martedì 29 luglio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI: Gesù di Nazaret - Presentazione di JULIÁN CARRÓN
2) IL ’68 E L’ETERNA GIOVINEZZA… 28.07.2008, di Antonio Socci
3) La verità dell'«Humanae vitae», di Karol Wojtyla
4) Sporcano l'universo. Smettete di far figli, di Marina Corradi
5) Immigrazione: il vero significato dell’accoglienza, di Alberto Piatti
6) Una legge impossibile per Eluana Englaro, di Giuliano Ferrara – dal Foglio.it
7) Caro Walter, l’idea era buona ma il tuo Pd è una delusione, di Giuliano Ferrara dal Foglio.it
8) SUL CRINALE DEL CASO ENGLARO - QUELLE SENTENZE SVUOTANO IL COMPITO MEDICO

Benedetto XVI: Gesù di Nazaret - Presentazione di JULIÁN CARRÓN
Cattedrale di Palermo, 22 maggio 2008
Il mio intervento vuol essere un invito alla lettura del libro, un tentativo di facilitare a coglierne la portata e la singolarità. Non una sostituzione alla lettura personale del libro.
Lo scopo del volume lo troviamo descritto nell’introduzione, quando con un ricordo della sua
giovinezza Benedetto XVI ci pone davanti alla sfida che si propone di affrontare. Egli ricorda come nella sua giovinezza avesse letto libri bellissimi sulla figura di Gesù, opere che definisce entusiasmanti. “In tutte queste opere l’immagine di Gesù Cristo veniva delineata a partire dai Vangeli: come Egli visse sulla terra e come, pur essendo interamente uomo, portò nello stesso tempo agli uomini Dio, con il quale, in quanto figlio, era una cosa sola. Così, attraverso l’uomo Gesù, divenne visibile Dio e a partire da Dio si poté vedere l’immagine dell’autentico uomo” (p. 7).
Ma subito il Papa afferma: a cominciare dagli anni cinquanta la situazione cambiò. Lo strappo tra il ‘Gesù storico’ e il ‘Cristo della fede’ divenne sempre più ampio e cominciò un periodo di diffidenza lungo duecento anni. La Chiesa – come vedremo meglio dopo – si era avvicinata ai documenti che parlavano di Gesù con tutta la fiducia di un figlio nella madre che gli consegna i libri contenenti la testimonianza completa che ha ricevuto. Proprio questa fiducia nei documenti cristiani si è incrinata in un certo momento della storia, con l’introdursi di un sospetto nei confronti della storicità di essi. Con l’inizio dell’indagine moderna delle Scritture, fa capolino il dubbio sul valore storico degli scritti del Nuovo Testamento in generale e del Vangelo in particolare. Il fatto che questi scritti fossero opera dei cristiani dava adito ai sospetti. Secondo questa mentalità, nata dall’illuminismo, questi documenti ci trasmettono quello che i cristiani pensano di Cristo, non quello che realmente è successo vale a dire ciò che ha fatto e ha detto Gesù di Nazaret. Per poter arrivare – sostiene questa mentalità – al vero Gesù, al Gesù reale non travisato dalla fede cristiana, bisogna eliminare dai documenti quello che i cristiani Gli hanno attribuito, specialmente la Sua divinità.
Per questo – dice il Papa nell’introduzione – i progressi di questa ricerca portarono a ricostruzioni contrastanti di questa figura, con esiti che rispecchiano assai più la personalità degli autori che non reali indagini storiche. Il risultato comune di tutti questi tentativi è l’impressione che si sappia ben poco di certo su Gesù, e che dunque solo in seguito la fede nella Sua divinità abbia plasmato la Sua immagine. Come esempio basta sfogliare uno dei tanti recenti libri pubblicati sul tema in Italia (Gesù Ebreo di Galilea di Giuseppe Barbaglio), per vedere come nella stessa prefazione venga fatto l’elenco di una serie impressionante di ipotesi e ricostruzioni di questa figura di Gesù di Nazaret: per alcuni è un carismatico, per altri un profeta, per altri un filosofo cinico, per altri un rivoluzionario sociale. Per tutta risposta, lo stesso autore, dopo aver relazionato queste teorie, va ad affermare: “Solo per ingenuità e colpevole leggerezza, a cui non sono sfuggiti alcuni studiosi segnalati sopra, si può pensare di dire ‘ecco il vero Gesù’”.
Esattamente questa è l’ingannevole impressione che grava culturalmente su tutti noi: che di Gesù possiamo sapere poco, e che siamo addirittura ingenui nel credere ancora nella verità di questa figura!
Continua il Papa: “questa impressione, nel frattempo è penetrata profondamente nella coscienza comune della cristianità” (p. 8). Tanti cristiani non hanno mai letto questi libri, ma è come se il virus di questo sospetto fosse entrato dentro di loro.
Come esemplificazione di quest’ultima affermazione, permettetemi di raccontarvi un episodio che mi è capitato tanti anni fa quando facevo lezione di religione in un liceo madrileno. Dopo un excursus introduttivo, mi accingevo a presentare i documenti che raccontano le origini del cristianesimo. E scrissi sulla lavagna la parola Vangeli. Avevo appena finito di scriverla quando un alunno chiese la parola e intervenne: “Un momento. I Vangeli non sono documenti da cui possiamo imparare qualcosa di certo su Gesù. Sono soggettivi, li hanno scritti i cristiani”. Nel suo linguaggio questo significava che poiché quei documenti erano stati scritti dai cristiani non potevano servire per conoscere la verità storica e oggettiva delle origini cristiane. Gli risposi: “Allora, secondo te l’atteggiamento più adeguato di fronte alla realtà è il sospetto?”. “Certo”, rispose. E si unirono a lui altri compagni. Allora dissi: “Se l’atteggiamento più adeguato di fronte alla realtà è il sospetto, questa mattina quando tua mamma ti ha messo in tavola il caffè per colazione, le avrai detto: mamma, se prima non lo fai analizzare chimicamente e mi dimostri che non è avvelenato non lo bevo”. Ricordo ancora perfettamente l’espressione del mio allievo mentre, tra l’arrabbiato e il sorpreso per la mia provocazione, alzò le braccia dicendo: “Ma se è da sedici anni che vivo con mia madre!”. “Allora”, obiettai, “ci sono delle occasioni in cui l’atteggiamento di fronte alla realtà non è il sospetto, vero?”. Il ragazzo rimase un po’ imbarazzato. E io continuai: “Ebbene, qual è la differenza tra l’atteggiamento che hai di fronte ai Vangeli (come hai reagito di fronte alla parola Vangeli che ho scritto sulla lavagna) e l’atteggiamento che hai di fronte alla tazza di caffè? Che ti poni di fronte ai Vangeli senza avere sedici anni di convivenza alle spalle, mentre di fronte alla tazza di caffè ti metti con sedici anni carichi di ragioni, le quali ti danno la certezza che tua madre non ha messo del veleno nel caffè”.
Questo episodio, che ho raccontato poi tante volte, mi ha fatto comprendere che l’unica posizione ragionevole di fronte ai documenti del Nuovo Testamento, ai Vangeli, è quella che ci ha insegnato la Chiesa, la quale si accosta a essi come il mio allievo alla tazza di caffè: mediante un’esperienza di convivenza nel presente con l’avvenimento cristiano.
Chi ha questa esperienza, come il ragazzo con la mamma, quando si accosta ai Vangeli, non è in una posizione ingenua – non è che il mio allievo fosse un ingenuo di fronte alla tazza di caffè, aveva sedici anni pieni di ragioni per avvicinarsi alla tazza di caffè senza alcun sospetto, per cui avrebbe potuto dire, in analogia con Pietro: “Se non credo a mia mamma, non posso credere a quello che vedono i miei occhi” – ma in una posizione carica di ragioni, accumulate durante una convivenza nel tempo. Altro che illusione!
Chi ha questa esperienza, si accosta ai Vangeli e scopre quella corrispondenza che cresce con la convivenza nel tempo.
Se non è così, come è successo in questi ultimi due secoli in cui tanti studiosi che si sono avvicinati ai Vangeli non hanno avuto questo atteggiamento, ne consegue una situazione drammatica per la fede, perché viene reso incerto il suo punto di riferimento. Dice il Papa: “l’intima amicizia con Gesù, da cui tutto dipende [da cui tutto dipende!], minaccia di annaspare nel vuoto” (p. 8).
