà religiosa, la polizia di diverse regioni ha fatto retate e piazza pulita di vari leader delle comunità sotterranee.
Fra i cattolici [...] il fatto più terribile è certo la morte di monsignor Giovanni Han Dingxian, vescovo sotterraneo di Yongnian. Da due anni in isolamento nelle mani della polizia, il prelato, che ha passato almeno 35 anni della sua vita in prigione, è morto in un ospedale il 9 settembre 2007. I parenti sono stati chiamati poche ore prima che spirasse. Poche ore dopo la sua morte (avvenuta alle 11 di sera), la salma è stata subito cremata e seppellita in un cimitero pubblico, senza possibilità per parenti, fedeli e sacerdoti di poterlo vedere, salutare o benedire. Secondo alcuni cattolici della diocesi, la polizia “voleva coprire delle prove”, forse di tortura. [...]
La Cina è stata spesso condannata dalla comunità internazionale per la pratica della tortura da parte della polizia. Manfred Nowak, investigatore capo dell’agenzia ONU sulle torture, ha confermato in un suo rapporto del 2006 “l’uso diffuso della tortura in tutta la Cina”, chiedendo il “rilascio immediato di chi è in carcere per aver esercitato il diritto alla libertà religiosa o alla parola”. [...]
L’accanimento del regime è forte soprattutto con i protestanti. Il governo centrale teme infatti che durante le Olimpiadi di Pechino avvengano scontri o manifestazioni di tipo religioso che sfuggano al controllo della polizia, proprio da parte dei cristiani protestanti. E questo per due motivi.
Anzitutto perché già da due anni migliaia di protestanti di vari Paesi si preparano a evangelizzare a tappeto la Cina approfittando della facilità con cui essa darà visti di ingresso in occasione dei Giochi.
Nel terrore che questo possa accadere, già nel 2007 Pechino ha espulso più di cento personalità protestanti straniere, provenienti da Stati Uniti, Corea del Sud, Singapore, Canada, Australia, Israele. Il nome in codice dell’operazione poliziesca era “Tifone numero 5” e mirava a “prevenire le attività missionarie di cristiani stranieri, prima delle Olimpiadi di Pechino dell’agosto 2008”. [...]
L’altro motivo dell’accanimento è che i protestanti rappresentano fra i cristiani il gruppo più folto e meno controllabile. Secondo statistiche ufficiali, i protestanti cinesi sono 16 milioni. Tutte le denominazioni sono radunate nel Movimento delle Tre Autonomie (MTA), che – similmente all’Associazione patriottica dei cattolici – veri***** la loro obbedienza al Partito. Ma grazie a una diffusa evangelizzazione, finanziata da gruppi decisi e potenti con base negli Stati Uniti, in Corea e in Australia, la popolazione protestante è cresciuta fino a oltre 50 milioni (alcune stime dicono anche 80 milioni). Questo squilibrio fra cristiani riconosciuti e non riconosciuti (sotterranei), tra controllati e non controllati, provoca una risposta dura da parte del governo che ormai esige o l’assorbimento delle comunità sotterranee nel MTA, o l’eliminazione della comunità stessa. [...]
L’accanimento del Partito verso le religioni, e soprattutto verso cattolici e protestanti, ha diverse ragioni.
Esse sono certamente ideologiche – Stato ateo, religioni “oppio dei popoli”, eccetera – ma sono alimentate anche dalla paura nel veder crescere l’influenza delle religioni nei fenomeni mondiali. Per fare solo un esempio: nell’agosto e settembre 2007 i monaci buddisti birmani sono stati la forza trainante di manifestazioni contro il caro-vita, per la democrazia, di critica della giunta al potere. Vi è poi il caso delle Filippine, dove la Chiesa cattolica esige dal governo rispetto per la vita, per l’ambiente, per i diritti dei lavoratori. Ancora prima, i cattolici polacchi e papa Giovanni Paolo II, con le loro pressioni, avevano messo in crisi il comunismo sovietico e contribuito alla caduta del Muro di Berlino.
Il terrore di Pechino è che possa crescere un’alleanza fra le forze religiose e gli scontenti della società cinese, creando una forza innumerevole, impossibile da fermare.
A questo si aggiunge il fatto che ormai il Partito è al suo minimo storico di credibilità, mentre le religioni si danno sempre più spazio.
Una ricerca di due professori dell’Università Normale di Shanghai, Tong Shijun e Liu Zhongyu, dimostra che i credenti in Cina sono almeno 300 milioni, il triplo di quanto stimato anni fa dal governo. Il rapporto sottolinea che la religione più cresciuta è il cristianesimo: il 12 per cento dei credenti, pari a 40 milioni di persone, si dichiara seguace di Cristo. Nel 2005 Pechino aveva stimato i cristiani in 16 milioni, mentre alla fine degli anni Novanta – sempre secondo dati governativi – essi erano poco più di 10 milioni. [...]
Questi dati confermano molte testimonianze di vescovi cristiani che parlano di “una grande sete di Dio” nel popolo cinese, soffocata da decenni di materialismo marxista e da secoli di materialismo confuciano.
Il fatto strabiliante è che questa nuova ricerca religiosa scuote anche il Partito. Secondo dati pubblicati da “Epoch Times” (12 novembre 2005), almeno 20 dei 60 milioni di quadri del Partito credono in qualche religione. Essi sono spinti a credere perché stanchi del materialismo che non dà gioia, o perché disgustati dalla corruzione e dall’immoralità di molti quadri, che affamano la popolazione per godere di privilegi.
Statistiche segrete della Commissione disciplinare del Partito, arrivate in Occidente, stabiliscono che i quadri implicati in attività religiose nelle città sono 12 milioni e di questi, almeno cinque svolgono attività regolari. Nelle aree rurali altri 4 milioni di attivisti del Partito partecipano ad attività religiose con regolarità. [...]
Nel tentativo di contrastare l’ondata religiosa all’interno delle sue file, il Partito comunista cinese ha varato da più di quattro anni una campagna per la diffusione dell’ateismo utilizzando radio, televisione, internet, seminari universitari. Nel 2006 ha anche finanziato con 30 milioni di dollari una campagna per rivitalizzare il marxismo.
Negli ultimi anni, per contrastare la crescita di protestanti e cattolici, il governo ha anche lanciato campagne a sostegno delle religioni “non occidentali”, potenziando buddismo, taoismo e confucianesimo (quest'ultimo non proprio una religione, ma piuttosto una filosofia morale).
A metà aprile 2007, il governo ha finanziato con 1 milione di dollari un convegno in due differenti sedi, Xian e Hong Kong, per promuovere lo studio del “Daodejing”, il libro base del taoismo. Al raduno hanno partecipato Liu Yandong, del Comitato centrale del Partito; Xu Jialu, vicepresidente dell’Assemblea nazionale del popolo e Ye Xiaowen, direttore dell’Amministrazione statale per gli affari religiosi.
Dal 13 al 16 aprile 2006 il governo ha anche sponsorizzato il convegno del World Buddhist Forum. Interrogato dall'agenzia ufficiale Xinhua sull’avvenimento, Ye Xiaowen ha dichiarato: “Il buddismo può offrire un contributo particolare alla 'società armoniosa' perché tende a un’idea di armonia più vicina alla visione cinese... In quanto Paese responsabile la Cina ha una sua visione e una politica precisa nel promuovere l’armonia mondiale. Il potere religioso è una delle forze sociali da cui la Cina può ricevere sostegno”.
Infine, dal 2002 il governo ha stanziato ben 10 miliardi di dollari per rivitalizzare in patria e nel mondo gli insegnamenti di Confucio, con i cosiddetti “Istituti Confucio”. Il desiderio è proprio quello di mostrare un volto noto alla cultura mondiale, rispondendo alla crisi di moralità e di valori spirituali nel Paese.
