Nella rassegna stampa di oggi:
1) Ci siamo. Tanto tuonò che piovve
2) «Mi calo e basta, la vita è tutta qui»
3) Il boom delle bocciature è solo un altro indizio, MA SI CONTINUA A BALLARE SUL TITANIC, Di Francesco Nembrini
4) Diciamola tutta: è un`emergenza antropologica E` IN GIOCO PERSINO IL MODO DI FARE IL PANE, di Luca Doninelli
5) A Lambeth il cardinale Kasper invoca un nuovo Newman, Sandro Magister
6) Piccoli grandi laboratori di una cultura sorprendente
7) «Mi staccarono il sondino ma ero viva e sentivo tutto» - Madre di tre figli di trentatrè anni racconta in un libro il suo dramma: per 70 giorni in stato vegetativo
Ci siamo. Tanto tuonò che piovve
Autore: Salina, Giorgio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it
mercoledì 30 luglio 2008
Ed ora ha incominciato a piovere!
Ricordate l’ultimo articolo dal titolo «Trattato di Lisbona “si”, Carta del diritti fondamentali “no”» pubblicato su questo sito il 2 luglio scorso? Ciò che paventavamo ha iniziato ad avverarsi. Ancora peggio di quello che abbiamo scongiurato con i DICO del Ministro Bindi e di Prodi, ha iniziato ad infiltrarsi in Italia.
Certamente avete letto di quella coppia di ottuagenari omosessuali, insieme da 40 anni e uniti in Francia con il PAC; trasferitisi in Italia, uno è morto investito da un auto. L’Assicurazione ha riconosciuto al superstite il ruolo di «prossimo congiunto.» Andrea Acquarone ha commentato su “Il Giornale”: «I diritti del vedovo stavolta sono stati tutelati come se si fosse trattato di una famiglia tradizionale.» La decisione è stata presa dall’Assicurazione, certa dell’esito di una eventuale controversia giudiziaria. Mi sbaglierò, anzi spero di sbagliarmi, ma temo che questo sia l’inizio: attraverso la giurisprudenza internazionale, attraverso il principio del riconoscimento dei diritti acquisiti per i cittadini europei che cambiano Stato di residenza, in Italia dovranno progressivamente essere “rispettate” tutte le norme in tema di aborto, divorzio, diritto di famiglia sia “etero” che “omosessuale”, eutanasia. Ossia quei principi fondamentali che fanno la cultura e la civiltà di un popolo, non saranno più adottati da noi, ma li importeremo!
A parte le scelte fondamentali che questi temi richiedono, la novità è che non saremo più noi a decidere in base alla nostra cultura, alla nostra storia, alle nostre tradizioni; non solo ci verranno imposte, ma dovremo uniformarci - attenti - non alle legislazioni più diffuse, ma, sui singoli argomenti, alle legislazioni più permissive; sia le legislazione olandese, o belga, o spagnola, e così via. Ma che modo è questo di abdicare alle proprie caratteristiche ed alle proprie scelte?
Da che cosa tutto questo pessimismo? Dal fatto che un ramo del nostro Parlamento ha ratificato il Trattato di Lisbona senza nulla eccepire circa l’obbligatorietà della “Carta dei diritti fondamentali”, un documento ambiguo e aperto a molte interpretazioni, e senza porre vincoli all’indiscriminata ingerenza di procedure illegittime.
A proposito della “Carta”: si promulga il diritto inviolabile alla vita, mentre sulla base della stessa “Carta” si afferma di dover garantire la libertà della donna di abortire.
Quali garanzie e salvaguardie i nostri Politici pensano di adottare e proporre all’Europa? Il coro degli europeisti ripete che il Trattato è necessario per il funzionamento delle Istituzioni comunitarie: vero, ma tutto il resto? Non tutti gli Stati europei sono così supini: Regno Unito e Polonia hanno detto che la “Carta” e la normativa da essa derivante non potranno prevalere sulle loro rispettive Legislazioni; altri, non da ora, propugnatori dei testi più europeisti, poi non li applicano in casa propria.
Non si vuole sollevare la sacrosanta eccezione della “Carta”? Almeno si prendano le distanze e si mettano le mani avanti circa il caparbio miope rifiuto nel non voler riconoscere l’unica vera matrice unificante i popoli europei (le conseguenze negative sono sotto gli occhi di tutti): cioè la cultura giudaico cristiana innestatasi su quella greco romana che è tuttora condivisa da larghi strati delle popolazioni; il tentativo di legiferare surrettiziamente e la traboccante invadenza della burocrazia di Bruxelles.
Tre referendum popolari, tre solenni bocciature. Basta con la posizione che dice la gente non ha capito, non ci siamo spiegati bene.
Tra l’altro questo è il principale argomento per scegliere l’iter della ratifica per via parlamentare: oltre all’evidenza che i Deputati e i Senatori sono i nostri rappresentanti, si tratta di materia molto complessa che deve essere lasciata a specialisti. Tutti i nostri 1000 parlamentari hanno approfondito il Trattato e i suoi numerosi allegati che una squadra di giuristi e costituzionalisti ha impiegato tre mesi ad interpretare?
Non scherziamo: qui c’è in gioco davvero molto!
«Mi calo e basta, la vita è tutta qui»
Autore: Andraous, Vincenzo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it
mercoledì 30 luglio 2008
In discoteca, al pub, alla festa sulla spiaggia, la droga “cala”, e un’altra ragazza è stramazzata a terra, in coma, è morta.
Questa volta la causa del decesso è l’Mdma, meglio conosciuta come ecstasy.
E’ incredibile come dopo anni e anni di over-dose, di esplosioni chimiche, di implosioni biologiche, siamo qui a manipolare le parole, a violentare la ragione, a abusare della compostezza di una coscienza annichilita.
C’è una maledetta disinformazione che parte da una comunicazione sonnolenta, ripetuta senza scalfire alcuna emozione, spesso didattica, già vecchia, troppe volte elargita da cattedre impolverate che nulla consentono alla possibilità di liberare la libertà, nel senso di immaginare un percorso di vita denudato dai falsi miti e dalle false aspettative, soprattutto da quella falsa normalità, che maschera nei migliore dei casi una avvenuta dipendenza.
“Non mi calo” per essere contro, per trasgredire e stupire con rumore, “mi calo” per essere pronto a dire, a fare, a pensare svelto e non dormire.
“Mi calo e basta tutto qui”.
Dieci, mille, diecimila a sbomballarsi, a muoversi in gruppo, in cerchio, in abissi capovolti, ma resi avventurosi, per l’incapacità di parlare, di fare i conti con le parole, che hanno un nome, una storia, persino una vita presa a calci nel sedere.
Questa nuova sostanza è peggio delle altre, non sei in giro come un tossico, additato e contuso dallo sdegno benpensante, no, è magica pasticca che consolida la tua presenza nel consorzio sociale, che nasconde il peso dell’impegno lavorativo, che rende più dolce la linea mediana di una vita banale.
Un nuovo stile di vita, tutti dentro un cubismo astratto, dove ognuno sbanda allegramente, per rendere meno assordante il dovere della puntualità, della costanza, della propria professionalità, in all’erta per l’inizio della nuova settimana, pungente e rancorosa per quella appena conclusa.
E’ necessario riflettere su come stanno emergendo queste nuove sostanze, nelle nuove resistenze sociali, non sempre riconducibili al disagio psicologico, al malessere sociale, a comportamenti violenti e deficit emozionali.
Noi adulti preferiamo conservare la nostra integrità e capacità di educare, caricando i nostri interventi sul versante antisociale dei giovani, ma non facciamo al problema droga un buon servizio di prevenzione, non capiamo che oggi, per la stragrande maggioranza dei ragazzi, “calarsi” è normale, semplice, non è protesta di alcuno né di alcunché, è solamente un modo per stare comodi, tra fatica e divertimento.
E’ semplice perché è lì a portata di mano, non è mai lontana dalle solitudini imposte dal mercato, non crea ansie di irreperibilità né di prestazione, è intesa come una normale e semplice sfida a morire nel silenzio più gettonato, quello degli adulti così irresponsabilmente predisposti a imitarne il distacco generazionale.
Il boom delle bocciature è solo un altro indizio, MA SI CONTINUA A BALLARE SUL TITANIC, Di Francesco Nembrini
Qualche giorno fa una cara amica mi ha raccontato la carriera scolastica del figlio quindicenne, un ragazzo normalissimo, capace quanto basta, con una famiglia giustamente preoccupata della sua educazione, senza grandi possibilità economiche, nel contesto di un paesotto alle porte di Bergamo. Elementari: funzionavano bene, almeno dal punto di vista organizzativo. Peccato che in cinque anni si siano alternate decine di insegnanti tutor e specialiste varie, così che il lavoro era sempre da ricominciare da capo. Medie: nel corso dei tre anni inserimento di 14 alunni stranieri analfabeti, abbassamento dei livelli minimi della programmazione, gravi difficoltà degli insegnanti a mantenere un minimo di disciplina. La famiglia supplisce: la mamma si improvvisa insegnante tutti i pomeriggi, recluta amici universitari per qualche ora di ripetizione. Risultato finale: un disastro. Il ragazzo dimentica quel poco che aveva imparato alle elementari, ma è comunque promosso insieme a tutti i suoi compagni. Iscrizione al primo anno dell’Istituto Tecnico locale, classe di trenta ragazzi. A Natale vengono sospesi in quindici per due settimane per gravi scorrettezze nel comportamento. Risultato finale: bocciato il 50% della classe, tutti gli altri con uno o più debiti.
Il commento amaro della madre: non sono arrabbiata perché l’hanno bocciato, è che gli hanno ammazzato la voglia di imparare, di diventar grande.
Non è una storia eccezionale: basta sostare in questi giorni davanti ai tabelloni dei voti di una qualsiasi scuola italiana e si avrà la conferma che quella storia è la fotografia impietosa di un intero sistema educativo che sta franando su se stesso. Per quindici giorni ne parleranno tv e giornali, tutti si stracceranno le vesti gridando allo scandalo e invocando con sdegno il ritorno alla serietà. Con qualche opinionista che, vista l’incredibile percentuale di bocciature, inneggerà al ritorno della selezione, invece che registrare un clamoroso fallimento. Come se un ospedale valutasse la bontà delle sue cure vantando un altissimo numero di decessi. Poi … tutti al mare, a discutere degli europei di calcio e a maledire il rincaro della benzina, mentre il Bel Paese sta beatamente avviandosi ad un declino irreversibile.
La diagnosi è chiara e condivisa, la terapia pure: da anni gli operatori della scuola indicano i provvedimenti più urgenti per arrestare il degrado: vera autonomia degli Istituti (cioè gestione autonoma del personale e dei fondi), un serio sistema di valutazione nazionale, ripensamento della formazione e della carriera degli insegnanti, una vera libertà di scelta da parte delle famiglie. In una parola: urge una forte iniezione di libertà e di responsabilità a tutti i livelli del sistema. O, per usare una parola finalmente introdotta nella Costituzione, una vera sussidiarietà. Senza la quale sarà impossibile creare le condizioni perché la scuola torni ad essere quello che deve essere: il luogo deputato all’educazione delle nuove generazioni. Perché di questo si tratta: di educare, cioè di offrire ai nostri ragazzi una chiara ipotesi di lavoro, ragioni adeguate per il sacrificio e la fatica , la condivisione paziente dei loro problemi e delle loro attese. Facendo bene quel che siamo chiamati a fare, che si tratti di studiare una poesia o una formula chimica. Servono maestri, testimoni di un bene e di una positività senza le quali non si può imparare niente. Perché nella scuola, come nella vita, l’istruzione è il mezzo, l’educazione è lo scopo. Molti tra noi ci credono ancora, e ci provano, e quel che funziona ancora lo si deve al loro eroismo. Allo Stato e alla politica il compito di difenderli, valorizzarli, dotarli di strumenti e risorse adeguati: questa è la sussidiarietà che serve alla scuola.
La Sierra Leone è il Paese più povero ed arretrato del mondo, con gli indici più bassi rispetto a tutti gli indicatori di sviluppo (mortalità infantile, istruzione, reddito e quant’altro). Sto aiutando in quel Paese la nascita di una scuola cattolica gestita da un missionario saveriano, ed ho scoperto con mia grande sorpresa che gli insegnanti saranno pagati dallo Stato. Ho chiesto al ministro della Pubblica Istruzione: “ Ma com’è che, in un Paese dove si muore di fame e di malaria, vi permettete il lusso di pagare gli insegnanti delle scuole cattoliche?” . Risposta: “Mi scusi, ma in un Paese conciato così, da dove si può ripartire se non dall’educazione?”. L’ho invitato a venire in Italia, per spiegare la cosa al nuovo governo e ad un migliaio di parlamentari. Dove non si ascoltano gli appelli del Papa e del Presidente della Repubblica, potrebbe far breccia il ministro della Sierra Leone!
Francesco Nembrini
Diciamola tutta: è un`emergenza antropologica E` IN GIOCO PERSINO IL MODO DI FARE IL PANE
Il tema dell’emergenza educativa compare costantemente tra le preoccupazioni del Santo Padre. Leggendo tra le righe, si potrebbe dire che si tratta della preoccupazione fondamentale, del problema principale, dal quale dipende una gran parte degli altri problemi.
Dire “emergenza educativa” è lo stesso che dire “emergenza umana”, o “antropologica”, e sarebbe bene, di tanto in tanto, richiamare questa equivalenza, perché ci aiuterebbe a evitare un equivoco: quello di illuderci che, per affrontare questa emergenza, siano sufficienti una buona riforma (a patto che ci sia qualcuno in grado di farla senza produrre nuovi danni), uno stanziamento straordinario di fondo o altri provvedimenti politici.
Venti, trenta, quarant’anni fa chi cominciava a intravedere i disastri del sistema scolastico italiano si adoperò - lottando spesso contro tutto e tutti - per la costruzione di un sistema scolastico alternativo e per il suo riconoscimento in termini contrattuali e fiscali. Si cominciò a parlare di libertà di educazione, e a buon titolo: un sistema scolastico che prendeva in ostaggio i ragazzi, facendone le cavie di un progetto educativo che niente aveva a che vedere con i valori nei quali le famiglie li avevano cresciuti, metteva a repentaglio innanzitutto la libertà del cittadino. Il quale ha tutto il diritto di crescere i figli secondo la propria visione della realtà, nella certezza che qualunque modello educativo, se rispettoso dei principi della democrazia, può diventare un fattore positivo di crescita per tutta la società.
Oggi, però, i termini della questione si sono spostati. Se i vecchi termini inserivano il problema in una visione essenzialmente italiana del problema, l’evidenza dei fatti odierni ne mostra la natura globale.
Cosa significa “emergenza educativa”? Significa che un’intera civiltà, caratterizzata da un immenso patrimonio di conoscenze e di valori, vede scemare di giorno in giorno la propria capacità di trasmettere queste conoscenze e questi valori alle generazioni successive.
Il problema riguarda tutto: dall’uso corretto del cacciavite allo studio delle particelle elementari, dal “due più due quattro” al “non uccidere”, fino alle ragioni per cui vivere è meglio che morire, e conoscere è meglio che ignorare. L’emergenza educativa non riguarda solo la scuola, ma anche il modo di fare il pane, lo smaltimento dei rifiuti, il rapporto tra economia e finanza, la produzione letteraria - insomma: tutto.
L’espressione “emergenza educativa”, mettendo in evidenza il rischio di un suicidio di tutta la nostra civiltà, riguarda perciò tutta la responsabilità di un uomo verso il futuro, o meglio: verso ciò che gli antichi, con maggior esattezza, chiamavano il destino. Il che vale, dunque, anche per chi non insegna e non ha figli.
La tragedia degli anni a venire potrebbe essere questa: l’affermarsi di un tipo d’uomo insensibile al destino, programmato per mangiare bere dormire e riprodursi (in modo controllato) e per ricevere soddisfazione da qualche moderato piacere, tra cui, perché no?, anche i piaceri dello spirito.
Il giorno in cui dovremo spiegare ai nostri figli perché non è bene sgozzare il compagno di banco, perché non è giusto minacciare un uomo col coltello per prendere i suoi soldi o perché è immorale frodare chi fatica a risparmiare due soldi, è molto vicino. E sarà un bruttissimo giorno, perché quel giorno scopriremo che non si danno spiegazioni di queste cose. Quando cominciano ad affiorare certi “perché”, o certi “perché no?”, vuol dire che la partita è già finita.
