domenica 6 luglio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Il Papa si unisce all'appello alla solidarietà in vista del vertice del G8 Dal 7 al 9 luglio in Giappone
2) Benedetto XVI: l'ambiente religioso-culturale di San Paolo - Intervento all'Udienza generale del mercoledì
3) LA PREGHIERA IL FIATO CHE L’HA TENUTA IN VITA, di Davide Rondoni
4) Betancourt: il trionfo della dignità della persona, di Mario Mauro
5) Esponenti di diverse fedi religiose e 1200 persone comuni scelte via internet leggeranno il Libro sacro per eccellenza - Maratona tv sulla Bibbia «Ad aprirla sarà il Papa» - dal 5 ottobre
6) Note sulla storia del concetto di "Libertà religiosa"AMMAN, sabato, 5 luglio 2008 (ZENIT.org).- versione integrale dell'intervento pronunciato il 23 giugno, ad Amman, dal prof. Nikolaus Lobkowicz
7) Il capo del sistema giudiziario britannico dice sì alla sharia, riconoscendo un diritto islamico per i soli musulmani, di Magdi Cristiano Allam


Il Papa si unisce all'appello alla solidarietà in vista del vertice del G8 Dal 7 al 9 luglio in Giappone
CASTEL GANDOLFO, domenica, 6 luglio 2008 (ZENIT.org).- Benedetto XVI si è unito questa domenica al "pressante appello alla solidarietà" in vista del vertice annuale dei Capi di Stato e di Governo dei Paesi membri del G8, in programma da questo lunedì in Giappone.
I rappresentanti di Stati Uniti, Italia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Canada, Giappone e Russia si riuniranno a Hokkaido-Toyako insieme ad altri leader mondiali fino al 9 luglio per discutere varie questioni, tra cui lo sviluppo e i cambiamenti climatici.
In questi giorni, ha ricordato il Pontefice dopo la recita dell'Angelus nel Cortile interno del Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo , "si sono alzate numerose voci - tra cui quelle dei Presidenti delle Conferenze Episcopali delle citate Nazioni - per chiedere che si realizzino gli impegni assunti nei precedenti appuntamenti del G8 e si adottino coraggiosamente tutte le misure necessarie per vincere i flagelli della povertà estrema, della fame, delle malattie, dell'analfabetismo, che colpiscono ancora tanta parte dell'umanità".
Gli episcopati dei Paesi del G8 hanno infatti indirizzato una lettera ai governanti di questi Stati chiedendo loro di mantenere la promessa fatta nel 2005 di destinare, ogni anno fino al 2010, 50.000 milioni di dollari per gli aiuti allo sviluppo.
"Mi unisco anch'io a questo pressante appello alla solidarietà!", ha esclamato.
Il Papa si è quindi rivolto ai partecipanti al vertice chiedendo che "al centro delle loro deliberazioni mettano i bisogni delle popolazioni più deboli e più povere, la cui vulnerabilità è oggi accresciuta a causa delle speculazioni e delle turbolenze finanziarie e dei loro effetti perversi sui prezzi degli alimenti e dell'energia".
"Auspico che generosità e lungimiranza aiutino a prendere decisioni atte a rilanciare un equo processo di sviluppo integrale, a salvaguardia della dignità umana", ha aggiunto.
Anche il Cardinale Óscar Rodríguez Maradiaga, presidente di Caritas Internationalis, si è unito all'appello alla solidarietà, affermando che il G8 deve adottare misure urgenti per poter raggiungere uno dei principali Obiettivi di Sviluppo del Millennio, la drastica riduzione della povertà entro il 2015, ed esortando i leader a "mantenere e promesse fatte in passato circa la quantità e la qualità degli aiuti".


Benedetto XVI: l'ambiente religioso-culturale di San Paolo - Intervento all'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 2 luglio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo dell'intervento pronunciato questo mercoledì mattina da Benedetto XVI nel corso dell'Udienza generale in piazza San Pietro.
In occasione dell’Anno paolino, il Papa ha iniziato quest'oggi un nuovo ciclo di catechesi dedicato all’approfondimento della figura e del pensiero di San Paolo, soffermandosi in particolare sull’ambiente religioso-culturale in cui visse l’apostolo.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
vorrei oggi iniziare un nuovo ciclo di Catechesi, dedicato al grande apostolo san Paolo. A lui, come sapete, è consacrato questo anno che va dalla festa liturgica dei Santi Pietro e Paolo del 29 giugno 2008 fino alla stessa festa del 2009. L'apostolo Paolo, figura eccelsa e pressoché inimitabile, ma comunque stimolante, sta davanti a noi come esempio di totale dedizione al Signore e alla sua Chiesa, oltre che di grande apertura all'umanità e alle sue culture. È giusto dunque che gli riserviamo un posto particolare, non solo nella nostra venerazione, ma anche nello sforzo di comprendere ciò che egli ha da dire anche a noi, cristiani di oggi. In questo nostro primo incontro vogliamo soffermarci a considerare l'ambiente nel quale egli si trovò a vivere e a operare. Un tema del genere sembrerebbe portarci lontano dal nostro tempo, visto che dobbiamo inserirci nel mondo di duemila anni fa. E tuttavia ciò è vero solo apparentemente e comunque solo in parte, poiché potremo constatare che, sotto vari aspetti, il contesto socio-culturale di oggi non differisce poi molto da quello di allora.
Un fattore primario e fondamentale da tenere presente è costituito dal rapporto tra l’ambiente in cui Paolo nasce e si sviluppa e il contesto globale in cui successivamente si inserisce. Egli viene da una cultura ben precisa e circoscritta, certamente minoritaria, che è quella del popolo di Israele e della sua tradizione. Nel mondo antico e segnatamente all'interno dell'impero romano, come ci insegnano gli studiosi della materia, gli ebrei dovevano aggirarsi attorno al 10% della popolazione totale; qui a Roma, poi, il loro numero verso la metà del I° secolo era in un rapporto ancora minore, raggiungendo al massimo il 3% degli abitanti della città. Le loro credenze e il loro stile di vita, come succede ancora oggi, li distinguevano nettamente dall'ambiente circostante; e questo poteva avere due risultati: o la derisione, che poteva portare all'intolleranza, oppure l'ammirazione, che si esprimeva in forme varie di simpatia come nel caso dei "timorati di Dio" o dei "proseliti", pagani che si associavano alla Sinagoga e condividevano la fede nel Dio di Israele. Come esempi concreti di questo doppio atteggiamento possiamo citare, da una parte, il giudizio tagliente di un oratore quale fu Cicerone, che disprezzava la loro religione e persino la città di Gerusalemme (cfr Pro Flacco, 66-69), e, dall’altra, l’atteggiamento della moglie di Nerone, Poppea, che viene ricordata da Flavio Giuseppe come "simpatizzante" dei Giudei (cfr Antichità giudaiche 20,195.252; Vita 16), per non dire che già Giulio Cesare aveva ufficialmente riconosciuto loro dei diritti particolari che ci sono tramandati dal menzionato storico ebreo Flavio Giuseppe (cfr ibid. 14,200-216). Certo è che il numero degli ebrei, come del resto avviene ancora oggi, era molto maggiore fuori della terra d'Israele, cioè nella diaspora, che non nel territorio che gli altri chiamavano Palestina.
Non meraviglia, quindi, che Paolo stesso sia stato oggetto della doppia, contrastante valutazione, di cui ho parlato. Una cosa è sicura: il particolarismo della cultura e della religione giudaica trovava tranquillamente posto all'interno di un’istituzione così onnipervadente quale era l'impero romano. Più difficile e sofferta sarà la posizione del gruppo di coloro, ebrei o gentili, che aderiranno con fede alla persona di Gesù di Nazaret, nella misura in cui essi si distingueranno sia dal giudaismo sia dal paganesimo imperante. In ogni caso, due fattori favorirono l'impegno di Paolo. Il primo fu la cultura greca o meglio ellenistica, che dopo Alessandro Magno era diventata patrimonio comune almeno del Mediterraneo orientale e del Medio Oriente, sia pure integrando in sé molti elementi delle culture di popoli tradizionalmente giudicati barbari. Uno scrittore del tempo afferma, al riguardo, che Alessandro "ordinò che tutti ritenessero come patria l'intera ecumene ... e che il Greco e il Barbaro non si distinguessero più" (Plutarco, De Alexandri Magni fortuna aut virtute, §§ 6.8). Il secondo fattore fu la struttura politico-amministrativa dell'impero romano, che garantiva pace e stabilità dalla Britannia fino all'Egitto meridionale, unificando un territorio dalle dimensioni mai viste prima. In questo spazio ci si poteva muovere con sufficiente libertà e sicurezza, usufruendo tra l'altro di un sistema stradale straordinario, e trovando in ogni punto di arrivo caratteristiche culturali di base che, senza andare a scapito dei valori locali, rappresentavano comunque un tessuto comune di unificazione super partes, tanto che il filosofo ebreo Filone Alessandrino, contemporaneo dello stesso Paolo, loda l’imperatore Augusto perché "ha composto in armonia tutti i popoli selvaggi ... facendosi guardiano della pace" (Legatio ad Caium, §§ 146-147).