L’interesse è anche dato dal fatto che la filosofia di Confucio – tanto disprezzato da Mao Zedong – predica soprattutto la pietà filiale, l’obbedienza alle autorità, il sacrificarsi per il clan, tutte doti importanti nella Cina individualista di oggi, che tenta di sfuggire alla massificazione, ma anche alla morsa del controllo del Partito, visto come un padre-padrone.
Anche il sostegno generoso verso il buddismo e il taoismo cinesi si spiega con il fatto che queste due religioni diffondono un credo che ha come ideale il distacco dalla società, la non-azione, senza mai mettere in discussione il potere.
Una parte dei membri del Partito rimane comunque convinta che le religioni, tutte le religioni, possono contribuire all’armonia sociale, alla stabilità e allo sviluppo. Per questo occorre non frenare la loro crescita, permettendo anche ai membri del Partito di partecipare alle attività religiose. [...]
Essendovi in Cina una ricerca religiosa così forte, e una persecuzione altrettanto sistematica, è comprensibile che molti gruppi religiosi nel mondo vogliano sfruttare l’occasione delle Olimpiadi per costringere la Cina ad aprire le maglie del controllo sulle religioni e utilizzare il tempo dei Giochi anche per lanciare nuove occasioni di evangelizzazione. [...]
Quel che è certo è che tutte queste attività metteranno a dura prova la sicurezza cinese e il tentativo di isolare i Giochi, come oasi di libertà, dal resto della vita della Cina, immensa prigione a cielo aperto.
Per questo, il gesto più significativo che Pechino potrebbe fare per proclamare la sua avvenuta maturità nella comunità internazionale sarebbe quello di liberare tutti i prigionieri di coscienza e quelli imprigionati per motivi religiosi.
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Il libro:
Bernardo Cervellera, “Il rovescio delle medaglie. La Cina e le Olimpiadi”, Ancora, Milano, 2008, pp. 230.
Il no alle donne prete, è una libera scelta di Gesù
"«Come scrisse Paolo VI all’arcivescovo di Canterbury, fu Cristo a designare fra gli uomini i suoi apostoli E non fu una concessione alla mentalità del tempo, che mai condizionò il nostro Salvatore»
DA ROMA
GIANNI CARDINALE
L a decisione del Sinodo anglicano d’Inghilterra di dare il via libera alla nomina di « vescovi » donne ha avuto ampio risalto sui media. Sul perché la Chiesa cattolica ammette al sacerdozio solo uomini
Avvenire ha posto alcune domande a monsignor Antonio Miralles, del clero dell’Opus Dei, professore ordinario di teologia sacramentaria alla Pontificia Università della Santa Croce. Spagnolo di Salamanca, ma da 47 anni a Roma, Miralles è consultore della Congregazione per il clero e, dal 1990, della Congregazione per la dottrina della fede.
Monsignor Miralles, perché la Chiesa cattolica non ammette le donne al sacerdozio?
Quando nel 1975 l’arcivescovo di Canterbury, Donald Coggan, informò Paolo VI che gli anglicani erano sul punto di ammettere le donne al sacerdozio, cosa che poi fecero, papa Montini gli scrisse una lettera per spiegare che la Chiesa cattolica non si sentiva autorizzata a farlo perché era obbligata dalla scelta fatta da Gesù Cristo, il Signore, di scegliere i suoi apostoli solo tra gli uomini, e contestualmente chiese alla Congregazione per la dottrina della fede di elaborare un documento che desse ragione di questa posizione. Così nacque la dichiarazione Inter insigniores, pubblicata nel 1976. In essa si spiega più ampiamente la ragione data da Paolo VI. Nel maggio 1994 questa posizione è stata ribadita in modo definitivo con la Lettera apostolica di Giovanni Paolo II Ordinatio sacerdotalis.
Ma la scelta di Gesù, si obietta, non potrebbe essere determinata dal contesto storico, dalla mentalità dell’epoca?
È una obiezione che non ha fondamento. Gesù ha dato dimostrazione di sentirsi libero dai condizionamenti della società in cui è nato. E lo ha dimostrato, ad esempio ma non solo, quando si oppose al costume della società ebraica del suo tempo, ma anche di quella greco- romana, che ammetteva il ripudio della moglie, il divorzio insomma.
Gesù, che pure aveva tra i suoi seguaci più fedeli proprio delle donne, a cominciare dalla madre, la Beata Vergine Maria – ai piedi della Croce c’erano varie donne e un solo discepolo! – scelse deliberatamente e liberamente come apostoli solo degli uomini. E questa scelta non può che essere vincolante per quella che vuole essere la sua Chiesa.
Ma perché Gesù fece questa scelta?
A questa domanda cercano di rispondere i teologi: è il loro mestiere. Ma tutte le spiegazioni che si possono dare a questa domanda sono sempre secondarie e accessorie, rispetto alla scelta compiuta da Gesù che la Chiesa deve seguire e non può cambiare a suo piacimento o in base alle voglie di settori più o meno ampi dell’opinione pubblica.
Ma l’escludere le donne dal sacerdozio non lede la loro dignità?
La dignità delle donne nella Chiesa non dipende certo dall’accesso al sacerdozio. La storia della Chiesa, dalla Beata Vergine Maria alla moltitudine di beate e di sante, sta lì a dimostrarlo.
Perché il Magistero ha atteso il 1975 per proclamare solennemente la non ammissibilità delle donne al sacerdozio?
Semplicemente perché fino a quel momento il fatto che il sacerdozio fosse riservato agli uomini era stata una prassi ininterrotta e mai messa in discussione per circa duemila anni, né quando la Chiesa si diffuse in contesti culturali e religiosi dove pure esistevano forme di « sacerdozio » femminile, penso al mondo greco- romano, né tantomeno in presenza di scarsità vocazionale o di carenza di clero. Il Magistero di norma non interviene in modo risolutivo se una verità è pacificamente considerata e non è messa in discussione.
È possibile che in futuro il Magistero cattolico, approfondendo la questione, possa arrivare a conclusioni diverse e aprire quindi al sacerdozio femminile?
Questa possibilità è esclusa. Perché il sacerdozio maschile è una verità considerata appartenente al deposito inviolabile della fede, alla Tradizione con la « t » maiuscola. Lo ha ricordato in modo formale la Congregazione per la dottrina della fede con la « Risposta al dubbio circa la dottrina della Lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis » pubblicata nell’ottobre 1995 con l’approvazione e per disposizione di Giovanni Paolo II. Degli autori cattolici infatti avevano insinuato che il ' no' al sacerdozio femminile era da considerarsi provvisorio e che non si potevano escludere ripensamenti futuri. Non è così.
Monsignor Miralles, la decisione del Sinodo anglicano d’Inghilterra di ammettere le donne anche all’episcopato aumenta le distanze con la Chiesa cattolica?
Relativamente. La rottura drammatica si è verificata con la decisione anglicana di ammettere le donne al sacerdozio. Quella di ammetterle all’episcopato di per sé è una conseguenza secondaria, che non può peggiorare una situazione già assai deteriore.
Un ultima domanda « accessoria » . Qual è invece lo « status quaestionis » riguardo all’accesso delle donne al diaconato?
A questo riguardo, non c’è stato ancora un pronunciamento del Magistero come c’è stato per l’accesso al sacerdozio. Ma le norme vigenti e la prassi ecclesiastica riservano agli uomini anche il diaconato. È vero che nei primi secoli della cristianità si hanno notizie di « diaconesse » , ma è da ritenersi che non si trattasse di un corrispondente femminile dei « diaconi » . Per questo ad oggi anche il diaconato permanente è riservato agli uomini. Ma la questione è ancora oggetto di studio. «Come scrisse Paolo VI all’arcivescovo di Canterbury, fu Cristo a designare fra gli uomini i suoi apostoli E non fu una concessione alla mentalità del tempo, che mai condizionò il nostro Salvatore».