Io ripeto sempre che in Russia la stragrande maggioranza dei giovani non sa cosa è accaduto ai loro nonni e zii, non sa dei cento milioni di morti con cui quei nonni e quegli zii hanno pagato il comunismo e la guerra. La ragione semplice per cui non lo sanno è che i loro genitori non gliel’hanno detto, e non gliel’hanno detto perché ancora oggi si vergognano di quello che è successo.
Per noi è lo stesso. Ma la nostra vergogna è più profonda, perché noi non ci siamo fatti complici di eccidi e di massacri: semplicemente, stiamo dimenticando chi siamo, e quindi non ci è più chiaro da quale forza sono nati Dante, Leonardo o la relatività.
Anche per comunicare la più elementare delle conoscenze, infatti, è necessario rispondere alla domanda: chi sono io?
Per questo possiamo dire che, in gioco, non ci sono soltanto l’università e la scuola, ma l’uomo come tale.
Luca Doninelli
A Lambeth il cardinale Kasper invoca un nuovo Newman
Cioè il più illustre dei grandi convertiti alla Chiesa di Roma. L'inviato del papa alla conferenza dei vescovi anglicani chiede loro di tornare al modello della Chiesa apostolica. No a donne vescovo e a vescovi gay. Il testo integrale del discorso
di Sandro Magister
ROMA, 31 luglio 20087 – Alla Conferenza di Lambeth, l'incontro decennale tra i vescovi della comunione anglicana di tutto il mondo, ha preso ieri la parola il cardinale Walter Kasper, presidente del pontificio consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani.
Più sotto è riportato il testo integrale del suo intervento. Kasper ha messo in evidenza le crescenti divaricazioni tra la Chiesa cattolica e la comunione anglicana, specie da quando in alcune province anglicane, a partire dal 1974, delle donne sono ordinate al sacerdozio e, a partire dal 1989, all'episcopato.
Un altro motivo di divaricazione sottolineato da Kasper riguarda l'autorizzazione a benedire le unioni omosessuali e l'ordinazione a vescovi di persone che vivono in coppia con persone dello stesso sesso.
Ma, oltre che con la Chiesa di Roma, queste decisioni hanno creato drammatiche divisioni anzitutto dentro la comunione anglicana. Le più forti opposizioni vengono dal Sud del mondo, specialmente dall'Africa. Delle 44 province che compongono la comunione anglicana – ha fatto notare Kasper – 28 ordinano delle donne al sacerdozio e 17 ammettono l'ordinazione delle donne anche all'episcopato. Le altre no. Ogni provincia decide per sé e si contrappone a quelle che decidono diversamente. Al punto che – sono sempre parole di Kasper – "un significativo numero di vescovi anglicani ha deciso di neppure partecipare alla Conferenza di Lambeth".
La frantumazione dentro la comunione anglicana è tale che Kasper si chiede:
"In un simile scenario, [...] chi sarà il nostro interlocutore nel dialogo? Dobbiamo impegnarci, e come, in colloqui appropriati e trasparenti anche con chi condivide le visioni cattoliche sui punti attualmente controversi, e con chi è in disaccordo con alcuni sviluppi dentro la comunione anglicana o alcune province particolari?".
In effetti, il passaggio alla Chiesa cattolica è uno sbocco frequente, per coloro che nella comunione anglicana non accettano l'ordinazione delle donne e la legittimazione dell'omosessualità.
Ma l'attrazione esercitata dal cattolicesimo è anche di carattere più generale. Ha a che fare con una concezione complessiva della Chiesa e della tradizione cristiana dai tempi apostolici a oggi, che alcuni vedono più fedelmente realizzata nella Chiesa cattolica.
Il cardinale Kasper, nella sua relazione, ha ricordato i "motivi ecclesiologici" che convinsero ad abbracciare il cattolicesimo il più celebre dei convertiti dell'Ottocento, il cardinale John Henry Newman. Ed ha auspicato che nell'anglicanesimo di oggi rinasca un nuovo Oxford Movement, il movimento di ritorno alla tradizione della Chiesa apostolica di cui Newman fu ispiratore.
Dal 1980, da quando la Chiesa di Roma ha fissato delle regole per il passaggio al cattolicesimo di uomini ordinati al sacerdozio o all'episcopato nella comunione anglicana, si calcola che siano più di 80 coloro che hanno compiuto tale passaggio, spesso seguiti da porzioni cospicue delle rispettive diocesi e parrocchie.
L'ultimo rito di accoglienza di un ministro anglicano nella Chiesa cattolica è avvenuto in forma privata lo scorso 1 dicembre a Roma, nella basilica papale di Santa Maria Maggiore.
Da una parte c'era il cardinale arciprete della basilica, l'americano Bernard Law. Dall'altra l'ex anglicano (o episcopaliano, come si usa dire negli Stati Uniti) Jeffrey Steenson, già vescovo della diocesi del Rio Grande, che copre il New Mexico e parte del Texas, accompagnato al rito dall'arcivescovo cattolico di Santa Fe, Michael J. Sheehan.
Steenson, 55 anni, sposato con tre figli, è stato di nuovo ordinato prete nella Chiesa cattolica, che non riconosce come valide le ordinazioni anglicane. E insegnerà nei seminari patrologia, materia di cui è esperto.
Una decina di altri ministri episcopaliani degli Stati Uniti sono in attesa di essere accolti come preti nella Chiesa cattolica. Tra loro tre vescovi emeriti: John Lipscomb della diocesi della Florida del Sudest, Clarence Pope di Forth Worth e Daniel Herzog di Albany.
Ma dentro la comunione anglicana i simpatizzanti per la Chiesa di Roma sono molti di più di quelli che "passano il Tevere" e si convertono.
Ad esempio, ha dato voce a questi sentimenti anglocattolici, a Sydney, il vescovo anglicano Robert Forsyth, che lo scorso 18 luglio, accogliendo Benedetto XVI nella sua città, ha definito la Chiesa di Roma "uno scoglio fra le rapide". Ed ha spiegato:
"Se non fosse stato per la sua forte insistenza su Cristo come unico Salvatore del mondo, sulla fede cattolica, sulla natura del Dio trino, la divinità di Cristo, la centralità e la supremazia della Sacra Scrittura e il carattere oggettivo della moralità cristiana, la vita delle altre Chiese cristiane sarebbe stata molto più difficile, specialmente qui in Occidente".
È australiano anche l'arcivescovo John Hepworth, primate della Traditional Anglican Communion, un ramo dell'anglicanesimo che ha proposto formalmente alla Santa Sede di entrare in "unità corporativa" con la Chiesa cattolica. Il 25 luglio il nunzio apostolico in Australia, Giuseppe Lazzarotto, ha consegnato a Hepworth una lettera del cardinale William Levada, prefetto della congregazione per la dottrina della fede, nella quale si assicura che la Santa Sede esaminerà la proposta con "seria attenzione". La Traditional Anglican Communion conta circa 400 mila membri, in numerosi paesi.
Ecco dunque qui di seguito – nella traduzione italiana curata da "L'Osservatore Romano" – la relazione del cardinale Kasper alla Conferenza di Lambeth, letta il 30 luglio 2008:
Riflessioni cattolico-romane sulla Comunione Anglicana
di Walter Kasper
Ho il privilegio di trasmettere all’arcivescovo di Canterbury, il dottor Rowan Williams, a ognuno dei presenti e a tutti i partecipanti a questa importantissima Conferenza di Lambeth i saluti di Papa Benedetto XVI e di tutti membri del Pontifico Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani. Tutti noi vi siamo accanto in questi giorni. Siamo con voi nei nostri pensieri e nelle nostre preghiere e desideriamo esprimere profonda solidarietà per le vostre gioie, le vostre preoccupazioni e le vostre pene.
Permettetemi di cominciare ringraziando l’arcivescovo di Canterbury e quanti coordinano i rapporti ecumenici presso il Lambeth Palace e l’Anglican Communion Office per l’invito a partecipare a questo importante incontro e per l’opportunità di offrire alcune riflessioni sulle nostre comuni preoccupazioni. È un punto di forza dell’anglicanesimo il fatto che, anche in circostanze difficili, avete chiesto le opinioni e i punti di vista degli interlocutori ecumenici, anche se non siete stati particolarmente lieti di quanto abbiamo detto. Tuttavia siate certi del fatto che ciò che sto per dire lo dirò da amico.
Quando ho visto l’argomento che avete proposto «Riflessioni cattolico-romane sulla Comunione Anglicana» ho pensato che avreste potuto sceglierne uno più facile. È un titolo di ampio respiro che comprende molti aspetti della storia e della dottrina e io posso affrontarne solo alcuni. Tuttavia, mi sembra che vi sia una questione nascosta nel titolo che non è interessato tanto a cosa i cattolici pensano della Comunione Anglicana quanto a cosa pensano della Comunione Anglicana nelle attuali circostanze. Esistono decisamente argomenti meno scomodi.
Il mio intervento è suddiviso nelle seguenti tre parti: una descrizione dei nostri rapporti negli ultimi anni, considerazioni di natura ecclesiologica alla luce della situazione attuale nell’anglicanesimo e una breve riflessione sulle questioni alla base delle attuali controversie e dei motivi di scontro in seno all’anglicanesimo, in particolare su quelle che hanno anche avuto conseguenze sui vostri rapporti con la Chiesa cattolica.
Infine, risponderò a una domanda piuttosto inaspettata che mi ha posto alcuni mesi fa l’arcivescovo di Canterbury. Quella domanda mi ha confuso molto, eccola: che tipo di anglicanesimo vuoi? Che domanda! Spero che conosciate la risposta giusta! E poi: quali sono le speranze della Chiesa cattolica per la Comunione Anglicana nei prossimi mesi e anni? In questo caso la risposta è più facile: speriamo di non venire messi da parte e di poter continuare ad avere un dialogo serio alla ricerca della piena unità affinché il mondo creda.
I. Descrizione dei rapporti negli ultimi anni
In questa prima parte permettetemi di rinfrescarvi la memoria per non dimenticare che cosa e quanto abbiamo già raggiunto negli ultimi quarant’anni. Quando il concilio Vaticano ii, nel suo decreto sull’ecumenismo, prestò attenzione alle numerose «Comunioni sia nazionali sia confessionali» che «si separarono dalla Sede romana» nel XVI secolo, riconobbe che «tra quelle nelle quali continuano a sussistere in parte le tradizioni e le strutture cattoliche, occupa un posto speciale la Comunione Anglicana» (Unitatis redintegratio, n. 13). Questa dichiarazione si basa su un’idea ecclesiologica secondo la quale dal punto di vista cattolico la comunione anglicana ha elementi significativi della Chiesa di Gesù Cristo. Nella loro Dichiarazione Comune del 1977 l’arcivescovo di Canterbury Donald Coggan e Papa Paolo VI identificarono alcuni di quegli elementi ecclesiali e scrissero:
«Da quando la Chiesa cattolica romana e le Chiese che formano la Comunione Anglicana hanno cercato di crescere nella mutua intesa e nell’amore cristiano, esse sono giunte a riconoscere, valutare e rendere grazie per una comune fede in Dio nostro Padre, nel nostro Signore Gesù Cristo e nello Spirito Santo, per il nostro comune battesimo in Cristo, per la nostra partecipazione alle Sacre Scritture, ai Simboli apostolico e niceno, alla definizione calcedonense e all’insegnamento dei Padri, per la nostra comune e plurisecolare eredità cristiana con le sue viventi tradizioni di liturgia, teologia, spiritualità e missione».
In questo testo, l’arcivescovo Coggan e Papa Paolo VI indicano il terreno comune, la fonte comune e il centro della nostra unità già esistente, ma ancora incompleta: Gesù Cristo e la missione di annunciarlo a un mondo così disperatamente bisognoso di Lui. Non parliamo di un’ideologia, di un’opinione personale condivisibile o meno. Parliamo della nostra fedeltà a Cristo, testimoniata dagli apostoli, e al suo Vangelo che ci è stato affidato. Quindi, fin dall’inizio dovremmo ricordare che cosa è in gioco mentre continuiamo a parlare della fedeltà alla tradizione e alla successione apostoliche, quando parliamo del triplice ministero, dell’ordinazione delle donne e dei comandamenti morali. Non stiamo parlando d’altro che della nostra fedeltà a Cristo stesso, che è il nostro unico e comune maestro. E cos’altro può essere il nostro dialogo se non un’espressione del nostro intento e del nostro desiderio di essere pienamente una sola cosa in Lui al fine di essere testimoni totalmente uniti del suo Vangelo?
Si è spesso detto, e vale la pena ribadirlo, che il dialogo è stato reso dinamico dal desiderio di restare fedeli alla volontà espressa da Cristo che i suoi discepoli fossero una cosa sola, proprio come egli è una cosa sola con il Padre, e che questa unità si legasse direttamente alla missione di Cristo, la missione della Chiesa, per il mondo: che siano una cosa sola perché il mondo creda. Le divisioni fra noi hanno gravemente ostacolato la nostra testimonianza e la nostra missione ed è stato per fedeltà a Cristo che ci siamo impegnati in un dialogo basato sul Vangelo e sulle antiche comuni tradizioni con l’obiettivo della piena unità visibile. Tuttavia, la piena unità non è stata e non è tuttora un fine in sé, ma è un segno e uno strumento di ricerca dell’unità con Dio e della pace nel mondo.
Pensando a questo, quando ricordiamo gli obbiettivi raggiunti dalla Commissione Internazionale Anglicana Cattolica Romana (Arcic) nel corso di circa quattro decenni, possiamo affermare con fiducia che ha veramente recato buoni frutti. In una prima fase l’Arcic (1970-1981) affrontò i temi "Dottrina sull’eucaristia" (1971) e "Ministero e ordinazione" (1973), e, per entrambi gli argomenti, sostenne di aver raggiunto un accordo sostanziale.
La risposta ufficiale cattolica (1991), pur richiedendo uno studio ulteriore su entrambi gli argomenti, definì quei testi «significative pietre miliari» attestanti «il raggiungimento di punti di convergenza e perfino di accordo che molti avrebbero ritenuto impossibile raggiungere prima che la Commissione cominciasse a lavorare». Le autorità cattoliche ritennero che il documento "Chiarificazioni su eucaristia e ministero" (1993), redatto dai membri della commissione, avesse «rafforzato molto l’accordo su certi argomenti». La prima fase dell’Arcic produsse anche due dichiarazioni sul tema "Autorità nella Chiesa" (1976, 1981), tema al centro delle divisioni del XVI secolo.
Sebbene i testi della seconda fase dell’Arcic (1983-2005) non siano stati presentati, per una risposta formale, nella Chiesa cattolica né nella Comunione Anglicana, e non abbiano portato a una risoluzione definitiva o a un pieno consenso sulle questioni affrontate, ognuno di loro ha suggerito un crescente riavvicinamento. Il documento "La salvezza e la Chiesa" (1986) è per molti versi in sintonia con la Dichiarazione Comune sulla Dottrina della Giustificazione, firmata dalla Chiesa cattolica e dalla Federazione Luterana Mondiale nel 1999. Basandosi sull’idea ecclesiale di koinonìa proposta per la prima volta nell’introduzione del Rapporto finale dell’Arcic I, l’Arcic II ha presentato il suo lavoro più maturo sull’ecclesiologia in "La Chiesa come Comunione" (1991).
Il documento "Vita in Cristo" (1994) è riuscito a individuare una visione condivisa e un’eredità comune di insegnamento etico, nonostante le diverse applicazioni pastorali dei principi morali. "Il dono dell’autorità" (1998) ha ripreso il tema dell’autorità e ha compiuto importanti progressi sulla necessità di un ministero universale di primato nella Chiesa. "Maria: grazia e speranza in Cristo" (2004) ha compiuto importanti passi avanti verso una idea comune della Beata Vergine Maria.
Come ben sapete, l’ordinazione delle donne al sacerdozio in alcune province anglicane, a cominciare dal 1974, e all’episcopato, dal 1989, ha complicato molto i rapporti fra la Comunione Anglicana e la Chiesa cattolica. Ritornerò sul tema a tempo debito. Pensando a questo ostacolo e cercando di determinare che cosa fosse in ogni caso possibile nella promozione dei nostri rapporti, fu presa un’iniziativa importante non molto tempo dopo l’ultima conferenza di Lambeth.