Questa situazione in cui ci troviamo, l’hanno già dovuta affrontare in termini simili i primi cristiani.
Ce lo ricorda benissimo la lettera scritta dall’apostolo Paolo ai Gàlati. La comunità dei Gàlati era stata fondata da Paolo, ma ben presto in quella comunità in cui egli aveva annunciato il Vangelo, la predicazione cristiana, arrivarono altri che portarono un altro vangelo, cioè un’altra interpretazione del Vangelo. Allora san Paolo vuole accompagnare i Gàlati a trovare una soluzione ragionevole per decidere qual è la interpretazione vera del Vangelo. E per questo, nella prima parte della Lettera, racconta la sua storia personale, come conobbe il Vangelo attraverso una folgorazione sulla strada verso Damasco, e che questo Vangelo che egli predica è l’unico Vangelo. Perché è l’unico Vangelo? Perché è quello che coincide con quello che predicano anche gli altri apostoli. Come dimostra il fatto che quando egli è andato a Gerusalemme a trovare gli apostoli – quelli che chiama le colonne della Chiesa di Gerusalemme (Pietro, Giacomo e Giovanni), che avevano vissuto con Gesù – essi non solo non gli imposero e ordinarono niente di nuovo, ma gli tesero la mano, come segno della comunione, come riconoscimento della grazia concessa sul cammino di Damasco. Questo gesto di dare la mano come segno significa: noi condividiamo il tesoro più grande, il Vangelo che predichi tu e che predichiamo noi è lo stesso. Non dovevano aggiungere niente, non hanno dovuto aggiungere niente a quello che san Paolo predicava.
Ma Paolo – e questa è la cosa più interessante – non si accontenta di ciò, e impegna la seconda parte della Lettera per dare ai Gàlati perseguitati gli argomenti con cui difendersi dagli attacchi che subiscono contro l’unico Vangelo. Paolo sa per esperienza che ciò che portò lui al convincimento della verità di Cristo fu l’esperienza del suo incontro con Cristo, non fu un ragionamento (era un persecutore, lo sappiamo tutti!). Cosa ha convinto Paolo a cambiare idea su Gesù? Non aveva fatto un corso di teologia, non aveva frequentato alcuna facoltà. Semplicemente ha incontrato Cristo vivo. Paolo pensava già di sapere chi fosse Gesù, un blasfemo, per cui occorreva finirla con tutti i Suoi seguaci e perseguitarli ferocemente. Invece quando Egli appare davanti ai suoi occhi, Paolo si rende conto che non aveva capito niente, che non aveva veramente conosciuto Gesù. Allora, da uomo pienamente ragionevole, l’Apostolo sottomette la ragione (cioè ciò che pensava prima) all’esperienza fatta. E questo lo fa cambiare. E comincia, davanti allo stupore di tutti i cristiani, a predicare quel Vangelo che prima combatteva accanitamente. Addirittura essi all’inizio sospettavano che li stesse prendendo in giro.
Fu l’esperienza che convinse Paolo a cambiare idea, non un autoconvincimento, perché la realtà gli dimostrava un’altra cosa. San Paolo vuole adesso appellarsi all’esperienza che i Gàlati hanno avuto del Vangelo affinché possano decidere in modo giusto davanti a queste due interpretazioni. E allora non risulta affatto strano che Paolo, in questa seconda parte, cominci richiamando i Gàlati alla loro esperienza. E qui, testualmente dice: “O stolti Gàlati, chi mai vi ha ammaliati, proprio voi agli occhi dei quali fu rappresentato al vivo Gesù Cristo crocifisso? Questo solo [li sfida!] io vorrei sapere da voi: è per le opere della legge [per quell’altro vangelo che vi hanno predicato] che avete ricevuto lo Spirito o per aver creduto alla predicazione [del Vangelo che io vi ho trasmesso]? Siete così privi di intelligenza [siete così insensati] che, dopo aver incominciato con lo Spirito, ora volete finire con la carne? Tante esperienze le avete fatte invano? Se almeno fosse invano! Colui che dunque vi concede lo Spirito e opera portenti in mezzo a voi, lo fa grazie alle opere della legge [grazie a quell’altro vangelo che vi hanno predicato] o perché avete creduto alla predicazione?” (Gal 3,1-5). In questo passaggio Paolo pone davanti ai loro occhi in primo luogo il fatto di aver ricevuto lo Spirito, la vita nuova che riempie il cuore di gioia, di letizia e che fa prodigi tra di loro. È questo che occorre guardare per decidere la verità del Vangelo. Per cui, come ha acutamente osservato il grande studioso paolino Albert Vanhoye, “nel contesto si tratta necessariamente di un fatto osservabile, constatabile. Diversamente, non potrebbe servire come argomento”. Si tratta di una esperienza che i Gàlati possono vivere. Si tratta di un fatto constatabile: i Gàlati hanno potuto fare esperienza di Lui, dello Spirito, e ciò consente a Paolo di appellarsi a questa esperienza come criterio decisivo per chiarirsi nel dilemma in cui si trovano davanti a queste due interpretazioni del vangelo. Per questo, ha sottolineato James Dunn, “l’appello all’esperienza da parte di Paolo non è marginale o casuale. Esso è al centro del suo tentativo di trattenere i Gàlati legati al suo vangelo”.
Una volta che Paolo ha messo davanti a loro le grandi cose delle quali hanno fatto esperienza, può proporre loro la questione decisiva: “Colui che dunque vi concede lo Spirito e opera portenti in mezzo a voi, lo fa grazie alle opere della legge o perché avete creduto alla predicazione?” (Gal 3,5). Se sono leali con la loro esperienza vissuta, essi stessi possono riconoscere in essa che le cose grandi che sono successe non hanno origine nell’osservanza della legge, nella sequela di quel vangelo che hanno portato gli avversari di Paolo, ma nel Vangelo che Paolo ha loro predicato. Allora, con questo appello alla loro esperienza Paolo offre il metodo per uscire dalla perplessità nella quale si trovavano. Non fa una lezione di teologia o di esegesi. Si appella alla loro esperienza, a quella esperienza che ha riempito la loro vita di novità e di gioia, perché essi possano riconoscere quale ne è l’origine e così possano riconoscere qual è il vero Vangelo. Si comprende così la vera portata dell’accusa di insensatezza che Paolo rimprovera ai Gàlati: se voi non seguite quella esperienza che vi rende così chiara qual è la verità che ha portato questa novità nella vostra vita, voi siete stolti. Invece i Gàlati, grazie a Dio, non erano così stolti e si arresero a questa argomentazione di Paolo. Come l’esperienza sulla via di Damasco consentì a Paolo di riconoscere la verità intorno a Cristo (e questo gli permise di scegliere razionalmente tra le due interpretazioni della figura di Gesù, quella degli ebrei seguaci del sinedrio e quella cristiana), così l’esperienza dei Gàlati può permettere loro di chiarirsi sulle due interpretazioni del Vangelo in modo razionale. Certamente Paolo è cosciente che sono esperienze di natura ben diversa, ma questa differenza non diminuisce la loro specifica validità. Nel caso di Paolo, l’esperienza dell’incontro con Gesù risorto gli fa conoscere in modo diretto e immediato la vera realtà di Cristo. Nel caso dei Gàlati, il modo di arrivare a conoscere la realtà profonda di Cristo ha seguito un altro corso, ma non per questo meno adatto per raggiungere una certezza. I Gàlati hanno davanti a loro segni palpabili della Sua presenza in mezzo a loro per l’azione che lo Spirito porta a compimento attraverso la predicazione, il battesimo, eccetera. Sono segni che non hanno altra spiegazione razionale che la presenza di Cristo risorto in mezzo a loro per opera dello Spirito. Per cammini diversi, tanto Paolo quanto i Gàlati possono essere certi di questo. E proprio ciò dovrebbe convincere i Gàlati della verità del Vangelo così come predicato da Paolo. La loro esperienza permette loro di giudicare da sé stessi, senza dipendere in questo giudizio né dà Paolo né dagli intrusi. Qui risiede il valore dell’appello di Paolo alla loro esperienza, nella quale si fa trasparente per loro la verità del Vangelo.