Clodovis e Leonardo Boff, fratelli separati
La teologia della liberazione che una volta li univa, ora li divide. Il primo la critica a fondo ed è passato nel campo di Ratzinger, mentre il secondo continua a difenderla e si sente tradito. I testi integrali della disputa
di Sandro Magister
ROMA, 14 luglio 2008 – Il primo colpo è di alcuni mesi fa. Ed è un articolo pubblicato su una rivista teologica del Brasile da una celebrità della teologia latinoamericana: Clodovis Boff (nella foto).
Ma è il secondo colpo che è rimbombato di più. Ed è l'aspra replica all'articolo di Clodovis Boff scritta dall'ancor più celebre suo fratello: Leonardo.
Le vie dei due fratelli si sono separate e scontrate proprio su ciò che prima le teneva unite: la teologia della liberazione.
Col suo saggio pubblicato lo scorso autunno sulla "Revista Eclesiástica Brasileira" (curata dai francescani del Brasile e diretta dal 1972 al 1986 proprio da suo fratello Leonardo), Clodovis Boff ha rotto con questa corrente teologica, o meglio, con "l'errore di principio" su cui a suo giudizio si fonda.
Leonardo Boff, invece, nella sua replica diffusa a fine maggio, resta fermissimo sul medesimo principio: "Dal momento che Dio si è fatto uomo-povero, l'uomo-povero diventa la misura di tutte le cose".
Leonardo Boff si autodefinisce oggi "theologus peregrinus", senza fissa dimora. È stato estromesso dall'insegnamento nelle facoltà di teologia cattoliche da una sentenza del 1985 della congregazione per la dottrina della fede, causata principalmente dal suo libro "Chiesa: carisma e potere. Saggio di ecclesiologia militante". Ha lasciato l'abito francescano e si è sposato. Vive a Petrópolis, nello stato di Rio de Janeiro.
Clodovis Boff appartiene invece tuttora ai Servi di Maria. Vive a Curitiba, nello stato del Paraná, e insegna nella Pontificia Università Cattolica della città. Non è stato mai processato dalla congregazione per la dottrina della fede, ma negli anni Ottanta perse la cattedra nella Pontificia Università Cattolica di Rio de Janeiro e gli fu impedito di insegnare al "Marianum", la facoltà teologica del suo ordine, a Roma.
Il fratello Leonardo lo ricorda così, negli anni in cui era fervido fautore della teologia della liberazione: "Passava metà dell'anno tra le comunità di base, offrendo corsi popolari, scendendo e risalendo i fiumi per visitare i popoli della foresta, e dedicava l'altra metà dell'anno all'insegnamento e alla produzione teorica nell'università di Rio".
Oggi invece, sempre a giudizio di Leonardo, Clodovis è passato anima e corpo a sostenere "con ottimismo ingenuo ed entusiasmo giovanile" la linea dettata dai vescovi latinoamericani nella loro conferenza continentale tenuta in Brasile ad Aparecida, nel maggio del 2007, e inaugurata da Benedetto XVI in persona.
Curiosamente, proprio colui che subentrò a Clodovis Boff sulla cattedra di teologia a Rio, l'italiano Filippo Santoro, oggi vescovo di Petrópolis e appartenente a Comunione e Liberazione, è lo stesso che ha più ispirato e seguito la sua "conversione", durata qualche anno e infine sfociata nel saggio pubblicato sulla "Revista Eclesiástica Brasileira".
Al suo apparire, questo saggio di Clodovis Boff ebbe una forte eco soltanto in Brasile. Ma quando, lo scorso maggio, il fratello Leonardo diffuse la sua replica, la disputa rimbombò in tutto il mondo.
A Roma, il quotidiano della conferenza episcopale italiana "Avvenire" ha dato la notizia dello scontro tra i due celebri fratelli in una breve nota, a fine giugno. Ma è stata soprattutto l'agenzia cattolica progressista "Adista" a dare rilievo alla cosa, in ripetuti servizi.
In due altre pagine di www.chiesa trovi riprodotti per intero, nella lingua originale portoghese, sia il saggio di Clodovis Boff che la replica di Leonardo.
Qui di seguito hai i titoli, gli inizi, i link e un breve sommario dei due testi:
1. Teologia da Libertação e volta ao fundamento
por Fr. Dr. Clodovis M. Boff, OSM
Queremos aqui, numa primeira parte, fazer um questionamento de fundo da Teologia da Libertação. A intenção não é desqualificar a TdL, mas, antes, defini-la de modo mais claro e refundá-la sobre bases originárias...
> Testo integrale
Nel prima parte del saggio, Clodovis Boff critica il fondamento su cui si basa la teologia della liberazione, non quella teorica, ma quella "realmente esistente".
A suo giudizio, l'errore "fatale" in cui essa incorre è di collocare il povero come “primo principio operativo della teologia”, sostituendolo a Dio e a Gesù Cristo.
E spiega:
"Da questo errore di principio possono derivare solo effetti funesti. [...] Quando il povero acquista lo statuto di 'primum' epistemologico, cosa avviene con la fede e la sua dottrina a livello di teologia e anche di pastorale? [...] Il risultato inevitabile è la politicizzazione della fede, la sua riduzione a strumento per la liberazione sociale".
Le conseguenze sono gravi anche per la vita della Chiesa:
"La 'pastorale della liberazione' diventa un braccio fra tanti del 'movimento popolare'. La Chiesa si fa simile a una ONG e così si svuota anche fisicamente: perde operatori, militanti e fedeli. Quelli 'di fuori' provano scarsa attrazione per una 'Chiesa della liberazione', poiché, per la militanza, dispongono già delle ONG, mentre per l’esperienza religiosa hanno bisogno di molto più che una semplice liberazione sociale. Inoltre, per il fatto di non percepire l’estensione e la rilevanza sociale dell’attuale inquietudine spirituale, la teologia della liberazione si mostra culturalmente miope e storicamente anacronistica, ossia alienata dal suo tempo".
Nella seconda parte del saggio, l'autore mostra come la teologia della liberazione può "salvarsi" con i suoi frutti positivi solo tornando al suo fondamento originario. Che trova nel documento finale della conferenza di Aparecida.
Tale documento – scrive – è la "limpida dimostrazione" di come è possibile coniugare correttamente la fede all'azione liberatrice. A differenza della teologia della liberazione, che “parte dal povero e incontra Cristo”, Aparecida “parte da Cristo e incontra il povero”, avendo ben chiaro che “il principio-Cristo include sempre il povero senza che il principio-povero includa necessariamente Cristo. [...] La fonte originaria della teologia non è altro che la fede in Cristo".
2. Pelos pobres, contra a estreiteza do método
por Leonardo Boff
Clodovis Boff acumulou muitos méritos no âmbito da Teologia da Libertação. Produziu uma reflexão de fôlego sobre o método da teologia, sobre a eclesiologia das comunidades eclesiais de base...
> Testo integrale
Nella sua replica, Leonardo Boff respinge la tesi sostenuta dal fratello Clodovis come "sbagliata, teologicamente erronea e pastoralmente dannosa". Essa infatti, scrive, "corre il rischio di condannare la Chiesa e la teologia all’irrilevanza storica e alla sterilità pastorale".