Nel maggio del 2000, il mio predecessore, il cardinale Edward Idris Cassidy, e l’arcivescovo George Carey, invitarono tredici primati anglicani e i presidenti delle Conferenze episcopali cattoliche, o i loro rappresentanti, a Mississagua, in Canada, per valutare quanto raggiunto nel dialogo dell’Arcic, e per offrire, alla luce dei risultati positivi e delle difficoltà che avevano contraddistinto i nostri rapporti, raccomandazioni per eventuali, ulteriori progressi.
Ho partecipato a numerosi incontri ecumenici e sono lieto di affermare che quello fu uno dei migliori a cui abbia mai preso parte. Lo spirito di preghiera e di amicizia, la seria riflessione non solo sull’opera dell’Arcic, ma anche sui rapporti ecumenici in ogni particolare regione rappresentata, il desiderio profondo di riconciliazione che pervase l’incontro di Mississagua rinnovarono la speranza di un significativo progresso nei rapporti fra la Comunione Anglicana e la Chiesa Cattolica.
Uno dei risultati dell’incontro di Mississagua è stato la creazione della Commissione Anglicana-Cattolica Romana per l’Unità e la Missione (Iarccum), principalmente composta da vescovi. Nello scorso fine settimana di questa Conferenza di Lambeth avete studiato la dichiarazione della Iarccum Crescere insieme in unità e missione. Sintetizzando l’opera dell’Arcic questo documento presenta la valutazione della Commissione dei risultati del nostro dialogo e individua le questioni ancora da affrontare.
Negli ultimi quarant’anni non ci siamo solo impegnati insieme nel dialogo teologico. Si è infatti creato uno stretto rapporto di collaborazione fra anglicani e cattolici, non solo a livello internazionale, ma anche in molti contesti regionali e locali. Come hanno osservato Papa Benedetto XVI e l’arcivescovo Williams nella Dichiarazione Comune del novembre 2006: «Mentre il dialogo si sviluppava, molti cattolici e anglicani hanno trovato gli uni negli altri un amore per Cristo che ci invita a una cooperazione e a un servizio concreti. Questa comunanza nel servizio di Cristo, sperimentata da molte delle nostre comunità in tutto il mondo, aggiunge ulteriore impulso ai nostri rapporti».
Invero, non è affatto una piccola cosa quella che abbiamo raggiunto e che ci è stata concessa in anni di dialogo nell’Arcic e nella Iarccum. Siamo grati per l’opera di queste commissioni e noi cattolici non vogliamo che tali risultati vadano perduti. Di fatto desideriamo proseguire lungo questo cammino e portare a compimento quanto iniziato quarant’anni fa.
A maggior ragione, fedele a ciò che credo Cristo desideri e, aggiungerei, con la sincerità che l’amicizia permette, mi rattrista osservare i problemi in seno alla Comunione Anglicana emersi e divenuti più gravi dall’ultima Conferenza di Lambeth e le ripercussioni di natura ecumenica di tali tensioni interne. Nella seconda parte di questo intervento desidero affrontare una serie di aspetti ecclesiologici derivanti dall’attuale situazione nella Comunione Anglicana e sollevare alcune questioni complesse e scottanti.
Tuttavia prima desidero ripetere quanto dissi nel novembre 2006 all’arcivescovo di Canterbury, giunto a Roma per fare visita a Papa Benedetto XVI: «Le questioni e i problemi dei nostri amici sono anche questioni e problemi nostri». Quindi sollevo tali questioni non da giudice, ma da interlocutore ecumenico che è profondamente scoraggiato dai recenti sviluppi e che desidera offrirvi una riflessione onesta, dal punto di vista cattolico, su come e dove possiamo progredire nella situazione attuale.
II. Considerazioni ecclesiologiche
In questa seconda parte non voglio fare una dissertazione magisteriale sull’ecclesiologia. Desidero ricordarvi ancora una volta alcune intuizioni comuni degli ultimi decenni che possono, o dovrebbero, essere utili nel trovare un modo di proseguire, che si spera comune.
Le questioni ecclesiologiche sono state a lungo un motivo grave di scontro fra le nostre due comunità. Già da giovane studente analizzavo tutte le argomentazioni ecclesiologiche di John Henry Newman, che lo spinsero a diventare cattolico. Le sue principali preoccupazioni riguardavano l’apostolicità nella comunione con la sede di Pietro come custode della tradizione apostolica e dell’unità della Chiesa. Penso che i suoi interrogativi siano ancora attuali e che il dibattito non sia ancora esaurito.
Mentre Newman affrontava la Chiesa d’Inghilterra della sua epoca, oggi ci troviamo di fronte a ulteriori problemi nella Comunione Anglicana, composta da quarantaquattro Chiese nazionali e regionali, ognuna dotata di auto-governo. L’indipendenza senza una sufficiente interdipendenza è divenuta ora un problema grave.
Due anni fa, la dichiarazione della Iarccum "Crescere insieme nell’unità e nella missione" affrontò la situazione in seno alla Comunione Anglicana e le sue implicazioni di natura ecumenica come segue: «Dopo l’incontro di Mississagua le Chiese della Comunione Anglicana sono entrate in una fase caratterizzata da dispute scatenate dall’ordinazione episcopale di una persona pubblicamente impegnata in un rapporto con un’altra persona del suo stesso sesso e dall’autorizzazione di riti pubblici per la benedizione di unioni omosessuali. Tali questioni hanno promosso la riflessione sulla natura del rapporto fra le Chiese della Comunione [...] Inoltre, i rapporti ecumenici sono divenuti più complicati perché le proposte in seno alla Chiesa d’Inghilterra hanno richiamato l’attenzione sulla questione dell’ordinazione delle donne all’episcopato, che è una pratica ministeriale consolidata in alcune province anglicane» (cfr 6).
Oltre agli sviluppi relativi a questo ultimo punto, dobbiamo tener conto della decisione di un numero significativo di vescovi anglicani di non partecipare alla Conferenza di Lambeth e delle proposte interne all’anglicanesimo che stanno sfidando gli strumenti esistenti di autorità in seno alla Comunione Anglicana.
Nella prossima parte, affronterò alcune questioni più direttamente, ma qui voglio concentrarmi in modo specifico sulla dimensione ecclesiologica di questi problemi attuali, facendo riferimento a quanto abbiamo detto insieme sulla natura della Chiesa, e alle iniziative della Comunione Anglicana per affrontare queste dispute interne.
Nel marzo 2006, l’arcivescovo di Canterbury mi ha invitato a intervenire a un incontro della Camera dei vescovi della Chiesa d’Inghilterra sulla missione dei vescovi nella Chiesa. Sebbene alla base di quell’intervento ci fosse l’eventuale ordinazione delle donne all’episcopato, il tema centrale, ossia la natura dell’ufficio episcopale quale ufficio di unità, era importante per tutti i motivi di tensione nella Comunione Anglicana che ho individuato in precedenza.
In breve, dissi che l’unità, l’unanimità e la koinonìa («comunione») sono concetti fondamentali nel Nuovo Testamento e nella Chiesa primitiva. Affermai: «Fin dall’inizio l’ufficio episcopale fu koinonialmente e collegialmente integrato nella comunione di tutti i vescovi. Non è mai stato percepito come un ufficio da intendere come individuale o da esercitare individualmente». Poi affrontai il tema della teologia dell’ufficio episcopale di un Padre della Chiesa di grande importanza per gli anglicani e per i cattolici, il vescovo martire Cipriano di Cartagine vissuto nel iii secolo.
Molto nota è la sua frase «episcopatus unus et indivisus». Questa frase fa parte di una pressante ammonizione di Cipriano ai suoi compagni vescovi: «Quam unitatem tenere firmiter et vindicare debemus maxime episcopi, qui in ecclesia praesidimus, ut episcopatum quoque ipsum unum atque indivisum probemus». («E questa unità dobbiamo fermamente mantenere e affermare, soprattutto noi vescovi, che presiediamo nella Chiesa, per dimostrare che anche l’episcopato è uno e indiviso»). Questa pressante esortazione è seguita da un’interpretazione precisa della dichiarazione episcopatus unus et indivisus. «Episcopatus unus est cuius a singulis in solidum pars tenetur» («L’episcopato è uno solo e ogni sua parte è mantenuta da ognuno per il tutto», De ecclesiae catholicae unitate, n. I, 5).
Tuttavia, Cipriano compie un passo ulteriore: non solo evidenzia l’unità del popolo di Dio con il proprio vescovo, ma aggiunge anche che nessuno dovrebbe immaginare che egli sia in comunione solo con alcuni, perché «la Chiesa cattolica non è separata o divisa», ma «unita e tenuta insieme dal collante della coesione reciproca dei vescovi» (Epistulae, 66, 8). Questa collegialità di certo non si limita al rapporto orizzontale e sincronico con collegi episcopali contemporanei. Infatti, poiché la Chiesa è una e la stessa in tutti i secoli, quella attuale deve mantenere il consenso diacronico con l’episcopato dei secoli precedenti e, soprattutto, con la testimonianza degli apostoli. Questo è il significato più profondo della successione apostolica nell’ufficio episcopale.
L’ufficio episcopale è quindi un ufficio di unità in un duplice senso. I vescovi sono segno e strumento di unità in seno alla singola Chiesa locale, proprio come lo sono fra le chiese locali contemporanee e quelle di tutti i tempi nella Chiesa universale.
Quest’idea di ufficio episcopale è stata presentata nelle dichiarazioni dell’Arcic, in particolare in Chiesa come comunione e nelle dichiarazioni dell’Arcic sull’autorità della Chiesa. Chiesa come comunione (cfr n. 45) afferma: «per alimentare e accrescere questa comunione, Cristo, il Signore, ha fornito un ministero di supervisione, la cui pienezza è affidata all’episcopato, che ha la responsabilità di mantenere ed esprimere l’unità delle Chiese (cfr nn. 33 e 39; Rapporto finale, Ministero e ordinazione). Governando, insegnando e amministrando i Sacramenti, in particolare l’Eucaristia, questo ministero tiene uniti i credenti nella comunione della Chiesa locale e nella più ampia comunione di tutte le Chiese (cfr n. 39). Questo ministero di supervisione ha dimensioni sia collegiali sia primaziali. Si fonda sulla vita della comunità ed è aperto alla partecipazione di quest’ultima alla scoperta della volontà di Dio. Viene esercitato affinché unità e comunione siano espresse, tutelate e promosse a ogni livello, locale, regionale e universale.
La stessa dichiarazione esprime l’idea, sia anglicana sia cattolica romana, che i vescovi svolgono il proprio ministero succedendo agli apostoli, il che serve ad «assicurare a ogni comunità che la sua fede sia di fatto la fede apostolica, ricevuta e trasmessa dai tempi apostolici» (Chiesa come comunione, n. 33).
Il documento dell’Arcic "Il dono dell’autorità" ha sviluppato ulteriormente questo concetto affermando: «Esistono due dimensioni di comunione nella tradizione apostolica: quella diacronica e quella sincronica. Il processo di tradizione implica ovviamente la trasmissione del Vangelo da una generazione all’altra (dimensione diacronica). Se la Chiesa deve restare unita nella verità, deve anche implicare la comunione delle Chiese in tutti i luoghi in quell’unico Vangelo (dimensione sincronica). Entrambe le dimensioni sono necessarie alla cattolicità della Chiesa» (cfr 26).
Il testo aggiunge che ogni vescovo, in comunione con tutti gli altri vescovi, ha la responsabilità di tutelare ed esprimere la più ampia koinonìa della Chiesa, e «partecipa alla sollecitudine di tutte le Chiese» (cfr n. 39). Il vescovo è dunque «sia una voce per la Chiesa locale sia una persona mediante la quale la Chiesa locale impara da altre chiese» (n. 38). Il documento "Il dono dell’autorità" (n. 37) sottolinea il ruolo svolto dal collegio episcopale nel mantenere l’unità della Chiesa: «L’ interdipendenza reciproca di tutte le Chiese è organica alla realtà della Chiesa come Dio vuole che sia. Nessuna Chiesa locale che partecipi alla tradizione viva può considerarsi autosufficiente. Il ministero del vescovo è cruciale perché serve la comunione in seno alle Chiese locali e fra loro. La loro comunione reciproca è espressa dall’incorporazione di ogni vescovo in un collegio episcopale. I vescovi sono, sia personalmente sia collegialmente, al servizio della comunione».
Sebbene non ci sia tempo per parlare di più dell’ecclesiologia dell’Arcic, è sufficiente dire che nel nostro dialogo siamo riusciti a esporre un’idea incisiva del ministero episcopale nel contesto di un concetto condiviso di Chiesa come koinonìa.
È significativo che il Rapporto di Windsor del 2004, nel tentativo di offrire alla Comunione Anglicana fondamenti ecclesiologici per affrontare la crisi attuale, abbia adottato un’ecclesiologia di koinonìa. L’ho trovato utile e incoraggiante e in risposta alla lettera dell’arcivescovo di Canterbury che invita a una reazione ecumenica al Rapporto di Windsor ho osservato che «nonostante questioni ecclesiologiche sostanziali ci dividano ancora e meritino la nostra attenzione, questo approccio è fondamentalmente in linea con l’ecclesiologia di comunione del concilio Vaticano II.
Le conseguenze che il Rapporto trae da questa base ecclesiologica sono anche costruttive, in particolare l’interpretazione dell’autonomia provinciale in termini di interdipendenza, quindi «soggetta ai limiti derivanti dagli impegni di comunione» (Windsor, n. 79). A questo si collega l’impulso del Rapporto a rafforzare e l’autorità sopraprovinciale dell’arcivescovo di Canterbury (nn. 109-110) e la proposta di una Alleanza Anglicana che renda «espliciti e vigorosi la lealtà e i vincoli di affetto che dominano i rapporti fra le Chiese della Comunione» (n. 118).
L’unica debolezza che ho rilevato in questa ecclesiologia è che «sebbene il Rapporto sottolinei che le province anglicane debbano essere responsabili le une verso le altre e responsabili del mantenimento della comunione, una comunione radicata nelle Scritture, si presta un’attenzione decisamente scarsa all’importanza di essere in comunione con la fede della Chiesa nel corso dei secoli». Nel nostro dialogo abbiamo affermato congiuntamente che le decisioni di una Chiesa locale o regionale non devono solo promuovere la comunione nel contesto attuale, ma anche essere in sintonia con la Chiesa del passato, e in particolare, con la Chiesa apostolica così come è attestata dalle Scritture, dai primi concili e dalla tradizione patristica. Questa dimensione diacronica di apostolicità «ha importanti ramificazioni ecumeniche poiché condividiamo una tradizione comune di un millennio e mezzo. Tale patrimonio comune, che Papa Paolo VI e l’arcivescovo Michael Ramsey hanno definito “antiche tradizioni comuni”, è degno di essere interpellato e tutelato».
Alla luce di quest’analisi del ministero episcopale da parte dell’Arcic e dell’ecclesiologia di koinonìa contenuta nel Rapporto di Windsor, è stato particolarmente sconfortante assistere alle crescenti tensioni in seno alla Comunione Anglicana. In diversi contesti, i vescovi non sono in comunione con altri vescovi; in alcuni casi le province anglicane non sono più in piena comunione le une con le altre. Sebbene il processo di Windsor prosegua e l’ecclesiologia proposta dal Rapporto di Windsor sia stata accolta in via di principio dalla maggioranza delle province anglicane, è difficile dal nostro punto di vista comprendere come questo si sia tradotto nell’auspicato rafforzamento interno della Comunione Anglicana e dei suoi strumenti di unità. Ci sembra anche che l’impegno della Comunione Anglicana a essere «episcopalmente guidata e sinodalmente governata» non è sempre riuscito a mantenere l’apostolicità di fede e che il governo sinodale, malinteso come una specie di processo parlamentare, abbia a volte bloccato quella guida episcopale auspicata da Cipriano e formulata nell’Arcic.
So che molti di voi sono preoccupati, alcuni anche profondamente, dalla minaccia di frammentazione in seno alla Comunione Anglicana. Siamo profondamente solidali con voi perché anche noi siamo preoccupati e rattristati quando ci chiediamo: «In questo scenario, che forma potrà assumere la Comunione Anglicana di domani, e chi sarà il nostro interlocutore? Dovremmo, e in che modo potremmo, impegnarci appropriatamente e onestamente in dialoghi anche con quanti condividono il punto di vista cattolico nella Comunione Anglicana o in particolari province anglicane? Che cosa vi aspettate in questa situazione dalla Chiesa di Roma, che secondo quanto afferma Ignazio di Antiochia, deve presiedere sulla Chiesa con amore? In che modo l’opera dell’Arcic sull’episcopato, l’unità della Chiesa e la necessità di un esercizio di primazia a livello universale potrebbero aiutare la Comunione Anglicana in questo momento?».