La visione universalistica tipica della personalità di san Paolo, almeno del Paolo cristiano successivo all'evento della strada di Damasco, deve certamente il suo impulso di base alla fede in Gesù Cristo, in quanto la figura del Risorto si pone ormai al di là di ogni ristrettezza particolaristica; infatti, per l'Apostolo "non c'è più Giudeo né Greco, non c'è più schiavo né libero, non c'è più maschio né femmina, ma tutti siete uno solo in Cristo Gesù" (Gal 3,28). Tuttavia, anche la situazione storico-culturale del suo tempo e del suo ambiente non può non aver avuto un influsso sulle sue scelte e sul suo impegno. Qualcuno ha definito Paolo "uomo di tre culture", tenendo conto della sua matrice giudaica, della sua lingua greca, e della sua prerogativa di "civis romanus", come attesta anche il nome di origine latina. Va ricordata in specie la filosofia stoica, che era dominante al tempo di Paolo e che influì, se pur in misura marginale, anche sul cristianesimo. A questo proposito, non possiamo tacere alcuni nomi di filosofi stoici come gli iniziatori Zenone e Cleante, e poi quelli cronologicamente più vicini a Paolo come Seneca, Musonio ed Epitteto: in essi si trovano valori altissimi di umanità e di sapienza, che saranno naturalmente recepiti nel cristianesimo. Come scrive ottimamente uno studioso della materia, "la Stoa... annunciò un nuovo ideale, che imponeva sì all’uomo dei doveri verso i suoi simili, ma nello stesso tempo lo liberava da tutti i legami fisici e nazionali e ne faceva un essere puramente spirituale" (M. Pohlenz, La Stoa, I, Firenze 2 1978, pagg. 565s). Si pensi, per esempio, alla dottrina dell'universo inteso come un unico grande corpo armonioso, e conseguentemente alla dottrina dell'uguaglianza tra tutti gli uomini senza distinzioni sociali, all'equiparazione almeno di principio tra l'uomo e la donna, e poi all'ideale della frugalità, della giusta misura e del dominio di sé per evitare ogni eccesso. Quando Paolo scrive ai Filippesi: "Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri" (Fil 4,8), non fa che riprendere una concezione prettamente umanistica propria di quella sapienza filosofica.
Al tempo di san Paolo era in atto anche una crisi della religione tradizionale, almeno nei suoi aspetti mitologici e anche civici. Dopo che Lucrezio, già un secolo prima, aveva polemicamente sentenziato che "la religione ha condotto a tanti misfatti" (De rerum natura, 1,101), un filosofo come Seneca, andando bel al di là di ogni ritualismo esterioristico, insegnava che "Dio è vicino a te, è con te, è dentro di te" (Lettere a Lucilio, 41,1). Analogamente, quando Paolo si rivolge a un uditorio di filosofi epicurei e stoici nell'Areopago di Atene, dice testualmente che "Dio non dimora in templi costruiti da mani d'uomo ... ma in lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo" (At 17,24.28). Con ciò egli riecheggia certamente la fede giudaica in un Dio non rappresentabile in termini antropomorfici, ma si pone anche su di una lunghezza d'onda religiosa che i suoi uditori conoscevano bene. Dobbiamo inoltre tenere conto del fatto che molti culti pagani prescindevano dai templi ufficiali della città, e si svolgevano in luoghi privati che favorivano l'iniziazione degli adepti. Non costituiva perciò motivo di meraviglia che anche le riunioni cristiane (le ekklesíai), come ci attestano soprattutto le Lettere paoline, avvenissero in case private. Al momento, del resto, non esisteva ancora alcun edificio pubblico. Pertanto i raduni dei cristiani dovevano apparire ai contemporanei come una semplice variante di questa loro prassi religiosa più intima. Comunque, le differenze tra i culti pagani e il culto cristiano non sono di poco conto e riguardano tanto la coscienza identitaria dei partecipanti quanto la partecipazione in comune di uomini e donne, la celebrazione della "cena del Signore" e la lettura delle Scritture.
In conclusione, da questa rapida carrellata sull’ambiente culturale del primo secolo dell’era cristiana appare chiaro che non è possibile comprendere adeguatamente san Paolo senza collocarlo sullo sfondo, tanto giudaico quanto pagano, del suo tempo. In questo modo la sua figura acquista in spessore storico e ideale, rivelando insieme condivisione e originalità nei confronti dell’ambiente. Ma ciò vale analogamente anche per il cristianesimo in generale, di cui appunto l’apostolo Paolo è un paradigma di prim’ordine, dal quale tutti noi abbiamo ancora sempre molto da imparare. È questo lo scopo dell’Anno Paolino: imparare da san Paolo, imparare la fede, imparare il Cristo, imparare infine la strada della retta vita.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Saluto i pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto le religiose appartenenti a vari Istituti qui presenti, e specialmente le partecipanti al Capitolo Generale delle Suore Missionarie di Gesù Eterno Sacerdote. Care Sorelle, grazie per la vostra visita. Possa questo incontro col Successore di Pietro esservi di stimolo a continuare con fervore nel vostro cammino di fede, così da realizzare, fedeli al carisma originario, comunità capaci di esprimere una incisiva testimonianza evangelica nel mondo di oggi. Saluto la Comunità Cenacolo, che celebra il 25° anniversario di fondazione, e auguro che continui ad essere per tanti giovani una famiglia dove, incontrando Cristo, possano rinascere alla speranza e all’amore. Saluto i rappresentanti dell’Associazione culturale cristiana Italo-Ucraina e li incoraggio a perseverare nel loro impegno di diffondere la cultura della solidarietà.
Rivolgo, infine, un saluto ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Cari giovani, Gesù vi chiama ad essere "pietre vive" della Chiesa. Corrispondete con generosità al suo invito, ciascuno secondo il proprio dono e la propria responsabilità. Cari malati, offrite la vostra sofferenza a Cristo crocifisso per cooperare alla redenzione del mondo. E voi, cari sposi novelli, siate consapevoli dell'insostituibile missione a cui vi impegna il Sacramento del matrimonio.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]


LUNGO SEI ANNI DI PRIGIONIA
LA PREGHIERA IL FIATO CHE L’HA TENUTA IN VITA
DAVIDE RONDONI
In sei anni di prigionia, strappata ai figli, e sen­za sapere se il giorno che viveva poteva esser l’ultimo, lei avrebbe potuto trovare mille motivi per bestemmiare Dio. Per rinnegarlo. Per pensa­re che la vita, come dice un personaggio di Shake­speare, sembra una commedia realizzata da un ubriaco. Invece no. Invece le prime parole in con­ferenza stampa sono state: chiedo di ringraziare Dio e la Vergine… Come se mentre i potenti e le polizie di tutto il mondo si affaccendavano per raggiungerla, Dio e la Vergine fossero stati sem­pre lì con lei. La corona del rosario, fatta con una corda, è stato il suo legame con la vita. Con il sen­so della vita. E dunque il legame che l’ha strap­pata alla disperazione e alla follia.