A giudizio del fratello, la tesi di Clodovis va rovesciata:
"Non è vero che la teologia della liberazione sostituisca Dio e Cristo con il povero. [...] È stato Cristo che ha voluto identificarsi con i poveri. Il luogo del povero è un luogo privilegiato di incontro con il Signore. Chi incontra il povero incontra infallibilmente Cristo, ancora nella forma del crocifisso, che chiede di essere deposto dalla croce e resuscitato".
E quanto alle conseguenze dell'attacco portato da Clodovis contro la teologia della liberazione, Leonardo Boff scrive:
"Il mio sospetto è che le critiche avanzate da Clodovis forniscano alle autorità ecclesiastiche locali e romane le armi per condannarla nuovamente e, chissà, bandirla definitivamente dallo spazio ecclesiale. Poiché le critiche devastanti provengono dall’interno, da uno dei suoi più noti espositori, esse possono prestarsi a questo gioco infelice. [...] La sua posizione è musica per le orecchie di quanti, lontani dal mondo e dalla sofferenza dei poveri, hanno in abominio questa teologia. Rafforza il tentativo di coloro che nella società e in settori del Vaticano la vogliono morta o impediscono che venga studiata o proibiscono che sia un riferimento per la pratica pastorale con i poveri e gli emarginati".
Leonardo Boff concede che l'intenzione del fratello non è di rifiutare in blocco la teologia della liberazione ma di "ricollocarla nei suoi fondamenti originari, poiché solo così potrà essere salva”.
Ma aggiunge:
"È un'intenzione che per me equivale a dire: Fratello mio, io ti pugnalo al cuore, ma stai tranquillo, è per la tua salvezza”.
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La rivista su cui Clodovis Boff ha pubblicato il suo saggio:
> Revista Eclesiástica Brasileira
E il sito web sul quale Leonardo Boff ha pubblicato la sua replica, il 27 maggio 2008:
> Instituto Humanitas Unisinos
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In un paragrafo iniziale del suo saggio, Clodovis Boff cita un famoso teologo della liberazione, il gesuita Jon Sobrino, recentemente inquisito dalla congregazione per la dottrina della fede.
E lo cita proprio per mostrare l'equivocità del linguaggio "liberazionista":
"Jon Sobrino parla dei poveri come l’istanza che dà la 'direzione fondamentale' alla fede e come il suo 'luogo più decisivo' Con ogni evidenza, questi due aggettivi, 'fondamentale' e 'decisivo', sono messi lì senza attenzione. Perché non spettano, in assoluto, ai poveri, ma alla 'fede apostolica trasmessa dalla Chiesa', come ricorda, in modo pertinente, la notificazione romana, mettendo in discussione certi punti della cristologia del citato teologo".
In un commento pubblicato l'8 giugno sullo stesso sito web che ha diffuso la replica di Leonardo Boff un altro teologo della liberazione brasiliano, padre Érico Hammes, ha riferito di un Jon Sobrino "profondamente rattristato" dall'esplicita approvazione data da Clodovis Boff alla condanna vaticana di alcune sue tesi:
> Teologia da Libertação após Aparecida volta ao fundamento? Entrevistas com Luiz Carlos Susin e Érico Hammes
Ordine vicino a Lefebvre annuncia la comunione con Roma - I Redentoristi Transalpini, con sede centrale in un'isola della Scozia
ROMA, lunedì, 14 luglio 2008 (ZENIT.org).- Fra' Michael Mary, C.SS.R., Vicario generale dei Redentoristi Transalpini, con sede centrale in un'isola scozzese, che nella loro storia hanno ricevuto aiuto dall'Arcivescovo Marcel Lefebvre e dalla fraternità sacerdotale di San Pio X, ha annunciato su Internet la comunione con Roma.
L'annuncio ha avuto luogo in una lettera presentata sulla pagina web dell'Ordine (http://www.papastronsay.com) e pubblicata sul suo blog (http://papastronsay.blogspot.com).
L'ordine celebra l'Eucaristia secondo il rito precedente alla riforma liturgica del Concilio Vaticano II.
Questo passo, spiega il religioso, ha avuto luogo dopo che “il 18 giugno scorso, di fronte al Cardinale Darío Castrillón e ai membri della Commissione Pontificia Ecclesia Dei a Roma, ho chiesto umilmente alla Santa Sede a mio nome e a nome del consiglio del monastero che le sanzioni sacerdotali fossero sollevate”.
“Il 26 giugno ho ricevuto a voce la notizia che la Santa Sede aveva accettato la nostra richiesta. Tutte le censure canoniche sono state sollevate”, ha aggiunto.
“Siamo profondamente grati al nostro Santo Padre, Benedetto XVI, per aver pubblicato nel luglio dell'anno scorso il Motu Proprio 'Summorum Pontificum', che ci ha chiamati a una comunione indiscussa e serena con lui”, afferma il Vicario.
“Ora abbiamo questa comunione indiscussa! E' una perla di grande valore; un tesoro nascosto nel campo; una dolcezza impossibile da immaginare se non si è sperimentata”.
Il suo valore, osserva, “non può essere espresso pienamente con il linguaggio umano e per questo speriamo che tutti i sacerdoti tradizionalisti che ancora non l'hanno fatto rispondano all'appello di Papa Benedetto XVI per godere della grazia della serena e indiscussa comunione con lui”.
Guardando al futuro, sostiene, “il prossimo passo sarà erigere canonicamente la nostra comunità”.
Originariamente con base a Joinville, in Francia, l'ordine si è trasferito nell'isola di Sheppey, Kent, e nel 1999 in modo permanente a Papa Stronsay, una piccola isola del nord della Scozia. I frati vivono nel monastero del Golgotha e pubblicano la rivista “The Catholic”.
L'ordine ha istituito di recente un secondo monastero nella città di Christchurch, in Nuova Zelanda. Anche il blog di questo monastero ha reso pubblico l'annuncio della comunione di Roma.
La regola dei Redentoristi Transalpini si basa su quella di Sant'Alfonso Maria de' Liguori, tuttavia non vi è alcun legame gerarchico con l'Ordine Redentorista.
La pienezza della felicità secondo san Bonaventura - Come si educa il desiderio
Si è recentemente svolto a Bagnoregio l'annuale convegno organizzato dal Centro Studi Bonaventuriani sul tema "La felicità in san Bonaventura". Pubblichiamo la sintesi di uno degli interventi.
di Alessandro Ghisalberti - Università Cattolica del Sacro Cuore
Vorrei partire da una breve riflessione sull'oggi, ossia vorrei tentare di mostrare l'attualità del tema della mia lezione su Bonaventura cogliendo spunti di riflessione dalla prassi di oggi, da alcune emergenze del vivere che oggi sono presenti alla coscienza di chiunque intenda coniugare il binomio vita-felicità.
Oggi la ricerca della felicità di ciascun individuo arriva a manifestarsi come un "desiderio assoluto", nel senso che l'uomo d'oggi, così come egli si esprime attraverso le forme di comunicazione mediatica (talk televisivi, interviste o lettere a giornali o a settimanali, e così via), dimostra di avere la convinzione che la felicità sia il fine della vita, in ordine al quale tutto va rapportato. Si rivendica per così dire il diritto alla felicità soggettiva, che si concentra sull'appagamento immediato, hic et nunc, dei bisogni e dei desideri individuali, e in ordine a ciò le passioni vengono assunte tutte come positive. Le passioni, le emozioni, gli affetti, i legami sono tutte modalità attraverso le quali si esprime il desiderio di felicità, proiettate sulla soddisfazione del singolo, concentrato sul presente e sui desideri del proprio io, scarsamente attento ai bisogni e ai diritti degli altri, e reclamante la piena soddisfazione.