Invece di rispondere a questi interrogativi, permettetemi di ricordarvi quanto abbiamo affermato durante i colloqui informali nel 2003 e da allora abbiamo ripetuto in diverse occasioni: «È nostro grande desiderio che la Comunione Anglicana sia unita, radicata in quella fede storica che il nostro dialogo e i nostri rapporti nel corso di quattro decenni ci hanno portato a credere sia condivisa in ampio grado». Quindi, seguiamo i dibattiti di Lambeth con grande interesse e sincera sollecitudine, accompagnandoli con la nostre fervide preghiere.
III. Riflessioni su questioni che la Comunione Anglicana deve affrontare
In questa parte finale, desidero affrontare brevemente due questioni al centro delle tensioni in seno alla Comunione Anglicana e ai suoi rapporti con la Chiesa Cattolica: l’ordinazione delle donne e la sessualità umana. Non è necessario farlo dettagliatamente in quanto la posizione cattolica, che si considera coerente con il Nuovo Testamento e la tradizione apostolica, è ben nota. Desidero solo offrire alcune riflessioni dal punto di vista cattolico, tenendo contro dei nostri rapporti passati, presenti e futuri.
L’insegnamento della Chiesa cattolica sulla sessualità umana, in particolare, sull’omosessualità, è chiaro ed esposto nel Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 2357-2359. Siamo convinti del fatto che questo insegnamento sia saldamente fondato nel Vecchio e nel Nuovo Testamento e quindi che qui sia in gioco la fedeltà alle Scritture e alla tradizione apostolica. Posso solo evidenziare che cosa afferma il documento "Crescere insieme in unità e missione": «nei dibattiti sulla sessualità umana nella Comunione Anglicana e in quelli fra quest’ultima e la Chiesa cattolica, esistono questioni ermeneutiche antropologiche e bibliche che vanno affrontate» (n. 86e). Non a caso il tema principale di oggi della Conferenza di Lambeth ha riguardato l’ermeneutica biblica.
Desidero brevemente richiamare la vostra attenzione sulla dichiarazione dell’Arcic "Vita in Cristo" in cui si osserva (nn. 87-88) che gli anglicani potevano concordare con i cattolici sul fatto che l’attività omosessuale è disordinata, ma che potevamo differire relativamente al consiglio morale e pastorale che avremmo offerto a quanti lo cercavano.
Sappiamo e apprezziamo che le recenti dichiarazioni dei primati sono in sintonia con quell’insegnamento, espresso chiaramente nella risoluzione 1.10 della Conferenza di Lambeth del 1998. Alla luce delle tensioni degli scorsi anni a questo proposito, una dichiarazione chiara da parte della Comunione Anglicana ci offrirebbe maggiori possibilità di offrire una testimonianza comune della sessualità umana e del matrimonio, una testimonianza dolorosamente necessaria nel mondo di oggi.
A proposito dell’ordinazione delle donne al sacerdozio e all’episcopato, la Chiesa cattolica ha chiaramente esposto il suo insegnamento fin dall’inizio del nostro dialogo, non solo internamente, ma anche nel carteggio fra Papa Paolo VI e Papa Giovanni Paolo II con gli arcivescovi di Canterbury che si sono succeduti. Nella sua lettera apostolica "Ordinatio sacerdotalis" del 22 maggio 1994, Papa Giovanni Paolo II ha fatto riferimento alla lettera di Papa Paolo VI all’arcivescovo Coggan del 23 novembre 1975 e ha affermato la posizione cattolica come segue: «L’ordinazione sacerdotale [...] è stata nella Chiesa cattolica fin dall’inizio sempre esclusivamente riservata agli uomini» e «tale tradizione è stata fedelmente mantenuta anche dalle Chiese Orientali». Ha concluso: «dichiaro che la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa». Quest’enunciazione mostra con chiarezza che non si tratta solo di una posizione disciplinare, ma anche di un’espressione della nostra fedeltà a Gesù Cristo. La Chiesa cattolica è vincolata alla volontà di Gesù Cristo e non si considera libera di instaurare una nuova tradizione aliena a quella della Chiesa di tutti i tempi.
Come ho affermato rivolgendomi alla Camera dei vescovi della Chiesa d’Inghilterra nel 2006, per noi la decisione di ordinare le donne implica un allontanamento dalla posizione comune di tutte le Chiese del primo millennio, ossia non solo della Chiesa cattolica, ma anche delle Chiese orientali e ortodosse. Ci sembra che la Comunione Anglicana si stia avvicinando molto alle Chiese protestanti del XVI secolo e stia assumendo una posizione che quelle Chiese assunsero solo nella seconda metà del XX secolo.
Dal momento che attualmente ventotto province anglicane ordinano donne al sacerdozio e che, sebbene soltanto quattro province abbiano ordinato donne all’episcopato, altre tredici province hanno approvato la legislazione che permette l’episcopato femminile, la Chiesa cattolica deve ora tener conto della realtà che l’ordinazione delle donne al sacerdozio e all’episcopato non riguarda solo province isolate, ma corrisponde sempre più alla posizione della Comunione. Essa continuerà ad avere vescovi, come affermato nella Conferenza di Lambeth del 1888, ma come nel caso dei vescovi di alcune Chiese protestanti, le Chiese più antiche dell’Oriente e dell’Occidente riconosceranno in ciò molto meno di quanto ritengono sia il carattere e il ministero del vescovo nel senso inteso dalla Chiesa primitiva e rimasto costante nel corso dei secoli.
Ho già affrontato il problema ecclesiologico del non riconoscimento da parte dei vescovi dell’ordinazione episcopale altrui in seno a una stessa Chiesa. Ora devo essere chiaro a proposito della nuova situazione che si è venuta a creare nei nostri rapporti ecumenici. Sebbene il nostro dialogo abbia portato a un accordo significativo sull’idea di sacerdozio, l’ordinazione delle donne all’episcopato blocca sostanzialmente e definitivamente un possibile riconoscimento degli Ordini Anglicani da parte della Chiesa cattolica.
Auspichiamo il proseguimento di un dialogo teologico fra la Comunione Anglicana e la Chiesa cattolica, ma quest’ultimo sviluppo mina direttamente il nostro obiettivo e altera il livello di quanto perseguiamo nel dialogo. La Dichiarazione comune del 1966, firmata da Papa Paolo VI e dall’arcivescovo Michael Ramsey, esortava al dialogo che «ha per scopo l’unità per la quale Cristo così pregava» e parlava di «un ritorno alla piena comunione di fede e di vita sacramentale». Ora sembra che la piena comunione visibile quale fine del nostro dialogo abbia fatto un passo indietro, che il nostro dialogo avrà obiettivi meno definitivi e quindi che il suo carattere ne risulterà alterato. Sebbene questo dialogo possa ancora condurre a buoni risultati, non sarà sostenuto dal dinamismo che deriva dalla possibilità realistica dell’unità che Cristo esige da noi o dalla partecipazione comune alla mensa dell’unico Signore, alla quale aneliamo con tanto ardore.
Conclusione
Chiunque abbia visto le grandi e magnifiche cattedrali e chiese anglicane in tutto il mondo, abbia visitato gli antichi e famosi collegi di Oxford e di Cambridge, abbia partecipato alle meravigliose preghiere della sera, abbia sperimentato la bellezza e l’eloquenza delle preghiere anglicane, abbia letto le eleganti opere accademiche degli storici e dei teologi anglicani, sia attento ai contributi significativi e antichi degli Anglicani al movimento ecumenico, sa bene che la tradizione anglicana possiede molti tesori. Essi sono, come afferma la Lumen gentium, fra quei doni che «appartenendo propriamente alla Chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica» (n. 8).
La nostra acuta consapevolezza della grandezza e della notevole profondità della cultura cristiana della vostra tradizione rende più grande la nostra preoccupazione per voi relativamente ai problemi e alle crisi attuali, ma ci dona anche fiducia nel fatto che, con l’aiuto di Dio, troverete una via d’uscita da queste difficoltà e che in modo nuovo saremo rafforzati nel nostro comune pellegrinaggio verso l’unità che Gesù Cristo desidera per noi e per la quale prega. Ripeto ciò che scrissi nella lettera all’arcivescovo di Canterbury nel dicembre 2004: «In uno spirito di amicizia e collaborazione ecumeniche siamo pronti a sostenervi in qualsiasi modo sia appropriato e necessario».
In questa stessa ottica desidero ritornare alla domanda sconcertante dell’arcivescovo su quale anglicanesimo voglio. Mi viene in mente che nei momenti critici della storia della Chiesa d’Inghilterra e quindi della Comunione Anglicana, siete riusciti a recuperare la forza della Chiesa dei Padri quando quella tradizione era a rischio.
Ne sono esempio i Caroline Divines, ma penso soprattutto al Movimento di Oxford. Forse, nella nostra epoca, è anche possibile pensare a un nuovo Movimento di Oxford, un recupero di ricchezze presenti nella vostra famiglia. Sarebbe una rinnovata recezione, un nuovo ricorso alla Tradizione Apostolica in una situazione inedita. Non significherebbe rinunciare alla vostra profonda attenzione per le sfide e le lotte umane, al vostro desiderio di dignità e giustizia umane, alla vostra sollecitudine affinché tutte le donne e tutti gli uomini abbiano un ruolo attivo nella Chiesa. Piuttosto, porterebbe tali istanze e le questioni che ne derivano più direttamente nell’ambito creato dal Vangelo e dall’antica tradizione comune su cui si basa il nostro dialogo.
Speriamo e preghiamo affinché, mentre cercate di procedere come discepoli fedeli di Gesù Cristo, il Padre di ogni misericordia vi conceda le abbondanti ricchezze della Sua Grazia e vi guidi con la presenza costante dello Spirito Santo.
IL FAMILY FESTIVAL DI FIUGGI
Piccoli grandi laboratori di una cultura sorprendente
Avvenire, 31 luglio 2008
DAVIDE RONDONI
C i sono cose che si sanno, nel senso che ormai appartengono al dominio del risaputo. E questo è bene. Ad esempio sapere che ogni anno ci sarà il festival del cinema di Venezia è ormai un tranquillo, consolidato riferimento per coloro che si definiscono amanti del cinema. O come Venezia, tante altre manifestazioni culturali che, ormai tradizionalmente, tra luci e ombre, sono una bussola anche per capire questo incomprensibile meraviglioso paese che chiamano Italia. E i media ne parlano ( e straparlano).
Poi ci sono cose che non si sanno, o quasi. O meglio che inziano, che mettono fuori la testa. Insomma esistono punti in cui forse succede qualcosa di nuovo. Come ad esempio a Fiuggi, in questi giorni. Dove una strana, colorita e variamente assortita brigata di persone ha dato vita a questo Fiuggi Family Festival, dedicato al cinema e a varie forme di intrattenimento dedicate al cosiddetto pubblico ' family'. Che vuol dire pubblico generico, senza distinzioni. Il pubblico, per intenderci, che finisce per premiare i grandi successi al botteghino.
Qui, da un’idea di Gianni Astrei e sotto la guida di Andrea Piersanti e del professor Armando Fumagalli, si stanno radunando famigliole con bambini al seguito, genialoidi inventori di cartoon, grandi manager di network televisivi e altri addetti ai lavori, e per alcuni giorni in un programma fitto e vario. Al centro un’idea semplice: dare un punto di ritrovo - all’insegna pure della vacanza in un luogo ameno per conoscere, saggiare e anche premiare ciò che si rivolge a un pubblico generico di famiglie. Che è il pubblico più numeroso e spesso poco considerato dalle manifestazioni che si piccano di fare cultura. Qui cultura se ne fa - basta vedere non solo l’ampiezza delle produzioni presenti, ma anche il programma delle conferenze - ma la si fa senza spocchia. E senza demonizzare il cosiddetto mercato.
Ad altri il compito di fare la doverosa cronaca. Qui però vale rilevare che l’Italia culturale è in moto, anche fuori dai percorsi più seminati e che forse hanno meno idee da offrire in questi momenti di prova per tutti, o forse le hanno esaurite. E che varrebbe la pena, vincendo diffidenze e anche le pigrizie che sono la malattia culturale più grave, guardare a Fiuggi.
Forse anche la cultura, quella pure che intende parlare a fasce ampie di popolazione, ha bisogno di luoghi dove ritemprarsi, trovare fonti. Lo hanno capito il ministro in carica ed esponenti dell’opposizione. O grandi produttori come Disney che con gran successo ha presentato in anteprima il sequel di Narnia.
Al sottoscritto, poeta in esplorazione in territori altrui, insieme al Presidente di Giuria Pupi Avati e ad altri addetti ai lavori toccherà individuare quale premiare tra i film in concorso.
Ma un premio al coraggio va dato a chi ha voluto, in questo paese che sembra ripiegato culturalmente in assetto di battaglie di retroguardia, in lamenti o in rimembranze, promuovere un laboratorio evento che ha tutta l’aria di guardare avanti e di promuovere una cultura che non ha paura della vita.
«Mi staccarono il sondino ma ero viva e sentivo tutto» - Madre di tre figli di trentatrè anni racconta in un libro il suo dramma: per 70 giorni in stato vegetativo
Avvenire, 31 luglio 2008
DA VERONA LORENZO FAZZINI
E ra il 29 giugno 1995: Kate Adamson, allora 33enne madre di due bimbi di 3 e 18 mesi, in procinto di qualificarsi come personal trainer, incappa in un infarto. Da quel momento, per 70 lunghissimi giorni, entra in quella che tecnicamente viene definita 'locked-in' sindrome, ovvero intrappolata in un corpo immobile, perfettamente cosciente.
Per questa giovane donna sposata, nata in Nuova Zelanda e residente a Los Angeles, in California, il futuro si presentava terribile. «Ero un perfetto candidato all’omicidio compassionevole » ha ricordato in seguito. Anzi: sentiva che i medici che l’avevano in cura dicevano a suo marito: «Lasciamola andare. È meglio per tutti. Del resto, non avrebbe voluto vivere così». Ovvero, con un sondino in gola e uno in pancia per l’alimentazione e l’idratazione somministrate artificialmente. I dottori avevano anche una qualche ragione, che oggi si potrebbe chiamare “testamento terapeutico”: dopo la sua incredibile vicenda, la Adamson ha ricordato come, da sana, avesse dichiarato: «Se mi succedesse qualcosa di brutto, preferisco morire che essere di peso a qualcuno. Non voglio che vengano presi provvedimenti eroici quando sarà giunto il mio tempo». Le foto che accompagnano il suo volume autobiografico “Kate’s Journey: Paralyzed but not Powerless” (“Il viaggio di Kate: paralizzata ma non senza forza”) la presentano in una smorfia di dolore che ella nemmeno riusciva a comunicare all’esterno. '«Sentivo il dolore, non potevo comunicare con il mondo esterno, però sapevo cosa si diceva di me» ha raccontato la donna (la parte sinistra del suo corpo adesso è paralizzata), che ora riveste diversi ruoli di attivista pro-life in qualità di portavoce dell’American Heart Association. «Ad esempio, sentivo dire dai medici che avevo una possibilità su un milione di vivere ancora».
La seconda notte in ospedale i medici consigliarono al marito della donna di rivolgersi ad un’agenzia funebre; per 8 giorni le venne staccato il sondino gastrico che la nutriva. Ma un giorno Kate ha sbattuto gli occhi e quel battito di ciglia l’ha salvata, grazie all’indefesso lavoro di avvocato del marito Steven. «Quando mi tolsero il sondino, non potevo parlare ma sentivo tutto e gridavo dentro di me: non uccidetemi, datemi qualcosa da mangiare » ha raccontato in seguito. Da quando - dopo anni di rieducazione fisica - Kate ha ripreso la vita di prima, non cessa di portare la sua testimonianza di exmalata vegetativa, alzando la voce laddove la vita umana rischia di venir calpestata. Nell’aprile 2005, poco dopo la morte di Terri Schiavo, la Adamson levò la sua parola al sotto-comitato del Congresso sulla giustizia, la politica sulle droghe e le risorse umane. In quell’occasione parlò dei diritti di coloro che non possono parlare da se stessi e sulle responsabilità di una società che deve farsi carico di queste persone.