Per questo, la signora che si è trovata al centro di un intrigo internazionale ha detto per prima quel­la cosa in conferenza stampa. Come se dicesse: buongiorno. Come se dicesse una cosa normale. Lei che ha vissuto sei anni del tutto anormali, ec­cezionali. Che deve aver avuto tutti i pensieri pos­sibili a un essere umano. E gli sbalzi tra conforto e sconforto. Ha detto di ringraziare Dio e la Ver­gine come se parlasse dell’aria che ha respirato. La preghiera detta tutti i giorni, all’alba da sola, o alla stessa ora in cui sapeva che la diceva sua ma­dre, è stata il fiato che l’ha tenuta in vita. Perché la preghiera di lei somiglia alla preghiera che da secoli dicono gli uomini e le donne semplici. La preghiera che è come un respiro. Che è il gesto di non lasciarsi andare. Di dire a Qualcun altro dammi la forza. È il gesto delle persone realiste. Cioè di quelle che nessuno ha davvero tutta in­tera la forza per reggere la vita, che si svolga per sei anni di rapimento nel bosco, o per sessant’anni di vita in città, che sia per sei anni di privazione e pericolo, o per trent’anni di fatica e di lavoro. Lei è stata realista, ha pregato. È realista, è normale. Ma è anche un fatto eccezionale, quasi come il fat­to che sia stata liberata. Sì, il fatto che pregasse tut­ti i giorni, che non disperasse, insomma che do­po sei anni abbia il nome di Dio e di Maria sulle labbra, è un fatto eccezionale quasi quanto il fat­to che l’abbiano liberata. Sarebbe stato eccezio­nale anche se non la liberavano. Sarebbe stato il segno che lei era già in fondo libera. Perché chi l’ha rapita non ha potuto esercitare la più dura for­ma di potere sull’altro uomo, quella di farlo di­sperare. Chi l’ha rapita non ha potuto imprigio­narla del tutto. Non ha potuto rubarle l’anima e il pensiero. Non ha potuto convincerla nemme­no che la sua vita fosse solo nelle mani di chi l’a­veva in ostaggio. Lei sapeva che era anche in al­tre mani. In questo aveva già sconfitto i suoi ra­pitori. Il rosario all’alba, e quello di mezzogiorno, detto in comunione con la madre, era già la scon­fitta dei suoi rapitori. Era il segno che lei era ed è di un Altro. Sconfitta della disperazione e scon­fitta dei rapitori. Così quando in conferenza stampa ha innanzi­tutto usato quelle parole di ringraziamento a Dio e alla Vergine, Madame Betancourt ha mostrato ai potenti e ai rapitori in che mani è il mondo. E in che mani lei si era messa. Ha detto una cosa eccezionale, e però realista. Normale come dire: buongiorno. Ed eccezionale come dire: sono li­bera. La preghiera è il respiro degli uomini libe­ri. Non degli uomini e delle donne a cui va tutto diritto, o a cui manca qualche rotella. E’ il respi­ro normale di quella cosa eccezionale che si chia­ma libertà. Madame lo ha mostrato. I suoi lunghi sei anni non sono stati solo un pozzo oscuro, in cui è inimmaginabile come si potesse sentire. So­no stati anche il luogo dove non era mai sola. Al­la faccia dei suoi rapitori, e di chi crede – con tan­te forme di rapimento, di separazione, di na­scondimento – di possedere l’uomo, o di farci sen­tire da soli e disperati. Da una donna che hanno tenuta prigioniera ci arriva una piccola grande lezione di libertà. E un invito a cercare il respiro che lega alla vita e a Dio, più delle mille chiacchiere che ci lasciano più so­li e più schiavi.
Avvenire 4-7-2008


Betancourt: il trionfo della dignità della persona
Mario Mauro 03/07/2008
Autore(i): Mario Mauro. Pubblicato il 03/07/2008 – IlSussidiario.net
La notizia arrivata nella serata di ieri è una delle più liete degli ultimi anni. La liberazione di Ingrid Betancourt regala al Mondo intero il trionfo della dignità della persona contro tutti i soprusi dell'ideologia e del potere. Dietro la liberazione arrivata grazie a un blitz dei militari colombiani, si registra la vittoria della linea della fermezza del Presidente Uribe e di quella parte della comunità internazionale compresa l'Unione europea che non ha mai ceduto agli approcci ambigui dei fiancheggiatori del terrorismo e di improbabili alternative ad una vera forma del dialogo, quello basato sulla verità e sul rispetto della persona. Ingrid Betancourt è la dimostrazione vivente del fatto che la dignità umana viene prima di tutto e non può essere calpestata per nessuna ragione, che il nostro ideale di libertà è più forte di chi come in Colombia calpesta l'uomo in nome di un progetto di potere.
«Ringrazio innanzitutto Dio e la Vergine e tutti coloro che hanno avuto compassione e pietà di noi ostaggi. Ho tanto immaginato quando avrei potuto riabbracciare mia madre. Potevamo soltanto sperare in voi, colombiani. Grazie a tutti voi che nel mondo ci avete accompagnati e che ci avete mantenuti vivi perché sei sempre vivo se il mondo non ti dimentica».
«Grazie all'esercito, per questa operazione impeccabile, veramente perfetta. Oggi quando mi sono svegliata alle 4 del mattino ho preso il diario e mi sono raccomandata a Dio sperando che sarebbe arrivato presto questo giorno di liberazione». Se queste prime dichiarazioni di Ingrid Betancourt subito dopo essere tornata in libertà possono sembrare in apparenza la naturale reazione di chi non è rimasto privo della propria libertà per sei interminabili anni, in realtà evidenziano un'anomalia non da poco, soprattutto se andiamo a guardare le origini e il background della Betancourt e se confrontiamo la sua reazione con la reazione di altri prigionieri provenienti dalla sua stessa area politica. Durante questi sei anni, Ingrid Betancourt è stata ritenuta ed esaltata dalla sinistra di tutto il mondo e soprattutto dai Verdi come un simbolo del progressismo che ha come cardini la negazione di Dio e un pacifismo ideologico e astratto, che a prescindere si scaglia contro tutto ciò che è militare. Con due sole frasi Ingrid Betancourt sembra dare una smentita generale: solo due i suoi ringraziamenti, a Dio (la Bibbia era il suo unico lusso) e al suo esercito. Un fatto innegabilmente strano che diventa ancora più anomalo associato al fatto che la notizia della liberazione della donna politica colombiana è stata accolta con sollievo e soddisfazione dai principali capi di Stato e di governo dell'America Latina. Tutti tranne uno, il Presidente venezuelano Hugo Chavez, simbolo odierno del comunismo in America latina che, nonostante abbia svolto un ruolo di mediatore durante altri rapimenti, si è chiuso nel silenzio, addirittura il giornale colombiano di sua proprietà non ha neppure divulgato la notizia.



dal 5 ottobre
Esponenti di diverse fedi religiose e 1200 persone comuni scelte via internet leggeranno il Libro sacro per eccellenza - Maratona tv sulla Bibbia «Ad aprirla sarà il Papa»
Benedetto XVI darà il via su Raiuno seguito dal rabbino capo di Roma Di Segni. La diretta passerà poi sul canale satellitare RaiEdu per 135-140 ore

DA ROMA GIANNI SANTAMARIA
La Bibbia entra nel piccolo scher­mo. Non tanto con la forza delle immagini di un film per la tv, quan­to proprio con la sua forza di parola. Let­ta, anzi, proclamata per ben sette gior­ni e sei notti di seguito: dal 5 all’11 otto­bre. Dalla voce di Benedetto XVI, di rab­bini, di esponenti cristiani di altre con­fessioni. Ma soprattutto da 1.200 perso­ne comuni. A presentare l’evento, chiamato Bibbia giorno e notte sono stati ieri nella sede di viale Mazzini il biblista Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consi­glio per la cultura, il presidente della Rai Claudio Petruccioli, il direttore di RaiU­no Fabrizio del Noce e l’ideatore della lettura non stop, il responsabile della struttura Rai Vaticano, Giuseppe De Car­li. Nel tardo pomeriggio di domenica 5 ottobre il Papa aprirà la serie – è stato confermato, dopo le indiscrezioni delle scorse settimane – leggendo il primo ca­pitolo della Genesi dal Palazzo Aposto­lico, non si sa ancora se in registrata o in diretta (anche se, è stato detto ieri, l’o­rientamento sarebbe verso quest’ulti­ma). Altrettanto farà subito dopo, in e­braico, il rabbino capo di Roma Riccar­do Di Segni dalla sinagoga sul Lungote­vere, a completare quello che De Carli ha definito un «dittico perfetto». Poi la trasmissione sulla rete ammiraglia pro­seguirà per circa un’ora con lo stile che caratterizza l’iniziativa: ecumenico e po­polare. La parola passerà poi al canale satellitare RaiEdu che seguirà per inte­ro le 135-140 ore di declamazione dalla basilica romana della Santa Croce (ve­di box). I 73 libri canonici saranno ri­partiti in brani dai quattro agli otto mi­nuti di durata. Si tornerà poi su RaiUno l’11 ottobre per la conclusione, che ve­drà il segretario di Stato, cardinale Tar­cisio Bertone leggere il versetto conclu­sivo (il 22) dell’Apocalisse.