Di fronte a questa emergenza antropologica, la filosofia di oggi va alla ricerca della felicità su basi assai diverse da quelle innescate da Bonaventura, il quale era molto proiettato su di un cammino ascensionale, simbolico e fortemente teologico; oggi si ricorre infatti a percorsi di introspezione psicologica, che si avvalgono anche dell'incremento della riflessione razionale, ma che restano sempre disposti sul piano dell'immanenza soggettiva.
Un discorso più in verticale, come quello bonaventuriano, muove alla ricerca di un itinerario alla felicità in un ordine trascendente, ossia non legato alla soddisfazione primaria delle attese del soggetto sul piano dell'esistenza storica concreta, bensì volto alla ricerca di qualcosa di beatificante in modo permanente, completo e non più minacciato dall'erosione e dal venir meno.
La partenza dell'itinerario bonaventuriano verso la felicità si confronta certamente con i moti appetitivi e desiderativi dell'uomo storico, non assumendoli però come richieste di una felicità da raggiungere qui e ora interamente, bensì come dati innescanti un cammino di conoscenza esteriore e interiore che consente all'uomo di raggiungere alla fine la soddisfazione e l'appagamento pieno dei propri desideri. Bonaventura sviluppa percorsi di elevazione mentale e di potenziamento del desiderio umano, relativizzando la felicità che si può conseguire nella vicenda storica concreta, e puntando verso la pienezza di una felicità che non possa più cessare. Una prospettiva caratterizzabile, sinteticamente, come passaggio dalla felicità perseguibile nell'immanenza della soggettività alla felicità conseguibile mediante l'elevazione e il radicamento nella trascendenza.
Un tema originale e delicato della speculazione bonaventuriana è costituito dall'espansione della dottrina dell'esemplarismo in quella della "riconduzione" (reductio), cui Bonaventura ha dedicato un opuscolo intitolato: Le scienze ricondotte alla teologia.
Il significato di reductio nell'opera bonaventuriana non è né facile, né univoco: la "riduzione" o "riconduzione" esprime anzitutto la tendenza della metafisica a ricondurre le cause particolari al loro fondamento ultimo. La "riduzione delle arti", ossia delle diverse discipline scientifiche, conosce un primo livello, nel quale ogni singola scienza va posta, secondo un preciso ordine, per essere ricondotta al livello superiore. Segue l'istanza superiore, che ricerca la presenza dell'impronta del creatore nelle cose conosciute dalle scienze, avvalendosi delle conoscenze rivelate dalla Sacra Scrittura.
Tutte le arti vanno pertanto "ricondotte" alla teologia nel senso che, passandone in rassegna i fondamenti epistemologici, si può vedere come il dinamismo specifico di ogni disciplina contenga le basi, le premesse necessarie, per un rinvio a una conoscenza maggiore, che è quella delle idee di Dio; a essa l'uomo partecipa da un lato attraverso il processo di illuminazione, e dall'altro lato mediante la Sacra Scrittura, che è manifestazione della luce e del pensiero di Dio incarnatosi nel linguaggio scritto della rivelazione biblica.
L'Itinerario della mente in Dio è un perfetto modello teorico della riduzione bonaventuriana; esso viene presentato come il percorso del credente che si riconosce "povero" e accetta di camminare "nel deserto". Bonaventura si rivolge alla categoria francescana del "povero" nel senso evangelico ("beati i poveri in spirito"), ossia a quanti non confidano nelle proprie idee in modo tale da non aver bisogno di ricercare nulla di più; povero è colui che non si riconosce nella portata totalizzante della scienza, così come povero è chi si professa socraticamente "ignorante". Anche il deserto è una categoria riferita alla Bibbia, al cammino nel deserto compiuto dal popolo eletto, e assunto come espressione del distacco che deve contrassegnare chi segue il cammino indicato da Dio, che deve liberarsi da ogni forma di possesso o di attaccamento alle persone o alle cose. L'uomo che cammina nel deserto è l'icona perfetta di quello che la teologia francescana chiamava l'homo viator, l'uomo "viatore", nel senso che intende l'esistenza come un camminare, un essere in via (sulla terra) verso la patria (il cielo).
Si noti come il tragitto alla pienezza della felicità sia tutto incentrato sull'interiorità; infatti, nell'ordine, le sei tappe dell'itinerario sono le seguenti: contemplare Dio attraverso le sue tracce nell'universo; contemplare Dio nelle tracce presenti nella struttura degli esseri dotati di sensibilità; ricercare Dio nella struttura interiore (intelletto e volontà) dell'uomo; elevarsi a Dio attraverso i doni della grazia infusa sul credente; contemplare l'unità divina attraverso il nome dell'Essere; contemplare la dinamica trinitaria attraverso il nome del Bene.
La via alla felicità si compie nell'impegno dell'anima a educare il desiderio, a compiere le riduzioni necessarie, per essere libera di accogliere la grazia e i suoi doni, con l'esercizio della pura elevazione e speculazione, contemplando sul modello della riduzione dionisiana dei nomi divini al livello dell'apofatismo che dona la tenebra luminosissima e il silenzio eloquentissimo; solo qui accade l'unione dell'amante con l'amato, nella perfetta consumazione dell'eros che si è agapizzato, nell'appagamento totale dell'unione amorosa unificante, che di due ha fatto uno solo. L'itinerario si completa quando si arresta lo sforzo della speculazione e si apre lo spazio dell'affetto, ossia dell'apertura e dell'invocazione del dono dell'amore divino, perché solo Dio può concedere il passaggio all'"estasi".
I capitoli centrali dell'Itinerario della mente in Dio sono contrassegnati da una forte ripresa sintetica delle categorie filosofiche, che lascia vedere come nella ricerca della felicità vengano accolte istanze dell'ontologia parmenidea, incentrate sul nome dell'essere, accanto a quelle proprie della metafisica del bene e dell'amore propria della tradizione platonico-agostiniana.
Nel contesto dell'opera bonaventuriana, il nome dell'essere è caratterizzato dalla valenza ontologica monoteistica (identità di essere e uno); vengono tuttavia esplicitate anche la valenza trinitaria e quella cristologica: l'essere è "sostanza", ossia coincide con l'essenza stessa di Dio, l'unica e indivisa deitas, che è comune alle tre persone, e che consente alla seconda persona di presentarsi come Io sono (Ego sum). È la stessa modalità della rivelazione del nome descritta dall'Esodo nella fiamma del roveto ardente a richiamare con la sua carica simbolica il mistero del Verbo incarnato. Il nome proprio di Dio è proclamato in un chiaro contesto simbolico: roveto/carne; fiamma/anima di Cristo; luce del roveto in fiamme/divinità congiunta alla carne mediante l'anima.
Potremmo leggere l'esito di questa via alla felicità, che al suo avvio è parsa fortemente intellettuale, come capace alla fine di includere l'aspetto della carne e del desiderio amoroso, che un filosofo contemporaneo, Jean-Luc Marion, considera basilare per la costituzione del fenomeno erotico (il termine fenomeno è assunto secondo il linguaggio rigoroso della fenomenologia). Bonaventura, a proposito dell'essere purissimo, instaura una sorta di riduzione fenomenologica, sforzandosi di collocarlo nella purezza della sua fenomenicità originaria, sottraendolo a ogni volontà di comprenderlo come se si trattasse di un oggetto da conoscere categorialmente o da amare secondo la logica della reciprocità.