Vediamo dunque come la questione evocata dal Papa non sia propria soltanto del nostro tempo. Anche i primi cristiani hanno dovuto scegliere, per primi gli apostoli cui Gesù chiese: “chi sono io secondo la gente?” (Lc 9,18). Tutta una valanga di ipotesi interpretative: un profeta, Geremia, Isaia, Giovanni Battista. Anch’essi si trovavano davanti a questa diversità di interpretazioni. Ognuno di loro aveva un’idea di chi fosse quell’Uomo assolutamente unico e eccezionale. Perché i discepoli hanno aderito e hanno riconosciuto? Per quella convivenza – come il mio studente con sua mamma – che avevano con Gesù che aveva consentito una conoscenza così bella, così grande, così appassionante: mai – ripetono in continuazione i Vangeli –, mai abbiamo visto una cosa del genere! Se non crediamo a quest’Uomo non possiamo credere neanche ai nostri occhi! Avevano tutte le ragioni per riconoscere Chi era, qual era la vera interpretazione del Vangelo. Questo ci dice il metodo apostolico. E questa esperienza ci consente di allargare la ragione – come costantemente il Papa ci ripete –, allargare la ragione per riconoscere la verità di Gesù. Questa eccezionalità unica di Gesù facilita la ragione nell’aprirsi per riconoscere la verità.
È sempre illuminante richiamare il passaggio del Vangelo di Giovanni sul cieco nato (cfr Gv 9), che quel mattino si era alzato come sempre, carico dell’esperienza di una cecità congenita. Infatti, un cieco nato non vede ed è ragionevole affermarlo. Cosa fa saltare questa misura? Il miracolo. Tutti gli altri dicevano: “non è possibile che tu veda”. E lui: “anche io sono stupito di questo, ma di una cosa sono certo, sarò stupido e incolto, ma fin lì arrivo: prima non vedevo, adesso ci vedo”. Riacquistare la vista non era che il primo passaggio per aprirsi pian piano a tutta la verità di quell’Uomo che gli aveva aperto gli occhi.
La Chiesa ci invita ad avvicinarci al Vangelo prima di tutto partecipando alla vita della comunità cristiana in cui ognuno può vedere quale novità si introduce nel mondo, quali miracoli accadono tra di noi.
L’avvenimento cristiano che la Chiesa continua a trasmettere nell’arco della storia “nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto” (Dei Verbum 8), rende possibile, a tutti coloro che, per grazia, accettano di partecipare liberamente a quella esperienza, di raggiungere la certezza sulla verità del suo annuncio.
Sant’Agostino usa un’espressione bellissima per dire sinteticamente tutto questo: “In manibus nostris sunt codices, in oculis nostris facta” (nelle nostre mani i testi dei Vangeli, nei nostri occhi i fatti che documentano la sua verità). E questo è ciò che ci consente – avendo negli occhi i fatti della vita nuova, come i Gàlati – di avvicinarci ai Vangeli con questa apertura e con questa fiducia. Per questo il Papa dice che la sua presentazione di Gesù parte da una fiducia nei Vangeli. Non una fiducia ingenua, ma la fiducia originata dalla novità di vita che egli ha vissuto (esattamente come il mio alunno nella convivenza con la mamma). Si tratta di una posizione assolutamente ragionevole, a portata di mano di tutti quanti partecipano semplicemente, da semplici fedeli, alla vita della Chiesa, senza aver bisogno di grandi esegesi. E questo porta il Papa ad affermare: “ho voluto fare il tentativo di presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale, come il ‘Gesù storico’ in senso vero e proprio. Io sono convinto, e spero che se ne possa rendere conto anche il lettore, che questa figura è molto più logica e dal punto di vista storico anche più comprensibile delle ricostruzioni con le quali ci siamo dovuti confrontare negli ultimi decenni [e che ancora oggi sono così diffuse]. Io ritengo che proprio questo Gesù – quello dei Vangeli – sia una figura storicamente sensata e convincente” (p. 18), perché uno non deve mortificare per niente la sua ragione per riconoscerLo.
Il Papa cita Rudolf Schnackemburg perché il dato storico che questo grande studioso riconosce in tutta la sua ricerca è che senza il radicamento in Dio “la persona di Gesù rimane fuggevole, irreale e inspiegabile” (p. 10). E questo dato della ricerca storica è anche il punto di appoggio su cui si basa il libro del Papa: considerare Gesù a partire dalla sua comunione con il Padre, del suo essere Figlio del Padre.
Questo è il vero centro della Sua personalità. Senza questa comunione non si può capire niente, invece partendo da essa Egli si fa presente a noi anche oggi.
Ma il Papa non si limita a fare un’affermazione di principio. Vuole anche verificarla dal punto di vista storico. Perché? Perché “il metodo storico [...] è e rimane una dimensione irrinunciabile del lavoro esegetico. Per la fede biblica, infatti, è fondamentale il riferimento a eventi storici reali. Essa non racconta la storia come un insieme di simboli di verità storiche [come adesso è così in uso dire], ma si fonda sulla storia che è accaduta sulla superficie di questa terra [quelli che noi chiamiamo fatti storici]. Il factum historicum per essa non è una chiave simbolica che si può sostituire, bensì è il fondamento costitutivo” (p. 11). Se non ci fosse stato questo fatto storico, non saremmo qui adesso. Et incarnatus est – “E il Verbo si fece carne” (Gv 1,14) – è l’ingresso di Dio nella storia reale dell’uomo.
Se mettiamo da parte questa storia, la fede cristiana in quanto tale viene eliminata e trasformata in un’altra religione. Se dunque la storia, la fatticità, in questo senso appartiene essenzialmente alla fede cristiana, quest’ultima deve esporsi al metodo storico. E noi non abbiamo paura del metodo storico.
Abbiamo paura di un metodo storico che non è condotto secondo un metodo storico. Non abbiamo nessun problema con la critica, ne abbiamo con chi cancella il fatto. Il metodo storico-critico – ripetiamolo – resta indispensabile. Per questo il Papa non ce lo risparmia, proprio per la struttura della fede cristiana.
Dobbiamo tuttavia aggiungere due considerazioni: anzitutto il metodo storico-critico è una delle dimensioni fondamentali dell’esegesi, ma non esaurisce il compito dell’interpretazione per chi nei testi biblici vede l’unica Sacra Scrittura; in secondo luogo il metodo storico-critico ha dei limiti intrinseci. Dunque, perché uno possa usare questi metodi in modo tale che servano ad aiutarci a capire ma non a ridurre la figura di Gesù, occorre qualcosa che allarghi la ragione, che ci consenta di vedere tutto quello che c’è.
Per essere più chiaro, mi permetto di fare questo esempio che è molto efficace con i miei studenti universitari. Immaginiamo che una persona veda un ragazzo comprare un regalo per la morosa in uno di quei negozi dove tutto è venduto a un euro. E commenta: “guarda quanto le vuol bene! è un po’ scarso questo amore, soltanto un euro!”. Io domando: è vera l’interpretazione di questo fatto, o attraverso questo regalo che costa un euro, il ragazzo sta esprimendo tutto il suo amore? Davanti allo stesso fatto uno può vedere soltanto la riduzione del gesto al costo di un euro, o può vedere che questo euro è l’espressione di tutto l’amore. Da cosa dipende? Dal fatto che chi guarda questo gesto possa leggere tutta l’esperienza che ha davanti. E chi legge di più tutta l’esperienza che ha davanti? Chi riduce tutto quel gesto a un euro o chi capisce che il significato sarebbe lo stesso se il regalo valesse mille milioni di euro? Ha un prezzo questa ragazza, oppure ogni gesto può esprimere l’amore del ragazzo? Per poter allargare la ragione così, cioè per poter cogliere tutta la portata del reale, occorre questo avvenimento dell’innamorarsi che consente di non ridurre quello che sta succedendo davanti ai nostri occhi.