1) Ci siamo. Tanto tuonò che piovve
2) «Mi calo e basta, la vita è tutta qui»
3) Il boom delle bocciature è solo un altro indizio, MA SI CONTINUA A BALLARE SUL TITANIC, Di Francesco Nembrini
4) Diciamola tutta: è un`emergenza antropologica E` IN GIOCO PERSINO IL MODO DI FARE IL PANE, di Luca Doninelli
5) A Lambeth il cardinale Kasper invoca un nuovo Newman, Sandro Magister
6) Piccoli grandi laboratori di una cultura sorprendente
7) «Mi staccarono il sondino ma ero viva e sentivo tutto» - Madre di tre figli di trentatrè anni racconta in un libro il suo dramma: per 70 giorni in stato vegetativo
Ci siamo. Tanto tuonò che piovve
Autore: Salina, Giorgio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it
mercoledì 30 luglio 2008
Ed ora ha incominciato a piovere!
Ricordate l’ultimo articolo dal titolo «Trattato di Lisbona “si”, Carta del diritti fondamentali “no”» pubblicato su questo sito il 2 luglio scorso? Ciò che paventavamo ha iniziato ad avverarsi. Ancora peggio di quello che abbiamo scongiurato con i DICO del Ministro Bindi e di Prodi, ha iniziato ad infiltrarsi in Italia.
Certamente avete letto di quella coppia di ottuagenari omosessuali, insieme da 40 anni e uniti in Francia con il PAC; trasferitisi in Italia, uno è morto investito da un auto. L’Assicurazione ha riconosciuto al superstite il ruolo di «prossimo congiunto.» Andrea Acquarone ha commentato su “Il Giornale”: «I diritti del vedovo stavolta sono stati tutelati come se si fosse trattato di una famiglia tradizionale.» La decisione è stata presa dall’Assicurazione, certa dell’esito di una eventuale controversia giudiziaria. Mi sbaglierò, anzi spero di sbagliarmi, ma temo che questo sia l’inizio: attraverso la giurisprudenza internazionale, attraverso il principio del riconoscimento dei diritti acquisiti per i cittadini europei che cambiano Stato di residenza, in Italia dovranno progressivamente essere “rispettate” tutte le norme in tema di aborto, divorzio, diritto di famiglia sia “etero” che “omosessuale”, eutanasia. Ossia quei principi fondamentali che fanno la cultura e la civiltà di un popolo, non saranno più adottati da noi, ma li importeremo!
A parte le scelte fondamentali che questi temi richiedono, la novità è che non saremo più noi a decidere in base alla nostra cultura, alla nostra storia, alle nostre tradizioni; non solo ci verranno imposte, ma dovremo uniformarci - attenti - non alle legislazioni più diffuse, ma, sui singoli argomenti, alle legislazioni più permissive; sia le legislazione olandese, o belga, o spagnola, e così via. Ma che modo è questo di abdicare alle proprie caratteristiche ed alle proprie scelte?
Da che cosa tutto questo pessimismo? Dal fatto che un ramo del nostro Parlamento ha ratificato il Trattato di Lisbona senza nulla eccepire circa l’obbligatorietà della “Carta dei diritti fondamentali”, un documento ambiguo e aperto a molte interpretazioni, e senza porre vincoli all’indiscriminata ingerenza di procedure illegittime.
A proposito della “Carta”: si promulga il diritto inviolabile alla vita, mentre sulla base della stessa “Carta” si afferma di dover garantire la libertà della donna di abortire.
Quali garanzie e salvaguardie i nostri Politici pensano di adottare e proporre all’Europa? Il coro degli europeisti ripete che il Trattato è necessario per il funzionamento delle Istituzioni comunitarie: vero, ma tutto il resto? Non tutti gli Stati europei sono così supini: Regno Unito e Polonia hanno detto che la “Carta” e la normativa da essa derivante non potranno prevalere sulle loro rispettive Legislazioni; altri, non da ora, propugnatori dei testi più europeisti, poi non li applicano in casa propria.
Non si vuole sollevare la sacrosanta eccezione della “Carta”? Almeno si prendano le distanze e si mettano le mani avanti circa il caparbio miope rifiuto nel non voler riconoscere l’unica vera matrice unificante i popoli europei (le conseguenze negative sono sotto gli occhi di tutti): cioè la cultura giudaico cristiana innestatasi su quella greco romana che è tuttora condivisa da larghi strati delle popolazioni; il tentativo di legiferare surrettiziamente e la traboccante invadenza della burocrazia di Bruxelles.
Tre referendum popolari, tre solenni bocciature. Basta con la posizione che dice la gente non ha capito, non ci siamo spiegati bene.
Tra l’altro questo è il principale argomento per scegliere l’iter della ratifica per via parlamentare: oltre all’evidenza che i Deputati e i Senatori sono i nostri rappresentanti, si tratta di materia molto complessa che deve essere lasciata a specialisti. Tutti i nostri 1000 parlamentari hanno approfondito il Trattato e i suoi numerosi allegati che una squadra di giuristi e costituzionalisti ha impiegato tre mesi ad interpretare?
Non scherziamo: qui c’è in gioco davvero molto!
«Mi calo e basta, la vita è tutta qui»
Autore: Andraous, Vincenzo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it
mercoledì 30 luglio 2008
In discoteca, al pub, alla festa sulla spiaggia, la droga “cala”, e un’altra ragazza è stramazzata a terra, in coma, è morta.
Questa volta la causa del decesso è l’Mdma, meglio conosciuta come ecstasy.
E’ incredibile come dopo anni e anni di over-dose, di esplosioni chimiche, di implosioni biologiche, siamo qui a manipolare le parole, a violentare la ragione, a abusare della compostezza di una coscienza annichilita.
C’è una maledetta disinformazione che parte da una comunicazione sonnolenta, ripetuta senza scalfire alcuna emozione, spesso didattica, già vecchia, troppe volte elargita da cattedre impolverate che nulla consentono alla possibilità di liberare la libertà, nel senso di immaginare un percorso di vita denudato dai falsi miti e dalle false aspettative, soprattutto da quella falsa normalità, che maschera nei migliore dei casi una avvenuta dipendenza.
“Non mi calo” per essere contro, per trasgredire e stupire con rumore, “mi calo” per essere pronto a dire, a fare, a pensare svelto e non dormire.
“Mi calo e basta tutto qui”.
Dieci, mille, diecimila a sbomballarsi, a muoversi in gruppo, in cerchio, in abissi capovolti, ma resi avventurosi, per l’incapacità di parlare, di fare i conti con le parole, che hanno un nome, una storia, persino una vita presa a calci nel sedere.
Questa nuova sostanza è peggio delle altre, non sei in giro come un tossico, additato e contuso dallo sdegno benpensante, no, è magica pasticca che consolida la tua presenza nel consorzio sociale, che nasconde il peso dell’impegno lavorativo, che rende più dolce la linea mediana di una vita banale.
Un nuovo stile di vita, tutti dentro un cubismo astratto, dove ognuno sbanda allegramente, per rendere meno assordante il dovere della puntualità, della costanza, della propria professionalità, in all’erta per l’inizio della nuova settimana, pungente e rancorosa per quella appena conclusa.
E’ necessario riflettere su come stanno emergendo queste nuove sostanze, nelle nuove resistenze sociali, non sempre riconducibili al disagio psicologico, al malessere sociale, a comportamenti violenti e deficit emozionali.
Noi adulti preferiamo conservare la nostra integrità e capacità di educare, caricando i nostri interventi sul versante antisociale dei giovani, ma non facciamo al problema droga un buon servizio di prevenzione, non capiamo che oggi, per la stragrande maggioranza dei ragazzi, “calarsi” è normale, semplice, non è protesta di alcuno né di alcunché, è solamente un modo per stare comodi, tra fatica e divertimento.
E’ semplice perché è lì a portata di mano, non è mai lontana dalle solitudini imposte dal mercato, non crea ansie di irreperibilità né di prestazione, è intesa come una normale e semplice sfida a morire nel silenzio più gettonato, quello degli adulti così irresponsabilmente predisposti a imitarne il distacco generazionale.
Il boom delle bocciature è solo un altro indizio, MA SI CONTINUA A BALLARE SUL TITANIC, Di Francesco Nembrini
Qualche giorno fa una cara amica mi ha raccontato la carriera scolastica del figlio quindicenne, un ragazzo normalissimo, capace quanto basta, con una famiglia giustamente preoccupata della sua educazione, senza grandi possibilità economiche, nel contesto di un paesotto alle porte di Bergamo. Elementari: funzionavano bene, almeno dal punto di vista organizzativo. Peccato che in cinque anni si siano alternate decine di insegnanti tutor e specialiste varie, così che il lavoro era sempre da ricominciare da capo. Medie: nel corso dei tre anni inserimento di 14 alunni stranieri analfabeti, abbassamento dei livelli minimi della programmazione, gravi difficoltà degli insegnanti a mantenere un minimo di disciplina. La famiglia supplisce: la mamma si improvvisa insegnante tutti i pomeriggi, recluta amici universitari per qualche ora di ripetizione. Risultato finale: un disastro. Il ragazzo dimentica quel poco che aveva imparato alle elementari, ma è comunque promosso insieme a tutti i suoi compagni. Iscrizione al primo anno dell’Istituto Tecnico locale, classe di trenta ragazzi. A Natale vengono sospesi in quindici per due settimane per gravi scorrettezze nel comportamento. Risultato finale: bocciato il 50% della classe, tutti gli altri con uno o più debiti.
Il commento amaro della madre: non sono arrabbiata perché l’hanno bocciato, è che gli hanno ammazzato la voglia di imparare, di diventar grande.
Non è una storia eccezionale: basta sostare in questi giorni davanti ai tabelloni dei voti di una qualsiasi scuola italiana e si avrà la conferma che quella storia è la fotografia impietosa di un intero sistema educativo che sta franando su se stesso. Per quindici giorni ne parleranno tv e giornali, tutti si stracceranno le vesti gridando allo scandalo e invocando con sdegno il ritorno alla serietà. Con qualche opinionista che, vista l’incredibile percentuale di bocciature, inneggerà al ritorno della selezione, invece che registrare un clamoroso fallimento. Come se un ospedale valutasse la bontà delle sue cure vantando un altissimo numero di decessi. Poi … tutti al mare, a discutere degli europei di calcio e a maledire il rincaro della benzina, mentre il Bel Paese sta beatamente avviandosi ad un declino irreversibile.
La diagnosi è chiara e condivisa, la terapia pure: da anni gli operatori della scuola indicano i provvedimenti più urgenti per arrestare il degrado: vera autonomia degli Istituti (cioè gestione autonoma del personale e dei fondi), un serio sistema di valutazione nazionale, ripensamento della formazione e della carriera degli insegnanti, una vera libertà di scelta da parte delle famiglie. In una parola: urge una forte iniezione di libertà e di responsabilità a tutti i livelli del sistema. O, per usare una parola finalmente introdotta nella Costituzione, una vera sussidiarietà. Senza la quale sarà impossibile creare le condizioni perché la scuola torni ad essere quello che deve essere: il luogo deputato all’educazione delle nuove generazioni. Perché di questo si tratta: di educare, cioè di offrire ai nostri ragazzi una chiara ipotesi di lavoro, ragioni adeguate per il sacrificio e la fatica , la condivisione paziente dei loro problemi e delle loro attese. Facendo bene quel che siamo chiamati a fare, che si tratti di studiare una poesia o una formula chimica. Servono maestri, testimoni di un bene e di una positività senza le quali non si può imparare niente. Perché nella scuola, come nella vita, l’istruzione è il mezzo, l’educazione è lo scopo. Molti tra noi ci credono ancora, e ci provano, e quel che funziona ancora lo si deve al loro eroismo. Allo Stato e alla politica il compito di difenderli, valorizzarli, dotarli di strumenti e risorse adeguati: questa è la sussidiarietà che serve alla scuola.
La Sierra Leone è il Paese più povero ed arretrato del mondo, con gli indici più bassi rispetto a tutti gli indicatori di sviluppo (mortalità infantile, istruzione, reddito e quant’altro). Sto aiutando in quel Paese la nascita di una scuola cattolica gestita da un missionario saveriano, ed ho scoperto con mia grande sorpresa che gli insegnanti saranno pagati dallo Stato. Ho chiesto al ministro della Pubblica Istruzione: “ Ma com’è che, in un Paese dove si muore di fame e di malaria, vi permettete il lusso di pagare gli insegnanti delle scuole cattoliche?” . Risposta: “Mi scusi, ma in un Paese conciato così, da dove si può ripartire se non dall’educazione?”. L’ho invitato a venire in Italia, per spiegare la cosa al nuovo governo e ad un migliaio di parlamentari. Dove non si ascoltano gli appelli del Papa e del Presidente della Repubblica, potrebbe far breccia il ministro della Sierra Leone!
Francesco Nembrini
Diciamola tutta: è un`emergenza antropologica E` IN GIOCO PERSINO IL MODO DI FARE IL PANE
Il tema dell’emergenza educativa compare costantemente tra le preoccupazioni del Santo Padre. Leggendo tra le righe, si potrebbe dire che si tratta della preoccupazione fondamentale, del problema principale, dal quale dipende una gran parte degli altri problemi.
Dire “emergenza educativa” è lo stesso che dire “emergenza umana”, o “antropologica”, e sarebbe bene, di tanto in tanto, richiamare questa equivalenza, perché ci aiuterebbe a evitare un equivoco: quello di illuderci che, per affrontare questa emergenza, siano sufficienti una buona riforma (a patto che ci sia qualcuno in grado di farla senza produrre nuovi danni), uno stanziamento straordinario di fondo o altri provvedimenti politici.
Venti, trenta, quarant’anni fa chi cominciava a intravedere i disastri del sistema scolastico italiano si adoperò - lottando spesso contro tutto e tutti - per la costruzione di un sistema scolastico alternativo e per il suo riconoscimento in termini contrattuali e fiscali. Si cominciò a parlare di libertà di educazione, e a buon titolo: un sistema scolastico che prendeva in ostaggio i ragazzi, facendone le cavie di un progetto educativo che niente aveva a che vedere con i valori nei quali le famiglie li avevano cresciuti, metteva a repentaglio innanzitutto la libertà del cittadino. Il quale ha tutto il diritto di crescere i figli secondo la propria visione della realtà, nella certezza che qualunque modello educativo, se rispettoso dei principi della democrazia, può diventare un fattore positivo di crescita per tutta la società.
Oggi, però, i termini della questione si sono spostati. Se i vecchi termini inserivano il problema in una visione essenzialmente italiana del problema, l’evidenza dei fatti odierni ne mostra la natura globale.
Cosa significa “emergenza educativa”? Significa che un’intera civiltà, caratterizzata da un immenso patrimonio di conoscenze e di valori, vede scemare di giorno in giorno la propria capacità di trasmettere queste conoscenze e questi valori alle generazioni successive.
Il problema riguarda tutto: dall’uso corretto del cacciavite allo studio delle particelle elementari, dal “due più due quattro” al “non uccidere”, fino alle ragioni per cui vivere è meglio che morire, e conoscere è meglio che ignorare. L’emergenza educativa non riguarda solo la scuola, ma anche il modo di fare il pane, lo smaltimento dei rifiuti, il rapporto tra economia e finanza, la produzione letteraria - insomma: tutto.
L’espressione “emergenza educativa”, mettendo in evidenza il rischio di un suicidio di tutta la nostra civiltà, riguarda perciò tutta la responsabilità di un uomo verso il futuro, o meglio: verso ciò che gli antichi, con maggior esattezza, chiamavano il destino. Il che vale, dunque, anche per chi non insegna e non ha figli.
La tragedia degli anni a venire potrebbe essere questa: l’affermarsi di un tipo d’uomo insensibile al destino, programmato per mangiare bere dormire e riprodursi (in modo controllato) e per ricevere soddisfazione da qualche moderato piacere, tra cui, perché no?, anche i piaceri dello spirito.
Il giorno in cui dovremo spiegare ai nostri figli perché non è bene sgozzare il compagno di banco, perché non è giusto minacciare un uomo col coltello per prendere i suoi soldi o perché è immorale frodare chi fatica a risparmiare due soldi, è molto vicino. E sarà un bruttissimo giorno, perché quel giorno scopriremo che non si danno spiegazioni di queste cose. Quando cominciano ad affiorare certi “perché”, o certi “perché no?”, vuol dire che la partita è già finita.