L'oggettivazione dell'essere è contro l'esito beatificante della contemplazione pura, così come il bisogno di reciprocità risulta essere la pretesa assurda di catturare l'amore mediante categorie logico-inferenziali, come se l'amore potesse essere negoziato dagli amanti, attraverso un compromesso doveroso. Invero, ogni logica oggettivante o di scambio non può che ostacolare l'estasi, perché né l'essere purissimo né il sommo bene o amore possono essere oggetti da possedere o da scambiare. Nell'opera Il fenomeno erotico Marion osserva molto puntualmente che l'amore non deve essere inteso come essere amato: l'amore permette all'amante di non innescare la razionalità calcolatrice, e la libertà erotica comprende la libertà di perdere. Non si trova che una sola prova d'amore: dare senza essere ricambiati e senza riprendersi niente, quindi rischiando di perdere ed eventualmente di perdersi.
Raccogliendo alcuni spunti conclusivi, si deve anzitutto rilevare che, nel possesso di Dio, la carità ha un ruolo preminente rispetto alle altre virtù teologali: fede e speranza preparano l'uomo in cammino nel tempo alla gloria futura, mentre la carità conduce propriamente alla visione e al godimento di Dio fine ultimo e Sommo Bene. Nella fede e nella speranza vi è come l'inizio dell'amore che conduce ad aderire a Dio, ad accogliere Colui che si rivela; nella circolarità che contrassegna le virtù teologali, la carità si delinea come loro compimento. Quando l'anima beata accede alla vita eterna il bene da futuro diviene presente, e la speranza come tale non ha più ragion d'essere dal momento che Dio è visto, amato e posseduto perfettamente; lo stesso accade per la fede, la cui conoscenza nello stato di gloria viene superata nel perfetto e immutabile possesso della visione divina.
Ulteriore elemento determinante del pensiero bonaventuriano: l'unione con Dio nella visione beatifica si attua attraverso un superamento della dimensione propriamente intellettiva, per realizzarsi nella sfera affettiva della volontà-amore: se è con l'intelletto che l'anima partecipa alla conoscenza di Dio, è con la volontà che essa fruisce dell'eterno amore divino nel quale raggiunge l'unione perfetta. Per Bonaventura dunque vi è una superiorità della forza unitiva della volontà rispetto all'intelletto, come scrive in un passo del Breviloquio: "Sulla gloria celeste, questo in sintesi si deve sostenere, cioè che in essa il premio sostanziale consiste nella visione, nella fruizione e nel possesso dell'unico Sommo Bene, cioè di Dio, che i beati vedranno faccia a faccia, cioè apertamente e senza veli; del quale fruiranno avidamente e con diletto, che possederanno inoltre eternamente".
Per adattarsi alla nuova situazione in cui si troverà immesso, il corpo sarà trasfigurato, glorificato: per restare in unione con un'anima resa totalmente spirituale dall'amore di Dio, si spiritualizzerà assottigliandosi, rendendosi conforme alla sua anima, diventata conforme a Dio.
"Che cosa vedrò?" si domanda l'anima nel Soliloquio; la risposta di Bonaventura è che all'anima beata sarà concessa la visione dell'essenza di Dio, della luce divina: l'anima deiforme potrà vedere Dio chiaramente con la ragione, amarlo con la volontà e possederlo eternamente con la memoria, e questa è l'eternità della beatitudine, la felicità posseduta attraverso una vita senza fine e soddisfatta nel possesso di ciò che ha massimamente desiderato. Teologicamente va comunque aggiunto che non ci sarà coincidenza ontologica totale tra Creatore e creatura; la contemplazione dell'essenza divina non potrà esaurire l'assimilazione dell'oggetto contemplato, dal momento che la Sapienza increata non può essere assimilata completamente e nella sua totalità dalla creatura, che è beata in Dio, proprio perché Dio resta il solo e unico Dio.
(©L'Osservatore Romano - 14-15 luglio 2008)
15 luglio 2008
La sete di Eluana
La procura generale invita alla cautela e riflette sul ricorso. Storie di “vite differenti”
Roma. La Procura generale di Milano deciderà entro la metà della prossima settimana se ricorrere in Cassazione contro il decreto con il quale la Corte civile d’appello ha autorizzato il padre di Eluana Englaro a staccare il sondino attraverso cui la ragazza viene dissetata e nutrita da sedici anni. Rispetto all’ipotesi che Beppino Englaro (come lui stesso ha annunciato di voler fare) possa procedere al distacco prima che la Procura generale decida o no il ricorso, il procuratore generale facente funzione, Gianfranco Montera, ha dichiarato inoltre che “se dovesse farlo, se ne assumerebbe la responsabilità”. Nel frattempo, l’hospice “Il Nespolo” di Lecco, al quale Englaro ha chiesto di ricoverare la figlia per farla morire, ha comunicato di poter accogliere Eluana solo se “già in uno stato terminale”.
C’è qualche granello di polvere, forse, nello spaventoso ingranaggio che condanna a morte per compassione una persona viva, assolutamente non terminale, che ha solo bisogno di acqua e cibo, come chiunque, per continuare a vivere. “Come consideriamo queste vite differenti? Perché di questo si tratta. Quella di Eluana è una vita differente, non una non vita”. Fulvio De Nigris è il papà di Luca, morto quindicenne nel 1998, dopo otto mesi di coma in seguito a un intervento chirurgico. In suo nome è stata fondata un’associazione (il sito è amicidiluca.it) che si occupa di persone in coma e delle loro famiglie, e in suo nome è nata a Bologna la Casa dei risvegli Luca De Nigris, struttura pubblica che “è considerata un modello terapeutico e riabilitativo unico. La Casa nasce dall’idea che il risveglio non è qualcosa che riguarda solo la persona in coma ma tutta la sua famiglia”.
“Una conclusione aberrante”. La sentenza della Corte civile d’appello di Milano, secondo De Nigris, “porta a una conclusione aberrante: con il sondino sei in stato vegetativo, senza sondino sei un malato terminale. Ma Eluana non è una malata terminale. Per questo, vorrei invitare tutti a fare un passo indietro, a considerare che cos’è la vita e che cosa è la vita nella difficoltà”. A preoccuparlo è soprattutto una constatazione: “Dopo il caso Terri Schiavo è stato detto che niente del genere sarebbe potuto succedere in Italia. Lo stesso Comitato nazionale di bioetica, nel suo parere su come valutare la somministrazione di cibo e acqua a persone in stato vegetativo, aveva escluso che quelli potessero essere considerati trattamenti sanitari”. Arrivano i giudici, “e scopriamo che la nostra tranquillità era infondata”. De Nigris sottolinea che “non sarebbe giusto dare giudizi sul papà di Eluana, che rispetto totalmente. Ma temo che la sentenza su sua figlia avrà ricadute negative per tutte le famiglie con persone in analoghe situazioni. Beppino Englaro ha parlato di legge ad personam, ma non sarà così”.
Nel giudizio della Cassazione che ha spianato la strada alla sentenza di morte per Eluana non spicca soltanto l’assurdità di quell’“univoco giudizio” di parenti e conoscenti che sostituisce la documentata volontà della persona. Arbitraria è anche l’idea, accolta dalla Cassazione, di poter “apprezzare clinicamente” lo stato vegetativo “irreversibile, senza alcuna sia pur minima possibilità, secondo standard scientifici internazionalmente riconosciuti, di recupero della coscienza e delle capacità di percezione”. De Nigris ricorda che “contro il concetto di irreversibilità si levano autorevoli voci scientifiche. Conosciamo casi nei quali la presunta e ‘accertata’ irreversibilità è stata smentita. I nuovi studi tendono infatti a non specificare nessun aggettivo (come ‘permanente’ o ‘persistente’) accanto a ‘stato vegetativo’. Sappiamo solo che ogni caso fa storia a sé”. E anche se il risveglio non arrivasse mai, quella che vivono le persone in stato vegetativo “è vita a tutti gli effetti”, insiste De Nigris. Nel senso comune non deve passare, aggiunge, “la sciatteria, la pigrizia, l’approssimazione. Sentiamo parlare del ‘calvario’ di Eluana, di ‘staccarla dalle macchine’. Questo nega il percorso delle persone che lottano per non perdere la speranza, e nega le buone pratiche e i buoni luoghi dedicati alle persone in stato vegetativo e alle loro famiglie”.