Ad alternarsi al leggio saranno, dunque, personalità religiose e persone comuni di ogni estrazione sociale e professione, che potranno iscriversi esclusivamente sul sito www.labibbiagiornoenotte.rai.it.La porta è aperta anche a persone di fe­de islamica e ai non credenti, hanno ri­cordato De Carli e Ravasi. «La Bibbia cu­stodisce nel suo grembo una dimensio­ne di assoluto. Ma in essa c’è anche la nostra profonda identità culturale», ha ricordato quest’ultimo. Nel corso della lettura fiume si udiranno anche il greco e l’ebraico (con sottotitoli). Quando a leggere l’Antico Testamento saranno i figli di Israele, lo faranno da uno spazio neutro vicino alla basilica. A far risuo­nare in originale il prologo del Vangelo di Giovanni sul logos sarà, invece, l’arci­vescovo ortodosso per l’Italia Genna­dios. Ci saranno anche vescovi e cardi­nali impegnati in Vaticano nell’assem­blea generale del Sinodo sul tema della Bibbia, che inizierà proprio il 5 ottobre. In più è in corso l’anno Paolino, voluto da Papa Ratzinger.
Il biblista Ravasi in conferenza stampa ha sottolineato l’importanza «di cele­brare con uno strumento per sua natu­ra legato all’immagine la forza della Pa­rola con tutte le sue iridescenze e sfu­mature ». Essa, infatti, è intimamente le­gata alla creazione. A far decidere il Pa­pa per il sì, ha poi spiegato a margine il suo collaboratore per la cultura, «c’è il fatto che non interverrà commentando i testi», ma si limiterà ad un atto di «pu­ra lettura, di puro annuncio della Paro­la ». Nel tentativo di cercare il «nodo d’o­ro » che riesca a intrecciare «le diversità delle singole espressioni cristiane so­prattutto, e naturalmente anche dell’e­braismo ». Una dimensione di proposta della Scrittura «sine glossa» e «senza in­termediari » che piace anche all’esegeta valdese Daniele Garrone, presidente della Società biblica italiana, che è tra gli enti organizzatori, insieme al nume­rosi dicasteri vaticani, alla Cei e al Vica­riato di Roma.


Note sulla storia del concetto di "Libertà religiosa"
AMMAN, sabato, 5 luglio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la versione integrale dell'intervento pronunciato il 23 giugno, ad Amman, dal prof. Nikolaus Lobkowicz, Direttore dell’Istituto per gli studi sull’Europa Orientale di Eichstätt (Baviera), in occasione dell'incontro Comitato scientifico del Centro Internazionale Studi e Ricerche “Oasis” sul tema “La libertà religiosa: un bene per ogni società”.
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Dire qualcosa di ragionevole sulla storia della libertà religiosa in mezz'ora è tutt'altro che facile. Da una parte, benché la nozione di libertà religiosa non sia emersa fino al XVII secolo, la questione è vecchia come la storia delle religioni. Dall'altra il significato di questa nozione è più complesso di quanto possa sembrare di primo acchito. Inizierò dicendo qualcosa sul secondo punto. Oggi noi intendiamo per "libertà religiosa" la legittima e perciò legale rivendicazione del diritto di scegliere in ogni istante - senza incorrere in alcuno svantaggio - la propria convinzione religiosa, di potere cioè pubblicamente dichiarare di vivere secondo il credo religioso per il quale si è optato. Normalmente, questa rivendicazione è garantita dalla costituzione, dal momento che essa è rivolta allo stato.
Perciò, la maggior parte delle costituzioni moderne e/o delle amministrazioni giudiziarie limita altrettanto severamente il diritto del governo ad intromettersi negli affari interni di una religione riconosciuta. Possono esistere comunità politiche o sociali prive di una costituzione formalizzata; in questo caso, la rivendicazione è rivolta alla comunità e a qualsiasi istituzione essa abbia sviluppato, in particolare i tribunali. E' importante vedere che questa rivendicazione o diritto ha dei limiti, alcuni dei quali sono oggi animatamente dibattuti nel mondo occidentale e possono differire da paese a paese. Una ragione è che nessuna costituzione definisce la nozione di religione. Così negli Stati Uniti Scientology è riconosciuta come religione (semplicemente perché pretende di esserlo) mentre in molti paesi europei questo prodotto dello scrittore di fantascienza L. Ron Hubbard è considerato un'organizzazione potenzialmente criminale ed è pertanto controllata da vicino dalle istituzioni responsabili della sicurezza interna. Più in generale, la libertà religiosa è considerata un diritto umano fondamentale solo nella misura in cui essa non turba apertamente l'ordine pubblico così come definito dalla costituzione. La Dignitatis Humanae menziona questa restrizione diverse volte, riferendosi ad un "giusto ordine pubblico".
In Francia, alle ragazze musulmane non è consentito indossare il velo nelle scuole pubbliche, università comprese, dal momento che le leggi laiciste del 1905 vietano qualsiasi influenza della religione sulle istituzioni pubbliche; in tempi più recenti, la stessa cosa è successa in Turchia, dove il laicismo di Ataturk è diventato un elemento della costituzione. In Germania, alle insegnanti musulmani delle scuole pubbliche è vietato portare il velo nelle aule, perché esse sono dipendenti pubblici e un dipendente pubblico tedesco è tenuto alla neutralità religiosa quando è in servizio. In che misura indossare il velo sia un precetto religioso o solo un simbolo dell'identità islamica è un'altra questione. In alcuni paesi europei, per esempio in Germania, la macellazione di animali secondo il rito ebraico o islamico è molto discussa, poiché essa è in conflitto con l'idea che agli animali non debba essere procurato dolore inutile; in Austria è permesso per gli uccelli ma non per i mammiferi.
Come si vede, ci sono molti aspetti della libertà religiosa rispetto ai quali, come recita il proverbio tedesco, il diavolo è nascosto nei dettagli. Alcuni di questi dettagli continueranno probabilmente a dar fastidio a corti costituzionali e politici per un po' di tempo e, incidentalmente esse sono in Occidente un'illustrazione della continua e progressiva secolarizzazione. Come si ricorderà, secondo un recente verdetto britannico, i libri di scuola devono parlare soltanto di genitori e non di padre e madre, perché quest'ultima espressione discrimina i genitori dello stesso sesso. Giorno dopo giorno mi aspetto che in qualche paese occidentale sia accolto un ricorso legale contro la Chiesa romana per non aver ammesso un omosessuale o una donna al sacerdozio. Il diritto umano alla libertà religiosa rischia sempre più di entrare in conflitto con altri diritti umani, particolarmente con il diritto all'uguaglianza e quello a non essere discriminati per qualche fatto considerato irrilevante. O, per dirla in altro modo: uno dei problemi dei paesi occidentali moderni è il clamore di esigue minoranze astiose che pretendono il loro spazio. Permettetemi però di venire al tema specifico del mio intervento, la storia della libertà religiosa.
Le culture politeiste come quella dell'antica Grecia o dell'Impero Romano prima della cosiddetta svolta di Costantino garantivano implicitamente la libertà religiosa; c'erano molte divinità e ognuno era libero di scegliere quelle da venerare o quella la cui ira sentiva la necessità di placare. Persino Aristotele che - insieme a Platone - sviluppò una concezione fondamentalmente monoteista, chiese senza esitazione al suo esecutore testamentario di sacrificare un gallo ad una divinità minore che egli apprezzava particolarmente. C'era solo un'eccezione: l'accusa di (che letteralmente significa qualcosa come "mancanza di timore religioso) che indusse diversi pensatori greci a fuggire all'estero e costò la vita a Socrate. Secondo Senofonte, quegli fu accusato di non venerare gli dei venerati dalla , cioè di introdurre nuove divinità, così come di corrompere la gioventù istigandola ad allontanarsi dalla . Sembra che e impietas abbiano sempre avuto una connotazione politica, in quanto oltraggio insito nel rifiuto delle divinità della . L'accusa fu rivolta dai conservatori alle opinioni troppo radicali in merito alla religione. Qualcosa di simile accadeva nell'antica Roma: i cristiani, e in misura minore gli ebrei, venivano perseguitati per la loro ignoranza delle tradizioni religiose in vigore. Un'accusa dalla quale essi dovevano difendersi e alla quale lo stesso Origine si riferisce nel suo Contra Celsum è quella di "novitas", che in questo caso non significa "rinnovamento" quanto piuttosto "offesa straordinaria al senso della tradizione".