La stessa cosa che succede quando riceviamo un regalo, accade quando leggiamo i Vangeli. Non è diverso. Per questo uno che ha partecipato a questo gesto, a questa convivenza che lo ha tutto spalancato, si può avvicinare ai Vangeli e guardare tutto quello che c’è, perché c’è! Ma occorre spalancare tutto l’umano, tutta la ragione, tutta l’affezione per poterlo guardare. E così il Papa fa un esempio non partigiano citando nel suo libro l’esempio di un ebreo che parla di Gesù. Si tratta di Jacob Neusner (un ebreo osservante, che è cresciuto in amicizia con cattolici ed evangelici, insegna all'università insieme con teologi cristiani e nutre un profondo rispetto nei confronti della fede dei suoi colleghi cristiani, ma resta saldamente convinto della validità dell'interpretazione ebraica delle Sacre Scritture) che ha scritto il libro Un rabbino parla con Gesù. Il profondo rispetto verso la fede cristiana e la sua fedeltà al giudaismo lo hanno indotto a cercare il dialogo con Gesù. In questo libro l’autore prende idealmente posto tra la schiera dei discepoli sulla montagna di Galilea e si presenta come uno che leggendo i Vangeli va ad ascoltare Gesù per conoscerLo più da vicino. Possiede questa lealtà, questa apertura, questa simpatia verso Colui che ha davanti: l’unico modo per poterLo conoscere senza ridurLo. L’ebreo cerca continuamente di capire che cosa Gesù sta dicendo. E che cosa dice? Spiega il Papa: “Mi sembra che il punto centrale si palesi molto bene in una delle scene più toccanti immaginate da Neusner nel suo libro. Nel suo dialogo interiore, Neusner aveva seguito Gesù per tutto il giorno [immaginate che noi trascorriamo una giornata con Gesù] e ora si ritira per la preghiera e lo studio della Torah con gli ebrei di una cittadina, per poi discutere le cose sentite […] con il rabbino del luogo” (p. 130). Il rabbino cita il punto in cui il Talmud babilonese dice quanti sono i precetti della Torah: seicentotredici precetti furono dati a Mosè (trecentosessantacinque negativi corrispondenti al numero dei giorni dell’anno solare), poi Davide li riduce a undici, Isaia a sei e Abacuc a uno solo: “Il giusto vivrà per la sua fede” (Ab 2,4). Allora inizia il dialogo immaginario tra il rabbino e l’ebreo che aveva assistito alla predicazione di Gesù: “Questo è ciò che Gesù aveva da dire?” “Non esattamente.” “Ha tralasciato qualcosa?” “Nulla.” “Ha aggiunto qualcosa?” “Sé Stesso!”.
Questo è il punto centrale dello “spavento” (p. 128) dell’ebreo. Il motivo centrale per cui alla fine non vuole seguire Gesù, e quindi rimane fedele alla sua fede israelitica, è il fatto che lui stesso riconosce la centralità dell’io di Cristo nel suo messaggio, che imprime una nuova direzione a tutto. A dimostrazione di questo, cita qui la parola di Gesù al giovane ricco che tante volte abbiamo sentito: “Se vuoi essere perfetto, và, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli; poi vieni e seguimi” (Mt 19,21).
Gesù non dice: “segui la Torah” o “segui la legge”. Gesù ha aggiunto una cosa assolutamente nuova: il suo io, “segui me”. E questo vuol dire che Gesù si pone allo stesso livello di Colui che aveva dato la Torah, cioè Dio. Neusner non sta dicendo semplicemente che Gesù ha introdotto un certo protagonismo personale. Sta dicendo che Egli si dichiara della stessa natura di Dio. Per questo l’ebreo non può seguirLo senza
cominciare a essere cristiano. E questo si vede benissimo nelle controversie che Gesù narra nel Vangelo, per esempio la controversia sul sabato. Il Figlio dell’Uomo – dice – è il signore del sabato (cfr Lc 6,1-5). Era sabato e alcuni farisei stavano rimproverando i discepoli perché facevano cose che erano proibite in quel giorno della settimana. E Gesù dice loro: “qui c’è Uno che è più grande del sabato. Dunque poiché Io sono più grande del sabato, essi lo possono fare senza rompere la regola del sabato”. Gesù perciò – afferma Neusner – non è un ennesimo rabbino riformatore. Non si tratta dell’alleggerimento di un peso. Quello che è in discussione è la rivendicazione dell’autorità da parte di Gesù. È ciò che intendono i Vangeli: “insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scribi” (Mc 1,22).
La conversazione dell’ebreo osservante con Gesù giunge qui al punto decisivo. Ora, nel suo delicato rispetto, il rabbino non pone la sua domanda direttamente a Gesù, ma si rivolge a uno dei discepoli di Gesù: “Davvero il tuo Maestro è signore del sabato? Cosa vuol dire che è signore del sabato? Il tuo Maestro è Dio?”.
“Ecco messo a nudo il vero nocciolo del conflitto” (p. 137). Anche un ebreo, quando ha questa apertura, non può non riconoscere che il cuore dei Vangeli è questa pretesa di Gesù di essere Dio. “Ma ora mi rendo conto – dice il rabbino – che solo Dio può esigere da me quanto chiede Gesù”. Perché ? Perché lui si dichiara Dio.
Questo lo possiamo verificare storicamente? Ancora ci tocca fare un ultimo passaggio.
Il Papa spiega che l’unico modo per rendere ragione della Sua crocifissione e dell’efficacia di essa è l’accadimento di qualcosa di straordinario, cioè il fatto che la persona e le parole di Gesù avessero superato radicalmente tutte le speranze e le aspettative dell’epoca. La morte di Gesù è un dato storicamente indiscutibile, nessuno storico osa metterla in discussione. Non c’è nessun dubbio su questo.
Tutti gli studiosi riconoscono che Gesù è morto in croce. Davanti a questo fatto abbiamo a disposizione un dato della storia per verificare le interpretazioni che si fanno su Gesù. Se Gesù è un rabbino o un maestro di morale o un rivoluzionario come ce n’erano stati altri nella storia ebraica non c’è nessuna ragione per metterLo a morte sulla croce; anzi questi tali sono generalmente considerati eroi del popolo d’Israele, altro che crocifissione!
Per capire questo dobbiamo metterci nei panni degli ebrei del tempo. Nel giudaismo della prima metà del secolo primo erano accettati tutti: farisei, sadducei, apocalittici, zeloti, tutti quanti. A partire dall’anno 70, dopo la guerra di Giudea, è tutto diverso, perché di fatto sopravvive solo l’ebraismo fariseo.
Quello che oggi chiamiamo ebraismo non è altro che l’ebraismo fariseo che rimane dopo la guerra giudaica. Allora, ci domandiamo, quando muore Gesù, cioè quando ancora vigeva un giudaismo aperto a questa molteplicità di forme diverse e contrastanti, perché avrebbero dovuto mandare a morte un uomo che fosse stato semplicemente l’ennesimo che avesse da proporre un’altra interpretazione della legge tra le tante? La condanna a morte di Cristo non si capisce e non si riesce a capire se non si accetta quello che dice il Papa: che l’unica risposta adeguata è una diversità che consiste proprio in questa pretesa divina di Gesù (la stessa che riconosce l’ebreo Neusner)!
Come non si riesce a capire perché i romani perseguitassero soltanto i cristiani in un mondo dove tutti gli dèi avevano posto nel pantheon. Gli unici perseguitati! Lo riconosce con lucidità un grande studioso protestante, Werner Georg Kümmel, il quale, facendo tutta la sintesi della ricerca storica degli ultimi decenni, conclude: “La pretesa di Gesù non è cancellabile [neanche per gli ebrei! Nenche per i romani! neanche per gli studiosi moderni!]. Oggi è ampiamente riconosciuto che la predicazione di Gesù non si può comprendere senza tener conto del fatto fondamentale che questa predicazione si basa su una pretesa assoluta di autorità di Gesù, come è altrettanto riconosciuto il fatto che la domanda sul carattere e il significato di questa pretesa [di essere Dio] in rapporto alla predicazione di Gesù è inevitabile e che una risposta a questa domanda è decisiva per la comprensione di Gesù; e mi pare che per progredire nell’indagine storica su Gesù sia indispensabile trovare a questa domanda una risposta unitaria e convincente dal punto di vista storico”.
A questa domanda tutti i libri di esegesi liberale non hanno risposto, non possono rispondere.
Perché quanto più si riduce Gesù a un profeta, a un rivoluzionario, a un maestro di morale, tanto meno c’è una ragione per metterlo a morte in croce. Ma siccome quest’ultimo dato è evidente, nessuno può negarlo, allora tutte queste spiegazioni non servono per rendere ragione dell’unico fatto assolutamente indiscutibile e indiscusso della Sua vita. Questa pretesa è dal Papa ribadita nel libro attraverso la citazione del volume di Neusner: “Ora mi rendo conto che solo Dio può esigere da me quanto Gesù chiede” (p. 143). Questa è la pretesa, tanto è vero che perfino il rabbino la riconosce. Perciò l’unica spiegazione adeguata, convincente, della figura storica di Gesù è quella che ci propongono i Vangeli e che il Papa documenta in tanti modi nel libro, insistendo continuamente sulla straordinarietà dell’inizio del cristianesimo: solo un inizio assolutamente straordinario può spiegare la fede cristiana. Lo possiamo rintracciare nei testi, nei documenti se non partiamo da una misura razionalista ma ci apriamo, come Neusner e tutti gli studiosi leali, davanti a questo fatto. “Io ritengo che proprio questo Gesù sia una figura storicamente sensata e convincente” (p. 18).