«La scienza dimostra: quei pazienti consapevoli»
DI ANDREA LAVAZZA
Avvenire, 15 luglio 2008
«Da quando è stato dimostrato che i pazienti in stato vegetativo possono mantenere qualche forma nascosta di consapevolezza, dovrebbe valere il principio di precauzione: non possiamo fare morire una persona che forse ci sta sentendo e capisce che cosa accade a lei e intorno a lei».
Giuseppe Sartori, ordinario di Neuroscienze cognitive all’Università di Padova, conduce studi all’avanguardia sul cervello. Recentemente ha realizzato una 'macchina della verità' che è stata giudicata lo strumento potenzialmente più affidabile in questo settore. Oggi, da ricercatore rigoroso, è per lo meno stupito dall’approssimazione con cui è stato giudicato il caso di Eluana Englaro, «se la giovane è davvero in stato vegetativo, come tutti dicono».
Professor Sartori, a quale studio fa riferimento?
Si tratta di una ricerca pubblicata sulla rivista Science nel settembre 2006, che all’epoca ebbe un’eco internazionale (ne parlò anche Avvenire, ndr). Adrian Owen, dell’università di Cambridge, e Steven Laureys, dell’università di Liegi, hanno dimostrato che una ragazza di 23 anni, in acclarato stato vegetativo a seguito di un incidente stradale con grave trauma cranico, mostrava di essere «coscientemente consapevole».
In che modo si è potuto appurarlo?
È stato utilizzato uno scanner per la risonanza magnetica funzionale, che misura l’attivazione delle aree cerebrali attraverso l’afflusso di sangue ossigenato, indicatore di un metabolismo cellulare accelerato. Alla giovane, una volta inserita nella macchina, assolutamente non invasiva, è stato chiesto verbalmente di immaginare di giocare a tennis. Il risultato è che si è vista un’attivazione dell’area motoria supplementare, esattamente come accade in un gruppo di controllo composto da persone sane. Si è poi detto alla ragazza di immaginare di percorrere la propria abitazione, e in quel caso si è notata l’attivazione di una serie di altre regioni cerebrali, le stesse coinvolte nell’esecuzione del compito da parte di soggetti sani.
Che cosa ne consegue dal punto di vista scientifico?
Ne discende un ragionamento molto stringente, del quale non si trova traccia nei resoconti giornalistici sul caso. Se è vero che il correlato cerebrale della consapevolezza consiste nell’attivazione di alcune aree del cervello – le neuroscienze cognitive si basano proprio su quest’assunto –, e almeno alcuni pazienti in stato vegetativo hanno un’attivazione del tutto simile a quella delle persone sane, se ne deve dedurre che questi pazienti possono essere consapevoli.
Ma lo studio di Owen riguarda una determinata giovane, pur diagnosticata in stato vegetativo secondo tutti i criteri internazionalmente riconosciuti...
È vero. Ci sono però due considerazioni da fare. La prima è la risposta alle obiezioni svolta dallo stesso Owen: risultati negativi all’esame della risonanza non possono costituire una prova definitiva di mancanza di consapevolezza, perché i cosiddetti falsi negativi sono comuni negli studi di neuroimmagine. In altre parole, anche nei sani capita di non riuscire a rilevare l’attivazione cerebrale, ma è evidente che essa avviene. In secondo luogo, una volta dimostrato che in qualche paziente in stato vegetativo rimane un barlume di consapevolezza, deve vigere, per così dire, il forte sospetto che anche altre persone nelle stesse condizioni siano almeno parzialmente consapevoli, mentre la malattia renda loro impossibile manifestarlo.
Alcuni neuroscienziati hanno contestato le conclusioni di Owen e Laureys, dicendo che la risposta registrata è sostanzialmente un riflesso automatico...
Non mi sembrano obiezioni conclusive. Non possiamo qui scendere nei dettagli tecnici, ma la ricerca è di grande rilevanza. E apre possibili nuove applicazioni degli studi di neuroimmagine.
A che cosa si riferisce?
Come già Owen accenna, la risonanza magnetica potrà permettere a questi pazienti di sfruttare le loro residue capacità cognitive per comunicare i loro pensieri modulando la propria attività cerebrale. Mi viene in mente un esperimento non troppo fantascientifico: si potrebbero fare domande al paziente, il quale dovrebbe rispondere immaginando di muovere la mano destra per il sì e di muovere la mano sinistra per il no. La premessa è che noi, oggi, da una ' fotografia' del cervello sappiamo capire quale mano viene mossa o, il che è lo stesso, quale mano si vorrebbe muovere.
Viene spontaneo pensare che tali test potrebbero essere realizzati anche su Eluana?
Certo. Non si può basare una sentenza che ha conseguenze irreversibili su assunti non dimostrati. Forse Eluana vede e capisce. Non cercare di appurarlo potrebbe originare un errore gigantesco. Un errore che ovviamente sarebbe irrimediabile.
Il neuroscienziato Giuseppe Sartori dell’Università di Padova: «A una giovane in stato vegetativo è stato chiesto di immaginare di giocare a tennis, nel suo cervello si sono attivate le stesse aree che si accendono nelle persone sane Non si può ignorare un fatto di questa portata Si rischia un errore gigantesco, che non è rimediabile»
la testimonianza
Mio figlio Daniele come Eluana Una presenza viva che porta frutto
Avvenire, 15 luglio 2008
S pesso le notizie dei giornali e dei media ci interrogano sui fatti della vita, portano a chiederci che cosa faremmo in certe situazioni che peraltro non viviamo in prima persona.
Ma viene anche il momento in cui ci si confronta con qualcosa che si conosce benissimo: potrei dire troppo bene. Ed è precisamente quanto mi accade rispetto alla vicenda di Eluana.
Mio figlio Daniele oggi ha 9 anni, all’età di 4 ha riportato una grave anossia da annegamento e la sua attuale situazione è di 'stato vegetativo persistente'. Ho vissuto quindi l’angoscia al momento dell’incidente, l’ansia dei giorni che passavano segnati da continui peggioramenti, le speranze frustrate di un suo risveglio, il dolore lancinante sia fisico che psicologico di trovarsi catapultati per mesi in ospedale dove impari a convivere e gestire la tracheotomia e l’alimentazione assistita, dove sei costretto a vivere la realtà del 'tuo splendido e meraviglioso bambino' che non parla più, non mangia più, non ti sorride più... non ti corre più incontro.
Da quattro anni siamo tornati a casa, dove con mio marito e gli altri due figli abbiamo dovuto ricominciare una vita diversa, molto diversa.
L’impegno per assistere Daniele ci ha assorbito giorno e notte per molti mesi: solo per alimentarlo ci volevano 18 ore al giorno e tuttora ci alziamo diverse volte ogni notte per girarlo. Se abbiamo potuto fisicamente resistere è perché attorno a noi si è formata una rete di volontari che ci ha permesso di riposare e seguire gli altri due figli. Abbiamo dovuto anche cambiare casa per la necessità di un letto da ospedale e tante attrezzature che in quella precedente non era possibile collocare. Eppure… nonostante queste e tantissime altre fatiche e difficoltà, per tutti noi e per chi frequenta la nostra casa Daniele è una presenza viva: non parla, però nel suo silenzio aiuta e sostiene tanti, stanchi e sfiduciati. I suoi grandissimi occhi azzurri che ci fissano e che riescono a trasmetterci i suoi stati di tranquillità e di fastidio, ci dicono che la vita può avere forme ed espressioni difficilissime da capire ma che è vita piena. Un amico ha scritto che «lo scalpello del dolore è strumento rude e pesante, ma che produce capolavori di grazia», ed è una frase che io pienamente condivido. È difficile da dire, ma in un mondo che insegue l’effimero è la sofferenza che ci obbliga a riflettere sul fine ultimo della nostra vita e a coglierne il senso.