L'egittologo tedesco Jan Assman, che ha insegnato fino a poco tempo fa all'Università di Heidelberg, ha sostenuto che tra tutte le religioni solo il monoteismo è potenzialmente violento e perciò nemico della libertà religiosa. Questo assunto è ovviamente ispirato dagli studi di Assman sul Faraone Amenothep IV, che si proclamò Echnaton, "servo del solo Dio Aton", e la sua rivoluzione monoteista intorno al tredicesimo secolo a.C. L'ipotesi di Assman ha sicuramente una plausibilità iniziale. Se c'è un solo Dio, la venerazione di tutte le altre supposte divinità è uno scandalo e deve sparire. O, per dirla in un altro modo, il monoteismo introduce nella religione l'idea della verità, la distinzione tra la verità e la non-verità. In un certo senso, ancora Pio XII sosteneva qualcosa di simile quando verso la fine del suo regno sostenne che, sebbene per amor di pace fosse possibile tollerare le confessioni non-cattoliche e le religioni non-cristiane, questi errori non potevano appellarsi ad un diritto, visto che l'errore non ha diritti. La straordinaria qualità della dichiarazione Dignitatis Humanae consiste nell'aver trasferito il tema della libertà religiosa dalla nozione di verità a quella dei diritti della persona umana. Se l'errore non ha diritti, una persona ha dei diritti anche quando sbaglia. Chiaramente non si tratta di un diritto al cospetto di Dio; è un diritto rispetto ad altre persone, alla comunità e allo stato.

La questione fu complicata fin dall'inizio da quella che è normalmente chiamata "l'alleanza fra trono e altare". Già nel caso del monoteismo di Echnaton, che consisté nella rimozione di molti dignitari religiose del politeismo egiziano corrente, si trattava della fede proclamata da un governante. Esso ebbe perciò inevitabilmente delle implicazioni politiche; la fede del governante e l'unità e l'identità dell'Impero egiziano finirono per essere collegate. Fino a Costantino il Grande la fede cristiana era una religione tutt'al più tollerata, spesso perseguitata. Al massimo i cristiani potevano sperare nella libertà religiosa. Ma, non appena il cristianesimo divenne la religione dell'Impero romano, esso smise di essere tollerante verso le altre religioni. Certo, cosa "esso" significhi in questo caso è ambiguo. Non significa né la Chiesa, né solo l'Imperatore. I governanti erano interessati ai fondamenti e all'unità del loro impero, la Chiesa a conquistare i cuori del popolo. Ma, nonostante la diversità dei loro interessi, essi cooperavano. La politica divenne strumentale alla religione, e la religione, in quanto unica vera concezione della realtà alla politica. Questo non significa certo che i sostenitori di quest'alleanza perseguitassero immediatamente e costantemente le persone appartenenti ad altre fedi. In un primo momento essi furono semplicemente discriminati; soltanto le autorità, come i vescovi considerati eretici, a volte erano costretti a fuggire. Ma una violenza latente era presente senza che né la politica né le autorità ecclesiastiche la incoraggiassero esplicitamente.
Un esempio interessante è la lapidazione, ad Alessandria, di uno degli ultimi neoplatonici, la filosofa Hypathia, avvenuta nel 415 per mano di una folla cristiana esagitata. Questo spiacevole fatto, che in tempi più recenti diventò il soggetto di un romanzo inglese e di uno tedesco, è un esempio precoce di quello che si sarebbe spesso verificato nel Medio Evo: in molti casi la violenza non era scatenata né dalla Chiesa né dallo stato, quanto piuttosto dovuta a credenti primitivi e superstiziosi con i quali le autorità preferivano non entrare in conflitto (la bella Hypathia era sospettata di essere una specie di strega). Una forma di violenza era il battesimo forzato. Sin dalla disputa di Sant'Agostino coi donatisti esso era spesso giustificato dalle parole compelle intrare, "costringeteli a entrare", contenute nella parabola di Cristo sul banchetto celeste nel 14° capitolo del Vangelo di Luca. Se l'unico modo di salvare qualcuno dalla dannazione consisteva nel battezzarlo, sembrava una cosa naturale, quasi un atto di carità, battezzarlo anche senza il suo assenso. La Chiesa non approvò mai esplicitamente questa pratica, ma che essa venisse esplicitamente ed inequivocabilmente condannata era una fatto raro, e non si verificò che piuttosto tardivamente (per esempio nell'866 in una lettera pontificia a un principe bulgaro, o nel 1065 in una lettera di Alessandro II al principe Landolfo di Benevento, riguardo in questo caso al battesimo forzato degli ebrei). Per quanto spiacevole possa essere per noi cristiani, uno storico della Chiesa onesto dovrà ammettere che talvolta, specialmente durante il Medio Evo, governanti musulmani e autorità religiose erano in proposito più illuminate e tolleranti di quelle cristiane.
I battesimi forzati erano a volte aggravati dal sospetto che i convertiti continuassero ad aderire segretamente alla loro fede precedente; basti pensare alla questione dei marranos in Spagna o in Portogallo o al fatto che persino Sant'Ignazio di Loyola pare che proprio per questa ragione non abbia voluto ebrei convertiti nel suo ordine. C'è un altro aspetto del problema che poco a poco mi condurrà alla nascita dell'idea di libertà religiosa. Oggi, noi siamo disgustati quando sentiamo di musulmani che, sulla base di diverse sure del Corano e di alcune tradizioni islamiche, sono condannati a morte e uccisi solo perché si convertono al cristianesimo. Ma non dovremmo dimenticare che questo fu lo stesso modo con il quale il cristianesimo trattò gli eretici per un periodo non trascurabile di tempo. Le conversioni di cristiani ad altre religioni, specialmente all'islam, erano rare e non avvenivano quasi mai entro i confini del mondo cristiano. Ma gli eretici accompagnarono il cristianesimo sin dalle sue origini. Non sono in grado di dire chi fu il primo eretico condannato a morte a causa delle sue opinioni (probabilmente Priscilliano d'Avila nel IV secolo; San Martino di Tours, che gli era vicino, fu sconvolto quando l'Imperatore fece eseguire la sua condanna). Eppure la pratica era ovviamente molto più vecchia dell'Inquisizione, che fu cosa normale fino al XVI e in alcuni paesi al XVII secolo, e non era limitata alle regioni cattoliche del mondo (si pensi a Michael Servetus, lo scopritore della circolazione del sangue, bruciato nel 1553 nella Ginevra di Calvino per aver negato la Trinità, o a Thomas Müntzer, la cui condanna fu eseguita nella già luterana Mülhausen, vicino a Erfurt, per il suo anabattismo ribelle).
I roghi degli eretici erano praticati dalle autorità politiche ma era l'autorità ecclesiastica che li condannava e li consegnava allo stato. Quelli che come me amano S. Tommaso d'Aquino e lo considerano uno dei più grandi teologi cristiani potrebbero essere sorpresi dal sapere che quest'uomo illuminato approvava tale pratica senza riserve. Nel terzo articolo dell'undicesima questione della Secunda secundae egli si domanda se gli eretici debbano essere tollerati. La sua risposta è inequivocabile: no di certo. Dopo tutto i falsari, per esempio, vengono condannati a morte perché corrompono la sola vita temporale. Corrompere la fede, cioè la vita dell'anima, è un crimine ben più serio. Perciò, se non c'è più speranza che essi ritrattino la loro falsa credenza, gli eretici devono essere scomunicati e perciò consegnati all'autorità secolare per essere esclusi dal mondo con la morte: sunt a mundo exterminandi per mortem. Chiaramente "exterminare" non significa sterminare qualcosa come ci verrebbe in mente parlando dell'eliminazione di ratti o di parassiti; significa semplicemente bandire. Allo stesso modo non bisogna trascurare il fatto che allo stesso tempo, e solo qualche pagina prima, S. Tommaso rifiuta categoricamente l'idea che gentili ed ebrei debbano essere costretti ad accettare la fede cristiana. Si sarebbe dovuto soltanto impedire loro di essere di ostacolo alla fede e punirli in caso di blasfemia o istigazione al male, crimini che avrebbero anche giustificato la guerra mossa contro di loro. In altre parole, S. Tommaso fa una chiara distinzione tra coloro i quali non hanno mai accettato la fede e coloro i quali invece l'hanno accettata per poi allontanarsene. Solo questi ultimi sono etiam corporaliter compellendi ut impleant quod promiserunt et teneant quod semel susceperunt. Benché possa esserne stato consapevole, egli non discute la possibilità che l'accusa di eresia potesse essere un pretesto per motivi subdoli, come per esempio fu il caso quando nel 1307 Filippo il Bello distrusse l'Ordine dei Templari per accaparrarsi la loro enorme fortuna.