Questo libro perciò è un aiuto che il Papa offre a tutti noi per conquistare di nuovo questa figura di Gesù. Non mi posso addentrare in tutti i particolari. Li lascio alla lettura di ciascuno di voi, semplicemente perché il libro è una miniera di cose preziose. Ciò che è fondamentale è che Benedetto XVI ci aiuta, ci risponde e ci restituisce un approccio ai Vangeli pieno di ragionevolezza, non ingenuo, che fa i conti con tutta la ricerca. Appartiene alla nostra fede, che non può essere l’eliminazione bensì la pienezza della ragione, il poterci avvicinare fiduciosi ai Vangeli. Con questo atteggiamento possiamo assaporare il libro del Papa, certi che quello che egli ci dice, che quella fiducia con cui egli approccia la figura di Gesù, che tutto ciò cui egli ci introduce è pieno di ragione. E questo oggi è decisivo, perché una fede che non è in grado di dare ragione non potrà resistere nel tempo. Per questo il Papa ha fatto questo regalo al popolo cristiano scrivendo questo libro in mezzo alle tante preoccupazioni e ai tanti gravami che ha: potremo sostenere in modo più dignitoso, come uomini del nostro tempo, la nostra fede. Grazie.

IL ’68 E L’ETERNA GIOVINEZZA… 28.07.2008, di Antonio Socci
A proposito di don Giussani, di un suo libro appena uscito e del prossimo Meeting…Qualcosa che ha a che fare col nostro desiderio inappagato di felicità prendendo spunto dai 40 anni del ‘68 Il fatto è clamoroso, ma nessuno lo nota. Eppure non si fa che parlare del quarantennale del ‘68. C’è un solo movimento, nato nel ’68, che sia tuttora vivo (e tuttora un movimento di giovani). E’ Comunione e liberazione, cioè quello che era considerato “strano”: quello “disarmato”, odiato e aggredito (120 attentati nel volgere di alcuni mesi, pestaggi e fiumi di calunnie).

Nessuno degli altri movimenti giovanili che infiammarono una generazione e avevano dalla loro parte i media e il pensiero dominante è sopravvissuto. Estinti come i dinosauri, che sparirono perché erano troppo forti di potenza mondana, terrena.

Oggi che si rievoca quel sommovimento, con i miti e i riti di allora, bisogna interrogarsi sul “segreto” di don Giussani che attraversa i decenni, sulla sua vera forza, su quell’ “eterna giovinezza” che infiamma il cuore dei figli, nel 2008, come infiammò i cuori dei loro padri nei lontani anni Settanta. Ma giornali e cattedre sono perlopiù in mano a ex sessantottini che – pur brillanti e trasgressivi – hanno paura di spingere la riflessione su se stessi così a fondo. Anche perché riflettere (oltre le solite riduzioni alla politica e alle banalità dei giornali) su un fenomeno come quello nato da Giussani costringerebbe a mettersi in gioco, a dire “io”, a guardare dentro di sé, il proprio inappagato desiderio di felicità, la propria povertà individuale e generazionale. Perciò non si è mai capito dove stava davvero la forza e la “giovinezza” di Giussani e di quello che è nato da lui. Nessuno lo capì anche allora. I cronisti andavano nei porticati della “Cattolica” di Milano in quei concitati mesi del ’68 e raccontavano la “forza” del movimento studentesco. Quei capetti e le masse urlanti parevano destinati a cambiare il mondo.

Nessuno degnò di attenzione quella cosa diversa che stava nascendo, che era come un filo di stupore destato nel cuore di alcuni giovani da un prete brianzolo che parlava loro di Gesù e ne parlava in un modo così travolgente che quelli si sentivano trafiggere e sentivano un’eco profonda dentro e una specie di commozione per le proprie persone e il proprio destino e un desiderio di seguirlo e si sentivano più se stessi, più autentici, desiderosi di abbracciare il mondo.

Del resto anche gli storici dell’epoca di Augusto scrivevano dell’imperatore e pensavano che fosse lui il padrone del mondo. Non si interessavano certo di una giovane e “irrilevante” ragazzina, alla periferia dell’impero, nella sperduta Nazaret. Eppure sarebbe stata lei, col suo sì, a cambiare il mondo e a diventarne la regina per sempre. Spazzando via anche l’impero. E il cronista che fosse stato a Gerusalemme quel 7 aprile dell’anno 30, avrebbe parlato del potere di Pilato, emanazione di Roma, e della casta sadducea capeggiata da Caifa e di Erode: questi erano quelli che contavano, che facevano la storia, non certo quel Gesù di Nazaret, condannato a morte, che stava agonizzando su un patibolo. Eppure quei poteri mondani sono passati, spazzati via come i più potenti faraoni d’Egitto. E quell’uomo inchiodato a una croce ha travolto e capovolto la storia. E’ lui che ha vinto e continua a vincere fino alla fine dei tempi.

Anche oggi si fa lo stesso errore. Si ritiene che contino davvero, e facciano la storia, i politici o la grande finanza o gli americani o i cinesi. Invece sono i “mendicanti”. Disse precisamente così Giussani, in piazza San Pietro, il 30 maggio ’98, davanti a Giovanni Paolo II e a migliaia di giovani: “Il protagonista della storia è il mendicante: Cristo mendicante il cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo mendicante Cristo”. Non era una provocazione. Citando san Paolo all’Areopago di Atene, spiegava: “Cristo è il motivo per cui tutti i popoli si muovono, per cui tutto il mondo si muove”. Senza saperlo.

Sui giornali si parlerà del prossimo Meeting per i politici che ci sono o che non ci sono. O per la forza organizzativa di CL. Come si parla della Chiesa per la forza della sua istituzione, per la sua diffusione planetaria, la sua imponente tradizione, la cultura e i valori che promuove. Anche un ammiratore laico come Giuliano Ferrara ne parla così. E nessuno capisce che la sua vera forza – per usare un’immagine di Péguy – non è l’imponenza del tronco della quercia millenaria, ma è la piccola gemma che sboccia ad aprile, apparentemente la cosa più fragile e trascurabile. Quando vedi la forza di quel tronco, spiegava Péguy, ti sembra che quella piccola gemma non sia nulla, “eppure è da lei che tutto viene/ ogni vita nasce dalla tenerezza”. E senza quella gemma, quel grande tronco non sarebbe che legna secca da ardere.

Quella gemma è lo stupore dell’incontro personale con Gesù che avviene oggi come 2000 anni fa. La sorpresa di accorgersi di quel volto presente, di lui che è il senso della vita e dell’universo, di sentirsi da lui chiamati per nome. Una volta, davanti ad alcune migliaia di studenti, don Giussani lesse la lettera di un giovane malato terminale di Aids. Dopo una vita distrutta aveva conosciuto un nuovo amico, un ragazzo che partecipava alla vita di CL e in lui aveva scoperto un mondo totalmente nuovo, soprattutto, per la prima volta, uno sguardo totalmente diverso su di sé. E quindi Gesù. Quel giovane, che sarebbe morto di lì a pochi giorni, scriveva a Giussani la gratitudine e la commozione di aver finalmente trovato la gioia, il senso della sua esistenza e si diceva pronto a quel “passaggio” che prima considerava la fine e che ora gli appariva come il grande incontro.

Migliaia di giovani lo ascoltavano col groppo in gola e Giussani – commosso – finì dicendo che era come se 2000 anni non esistessero, Gesù era lì, vivo e continuava a salvare e a vincere: “la lotta contro il nichilismo” concluse “è questa commozione vissuta”.

Avrei voluto che ci fosse stato il mio amico Ferrara, di cui ammiro le battaglie, ma che sembra pensare che la cultura nichilista si vinca con una cultura umanista o cattolica. Non è così. Non è un’opera umana, culturale, politica o organizzativa che salva davvero. E’ solo la gemma di quella commozione per Cristo (che col tempo germina una civiltà nuova, ma innanzitutto salva te). Giussani talora ha dovuto ripeterlo anche ai suoi. Lo testimonia il bel libro appena uscito, “Uomini senza patria”. Diceva nel 1982: “è come se CL dal ’70 in poi avesse lavorato, costruito e lottato sui valori che Cristo ha portato senza riconoscere veramente Cristo (…). Fino a quando il cristianesimo è sostenere valori cristiani, esso trova spazio e accoglienza dovunque”, invece “non ha patria da nessuna parte nella società, colui che riconosce la presenza di Cristo - una presenza diversa da tutte le altre – nella propria vita”.