Io ripeto sempre che in Russia la stragrande maggioranza dei giovani non sa cosa è accaduto ai loro nonni e zii, non sa dei cento milioni di morti con cui quei nonni e quegli zii hanno pagato il comunismo e la guerra. La ragione semplice per cui non lo sanno è che i loro genitori non gliel’hanno detto, e non gliel’hanno detto perché ancora oggi si vergognano di quello che è successo.
Per noi è lo stesso. Ma la nostra vergogna è più profonda, perché noi non ci siamo fatti complici di eccidi e di massacri: semplicemente, stiamo dimenticando chi siamo, e quindi non ci è più chiaro da quale forza sono nati Dante, Leonardo o la relatività.
Anche per comunicare la più elementare delle conoscenze, infatti, è necessario rispondere alla domanda: chi sono io?
Per questo possiamo dire che, in gioco, non ci sono soltanto l’università e la scuola, ma l’uomo come tale.
Luca Doninelli
A Lambeth il cardinale Kasper invoca un nuovo Newman
Cioè il più illustre dei grandi convertiti alla Chiesa di Roma. L'inviato del papa alla conferenza dei vescovi anglicani chiede loro di tornare al modello della Chiesa apostolica. No a donne vescovo e a vescovi gay. Il testo integrale del discorso
di Sandro Magister
ROMA, 31 luglio 20087 – Alla Conferenza di Lambeth, l'incontro decennale tra i vescovi della comunione anglicana di tutto il mondo, ha preso ieri la parola il cardinale Walter Kasper, presidente del pontificio consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani.
Più sotto è riportato il testo integrale del suo intervento. Kasper ha messo in evidenza le crescenti divaricazioni tra la Chiesa cattolica e la comunione anglicana, specie da quando in alcune province anglicane, a partire dal 1974, delle donne sono ordinate al sacerdozio e, a partire dal 1989, all'episcopato.
Un altro motivo di divaricazione sottolineato da Kasper riguarda l'autorizzazione a benedire le unioni omosessuali e l'ordinazione a vescovi di persone che vivono in coppia con persone dello stesso sesso.
Ma, oltre che con la Chiesa di Roma, queste decisioni hanno creato drammatiche divisioni anzitutto dentro la comunione anglicana. Le più forti opposizioni vengono dal Sud del mondo, specialmente dall'Africa. Delle 44 province che compongono la comunione anglicana – ha fatto notare Kasper – 28 ordinano delle donne al sacerdozio e 17 ammettono l'ordinazione delle donne anche all'episcopato. Le altre no. Ogni provincia decide per sé e si contrappone a quelle che decidono diversamente. Al punto che – sono sempre parole di Kasper – "un significativo numero di vescovi anglicani ha deciso di neppure partecipare alla Conferenza di Lambeth".
La frantumazione dentro la comunione anglicana è tale che Kasper si chiede:
"In un simile scenario, [...] chi sarà il nostro interlocutore nel dialogo? Dobbiamo impegnarci, e come, in colloqui appropriati e trasparenti anche con chi condivide le visioni cattoliche sui punti attualmente controversi, e con chi è in disaccordo con alcuni sviluppi dentro la comunione anglicana o alcune province particolari?".
In effetti, il passaggio alla Chiesa cattolica è uno sbocco frequente, per coloro che nella comunione anglicana non accettano l'ordinazione delle donne e la legittimazione dell'omosessualità.
Ma l'attrazione esercitata dal cattolicesimo è anche di carattere più generale. Ha a che fare con una concezione complessiva della Chiesa e della tradizione cristiana dai tempi apostolici a oggi, che alcuni vedono più fedelmente realizzata nella Chiesa cattolica.
Il cardinale Kasper, nella sua relazione, ha ricordato i "motivi ecclesiologici" che convinsero ad abbracciare il cattolicesimo il più celebre dei convertiti dell'Ottocento, il cardinale John Henry Newman. Ed ha auspicato che nell'anglicanesimo di oggi rinasca un nuovo Oxford Movement, il movimento di ritorno alla tradizione della Chiesa apostolica di cui Newman fu ispiratore.
Dal 1980, da quando la Chiesa di Roma ha fissato delle regole per il passaggio al cattolicesimo di uomini ordinati al sacerdozio o all'episcopato nella comunione anglicana, si calcola che siano più di 80 coloro che hanno compiuto tale passaggio, spesso seguiti da porzioni cospicue delle rispettive diocesi e parrocchie.
L'ultimo rito di accoglienza di un ministro anglicano nella Chiesa cattolica è avvenuto in forma privata lo scorso 1 dicembre a Roma, nella basilica papale di Santa Maria Maggiore.
Da una parte c'era il cardinale arciprete della basilica, l'americano Bernard Law. Dall'altra l'ex anglicano (o episcopaliano, come si usa dire negli Stati Uniti) Jeffrey Steenson, già vescovo della diocesi del Rio Grande, che copre il New Mexico e parte del Texas, accompagnato al rito dall'arcivescovo cattolico di Santa Fe, Michael J. Sheehan.
Steenson, 55 anni, sposato con tre figli, è stato di nuovo ordinato prete nella Chiesa cattolica, che non riconosce come valide le ordinazioni anglicane. E insegnerà nei seminari patrologia, materia di cui è esperto.
Una decina di altri ministri episcopaliani degli Stati Uniti sono in attesa di essere accolti come preti nella Chiesa cattolica. Tra loro tre vescovi emeriti: John Lipscomb della diocesi della Florida del Sudest, Clarence Pope di Forth Worth e Daniel Herzog di Albany.
Ma dentro la comunione anglicana i simpatizzanti per la Chiesa di Roma sono molti di più di quelli che "passano il Tevere" e si convertono.
Ad esempio, ha dato voce a questi sentimenti anglocattolici, a Sydney, il vescovo anglicano Robert Forsyth, che lo scorso 18 luglio, accogliendo Benedetto XVI nella sua città, ha definito la Chiesa di Roma "uno scoglio fra le rapide". Ed ha spiegato:
"Se non fosse stato per la sua forte insistenza su Cristo come unico Salvatore del mondo, sulla fede cattolica, sulla natura del Dio trino, la divinità di Cristo, la centralità e la supremazia della Sacra Scrittura e il carattere oggettivo della moralità cristiana, la vita delle altre Chiese cristiane sarebbe stata molto più difficile, specialmente qui in Occidente".
È australiano anche l'arcivescovo John Hepworth, primate della Traditional Anglican Communion, un ramo dell'anglicanesimo che ha proposto formalmente alla Santa Sede di entrare in "unità corporativa" con la Chiesa cattolica. Il 25 luglio il nunzio apostolico in Australia, Giuseppe Lazzarotto, ha consegnato a Hepworth una lettera del cardinale William Levada, prefetto della congregazione per la dottrina della fede, nella quale si assicura che la Santa Sede esaminerà la proposta con "seria attenzione". La Traditional Anglican Communion conta circa 400 mila membri, in numerosi paesi.
Ecco dunque qui di seguito – nella traduzione italiana curata da "L'Osservatore Romano" – la relazione del cardinale Kasper alla Conferenza di Lambeth, letta il 30 luglio 2008:
Riflessioni cattolico-romane sulla Comunione Anglicana
di Walter Kasper
Ho il privilegio di trasmettere all’arcivescovo di Canterbury, il dottor Rowan Williams, a ognuno dei presenti e a tutti i partecipanti a questa importantissima Conferenza di Lambeth i saluti di Papa Benedetto XVI e di tutti membri del Pontifico Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani. Tutti noi vi siamo accanto in questi giorni. Siamo con voi nei nostri pensieri e nelle nostre preghiere e desideriamo esprimere profonda solidarietà per le vostre gioie, le vostre preoccupazioni e le vostre pene.
Permettetemi di cominciare ringraziando l’arcivescovo di Canterbury e quanti coordinano i rapporti ecumenici presso il Lambeth Palace e l’Anglican Communion Office per l’invito a partecipare a questo importante incontro e per l’opportunità di offrire alcune riflessioni sulle nostre comuni preoccupazioni. È un punto di forza dell’anglicanesimo il fatto che, anche in circostanze difficili, avete chiesto le opinioni e i punti di vista degli interlocutori ecumenici, anche se non siete stati particolarmente lieti di quanto abbiamo detto. Tuttavia siate certi del fatto che ciò che sto per dire lo dirò da amico.
Quando ho visto l’argomento che avete proposto «Riflessioni cattolico-romane sulla Comunione Anglicana» ho pensato che avreste potuto sceglierne uno più facile. È un titolo di ampio respiro che comprende molti aspetti della storia e della dottrina e io posso affrontarne solo alcuni. Tuttavia, mi sembra che vi sia una questione nascosta nel titolo che non è interessato tanto a cosa i cattolici pensano della Comunione Anglicana quanto a cosa pensano della Comunione Anglicana nelle attuali circostanze. Esistono decisamente argomenti meno scomodi.
Il mio intervento è suddiviso nelle seguenti tre parti: una descrizione dei nostri rapporti negli ultimi anni, considerazioni di natura ecclesiologica alla luce della situazione attuale nell’anglicanesimo e una breve riflessione sulle questioni alla base delle attuali controversie e dei motivi di scontro in seno all’anglicanesimo, in particolare su quelle che hanno anche avuto conseguenze sui vostri rapporti con la Chiesa cattolica.
Infine, risponderò a una domanda piuttosto inaspettata che mi ha posto alcuni mesi fa l’arcivescovo di Canterbury. Quella domanda mi ha confuso molto, eccola: che tipo di anglicanesimo vuoi? Che domanda! Spero che conosciate la risposta giusta! E poi: quali sono le speranze della Chiesa cattolica per la Comunione Anglicana nei prossimi mesi e anni? In questo caso la risposta è più facile: speriamo di non venire messi da parte e di poter continuare ad avere un dialogo serio alla ricerca della piena unità affinché il mondo creda.
I. Descrizione dei rapporti negli ultimi anni
In questa prima parte permettetemi di rinfrescarvi la memoria per non dimenticare che cosa e quanto abbiamo già raggiunto negli ultimi quarant’anni. Quando il concilio Vaticano ii, nel suo decreto sull’ecumenismo, prestò attenzione alle numerose «Comunioni sia nazionali sia confessionali» che «si separarono dalla Sede romana» nel XVI secolo, riconobbe che «tra quelle nelle quali continuano a sussistere in parte le tradizioni e le strutture cattoliche, occupa un posto speciale la Comunione Anglicana» (Unitatis redintegratio, n. 13). Questa dichiarazione si basa su un’idea ecclesiologica secondo la quale dal punto di vista cattolico la comunione anglicana ha elementi significativi della Chiesa di Gesù Cristo. Nella loro Dichiarazione Comune del 1977 l’arcivescovo di Canterbury Donald Coggan e Papa Paolo VI identificarono alcuni di quegli elementi ecclesiali e scrissero:
«Da quando la Chiesa cattolica romana e le Chiese che formano la Comunione Anglicana hanno cercato di crescere nella mutua intesa e nell’amore cristiano, esse sono giunte a riconoscere, valutare e rendere grazie per una comune fede in Dio nostro Padre, nel nostro Signore Gesù Cristo e nello Spirito Santo, per il nostro comune battesimo in Cristo, per la nostra partecipazione alle Sacre Scritture, ai Simboli apostolico e niceno, alla definizione calcedonense e all’insegnamento dei Padri, per la nostra comune e plurisecolare eredità cristiana con le sue viventi tradizioni di liturgia, teologia, spiritualità e missione».
In questo testo, l’arcivescovo Coggan e Papa Paolo VI indicano il terreno comune, la fonte comune e il centro della nostra unità già esistente, ma ancora incompleta: Gesù Cristo e la missione di annunciarlo a un mondo così disperatamente bisognoso di Lui. Non parliamo di un’ideologia, di un’opinione personale condivisibile o meno. Parliamo della nostra fedeltà a Cristo, testimoniata dagli apostoli, e al suo Vangelo che ci è stato affidato. Quindi, fin dall’inizio dovremmo ricordare che cosa è in gioco mentre continuiamo a parlare della fedeltà alla tradizione e alla successione apostoliche, quando parliamo del triplice ministero, dell’ordinazione delle donne e dei comandamenti morali. Non stiamo parlando d’altro che della nostra fedeltà a Cristo stesso, che è il nostro unico e comune maestro. E cos’altro può essere il nostro dialogo se non un’espressione del nostro intento e del nostro desiderio di essere pienamente una sola cosa in Lui al fine di essere testimoni totalmente uniti del suo Vangelo?
Si è spesso detto, e vale la pena ribadirlo, che il dialogo è stato reso dinamico dal desiderio di restare fedeli alla volontà espressa da Cristo che i suoi discepoli fossero una cosa sola, proprio come egli è una cosa sola con il Padre, e che questa unità si legasse direttamente alla missione di Cristo, la missione della Chiesa, per il mondo: che siano una cosa sola perché il mondo creda. Le divisioni fra noi hanno gravemente ostacolato la nostra testimonianza e la nostra missione ed è stato per fedeltà a Cristo che ci siamo impegnati in un dialogo basato sul Vangelo e sulle antiche comuni tradizioni con l’obiettivo della piena unità visibile. Tuttavia, la piena unità non è stata e non è tuttora un fine in sé, ma è un segno e uno strumento di ricerca dell’unità con Dio e della pace nel mondo.
Pensando a questo, quando ricordiamo gli obbiettivi raggiunti dalla Commissione Internazionale Anglicana Cattolica Romana (Arcic) nel corso di circa quattro decenni, possiamo affermare con fiducia che ha veramente recato buoni frutti. In una prima fase l’Arcic (1970-1981) affrontò i temi "Dottrina sull’eucaristia" (1971) e "Ministero e ordinazione" (1973), e, per entrambi gli argomenti, sostenne di aver raggiunto un accordo sostanziale.
La risposta ufficiale cattolica (1991), pur richiedendo uno studio ulteriore su entrambi gli argomenti, definì quei testi «significative pietre miliari» attestanti «il raggiungimento di punti di convergenza e perfino di accordo che molti avrebbero ritenuto impossibile raggiungere prima che la Commissione cominciasse a lavorare». Le autorità cattoliche ritennero che il documento "Chiarificazioni su eucaristia e ministero" (1993), redatto dai membri della commissione, avesse «rafforzato molto l’accordo su certi argomenti». La prima fase dell’Arcic produsse anche due dichiarazioni sul tema "Autorità nella Chiesa" (1976, 1981), tema al centro delle divisioni del XVI secolo.
Sebbene i testi della seconda fase dell’Arcic (1983-2005) non siano stati presentati, per una risposta formale, nella Chiesa cattolica né nella Comunione Anglicana, e non abbiano portato a una risoluzione definitiva o a un pieno consenso sulle questioni affrontate, ognuno di loro ha suggerito un crescente riavvicinamento. Il documento "La salvezza e la Chiesa" (1986) è per molti versi in sintonia con la Dichiarazione Comune sulla Dottrina della Giustificazione, firmata dalla Chiesa cattolica e dalla Federazione Luterana Mondiale nel 1999. Basandosi sull’idea ecclesiale di koinonìa proposta per la prima volta nell’introduzione del Rapporto finale dell’Arcic I, l’Arcic II ha presentato il suo lavoro più maturo sull’ecclesiologia in "La Chiesa come Comunione" (1991).
Il documento "Vita in Cristo" (1994) è riuscito a individuare una visione condivisa e un’eredità comune di insegnamento etico, nonostante le diverse applicazioni pastorali dei principi morali. "Il dono dell’autorità" (1998) ha ripreso il tema dell’autorità e ha compiuto importanti progressi sulla necessità di un ministero universale di primato nella Chiesa. "Maria: grazia e speranza in Cristo" (2004) ha compiuto importanti passi avanti verso una idea comune della Beata Vergine Maria.
Come ben sapete, l’ordinazione delle donne al sacerdozio in alcune province anglicane, a cominciare dal 1974, e all’episcopato, dal 1989, ha complicato molto i rapporti fra la Comunione Anglicana e la Chiesa cattolica. Ritornerò sul tema a tempo debito. Pensando a questo ostacolo e cercando di determinare che cosa fosse in ogni caso possibile nella promozione dei nostri rapporti, fu presa un’iniziativa importante non molto tempo dopo l’ultima conferenza di Lambeth.