Se consideriamo questa tradizione è in un certo senso sconcertante che l'idea di una libertà di culto sia emersa soltanto entro i confini dell'universo cristiano. Fu un processo complicato. Nel complesso la Chiesa era normalmente contraria alle conversioni forzate. Uno dei primi esempi ci è fornito da una lettera di Sant'Ambrogio, che era già consapevole del problema dei marranos, tanto da aver scritto: ne fictos catholicos haberemus quos apertos haereticos noveramus. Durante il Medio Evo si nota spesso una preoccupazione riguardo alla libertas ecclesiae di fronte all'abbraccio della politica. Normalmente però quella preoccupazione si trasformava in una pretesa supremazia della Chiesa sul potere temporale. Nel XIV e nel XV secolo, umanisti come Marsilio da Padova e Lorenzo Valla iniziano a dichiararsi contrari alla supremazia della Chiesa negli affari pubblici. La discussione circa le rispettive autorità del Papa e del Concilio, così come gli sforzi rivolti ad una riunificazione con la Chiesa orientale portano ad una nuova coscienza del fatto che almeno alcune delle differenze di credo possono non dipendere dall'ortodossia, ma soltanto dalla tradizione e dai riti (Nicola Cusano, una delle figure di spicco del Concilio di Firenze sostiene questa posizione nel De pace fidei). Umanisti come Erasmo da Rotterdam iniziano a studiare i Padri della Chiesa e riscoprono una fede più personale e libera da implicazioni politiche. Lo stesso vale per Lutero e la prima Riforma. Ma poiché i riformatori cercano un riconoscimento politico simile a quello della Chiesa romana, i loro sforzi sfociano in un nuovo scisma. Mentre la cristianità occidentale quasi non si accorse della rottura con Costantinopoli del 1054, dalla fine del XVI secolo la stessa cristianità occidentale si divide per effetto della Riforma e della conseguente reazione romana. Non esiste più la Cristianità ma solo diverse chiese che si combattono e denigrano l'un l'altra.
Chi leggesse l'affascinante libro di Malcolm Lambert, Medieval Heresy, una "storia dei movimenti popolari dalla Riforma gregoriana alla Riforma", pubblicato a Oxford nel 1992, ne riceverebbe l'impressione che, dopo la svolta di Costantino, l'idea di libertà religiosa non sarebbe emersa finché sia l'Imperatore che la Chiesa non si fossero trovati nell'impossibilità di reprimere una rivolta eretica. Questo avvenne per la prima volta nel XV secolo in Boemia, a causa del movimento iniziato da Jan Hus, che finì bruciato a Basilea all'inizio del 1415. L'altro evento drammatico fu la riforma del XVI secolo a Wittenberg, Zurigo e Ginevra. La conseguenza di lungo termine di tutto questo fu la Guerra dei Trent'anni, che devastò gran parte del continente europeo e che nessuno vinse realmente. Qui di nuovo la questione religiosa si intrecciò coi problemi di potere. Come ricorderete la guerra fu conclusa dalla Pace di Westphalia del 1648 col suo principio cuius regio eius religio.
Il re, il duca o chiunque fosse al potere potevano dichiarare la loro personale denominazione religiosa come quella ufficiale, cioè come religione di stato del loro regno. Non era lecito perseguitare fedeli di altre denominazioni, ma in generale a questi fedeli sarebbe stato proibito di manifestare il loro credo pubblicamente. Vi furono un certo numero di eccezioni, per esempio quella per cui se al governo si trovava un'autorità ecclesiastica (per esempio un vescovo), questa era costretta a cedere il potere nel caso avesse cambiato la propria confessione. Certo, si trattava di un trattato di pace, solo che non aveva più a che fare con la verità. Una delle sue implicazioni fu che gli aderenti delle denominazioni non ufficiali potevano lasciare il paese portando con sé le loro proprietà, chiaramente non quelle immobiliari. Circa duecentomila non cattolici, molti dei quali membri della piccola nobiltà, dovettero fuggire o comunque fuggirono per rifugiarsi, per esempio, dalla Boemia riconquistata dai cattolici Asburgo. Tra di essi c'erano anche Jan Amos Komensk, o Comenio, che finì la sua vita come vescovo dei fratelli moravi ad Amsterdam. Questa forma di pulizia etnica, di pulizia religiosa ante litteram, traumatizzò i cechi per secoli e certamente fu una delle ragioni per cui già decenni prima che i comunisti prendessero il potere la Cecoslovacchia era uno dei paesi meno religiosi d'Europa.

Tradizionalmente i cattolici considerarono la Pace di Westphalia uno scandalo perché consegnava grandi regioni d'Europa agli eretici. Tuttavia non dobbiamo trascurare che essa fu un primo passo da una parte verso la democrazia, e dall'altra verso la libertà religiosa. Per amor di pace essa riorganizzò il Sacro Romano Impero senza far riferimento a un unico credo. La religione non era più e in ogni caso cessò presto di essere una fonte di legittimazione del potere politico. Se non gli individui, almeno i paesi potevano cooperare pacificamente nonostante la diversità del loro credo. Per studiosi come Leibniz, per esempio, non era più un problema trovarsi al servizio prima di un governante protestante e poi di uno cattolico. Chi era al potere poteva decidere liberamente quale credo e quale religione avrebbero tollerato e in quale misura. Generalmente, i paesi cattolici tendevano ad essere meno tolleranti, a meno che, come la Francia, non fossero in conflitto con Roma. Una bella eccezione fu rappresentata dalla repubblica aristocratica della Polonia. Già molto prima della Pace di Westphalia essa era stata molto tollerante nei confronti delle minoranze religiose, ivi inclusi gli ebrei, fatto che spiega perché essa divenne il paese europeo con il maggior numero di cittadini ebrei. Che oggi la Polonia sia il paese europeo nel quale l'anti-semitismo prospera come in nessun altro paese è un fenomeno tanto sconcertante quanto doloroso, in particolar modo perché solo un esiguo numero di ebrei è sopravvissuto all'olocausto (il filosofo polacco Leszek Koakowski parlava di "un anti-semitismo senza ebrei)".
Un altro importante sviluppo ebbe luogo in Gran Bretagna. Diversamente da quanto avvenne sul continente europeo, durante il Medio Evo il l'Inghilterra e il Galles non furono particolarmente infestati dalle eresie; una delle poche eccezioni fu, nel XIV secolo, John Wicliff, le cui idee influenzarono poi Jan Hus, ma la sua teologia non fu considerata eretica che più di trent'anni dopo la sua morte. Dopo la rottura di Enrico VIII con Roma, tuttavia, sorsero in Inghilterra numerosi dissidenti, gruppi cioè che in un senso o nell'altro si trovavano in disaccordo con le gerarchie anglicane dell'epoca. L'atto di tolleranza del 1689 pose termine alla loro persecuzione (ma non a quella dei cattolici). Ma intanto molti di loro erano emigrati nel Nuovo Mondo, in Nord America, che divenne perciò la parte del mondo in cui la libertà di culto non fu soltanto per la prima volta costituzionalmente codificata, ma in un certo senso un fatto del tutto naturale. I Padri fondatori degli Stati Uniti erano i discendenti di persone che avevano lasciato la Gran Bretagna per una parte del mondo prevalentemente disabitata, così da poter professare liberamente la propria fede e vivere secondo i suoi principi per il solo fatto di ritenerla giusta. I cattolici ebbero in un primo tempo delle difficoltà nel Nuovo Mondo, perché considerati particolarmente intolleranti.