Ma l’amicizia di Cristo: come posso parlarne? “Intender non la può chi non la prova”, perché è la felicità. S. Agostino la descriveva così: “occorre dire che si è attirati dal piacere. Ma che cosa significa essere attirati dal piacere? ‘Godi nel Signore, ed Egli soddisferà i desideri del tuo cuore’… Del resto se Virgilio ha potuto dire: ‘Ciascuno è attratto dal proprio piacere’ (…) quanto più noi dobbiamo dire che è attratto a Cristo l’uomo che gode della verità, gode della felicità, gode della giustizia, della vita eterna, dal momento che Cristo è proprio tutto questo…. Che senso hanno queste parole: ‘I figli degli uomini porranno la loro speranza all’ombra delle tue ali/ si inebrieranno dell’abbondanza della tua casa/ e tu li disseterai col torrente del tuo piacere;/ poiché è presso di te la fonte della vita, e alla tua luce vedremo la luce’ ? Un uomo innamorato comprende quello che dico. Un uomo che abbia desideri, che abbia fame, uno che cammini in questo deserto e sia assetato, che aneli alla sorgente della patria eterna, un uomo così sa di cosa sto parlando. Se mi rivolgo invece a un uomo freddo, costui non capisce neppure di che cosa parlo”.
Antonio Socci
Da “Libero”, 27 luglio 2008


La verità dell'«Humanae vitae»
Domenica 5 gennaio 1969 "L'Osservatore Romano" pubblicò in prima pagina un ampio articolo del cardinale arcivescovo di Cracovia che - a distanza di cinque mesi - rileggeva e spiegava l'enciclica di Papa Montini. Lo ripubblichiamo integralmente.
di Karol Wojtyla

Sembrerà strano che noi cominciamo le nostre riflessioni sull'enciclica Humanae vitae partendo dall'Autobiografia di M. Gandhi. "A mio avviso - scrive il grande uomo indiano - affermare che l'atto sessuale sia una azione spontanea, analoga al sonno o al nutrirsi, è crassa ignoranza. L'esistenza del mondo dipende dall'atto del moltiplicarsi - dalla procreazione, diremmo noi - e poiché il mondo è dominio di Dio e riflesso del suo potere, l'atto del moltiplicarsi - della procreazione, diremmo noi - deve essere sottoposto alla norma, che mira a salvaguardare lo sviluppo della vita sulla terra. L'uomo che ha presente tutto questo, aspirerà ad ogni costo al dominio dei suoi sensi e si fornirà di quella scienza necessaria, per promuovere la crescita fisica e spirituale della sua prole. Egli tramanderà poi i frutti di questa scienza ai posteri, oltre che usarli a suo giovamento". In un altro passo della sua autobiografia Gandhi dichiara che due volte nella sua vita ha subito l'influsso della propaganda che raccomandava i mezzi artificiali per escludere la concezione nella convivenza coniugale. Tuttavia egli arrivò alla convinzione, "che si deve piuttosto agire attraverso la forza interiore, nella padronanza di se stesso, ossia mediante l'autocontrollo".
Rispetto all'enciclica Humanae vitae, questi tratti dell'autobiografia di Gandhi acquistano il significato di una particolare testimonianza. Ci ricordano le parole di san Paolo nella lettera ai Romani, riguardo alla sostanza della Legge scolpita nel cuore dell'uomo e attestata dal dettame della retta coscienza (Romani, 2, 15). Anche al tempo di san Paolo una tale voce della retta coscienza era un rimprovero per quelli che, pur essendo "i possessori della Legge", non la osservavano.
Forse è bene anche per noi avere davanti agli occhi la testimonianza di questo uomo non cristiano. È opportuno avere presente "la sostanza della Legge" scritta nel cuore dell'uomo e attestata dalla coscienza, per riuscire a penetrare la profonda verità della dottrina della Chiesa, contenuta nell'enciclica di Paolo VI Humanae vitae. Per questo all'inizio delle nostre riflessioni, che mirano a chiarire la verità etica e il fondamento obiettivo dell'insegnamento dell'Humanae vitae, siamo ricorsi ad una tale testimonianza. Il fatto che essa sia storicamente antecedente all'enciclica di qualche decennio, non diminuisce per nulla il suo significato: l'essenza del problema infatti rimane in entrambi la stessa, anzi le circostanze sono molto simili.
Il vero significato della paternità responsabile
Per rispondere alle domande formulate all'inizio dell'enciclica (Humanae vitae, 3), Paolo VI fa l'analisi delle due grandi e fondamentali "realtà della vita matrimoniale": l'amore coniugale e la paternità responsabile (n. 7) nel loro mutuo rapporto. L'analisi della paternità responsabile costituisce il tema principale dell'enciclica, poiché quelle domande poste all'inizio pongono appunto questo problema: "Non si potrebbe ammettere che l'intenzione di una fecondità meno esuberante, ma più razionalizzata, trasformi l'intervento materialmente sterilizzante in un lecito e saggio controllo delle nascite? Non si potrebbe ammettere cioè, che la finalità procreativa appartenga all'insieme della vita coniugale, piuttosto che ai suoi singoli atti? (...) non sia venuto il momento di affidare alla ragione e alla volontà più che ai ritmi biologici dell'organismo - umano - il compito di trasmettere la vita?" (n. 3). Per dare una risposta a queste domande il Papa non ricorre alla tradizionale gerarchia dei fini del matrimonio, fra i quali il primo è la procreazione, ma, come si è detto, fa l'analisi del mutuo rapporto tra l'amore coniugale e la paternità responsabile. È la stessa impostazione del problema, propria della Costituzione pastorale Gaudium et spes.
Una retta e penetrante analisi dell'amore coniugale presuppone un'idea esatta del matrimonio stesso. Esso non è "prodotto della evoluzione di inconscie forze naturali", ma "comunione di persone" (n. 8), basata sulla loro reciproca donazione. E per ciò un retto giudizio sulla concezione della paternità responsabile presuppone "una visione integrale dell'uomo e della sua vocazione" (n. 7). Per acquistare un tale giudizio, non bastano affatto "le prospettive parziali, siano di ordine biologico o psicologico, demografico o sociologico" (n. 7). Nessuna di queste prospettive può costituire la base per una adeguata e giusta risposta alle domande sopra formulate.
Ogni risposta che emana da prospettive, parziali non può essere che parziale. Per trovare una risposta adeguata, occorre avere presente una retta visione dell'uomo come persona, poiché il matrimonio stabilisce una comunione di persone, che nasce e si realizza attraverso la loro mutua donazione. L'amore coniugale si caratterizza con le note che risultano da tale comunione di persone e che corrispondono alla personale dignità dell'uomo e della donna, del marito e della moglie. Si tratta dell'amore totale, ossia dell'amore che impegna tutto l'uomo, la sua sensibilità, la sua affettività e la sua spiritualità, e che insieme deve essere fedele ed esclusivo. Questo amore "non si esaurisce tutto nella comunione tra i coniugi, ma è destinato a continuarsi, suscitando nuove vite" (n. 9); è perciò amore fecondo. Una tale amorevole comunione dei coniugi, per cui essi costituiscono secondo le parole della Genesi, 2, 24 "un solo corpo" è come la condizione della fecondità, la condizione della procreazione. Questa comunione essendo una particolare - poiché corporale e nel senso stretto "sessuale" - attuazione della comunione coniugale tra persone, deve realizzarsi al livello della persona e convenientemente alla sua dignità. In base a ciò si deve formulare un giudizio esatto della paternità responsabile.
Tale giudizio riguarda prima di tutto l'essenza della paternità - e sotto questo aspetto è un giudizio positivo: "l'amore coniugale richiede dagli sposi che essi conoscano convenientemente la loro missione di "paternità responsabile"" (n. 10). L'enciclica in tutto il suo contesto formula questo giudizio e lo propone come risposta fondamentale alle domande poste prima: l'amore coniugale deve essere amore fecondo, ossia "orientato alla paternità". La paternità propria dell'amore di persone è paternità responsabile. Si può dire che nell'enciclica Humanae vitae la paternità responsabile diventa il nome proprio della procreazione umana.