Nel maggio del 2000, il mio predecessore, il cardinale Edward Idris Cassidy, e l’arcivescovo George Carey, invitarono tredici primati anglicani e i presidenti delle Conferenze episcopali cattoliche, o i loro rappresentanti, a Mississagua, in Canada, per valutare quanto raggiunto nel dialogo dell’Arcic, e per offrire, alla luce dei risultati positivi e delle difficoltà che avevano contraddistinto i nostri rapporti, raccomandazioni per eventuali, ulteriori progressi.
Ho partecipato a numerosi incontri ecumenici e sono lieto di affermare che quello fu uno dei migliori a cui abbia mai preso parte. Lo spirito di preghiera e di amicizia, la seria riflessione non solo sull’opera dell’Arcic, ma anche sui rapporti ecumenici in ogni particolare regione rappresentata, il desiderio profondo di riconciliazione che pervase l’incontro di Mississagua rinnovarono la speranza di un significativo progresso nei rapporti fra la Comunione Anglicana e la Chiesa Cattolica.
Uno dei risultati dell’incontro di Mississagua è stato la creazione della Commissione Anglicana-Cattolica Romana per l’Unità e la Missione (Iarccum), principalmente composta da vescovi. Nello scorso fine settimana di questa Conferenza di Lambeth avete studiato la dichiarazione della Iarccum Crescere insieme in unità e missione. Sintetizzando l’opera dell’Arcic questo documento presenta la valutazione della Commissione dei risultati del nostro dialogo e individua le questioni ancora da affrontare.
Negli ultimi quarant’anni non ci siamo solo impegnati insieme nel dialogo teologico. Si è infatti creato uno stretto rapporto di collaborazione fra anglicani e cattolici, non solo a livello internazionale, ma anche in molti contesti regionali e locali. Come hanno osservato Papa Benedetto XVI e l’arcivescovo Williams nella Dichiarazione Comune del novembre 2006: «Mentre il dialogo si sviluppava, molti cattolici e anglicani hanno trovato gli uni negli altri un amore per Cristo che ci invita a una cooperazione e a un servizio concreti. Questa comunanza nel servizio di Cristo, sperimentata da molte delle nostre comunità in tutto il mondo, aggiunge ulteriore impulso ai nostri rapporti».
Invero, non è affatto una piccola cosa quella che abbiamo raggiunto e che ci è stata concessa in anni di dialogo nell’Arcic e nella Iarccum. Siamo grati per l’opera di queste commissioni e noi cattolici non vogliamo che tali risultati vadano perduti. Di fatto desideriamo proseguire lungo questo cammino e portare a compimento quanto iniziato quarant’anni fa.
A maggior ragione, fedele a ciò che credo Cristo desideri e, aggiungerei, con la sincerità che l’amicizia permette, mi rattrista osservare i problemi in seno alla Comunione Anglicana emersi e divenuti più gravi dall’ultima Conferenza di Lambeth e le ripercussioni di natura ecumenica di tali tensioni interne. Nella seconda parte di questo intervento desidero affrontare una serie di aspetti ecclesiologici derivanti dall’attuale situazione nella Comunione Anglicana e sollevare alcune questioni complesse e scottanti.
Tuttavia prima desidero ripetere quanto dissi nel novembre 2006 all’arcivescovo di Canterbury, giunto a Roma per fare visita a Papa Benedetto XVI: «Le questioni e i problemi dei nostri amici sono anche questioni e problemi nostri». Quindi sollevo tali questioni non da giudice, ma da interlocutore ecumenico che è profondamente scoraggiato dai recenti sviluppi e che desidera offrirvi una riflessione onesta, dal punto di vista cattolico, su come e dove possiamo progredire nella situazione attuale.
II. Considerazioni ecclesiologiche
In questa seconda parte non voglio fare una dissertazione magisteriale sull’ecclesiologia. Desidero ricordarvi ancora una volta alcune intuizioni comuni degli ultimi decenni che possono, o dovrebbero, essere utili nel trovare un modo di proseguire, che si spera comune.
Le questioni ecclesiologiche sono state a lungo un motivo grave di scontro fra le nostre due comunità. Già da giovane studente analizzavo tutte le argomentazioni ecclesiologiche di John Henry Newman, che lo spinsero a diventare cattolico. Le sue principali preoccupazioni riguardavano l’apostolicità nella comunione con la sede di Pietro come custode della tradizione apostolica e dell’unità della Chiesa. Penso che i suoi interrogativi siano ancora attuali e che il dibattito non sia ancora esaurito.
Mentre Newman affrontava la Chiesa d’Inghilterra della sua epoca, oggi ci troviamo di fronte a ulteriori problemi nella Comunione Anglicana, composta da quarantaquattro Chiese nazionali e regionali, ognuna dotata di auto-governo. L’indipendenza senza una sufficiente interdipendenza è divenuta ora un problema grave.
Due anni fa, la dichiarazione della Iarccum "Crescere insieme nell’unità e nella missione" affrontò la situazione in seno alla Comunione Anglicana e le sue implicazioni di natura ecumenica come segue: «Dopo l’incontro di Mississagua le Chiese della Comunione Anglicana sono entrate in una fase caratterizzata da dispute scatenate dall’ordinazione episcopale di una persona pubblicamente impegnata in un rapporto con un’altra persona del suo stesso sesso e dall’autorizzazione di riti pubblici per la benedizione di unioni omosessuali. Tali questioni hanno promosso la riflessione sulla natura del rapporto fra le Chiese della Comunione [...] Inoltre, i rapporti ecumenici sono divenuti più complicati perché le proposte in seno alla Chiesa d’Inghilterra hanno richiamato l’attenzione sulla questione dell’ordinazione delle donne all’episcopato, che è una pratica ministeriale consolidata in alcune province anglicane» (cfr 6).
Oltre agli sviluppi relativi a questo ultimo punto, dobbiamo tener conto della decisione di un numero significativo di vescovi anglicani di non partecipare alla Conferenza di Lambeth e delle proposte interne all’anglicanesimo che stanno sfidando gli strumenti esistenti di autorità in seno alla Comunione Anglicana.
Nella prossima parte, affronterò alcune questioni più direttamente, ma qui voglio concentrarmi in modo specifico sulla dimensione ecclesiologica di questi problemi attuali, facendo riferimento a quanto abbiamo detto insieme sulla natura della Chiesa, e alle iniziative della Comunione Anglicana per affrontare queste dispute interne.
Nel marzo 2006, l’arcivescovo di Canterbury mi ha invitato a intervenire a un incontro della Camera dei vescovi della Chiesa d’Inghilterra sulla missione dei vescovi nella Chiesa. Sebbene alla base di quell’intervento ci fosse l’eventuale ordinazione delle donne all’episcopato, il tema centrale, ossia la natura dell’ufficio episcopale quale ufficio di unità, era importante per tutti i motivi di tensione nella Comunione Anglicana che ho individuato in precedenza.
In breve, dissi che l’unità, l’unanimità e la koinonìa («comunione») sono concetti fondamentali nel Nuovo Testamento e nella Chiesa primitiva. Affermai: «Fin dall’inizio l’ufficio episcopale fu koinonialmente e collegialmente integrato nella comunione di tutti i vescovi. Non è mai stato percepito come un ufficio da intendere come individuale o da esercitare individualmente». Poi affrontai il tema della teologia dell’ufficio episcopale di un Padre della Chiesa di grande importanza per gli anglicani e per i cattolici, il vescovo martire Cipriano di Cartagine vissuto nel iii secolo.
Molto nota è la sua frase «episcopatus unus et indivisus». Questa frase fa parte di una pressante ammonizione di Cipriano ai suoi compagni vescovi: «Quam unitatem tenere firmiter et vindicare debemus maxime episcopi, qui in ecclesia praesidimus, ut episcopatum quoque ipsum unum atque indivisum probemus». («E questa unità dobbiamo fermamente mantenere e affermare, soprattutto noi vescovi, che presiediamo nella Chiesa, per dimostrare che anche l’episcopato è uno e indiviso»). Questa pressante esortazione è seguita da un’interpretazione precisa della dichiarazione episcopatus unus et indivisus. «Episcopatus unus est cuius a singulis in solidum pars tenetur» («L’episcopato è uno solo e ogni sua parte è mantenuta da ognuno per il tutto», De ecclesiae catholicae unitate, n. I, 5).
Tuttavia, Cipriano compie un passo ulteriore: non solo evidenzia l’unità del popolo di Dio con il proprio vescovo, ma aggiunge anche che nessuno dovrebbe immaginare che egli sia in comunione solo con alcuni, perché «la Chiesa cattolica non è separata o divisa», ma «unita e tenuta insieme dal collante della coesione reciproca dei vescovi» (Epistulae, 66, 8). Questa collegialità di certo non si limita al rapporto orizzontale e sincronico con collegi episcopali contemporanei. Infatti, poiché la Chiesa è una e la stessa in tutti i secoli, quella attuale deve mantenere il consenso diacronico con l’episcopato dei secoli precedenti e, soprattutto, con la testimonianza degli apostoli. Questo è il significato più profondo della successione apostolica nell’ufficio episcopale.
L’ufficio episcopale è quindi un ufficio di unità in un duplice senso. I vescovi sono segno e strumento di unità in seno alla singola Chiesa locale, proprio come lo sono fra le chiese locali contemporanee e quelle di tutti i tempi nella Chiesa universale.
Quest’idea di ufficio episcopale è stata presentata nelle dichiarazioni dell’Arcic, in particolare in Chiesa come comunione e nelle dichiarazioni dell’Arcic sull’autorità della Chiesa. Chiesa come comunione (cfr n. 45) afferma: «per alimentare e accrescere questa comunione, Cristo, il Signore, ha fornito un ministero di supervisione, la cui pienezza è affidata all’episcopato, che ha la responsabilità di mantenere ed esprimere l’unità delle Chiese (cfr nn. 33 e 39; Rapporto finale, Ministero e ordinazione). Governando, insegnando e amministrando i Sacramenti, in particolare l’Eucaristia, questo ministero tiene uniti i credenti nella comunione della Chiesa locale e nella più ampia comunione di tutte le Chiese (cfr n. 39). Questo ministero di supervisione ha dimensioni sia collegiali sia primaziali. Si fonda sulla vita della comunità ed è aperto alla partecipazione di quest’ultima alla scoperta della volontà di Dio. Viene esercitato affinché unità e comunione siano espresse, tutelate e promosse a ogni livello, locale, regionale e universale.
La stessa dichiarazione esprime l’idea, sia anglicana sia cattolica romana, che i vescovi svolgono il proprio ministero succedendo agli apostoli, il che serve ad «assicurare a ogni comunità che la sua fede sia di fatto la fede apostolica, ricevuta e trasmessa dai tempi apostolici» (Chiesa come comunione, n. 33).
Il documento dell’Arcic "Il dono dell’autorità" ha sviluppato ulteriormente questo concetto affermando: «Esistono due dimensioni di comunione nella tradizione apostolica: quella diacronica e quella sincronica. Il processo di tradizione implica ovviamente la trasmissione del Vangelo da una generazione all’altra (dimensione diacronica). Se la Chiesa deve restare unita nella verità, deve anche implicare la comunione delle Chiese in tutti i luoghi in quell’unico Vangelo (dimensione sincronica). Entrambe le dimensioni sono necessarie alla cattolicità della Chiesa» (cfr 26).
Il testo aggiunge che ogni vescovo, in comunione con tutti gli altri vescovi, ha la responsabilità di tutelare ed esprimere la più ampia koinonìa della Chiesa, e «partecipa alla sollecitudine di tutte le Chiese» (cfr n. 39). Il vescovo è dunque «sia una voce per la Chiesa locale sia una persona mediante la quale la Chiesa locale impara da altre chiese» (n. 38). Il documento "Il dono dell’autorità" (n. 37) sottolinea il ruolo svolto dal collegio episcopale nel mantenere l’unità della Chiesa: «L’ interdipendenza reciproca di tutte le Chiese è organica alla realtà della Chiesa come Dio vuole che sia. Nessuna Chiesa locale che partecipi alla tradizione viva può considerarsi autosufficiente. Il ministero del vescovo è cruciale perché serve la comunione in seno alle Chiese locali e fra loro. La loro comunione reciproca è espressa dall’incorporazione di ogni vescovo in un collegio episcopale. I vescovi sono, sia personalmente sia collegialmente, al servizio della comunione».
Sebbene non ci sia tempo per parlare di più dell’ecclesiologia dell’Arcic, è sufficiente dire che nel nostro dialogo siamo riusciti a esporre un’idea incisiva del ministero episcopale nel contesto di un concetto condiviso di Chiesa come koinonìa.
È significativo che il Rapporto di Windsor del 2004, nel tentativo di offrire alla Comunione Anglicana fondamenti ecclesiologici per affrontare la crisi attuale, abbia adottato un’ecclesiologia di koinonìa. L’ho trovato utile e incoraggiante e in risposta alla lettera dell’arcivescovo di Canterbury che invita a una reazione ecumenica al Rapporto di Windsor ho osservato che «nonostante questioni ecclesiologiche sostanziali ci dividano ancora e meritino la nostra attenzione, questo approccio è fondamentalmente in linea con l’ecclesiologia di comunione del concilio Vaticano II.
Le conseguenze che il Rapporto trae da questa base ecclesiologica sono anche costruttive, in particolare l’interpretazione dell’autonomia provinciale in termini di interdipendenza, quindi «soggetta ai limiti derivanti dagli impegni di comunione» (Windsor, n. 79). A questo si collega l’impulso del Rapporto a rafforzare e l’autorità sopraprovinciale dell’arcivescovo di Canterbury (nn. 109-110) e la proposta di una Alleanza Anglicana che renda «espliciti e vigorosi la lealtà e i vincoli di affetto che dominano i rapporti fra le Chiese della Comunione» (n. 118).
L’unica debolezza che ho rilevato in questa ecclesiologia è che «sebbene il Rapporto sottolinei che le province anglicane debbano essere responsabili le une verso le altre e responsabili del mantenimento della comunione, una comunione radicata nelle Scritture, si presta un’attenzione decisamente scarsa all’importanza di essere in comunione con la fede della Chiesa nel corso dei secoli». Nel nostro dialogo abbiamo affermato congiuntamente che le decisioni di una Chiesa locale o regionale non devono solo promuovere la comunione nel contesto attuale, ma anche essere in sintonia con la Chiesa del passato, e in particolare, con la Chiesa apostolica così come è attestata dalle Scritture, dai primi concili e dalla tradizione patristica. Questa dimensione diacronica di apostolicità «ha importanti ramificazioni ecumeniche poiché condividiamo una tradizione comune di un millennio e mezzo. Tale patrimonio comune, che Papa Paolo VI e l’arcivescovo Michael Ramsey hanno definito “antiche tradizioni comuni”, è degno di essere interpellato e tutelato».
Alla luce di quest’analisi del ministero episcopale da parte dell’Arcic e dell’ecclesiologia di koinonìa contenuta nel Rapporto di Windsor, è stato particolarmente sconfortante assistere alle crescenti tensioni in seno alla Comunione Anglicana. In diversi contesti, i vescovi non sono in comunione con altri vescovi; in alcuni casi le province anglicane non sono più in piena comunione le une con le altre. Sebbene il processo di Windsor prosegua e l’ecclesiologia proposta dal Rapporto di Windsor sia stata accolta in via di principio dalla maggioranza delle province anglicane, è difficile dal nostro punto di vista comprendere come questo si sia tradotto nell’auspicato rafforzamento interno della Comunione Anglicana e dei suoi strumenti di unità. Ci sembra anche che l’impegno della Comunione Anglicana a essere «episcopalmente guidata e sinodalmente governata» non è sempre riuscito a mantenere l’apostolicità di fede e che il governo sinodale, malinteso come una specie di processo parlamentare, abbia a volte bloccato quella guida episcopale auspicata da Cipriano e formulata nell’Arcic.
So che molti di voi sono preoccupati, alcuni anche profondamente, dalla minaccia di frammentazione in seno alla Comunione Anglicana. Siamo profondamente solidali con voi perché anche noi siamo preoccupati e rattristati quando ci chiediamo: «In questo scenario, che forma potrà assumere la Comunione Anglicana di domani, e chi sarà il nostro interlocutore? Dovremmo, e in che modo potremmo, impegnarci appropriatamente e onestamente in dialoghi anche con quanti condividono il punto di vista cattolico nella Comunione Anglicana o in particolari province anglicane? Che cosa vi aspettate in questa situazione dalla Chiesa di Roma, che secondo quanto afferma Ignazio di Antiochia, deve presiedere sulla Chiesa con amore? In che modo l’opera dell’Arcic sull’episcopato, l’unità della Chiesa e la necessità di un esercizio di primazia a livello universale potrebbero aiutare la Comunione Anglicana in questo momento?».