Inoltre i primi americani britannici, nonostante le loro numerose differenze religiose, erano protestanti convinti che detestavano il cattolicesimo. Ma già nel 1634 lo stato del Maryland riconobbe in uno speciale Atto di Tolleranza uguale legittimità a tutte le confessioni trinitarie e di lì a poco anche i cattolici poterono accedere alle cariche più elevate. A tale riguardo è interessante paragonare la Dichiarazione francese dei Diritti dell'Uomo del 1789 e il Bill of Rights della Virginia del 1776. La Dichiarazione francese dice nel suo articolo 10 che nessuno può essere molestato per le sue opinioni, incluse quelle religiose, finché non turba l'ordine pubblico così come stabilito dalle leggi. L'articolo 16 del Bill of Rights della Virginia si riferisce, al contrario, al rispetto per il Creatore, dichiara che tutte le persone hanno pari diritto di professare la propria religione secondo la voce della loro coscienza e che sono chiamate a condividere il dovere comune della pazienza, dell'amore e della compassione cristiani. Questa differenza illustra bene la diversa ispirazione della rivoluzione francese e di quella americana, nonostante la loro contemporaneità. La rivoluzione francese è rivolta contro qualcosa: il vecchio ordine, il re, la Chiesa. La rivoluzione americana, al contrario, garantisce la libertà in un mondo nuovo, come se la storia dell'umanità potesse ricominciare da capo - e il suo spirito è profondamente cristiano.
Alexis de Tocqueville, un aristocratico francese moderatamente cattolico e fedele al suo re post-napoleonico era profondamente convinto di questa differenza quando nel 1835 pubblicò il primo volume del suo famoso libro De la démocratie en Amérique. Venendo dalla Francia, egli si aspettava che gli Stati Uniti fossero un paese completamente secolarizzato per via della loro netta separazione fra stato e religione. Ma fu sorpreso dalla scoperta di qualcosa di completamente diverso: un paese profondamente religioso proprio per via di questa separazione. Chiaramente non si trattava di una religiosità cattolica ma di una religiosità indubbiamente ispirata al cristianesimo. Il giovane Karl Marx, che aveva letto il libro di Tocqueville e che come tutti i pensatori che si rifacevano alla sinistra hegeliana considerava la religione una perversione, sostenne meno di dieci anni più tardi, e diversamente da quanto pensava il suo amico Bruno Bauer, che la religione non sarebbe scomparsa per il fatto che lo stato avrebbe smesso di sostenerla. Sarebbe scomparsa soltanto quando fosse scomparso il male alla base di tutti gli altri, lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo reso possibile dalla proprietà privata. Contrariamente ai marxisti sovietici successivi, Marx ed Engels erano quindi contrari all'abolizione forzata della religione. Essi credevano che la religione sarebbe scomparsa non appena la rivoluzione proletaria avesse avuto successo. Proibire la religione avrebbe soltanto avuto l'effetto di prolungarne l'agonia. Benché non fosse un socialista, il fondatore del positivismo, Auguste Comte, era della stessa opinione. Tutte le religioni erano superstizioni che sarebbero scomparse quando l'umanità fosse stata illuminata dall'accettazione di tutto ciò che la scienza insegnava.
L'enfasi americana sulla libertà religiosa fu fortemente influenzata dalla Lettera sulla Tolleranza di John Locke, pubblicata per la prima volta in latino nel 1689. Poiché era preoccupato che i cattolici intolleranti potessero riprendere la Gran Bretagna, Locke dichiarò che un governo deve considerare la religione un affare privato dei suoi cittadini. Secondo lui il compito di un governo consisteva nella protezione della vita, della libertà e della proprietà dei cittadini. Esso non aveva competenze in materia religiosa e d'altronde la bibbia non diceva da nessuna parte che le persone dovessero essere costrette ad accettare un credo religioso. Egli spiegò di non aver esteso questa difesa della libertà religiosa ai cattolici per il fatto che l'obbedienza al papa minava l'obbedienza al potere politico. Che una comunità politica debba essere governata da qualcuno è ovvio; ma i cittadini non devono confrontarsi con due autorità potenzialmente suscettibili di contraddirsi a vicenda. Né un governo dovrebbe, tuttavia, tollerare gli atei, dal momento che senza la fede in un Creatore le convinzioni morali presupposte da un stato ordinato non sopravvivrebbero a lungo. E' in qualche modo comprensibile che la Chiesa cattolica abbia a lungo avversato questi assunti. Visto che la versione cattolica del credo cristiano era l'unica vera, essa si aspettava che un governo o un governante facessero il possibile per promuovere la fede cattolica. Per amor di pace si sarebbe potuta tollerare la presenza di qualche non-cattolico o addirittura di qualche non-cristiano, ma un cattolico non avrebbe dovuto pensare a questo come a uno stato di cose ideale. Anche negli Stati Uniti molti cattolici la pensavano così. Fino al 1940, alcuni cattolici americani, notando che il loro numero stava costantemente crescendo, sostennero che il loro paese sarebbe diventato e sarebbe dovuto diventare uno stato cattolico non appena essi avessero raggiunto la maggioranza.
Nel XVII e nel XVIII secolo la Chiesa ignorò in larga misura le idee sviluppatesi in Inghilterra, in America e per esempio quelle sostenute in Francia da Rousseau nel suo romanzo Émile. D'altronde non ci si poteva scomodare per le sciocche idee avanzate da eretici protestanti o da un anarchico immorale nato nella Ginevra calvinista. Ma quando all'inizio del XIX secolo queste idee cominciarono a diffondersi tra i cattolici (si pensi per esempio a Lammenais o a Charles de Montalbert, che Pio VII scelse di non condannare dal momento che era un laico e non un prete), la Chiesa pensò di dover reagire - e la sua reazione fu un "No" categorico. Già nel 1814, in una lettera a un vescovo francese, Pio VII aveva dato sfogo al suo disappunto circa l'articolo 22 della recente costituzione post-napoleonica, che non solo garantiva la libertà di tutti i culti ma suggeriva anche che il governo li proteggesse e sostenesse.
Diciotto anni più tardi Gregorio XVI definì nell'enciclica Mirari Vos un errore inconcepibile, un vero e proprio deliramentum, una follia, l'idea che ognuno fosse libero di seguire la sua coscienza. L'attacco portato da questa enciclica era diretto contro quello che all'epoca si chiamava "indifferentismo": l'idea per cui, specialmente riguardo alla salvezza, non faccia differenza quali proposizioni siano considerate vere e quali valori vengano sostenuti. Un'altra espressione era "tollerantismo" (Leone XII lo aveva adoperato in un'enciclica precedente), oggi preferiremmo forse l'espressione "relativismo". Il problema, tuttavia, era che l'autorità cattolica non sapeva ancora distinguere tra cosa un cattolico dovesse pensare e cosa l'autorità civile, anche agli occhi di un cattolico, dovesse permettere. L'idea che in definitiva soltanto uno stato cattolico fosse legittimo era troppo radicata. L'assenza di tale distinzione divenne sempre più ovvia quando, nel 1864, Pio IX ripeté nell'enciclica Quanta Cura il rifiuto del deliramentum e il famigerato Syllabus enumerò un numero di proposizioni con le quali un cattolico non poteva trovarsi d'accordo: che ognuno fosse libero di professare la fede che egli stima vera (15), che lo stato e la Chiesa debbano essere separati uno dall'altro (55), che i credi non-cattolici possano legittimamente essere religione di stato (77) e che la libertà religiosa non intacca la morale e non invita alla "peste dell'indifferentismo" (79). Leone XIII, nell'enciclica Libertas Praestantissimum del 1888 metteva in risalto come non solo la giustizia ma la semplice ragione vieta che il governo persegua la politica di garantire gli stessi diritti e privilegi a tutte le confessioni e religioni. Benché successivamente i toni si ammorbidissero, nel complesso fu ancora questo il modo di pensare di Pio XII, quando nel 1953 tenne un suo discorso ad una conferenza di giuristi cattolici.