Questo giudizio, fondamentalmente positivo, sulla paternità responsabile richiede però alcune precisazioni. Solamente grazie a queste precisazioni troviamo una risposta universale alle domande di partenza. Paolo VI ci offre queste precisazioni. Secondo la enciclica, la paternità responsabile significa "sia (...) la deliberazione ponderata e generosa di far crescere una famiglia numerosa, sia (...) la decisione (...) di evitare temporaneamente od anche a tempo indeterminato, una nuova nascita" (n. 10). Se l'amore coniugale è amore fecondo, cioè orientato alla paternità, è difficile pensare che il significato della paternità responsabile, dedotto dalle sue proprietà, essenziali, possa identificarsi solamente con la limitazione delle nascite. La paternità responsabile viene perciò realizzata sia da parte dei coniugi, che grazie alla loro ponderata e generosa deliberazione si decidono a procreare una prole numerosa, come da parte di quelli che vengono nella determinazione di limitarla, "per gravi motivi e nel rispetto della legge morale" (HV 10).
Secondo la dottrina della Chiesa, la paternità responsabile non è, e non può essere solo l'effetto di una certa "tecnica" della collaborazione coniugale: essa infatti ha anzitutto e "per sé" un valore etico. Un vero e fondamentale pericolo - al quale l'enciclica vuole essere appunto un rimedio provvidenziale - consiste nella tentazione di considerare questo problema fuori dell'orbita dell'etica, di fare degli sforzi per togliere all'uomo la responsabilità delle proprie azioni che sono così profondamente radicate in tutta la sua struttura personale. La paternità responsabile - scrive il Pontefice - "significa il necessario dominio che la ragione e la volontà devono esercitare" sulle tendenze dell'istinto - e delle passioni (n. 10). Questo dominio presuppone perciò "conoscenza e rispetto dei processi biologici" (n. 10), e ciò pone questi processi non soltanto nel loro dinamismo biologico, ma anche nella personale integrazione, cioè a livello della persona, poiché "l'intelligenza scopre, nel potere di dare la vita, leggi biologiche che riguardano la persona umana" (n. 10).
L'amore è comunione di persone. Se ad essa corrisponde la paternità, e paternità responsabile, il modo di agire che conduce a una tale paternità, non può essere moralmente indifferente. Anzi, esso decide, se l'attuazione sessuale della comunione di persone sia o non sia autentico amore, "Salvaguardando ambedue questi aspetti essenziali, unitivo e procreativo, l'atto coniugale conserva integralmente il senso di mutuo e vero amore" (n. 12).
L'uomo "non può rompere di sua iniziativa la connessione inscindibile tra i due significati dell'atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo" (n. 12). È proprio per questo che l'enciclica sostiene la precedente posizione del Magistero e mantiene la differenza fra la così detta naturale regolazione della natalità, che comporta una continenza periodica e l'anticoncezione che fa ricorso a mezzi artificiali. Diciamo "mantiene", perché "i due casi differiscono completamente tra di loro" (n. 16). C'è tra di loro una grande differenza riguardo alla loro qualificazione etica.
L'enciclica di Paolo VI come documento del supremo Magistero della Chiesa presenta l'insegnamento della morale umana e insieme cristiana in uno dei suoi punti chiave. La verità dell'Humanae vitae è dunque anzitutto una verità normativa. Ci ricorda i principi della morale, che costituiscono la norma obiettiva. Questa norma è scritta pure nel cuore umano, come prova almeno quella testimonianza di Gandhi, a cui abbiamo fatto appello all'inizio di queste considerazioni. Non di meno, questo obiettivo principio di morale subisce facilmente sia delle soggettive deformazioni sia un comune oscuramento. Del resto simile è la sorte di molti altri principi morali, come ad esempio di quelli che sono stati rievocati nell'enciclica Populorum progressio. Nell'enciclica Humanae vitae, il Santo Padre esprime anzitutto la sua piena comprensione di tutte queste circostanze che sembrano parlare contro il principio della morale coniugale, insegnata dalla Chiesa. Il Papa si rende conto anche delle difficoltà, alle quali è esposto l'uomo contemporaneo, come pure delle debolezze, a cui è soggetto. Tuttavia, la strada per la soluzione delle difficoltà e dei problemi non può passare che attraverso la verità del Vangelo: "Non sminuire in nulla la salutare dottrina di Cristo è eminente forma di carità verso le anime" (n. 29). Il motivo di carità verso le anime, e nessun altro motivo, muove la Chiesa che "non lascia (...) di proclamare con umile fermezza tutta la legge morale, sia naturale che evangelica" (n. 29).
Una retta gerarchia dei valori
La verità normativa dell'Humanae vitae è strettamente legata a quei valori che si esprimono nell'obiettivo ordine morale, secondo la loro propria gerarchia. Questi sono gli autentici valori umani che sono legati alla vita coniugale e familiare. La Chiesa si sente custode e garante di questi valori, come leggiamo nell'enciclica. Di fronte a un pericolo che li minaccia, la Chiesa si sente in dovere di difenderli. I valori autenticamente umani costituiscono la base e nello stesso tempo la motivazione dei principi della morale coniugale, rammentati nell'enciclica. Conviene metterli in risalto, sebbene si siano già rilevati nelle argomentazioni precedenti, e la cosa è ben chiara, poiché il vero significato della paternità responsabile è stato nell'enciclica già espresso nel rapporto all'amore coniugale.
Il valore che sta alla base di questa dimostrazione, è il valore della vita umana, cioè della vita già concepita e anche nel suo sbocciare, nella convivenza dei coniugi. Di questo valore parla la stessa responsabilità della paternità, alla quale l'intera enciclica è principalmente dedicata.
Il fatto che questo valore della vita già concepita o anche nel suo sbocciare non si esamini nell'enciclica sullo sfondo della procreazione stessa come fine del matrimonio, ma nella prospettiva dell'amore e della responsabilità degli sposi, pone il valore stesso della vita umana in una luce nuova. L'uomo e la donna nella loro convivenza matrimoniale che è convivenza di persone, devono dare origine a una nuova persona umana. Il concepimento della persona attraverso le persone - ecco la giusta misura dei valori, che deve essere qui adoperata. Ecco nello stesso tempo la giusta misura della responsabilità, che deve guidare la paternità umana.
L'enciclica riconosce questo valore. Sebbene essa non sembri parlarne molto, non di meno indirettamente lo fa risaltare ancor più, quando lo pone fermamente nel contesto di altri valori. Questi sono valori fondamentali per la vita umana, e insieme i valori specifici per il matrimonio e per la famiglia. Sono specifici, poiché soltanto il matrimonio e la famiglia - e nessun altro ambiente umano - costituiscono il campo specifico, in cui appaiono questi valori, quasi un suolo fertile, nel quale crescono. Uno di questi è il valore dell'amore coniugale e familiare, l'altro è il valore della persona, ossia la sua dignità che si manifesta nei più stretti e più intimi contatti umani. Questi due valori si permeano così profondamente, che in certo qual modo costituiscono un solo bene. Questo appunto è il bene spirituale del matrimonio, la migliore ricchezza delle nuove generazioni umane: "i coniugi sviluppano integralmente la loro personalità arricchendosi di valori spirituali: essa (la disciplina) apporta alla vita familiare frutti di serenità e di pace (...); favorisce l'attenzione verso l'altro coniuge, aiuta gli sposi a bandire l'egoismo, nemico del vero amore, ed approfondisce il loro senso di responsabilità nel compimento dei loro doveri. I genitori acquistano con essa la capacità di un influsso più profondo ed efficace per l'educazione dei figli; la fanciullezza e la gioventù crescono nella giusta stima dei valori umani e nello sviluppo sereno ed armonioso delle loro facoltà spirituali e sensibili" (n. 21).
Ecco il pieno contesto e nello stesso tempo la prospettiva universale dei valori, sui quali è fondata la dottrina della paternità responsabile. L'atteggiamento di responsabilità si estende su tutta la vita coniugale e su tutto il processo di educazione. Solo gli uomini che hanno raggiunto la piena maturità della persona attraverso una completa educazione riescono a educare i nuovi esseri umani. La paternità responsabile e la castità dei mutui rapporti dei coniugi ad essa inerente, sono una verifica della loro maturità spirituale. Essi perciò proiettano la loro luce sull'intero processo di educazione, che si compie nella famiglia.