Noi continueremo a chiedere a Dio che ci faccia la grazia di questa guarigione e tanti amici con noi continuano a pregare, ma sappiamo anche che lo stato di Daniele a suo modo porta frutto. Si è vero, la nostra fede, anche se messa a dura prova, ci ha aiutato e sostenuto, ma è anche vero che il valore assoluto della vita è un dato non solo di fede ma oggettivo. Il nostro vivere ci pone di fronte a responsabilità ben precise nei confronti degli altri: non credo che il 'supposto bene' del singolo possa andare contro il bene generale. In particolare, riferendomi alla sospensione dell’alimentazione a Eluana, penso che oltre ad essere un atto di violenza, anche se compiuto come gesto di pietà, in realtà fa innescare il dubbio che l’uomo possa decidere della vita e della morte e pertanto diventa un atto immorale. Non tutto ciò che è legalmente possibile è eticamente accettabile. Ognuno di noi è chiamato, anche se con sacrificio estremo, ad assumersi grandi responsabilità.
Giancarla Saglio Dominoni
I suoi grandi occhi azzurri ci guardano e ci dicono che la vita può avere forme ed espressioni difficili da capire. Ma che è vita piena
Il cristiano, uomo «senza patria» - Arriva oggi in libreria un inedito di Giussani sul senso dell’essere credenti, in margine ad un incontro avuto con Giovanni Paolo II
Avvenire, 15 luglio 2008
DI LUIGI GIUSSANI
O ltre allo spunto dei contributi che avete inviato, come da richiesta, e che sarà rispettato, ce n’è un altro, nel frattempo succeduto, che travolge anche la pertinenza dei vostri fogli e porta in modo suggestivamente drammatico la questione a un livello che noi abbiamo subìto, soprattutto dal ’68 in poi, specialmente in certi anni, ma senza prenderne coscienza. Il fatto successo è l’incontro col Papa che abbiamo avuto settimana scorsa. A parte l’interesse che il Papa aveva per il Meeting, sul quale voleva da noi qualche apporto o qualche osservazione, la cosa più impressionante di quella conversazione, durata un’ora e mezza, è stata scoprire nel Papa, come persuasione ovvia, come atteggiamento acquisito, quello che almeno due altre volte aveva esplicitato con parole che per noi sono state subito preziose, che ci hanno destato entusiasmo, ma che è come se non avessimo accolto secondo tutta la serietà definitiva con cui il Papa le aveva pronunciate. Mi riferisco innanzitutto a quella frase che poi abbiamo collocato sulla copertina di un Litterae communionis: «Il vostro modo di affrontare i problemi umani è molto simile al mio, anzi, dirò, è lo stesso». E la disse una seconda volta, con gli universitari di Roma, in un raduno a Castelgandolfo. (…) Il Papa, per almeno due o tre volte, ha ripetuto questa identificazione per così dire - del destino della sua figura con il destino della nostra esperienza.
Mentre scendevamo per la colazione (…), parlando del fatto che il malanno della Chiesa è stato quello di introdurre, nel post-concilio, categorie della mentalità laica dominante, per esempio le categorie di «integrista» e di «aperturista», dove solo l’aperturista avrebbe nella società di oggi il diritto a esistere, ha detto: «Esattamente come dicono di me, dicono di voi; definiscono voi così, come definisco- no me così». E ancora: «Dove il Papa viene accolto, venite accolti anche voi». (…) Mentre era ancora seduto, e stava per girarsi sulla sedia per alzarsi, ha detto: «Voi non avete patria, perché voi siete inassimilabili a questa società». Poi ha fatto un momento di silenzio e, quasi mentre si alzava dalla sedia, ha ripetuto questa parola: «Voi non avete patria», in cui era commoventemente visibile la proiezione della sua situazione su di noi. (…) Il che vuole dire: uno che non ha patria è continuamente senza sicurezze umane, senza protezioni, senza soste, sempre in qualche modo attraversando, perciò «contro», ma contro nel senso di attraversando. In fondo in fondo, se mettete insieme queste parole, esse rappresentano la descrizione o la definizione dell’anti-borghese, di ciò che non è borghese, di ciò che non è consolidato socialmente, di ciò che non è established. (…). Ma, dentro a tutto questo, è incosciente ciò che adesso dico essere il primo passo nella comprensione del come mai noi siamo senza patria. Perché, guardate, in fondo in fondo, tutta la nostra attività, da quando è nata Comunione e Liberazione, dal ’70, specialmente dal ’73, (…) tutto quello che noi facciamo è per avere una patria, è per avere una patria in questo mondo. Non dico che non sia giusto.
Dico che lo facciamo per avere una patria e che questa patria non l’avremo. »Voi siete senza patria». (…) Siamo andati avanti per dieci anni lavorando sui valori cristiani e dimenticando Cristo, senza conoscere Cristo. Il problema è Cristo, conoscere Cristo. Come dice san Paolo, nel terzo capitolo della Lettera ai Filippesi: «Io, se dovessi mettermi a paragone con voi, starei molto bene, perché sono molto più di voi, sono professore all’università diciamo che per l’età era un Associato , ho superato molto in fretta la prova di Ricercatore, sono diventato, giovanissimo ancora, Associato all’università, so quel che sapete voi e ne so anche molto di più, ho fatto per la mia religione quello che voi non avete fatto, ma tutto questo io ho capito che è sterco di fronte alla conoscenza di Cristo». L’avvenimento cristiano ha questo come suo oggetto, come suo contenuto: la conoscenza di Cristo.
Non è una conoscenza riducibile, sia pure in analogia, allo studio che facciamo dei fossili o di Giulio Cesare. Per questo la parola più giusta è «riconoscimento» di Cristo: perché non si conosce una Presenza, la si riconosce. (…). Non ha patria da nessuna parte nella società di oggi colui che riconosce la presenza di Cristo - una presenza diversa da tutte le altre - nella propria vita, nella trama dei propri rapporti, nella società in cui vive; talmente riconosce questa Presenza che è essa a determinare la modalità di veduta, la modalità di percezione, quindi la modalità di giudizio e la modalità di comportamento. Non ha patria l’uomo che dice: «Dio è un fatto presente, con un nome storico che coglie e tocca fisiologicamente la mia vita, e quindi pretende di determinarla in ogni senso, affinché attraverso la mia vita possa determinare la vita della società».
Costui non ha patria. Fino a quando il cristianesimo è sostenere dialetticamente e anche praticamente valori cristiani, esso trova spazio e accoglienza dovunque.
Ma là dove il cristiano è l’uomo che annuncia nella realtà umana, storica, la presenza permanente la presenza e la presenza permanente di Dio fatto Uno tra noi, oggetto di esperienza (come quella di un amico, di un padre o di una madre), attivamente determinante come orizzonte totale, come l’ultimo amore («Nell’esperienza di un grande amore […] tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito »), la presenza di Cristo centro del modo di vedere, di concepire e di affrontare la vita, senso di ogni azione, sorgente di tutta l’attività dell’uomo intero, vale a dire dell’attività culturale dell’uomo, questo uomo non ha patria.
Colui che riconosce la presenza di Cristo come fatto presente non è assimilabile a questa società, perchè cambia il modo di affrontare la sua vita.