Come certamente saprete, fu soprattutto questa tradizione ottocentesca a spingere l'ex arcivescovo di Dakar, Marcel Lefèbvre a staccarsi da Roma dopo che una maggioranza schiacciante di vescovi - 2308 sui 2386 presenti - ebbe votato nel 1965 per la Dignitatis Humanae. Lui e i suoi seguaci considerarono la dichiarazione sulla libertà religiosa una chiara eresia. Di fatto non è facile dire se e in quale misura la Dignitatis Humanae sia un documento che contraddice quello che i Papi del XIX secolo avevano sostenuto. Certamente non si tratta di una costituzione dogmatica come per esempio la Lumen Gentium e il suo oggetto non è la Chiesa ma la comunità civile. Tuttavia è quasi impensabile che la Chiesa possa mai ritrattare quello che ha dichiarato nel 1965, mentre è possibile che, alla luce delle difficoltà che ho menzionato all'inizio del mio intervento, essa decida di chiarirne alcuni passaggi. Ma essa resta un'indubbia rottura con una tradizione le cui origini risalgono, se non all'epoca di Costantino il grande, all'anno 380, quando Teodosio I dichiarò il cristianesimo religione dell'Impero Romano. Alcuni commentatori hanno suggerito che la situazione era già cambiata e che le autorità ecclesiastiche del XIX secolo avrebbero sottoscritto la Dignitatis Humanae se fossero vissuti nella seconda metà del XX. Ma è ammissibile che la Chiesa adatti la sua dottrina, anche solo quella sociale, alle diverse epoche e situazioni? Continua ad essere questa l'accusa dei Lefebvriani e degli altri tradizionalisti: che la Chiesa ha ceduto allo spirito dei tempi ed a una delle sue ideologie più esplicite. Benché il modo di argomentare della Dignitatis Humanae sia strettamente teologico, precisamente cristologico, è ovvio che i suoi autori e i vescovi che la votarono furono anche influenzati da quello che all'epoca "il mondo" pensava. Forse il modo migliore di trattare queste questioni fu proposto da Hans Urs von Balthasar, anche se non proprio (o non solo) nel contesto entro il quale mi sto muovendo io ora. Nell'epoca moderna, sostiene Balthasar, la Chiesa ha occasionalmente trascurato che quello che essa condannava nei suoi antagonisti, veri o presunti, poteva essere, e forse era realmente, qualcosa di simile a un rimasuglio della sua stessa eredità. Balthasar giustificava questa osservazione attraverso l'interpretazione agostiniana della exspoliatio Aegyptorum come proposta nel De doctrina christiana: tutto ciò che è vero e ha valore proviene da Dio e i cristiani non dovrebbero temere di accettarlo anche se trasmesso da un pagano.
Come spesso accadde nella storia della Chiesa, a quest'ultima furono necessarie lunghe riflessioni e molto tempo per scoprire e capire che Gesù Cristo stesso avrebbe sicuramente votato per la libertà religiosa come principio di coabitazione umana. Quando nel 1948 le Nazioni Unite promulgarono la loro Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo molti cattolici sentirono che era giunto il momento anche per la Chiesa di sostenere l'articolo 18, che recita: "Ogni individuo ha il diritto alla libertà di pensiero, coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell'insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell'osservanza dei riti". A quell'epoca la Chiesa non era ancora ufficialmente pronta a sottoscrivere tali idee. Certo, i paesi che si concepivano come stati cattolici non perseguitavano più i non cattolici; ma spesso non garantivano loro di professare pubblicamente il loro credo, come fu il caso, per esempio, della Spagna di Franco. Ma è significativo che questo "fascista infame", due anni dopo la pubblicazione della Dignitatis humanae, fece modificare la costituzione spagnola così che dal 1967 essa garantisce una protezione a tutti i credi religiosi. Tuttavia, la nozione di una religione di stato privilegiata non contraddice in sé la dichiarazione del Concilio vaticano II, anche l'Italia ha cessato di averne una nel 1984, così che oggi, oltre al Vaticano gli unici "stati cattolici" europei rimasti sembrano essere i mini-stati Andorra, Liechtenstein, Malta e San Marino.
Permettetemi di giungere ad una conclusione. La storia che ho tentato di sintetizzare è per noi cattolici in un certo senso imbarazzante, specialmente se si considera il XIX secolo. Allora, da una parte il "progresso" certamente non è, e non deve essere, la questione centrale per la Chiesa e per ogni fedele cristiano. Sostanzialmente, salvaguardare il depositum fidei è più importante. Dalla'altra, benché alla Chiesa sia stato necessario molto tempo per discernere quello che si poteva e quello che non si poteva accettare nella rivendicazione moderna della libertà religiosa, la Dignitatis humanae è come un'espressione dello "spirito" del Vaticanum secundum: pur insistendo senza ambiguità sulla verità, la Chiesa non vuole più rivendicare alcun diritto a qualsiasi forma di potere ma solo raggiungere i cuori delle persone, così come fece Gesù Cristo.
[Fonte: http://www.oasiscenter.eu/]


Il capo del sistema giudiziario britannico dice sì alla sharia, riconoscendo un diritto islamico per i soli musulmani
Dopo la presa di posizione simile dell’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams, e la decisione del governo di Gordon Brown di riconoscere di fatto la poligamia accordando gli assegni familiari alle mogli poligame, la Gran Bretagna conferma come il multiculturalismo si stia sottomettendo al terrorismo dei taglia-lingua
autore: Magdi Cristiano Allam
Cari amici,
La dichiarazione di Lord Nicholas Addison Phillips, capo del sistema giudiziario di Inghilterra e Galles, la figura giuridica più importante della Gran Bretagna conosciuto come Lord Chief Justice, secondo cui “non c’è alcuna ragione per cui i principi della sharia o di qualunque altro codice religioso non debbano fornire le basi per una mediazione o per altre forme di composizione delle dispute”, spiegando che ad esempio la legge islamica potrebbe essere usata per risolvere dispute e liti familiari, costituisce un ulteriore passo in avanti del sistema ideologico del multiculturalismo verso l’accreditamento di un doppio o multiplo binario giuridico per coloro che condividono lo stesso spazio fisico ma si considerano appartenenti a identità collettive differenziate se non conflittuali.
Dopo la presa di posizione simile dell’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams, il primate della Chiesa anglicana, e la più recente decisione del governo laburista di Gordon Brown di riconoscere di fatto la poligamia accordando gli assegni familiari alle mogli poligame, la Gran Bretagna conferma come il multiculturalismo, massima espressione sociale del relativismo etico e del politicamente corretto, si stia sottomettendo sempre più all’arbitrio del terrorismo dei taglia-lingua islamici, illudendosi che così facendo riuscirà a salvare la pelle dal terrorismo dei taglia-gola che ormai è un prodotto autoctoni e i cui attori sono cittadini britannici.
Ed è del tutto singolare e contraddittorio che Lord Phillips specifichi che l’applicazione della sharia in Gran Bretagna non dovrà contrastare la legge britannica, aggiungendo che “chi vive qui è soggetto alla giurisdizione dei tribunali britannici”. Qualcuno gli dovrebbe ricordare che il Common Law e la sharia sono semplicemente incompatibili, perché lo stato di diritto europea, che si fonda dalla fede e sulla cultura giudaico-cristiana, ha posto al centro della sua concezione giuridica il principio dell’inviolabilità della persona, mentre per la sharia la persona non ha diritti autonomi ed è invece sottomessa ad Allah, alla società, alla tribù e alla famiglia. Così come deve essersi scordato che i tribunali islamici esistono in Gran Bretagna sin dal 1982 ed emettono sentenze sulla base della sharia su questioni attinenti al diritto della famiglia e alle dispute patrimoniali.
La posizione di Lord Phillips è stata sostanzialmente avallata dal portavoce del ministero della Giustizia che ha dichiarato: “La legge inglese, che è basata sulla condivisione dei valori di uguaglianza, ha la precedenza su ogni altra sistema legale. Il governo non ha intenzione di cambiare la sua posizione anche se è disposto a considerare la legge islamica in casi di diritto civile come questioni di eredità e conflitti domestici”. Un gioco di parole che si traduce di fatto nel sì alla sharia in seno alla legge britannica.
E’ bene conoscere correttamente questa realtà per affrontarla in tempo prima che dilaghi anche nel nostro Paese.
Cari amici, andiamo avanti insieme da Protagonisti per l’Italia dei diritti e dei doveri, del bene comune e dell’interesse nazionale, promuovendo un Movimento della Verità, della Vita e della Libertà, per una riforma etica dell’informazione, della società, dell’economia, della cultura e della politica, con i miei migliori auguri di successo e di ogni bene.
Magdi Cristiano Allam