Invece di rispondere a questi interrogativi, permettetemi di ricordarvi quanto abbiamo affermato durante i colloqui informali nel 2003 e da allora abbiamo ripetuto in diverse occasioni: «È nostro grande desiderio che la Comunione Anglicana sia unita, radicata in quella fede storica che il nostro dialogo e i nostri rapporti nel corso di quattro decenni ci hanno portato a credere sia condivisa in ampio grado». Quindi, seguiamo i dibattiti di Lambeth con grande interesse e sincera sollecitudine, accompagnandoli con la nostre fervide preghiere.
III. Riflessioni su questioni che la Comunione Anglicana deve affrontare
In questa parte finale, desidero affrontare brevemente due questioni al centro delle tensioni in seno alla Comunione Anglicana e ai suoi rapporti con la Chiesa Cattolica: l’ordinazione delle donne e la sessualità umana. Non è necessario farlo dettagliatamente in quanto la posizione cattolica, che si considera coerente con il Nuovo Testamento e la tradizione apostolica, è ben nota. Desidero solo offrire alcune riflessioni dal punto di vista cattolico, tenendo contro dei nostri rapporti passati, presenti e futuri.
L’insegnamento della Chiesa cattolica sulla sessualità umana, in particolare, sull’omosessualità, è chiaro ed esposto nel Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 2357-2359. Siamo convinti del fatto che questo insegnamento sia saldamente fondato nel Vecchio e nel Nuovo Testamento e quindi che qui sia in gioco la fedeltà alle Scritture e alla tradizione apostolica. Posso solo evidenziare che cosa afferma il documento "Crescere insieme in unità e missione": «nei dibattiti sulla sessualità umana nella Comunione Anglicana e in quelli fra quest’ultima e la Chiesa cattolica, esistono questioni ermeneutiche antropologiche e bibliche che vanno affrontate» (n. 86e). Non a caso il tema principale di oggi della Conferenza di Lambeth ha riguardato l’ermeneutica biblica.
Desidero brevemente richiamare la vostra attenzione sulla dichiarazione dell’Arcic "Vita in Cristo" in cui si osserva (nn. 87-88) che gli anglicani potevano concordare con i cattolici sul fatto che l’attività omosessuale è disordinata, ma che potevamo differire relativamente al consiglio morale e pastorale che avremmo offerto a quanti lo cercavano.
Sappiamo e apprezziamo che le recenti dichiarazioni dei primati sono in sintonia con quell’insegnamento, espresso chiaramente nella risoluzione 1.10 della Conferenza di Lambeth del 1998. Alla luce delle tensioni degli scorsi anni a questo proposito, una dichiarazione chiara da parte della Comunione Anglicana ci offrirebbe maggiori possibilità di offrire una testimonianza comune della sessualità umana e del matrimonio, una testimonianza dolorosamente necessaria nel mondo di oggi.
A proposito dell’ordinazione delle donne al sacerdozio e all’episcopato, la Chiesa cattolica ha chiaramente esposto il suo insegnamento fin dall’inizio del nostro dialogo, non solo internamente, ma anche nel carteggio fra Papa Paolo VI e Papa Giovanni Paolo II con gli arcivescovi di Canterbury che si sono succeduti. Nella sua lettera apostolica "Ordinatio sacerdotalis" del 22 maggio 1994, Papa Giovanni Paolo II ha fatto riferimento alla lettera di Papa Paolo VI all’arcivescovo Coggan del 23 novembre 1975 e ha affermato la posizione cattolica come segue: «L’ordinazione sacerdotale [...] è stata nella Chiesa cattolica fin dall’inizio sempre esclusivamente riservata agli uomini» e «tale tradizione è stata fedelmente mantenuta anche dalle Chiese Orientali». Ha concluso: «dichiaro che la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa». Quest’enunciazione mostra con chiarezza che non si tratta solo di una posizione disciplinare, ma anche di un’espressione della nostra fedeltà a Gesù Cristo. La Chiesa cattolica è vincolata alla volontà di Gesù Cristo e non si considera libera di instaurare una nuova tradizione aliena a quella della Chiesa di tutti i tempi.
Come ho affermato rivolgendomi alla Camera dei vescovi della Chiesa d’Inghilterra nel 2006, per noi la decisione di ordinare le donne implica un allontanamento dalla posizione comune di tutte le Chiese del primo millennio, ossia non solo della Chiesa cattolica, ma anche delle Chiese orientali e ortodosse. Ci sembra che la Comunione Anglicana si stia avvicinando molto alle Chiese protestanti del XVI secolo e stia assumendo una posizione che quelle Chiese assunsero solo nella seconda metà del XX secolo.
Dal momento che attualmente ventotto province anglicane ordinano donne al sacerdozio e che, sebbene soltanto quattro province abbiano ordinato donne all’episcopato, altre tredici province hanno approvato la legislazione che permette l’episcopato femminile, la Chiesa cattolica deve ora tener conto della realtà che l’ordinazione delle donne al sacerdozio e all’episcopato non riguarda solo province isolate, ma corrisponde sempre più alla posizione della Comunione. Essa continuerà ad avere vescovi, come affermato nella Conferenza di Lambeth del 1888, ma come nel caso dei vescovi di alcune Chiese protestanti, le Chiese più antiche dell’Oriente e dell’Occidente riconosceranno in ciò molto meno di quanto ritengono sia il carattere e il ministero del vescovo nel senso inteso dalla Chiesa primitiva e rimasto costante nel corso dei secoli.
Ho già affrontato il problema ecclesiologico del non riconoscimento da parte dei vescovi dell’ordinazione episcopale altrui in seno a una stessa Chiesa. Ora devo essere chiaro a proposito della nuova situazione che si è venuta a creare nei nostri rapporti ecumenici. Sebbene il nostro dialogo abbia portato a un accordo significativo sull’idea di sacerdozio, l’ordinazione delle donne all’episcopato blocca sostanzialmente e definitivamente un possibile riconoscimento degli Ordini Anglicani da parte della Chiesa cattolica.
Auspichiamo il proseguimento di un dialogo teologico fra la Comunione Anglicana e la Chiesa cattolica, ma quest’ultimo sviluppo mina direttamente il nostro obiettivo e altera il livello di quanto perseguiamo nel dialogo. La Dichiarazione comune del 1966, firmata da Papa Paolo VI e dall’arcivescovo Michael Ramsey, esortava al dialogo che «ha per scopo l’unità per la quale Cristo così pregava» e parlava di «un ritorno alla piena comunione di fede e di vita sacramentale». Ora sembra che la piena comunione visibile quale fine del nostro dialogo abbia fatto un passo indietro, che il nostro dialogo avrà obiettivi meno definitivi e quindi che il suo carattere ne risulterà alterato. Sebbene questo dialogo possa ancora condurre a buoni risultati, non sarà sostenuto dal dinamismo che deriva dalla possibilità realistica dell’unità che Cristo esige da noi o dalla partecipazione comune alla mensa dell’unico Signore, alla quale aneliamo con tanto ardore.
Conclusione
Chiunque abbia visto le grandi e magnifiche cattedrali e chiese anglicane in tutto il mondo, abbia visitato gli antichi e famosi collegi di Oxford e di Cambridge, abbia partecipato alle meravigliose preghiere della sera, abbia sperimentato la bellezza e l’eloquenza delle preghiere anglicane, abbia letto le eleganti opere accademiche degli storici e dei teologi anglicani, sia attento ai contributi significativi e antichi degli Anglicani al movimento ecumenico, sa bene che la tradizione anglicana possiede molti tesori. Essi sono, come afferma la Lumen gentium, fra quei doni che «appartenendo propriamente alla Chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica» (n. 8).
La nostra acuta consapevolezza della grandezza e della notevole profondità della cultura cristiana della vostra tradizione rende più grande la nostra preoccupazione per voi relativamente ai problemi e alle crisi attuali, ma ci dona anche fiducia nel fatto che, con l’aiuto di Dio, troverete una via d’uscita da queste difficoltà e che in modo nuovo saremo rafforzati nel nostro comune pellegrinaggio verso l’unità che Gesù Cristo desidera per noi e per la quale prega. Ripeto ciò che scrissi nella lettera all’arcivescovo di Canterbury nel dicembre 2004: «In uno spirito di amicizia e collaborazione ecumeniche siamo pronti a sostenervi in qualsiasi modo sia appropriato e necessario».
In questa stessa ottica desidero ritornare alla domanda sconcertante dell’arcivescovo su quale anglicanesimo voglio. Mi viene in mente che nei momenti critici della storia della Chiesa d’Inghilterra e quindi della Comunione Anglicana, siete riusciti a recuperare la forza della Chiesa dei Padri quando quella tradizione era a rischio.
Ne sono esempio i Caroline Divines, ma penso soprattutto al Movimento di Oxford. Forse, nella nostra epoca, è anche possibile pensare a un nuovo Movimento di Oxford, un recupero di ricchezze presenti nella vostra famiglia. Sarebbe una rinnovata recezione, un nuovo ricorso alla Tradizione Apostolica in una situazione inedita. Non significherebbe rinunciare alla vostra profonda attenzione per le sfide e le lotte umane, al vostro desiderio di dignità e giustizia umane, alla vostra sollecitudine affinché tutte le donne e tutti gli uomini abbiano un ruolo attivo nella Chiesa. Piuttosto, porterebbe tali istanze e le questioni che ne derivano più direttamente nell’ambito creato dal Vangelo e dall’antica tradizione comune su cui si basa il nostro dialogo.
Speriamo e preghiamo affinché, mentre cercate di procedere come discepoli fedeli di Gesù Cristo, il Padre di ogni misericordia vi conceda le abbondanti ricchezze della Sua Grazia e vi guidi con la presenza costante dello Spirito Santo.
IL FAMILY FESTIVAL DI FIUGGI
Piccoli grandi laboratori di una cultura sorprendente
Avvenire, 31 luglio 2008
DAVIDE RONDONI
C i sono cose che si sanno, nel senso che ormai appartengono al dominio del risaputo. E questo è bene. Ad esempio sapere che ogni anno ci sarà il festival del cinema di Venezia è ormai un tranquillo, consolidato riferimento per coloro che si definiscono amanti del cinema. O come Venezia, tante altre manifestazioni culturali che, ormai tradizionalmente, tra luci e ombre, sono una bussola anche per capire questo incomprensibile meraviglioso paese che chiamano Italia. E i media ne parlano ( e straparlano).
Poi ci sono cose che non si sanno, o quasi. O meglio che inziano, che mettono fuori la testa. Insomma esistono punti in cui forse succede qualcosa di nuovo. Come ad esempio a Fiuggi, in questi giorni. Dove una strana, colorita e variamente assortita brigata di persone ha dato vita a questo Fiuggi Family Festival, dedicato al cinema e a varie forme di intrattenimento dedicate al cosiddetto pubblico ' family'. Che vuol dire pubblico generico, senza distinzioni. Il pubblico, per intenderci, che finisce per premiare i grandi successi al botteghino.
Qui, da un’idea di Gianni Astrei e sotto la guida di Andrea Piersanti e del professor Armando Fumagalli, si stanno radunando famigliole con bambini al seguito, genialoidi inventori di cartoon, grandi manager di network televisivi e altri addetti ai lavori, e per alcuni giorni in un programma fitto e vario. Al centro un’idea semplice: dare un punto di ritrovo - all’insegna pure della vacanza in un luogo ameno per conoscere, saggiare e anche premiare ciò che si rivolge a un pubblico generico di famiglie. Che è il pubblico più numeroso e spesso poco considerato dalle manifestazioni che si piccano di fare cultura. Qui cultura se ne fa - basta vedere non solo l’ampiezza delle produzioni presenti, ma anche il programma delle conferenze - ma la si fa senza spocchia. E senza demonizzare il cosiddetto mercato.
Ad altri il compito di fare la doverosa cronaca. Qui però vale rilevare che l’Italia culturale è in moto, anche fuori dai percorsi più seminati e che forse hanno meno idee da offrire in questi momenti di prova per tutti, o forse le hanno esaurite. E che varrebbe la pena, vincendo diffidenze e anche le pigrizie che sono la malattia culturale più grave, guardare a Fiuggi.
Forse anche la cultura, quella pure che intende parlare a fasce ampie di popolazione, ha bisogno di luoghi dove ritemprarsi, trovare fonti. Lo hanno capito il ministro in carica ed esponenti dell’opposizione. O grandi produttori come Disney che con gran successo ha presentato in anteprima il sequel di Narnia.
Al sottoscritto, poeta in esplorazione in territori altrui, insieme al Presidente di Giuria Pupi Avati e ad altri addetti ai lavori toccherà individuare quale premiare tra i film in concorso.
Ma un premio al coraggio va dato a chi ha voluto, in questo paese che sembra ripiegato culturalmente in assetto di battaglie di retroguardia, in lamenti o in rimembranze, promuovere un laboratorio evento che ha tutta l’aria di guardare avanti e di promuovere una cultura che non ha paura della vita.
«Mi staccarono il sondino ma ero viva e sentivo tutto» - Madre di tre figli di trentatrè anni racconta in un libro il suo dramma: per 70 giorni in stato vegetativo
Avvenire, 31 luglio 2008
DA VERONA LORENZO FAZZINI
E ra il 29 giugno 1995: Kate Adamson, allora 33enne madre di due bimbi di 3 e 18 mesi, in procinto di qualificarsi come personal trainer, incappa in un infarto. Da quel momento, per 70 lunghissimi giorni, entra in quella che tecnicamente viene definita 'locked-in' sindrome, ovvero intrappolata in un corpo immobile, perfettamente cosciente.
Per questa giovane donna sposata, nata in Nuova Zelanda e residente a Los Angeles, in California, il futuro si presentava terribile. «Ero un perfetto candidato all’omicidio compassionevole » ha ricordato in seguito. Anzi: sentiva che i medici che l’avevano in cura dicevano a suo marito: «Lasciamola andare. È meglio per tutti. Del resto, non avrebbe voluto vivere così». Ovvero, con un sondino in gola e uno in pancia per l’alimentazione e l’idratazione somministrate artificialmente. I dottori avevano anche una qualche ragione, che oggi si potrebbe chiamare “testamento terapeutico”: dopo la sua incredibile vicenda, la Adamson ha ricordato come, da sana, avesse dichiarato: «Se mi succedesse qualcosa di brutto, preferisco morire che essere di peso a qualcuno. Non voglio che vengano presi provvedimenti eroici quando sarà giunto il mio tempo». Le foto che accompagnano il suo volume autobiografico “Kate’s Journey: Paralyzed but not Powerless” (“Il viaggio di Kate: paralizzata ma non senza forza”) la presentano in una smorfia di dolore che ella nemmeno riusciva a comunicare all’esterno. '«Sentivo il dolore, non potevo comunicare con il mondo esterno, però sapevo cosa si diceva di me» ha raccontato la donna (la parte sinistra del suo corpo adesso è paralizzata), che ora riveste diversi ruoli di attivista pro-life in qualità di portavoce dell’American Heart Association. «Ad esempio, sentivo dire dai medici che avevo una possibilità su un milione di vivere ancora».
La seconda notte in ospedale i medici consigliarono al marito della donna di rivolgersi ad un’agenzia funebre; per 8 giorni le venne staccato il sondino gastrico che la nutriva. Ma un giorno Kate ha sbattuto gli occhi e quel battito di ciglia l’ha salvata, grazie all’indefesso lavoro di avvocato del marito Steven. «Quando mi tolsero il sondino, non potevo parlare ma sentivo tutto e gridavo dentro di me: non uccidetemi, datemi qualcosa da mangiare » ha raccontato in seguito. Da quando - dopo anni di rieducazione fisica - Kate ha ripreso la vita di prima, non cessa di portare la sua testimonianza di exmalata vegetativa, alzando la voce laddove la vita umana rischia di venir calpestata. Nell’aprile 2005, poco dopo la morte di Terri Schiavo, la Adamson levò la sua parola al sotto-comitato del Congresso sulla giustizia, la politica sulle droghe e le risorse umane. In quell’occasione parlò dei diritti di coloro che non possono parlare da se stessi e sulle responsabilità di una società che deve farsi carico di queste persone.