L'enciclica Humanae vitae contiene non solo perspicue ed esplicite norme concernenti la vita matrimoniale, la conscia paternità e la giusta regolazione della natalità, ma attraverso queste norme indica anche i valori. Essa conferma il loro retto senso e ci mette in guardia da quello falso. Essa esprime la profonda sollecitudine di salvaguardare l'uomo dal pericolo di alterare i valori più fondamentali.
Uno dei valori più fondamentali è quello dell'amore umano. L'amore trova la sua sorgente in Dio che "è Amore". Paolo VI pone questa verità rivelata al principio della sua penetrante analisi dell'amore coniugale, perché esso esprime il più grande valore che si deve riconoscere nell'amore umano. L'amore umano è ricco di esperienze che lo compongono, ma la sua ricchezza essenziale consiste nell'essere una comunione di persone, cioè di un uomo e di una donna, nella loro mutua donazione. L'amore coniugale è arricchito dalla autentica donazione di una persona ad un'altra persona. Appunto questa mutua donazione della persona stessa non deve essere alterata. Se nel matrimonio si deve realizzare l'amore autentico delle persone attraverso la donazione dei corpi, cioè attraverso "l'unione nel corpo" dell'uomo e della donna, proprio per riguardo al valore stesso dell'amore, non si può alterare questa mutua donazione in nessun aspetto dell'atto coniugale interpersonale.
Il valore stesso dell'amore umano e la sua autenticità esigono una tale castità dell'atto coniugale, quale è richiesta dalla Chiesa ed è richiamata nell'enciclica stessa. In vari campi l'uomo domina la natura e la subordina a sé, mediante i mezzi artificiali. L'insieme di questi mezzi equivale in qualche modo al progresso e alla civilizzazione. In questo campo però, in cui si deve attuare attraverso l'atto coniugale, l'amore tra persona e persona, e dove la persona deve dare autenticamente se stessa (e "dare" vuol dire anche "ricevere" vicendevolmente) l'uso dei mezzi artificiali equivale ad un alteramento dell'atto di amore. L'autore dell'Humanae vitae ha presente il valore autentico dell'amore umano che ha Dio come sorgente e che viene confermato dalla retta coscienza e dal sano "senso morale". E proprio nel nome di questo valore il Papa insegna i principi della responsabilità etica. Questa è anche la responsabilità che salvaguarda la qualità dell'amore umano nel matrimonio. Questo amore si esprime pure nella continenza - anche in quella periodica - poiché l'amore è capace di rinunciare all'atto coniugale, ma non può rinunciare all'autentico dono della persona. La rinuncia all'atto coniugale può essere, in certe circostanze, un autentico dono personale. Paolo vi scrive a proposito: "questa disciplina, propria della purezza degli sposi, ben lungi dal nuocere all'amore coniugale, gli conferisce invece un più alto valore umano (n. 21).
Esprimendo la premurosa sollecitudine per l'autentico valore dell'amore umano, l'enciclica Humanae vitae si rivolge all'uomo e richiama il senso della dignità della persona. L'amore infatti, secondo il suo autentico valore, deve essere realizzato dall'uomo e dalla donna nel matrimonio. La capacità ad un tale amore e la capacità all'autentico dono della persona richiedono da entrambi il senso della dignità personale. L'esperienza del valore sessuale deve essere permeata di una viva consapevolezza del valore della persona. Questo valore spiega appunto la necessità della padronanza di sé che è propria della persona: la personalità infatti si esprime nell'autocontrollo e nell'autodominio. Senza di essi l'uomo non sarebbe capace né di donare se stesso né di ricevere.
L'enciclica Humanae vitae formula questa gerarchia dei valori che si dimostra essenziale e decisiva per tutto il problema della paternità responsabile. Non si può capovolgere questa gerarchia e non si può mutare il giusto ordine dei valori. Rischieremmo una tale inversione e mutamento dei valori, se per risolvere il problema noi partissimo da aspetti parziali e non invece "dalla integrale visione dell'uomo e della sua vocazione".
Ognuno di questi aspetti parziali in se stesso è molto importante e Paolo VI non diminuisce affatto la loro importanza: sia dell'aspetto demografico-sociologico, che bio-psicologico. Al contrario, il Pontefice li considera attentamente. Egli vuole impedire soltanto che uno qualsiasi degli aspetti parziali - qualunque sia la sua importanza - possa distruggere la retta gerarchia dei valori e possa togliere il vero significato all'amore come comunione di persone e all'uomo stesso come persona capace di autentica donazione, nella quale l'uomo non può essere sostituito dalla "tecnica". In tutto questo però il Papa non trascura nessuno degli aspetti parziali del problema, anzi Egli li affronta, stabilendone il contenuto fondamentale e, legata ad esso, la retta gerarchia dei valori. E proprio su questa strada esiste la possibilità di un controllo delle nascite e quindi anche la possibilità di risolvere le difficoltà socio-demografiche. E perciò Paolo VI ha potuto scrivere con tutta sicurezza, che "i pubblici poteri possono e devono contribuire alla soluzione del problema demografico" (n. 23). Quando si tratta dello aspetto biologico e anche di quello psicologico - come appunto insegna l'enciclica - la via della realizzazione dei rispettivi valori passa attraverso la valorizzazione dell'amore stesso e della persona. Ecco le parole dell'eminente biologo, professore P. P. Grasset dell'Accademia delle Scienze: "L'enciclica va d'accordo con i dati di biologia, rammenta ai medici i loro doveri e all'uomo segna la via, sulla quale la sua dignità - così da parte fisica come da quella morale - non subirà nessuna offesa (Le Figaro, 8 ottobre 1968).
Si può dire che l'enciclica penetra nel nucleo di questa problematica universale che ha impegnato il Concilio Vaticano ii. Il problema dello sviluppo "del mondo", sia nelle sue istanze moderne, come pure nelle sue prospettive più lontane, desta una serie di domande che l'uomo si pone su se stesso. Alcune di esse, sono espresse nella Costituzione pastorale Gaudium et spes. Non è possibile una giusta risposta a queste domande senza rendersi conto del significato dei valori che decidono dell'uomo e della sua vita veramente umana. Nell'enciclica Humanae vitae Paolo VI si impegna nell'esame di questi valori nel loro punto nevralgico.
Profilo evangelico
L'esame dei valori e attraverso di esso la norma stessa della paternità responsabile formulata nell'enciclica Humanae vitae portano su di sé una particolare impronta del Vangelo. Ciò conviene ancora rilevare alla fine delle presenti considerazioni, sebbene fin dall'inizio nessuna altra idea sia stata il loro filo conduttore. Le questioni che agitano gli uomini contemporanei "esigevano dal Magistero della Chiesa una nuova approfondita riflessione sui principi della dottrina morale del matrimonio: dottrina fondata sulla legge naturale, illuminata ed arricchita dalla Rivelazione divina" (n. 4). La Rivelazione come espressione dello eterno pensiero di Dio ci permette e nello stesso tempo ci comanda di considerare il matrimonio come la istituzione per trasmettere la vita umana, nella quale i coniugi sono "liberi e responsabili collaboratori di Dio Creatore" (n. 1).
Cristo stesso ha confermato questa loro perenne dignità e ha innestato l'insieme della vita matrimoniale nell'opera della Redenzione e l'ha inserita nell'ordine sacramentale. Dal sacramento del matrimonio "i coniugi sono corroborati e quasi consacrati per l'adempimento fedele dei propri doveri, per l'attuazione della propria vocazione fino alla perfezione e per una testimonianza cristiana loro propria di fronte al mondo" (n. 25). Essendo stata esposta nell'enciclica la dottrina della morale cristiana, la dottrina della paternità responsabile, intesa come retta espressione dell'amore coniugale e della dignità della persona umana, costituisce un'importante componente della testimonianza cristiana.
E ci pare che sia proprio di questa testimonianza un certo sacrificio che l'uomo deve compiere per i valori autentici. Il Vangelo conferma costantemente la necessità di un tale sacrificio e anzi lo conferma l'opera stessa, della Redenzione che si esprime totalmente nel Mistero Pasquale. La croce di Cristo è diventata il prezzo della redenzione umana. Ogni uomo che cammina sulla via dei veri valori, deve assumere qualche cosa di questa croce come prezzo che egli stesso deve pagare per i valori autentici. Questo prezzo consiste in un particolare sforzo: "la legge divina, come scrive il Papa, richiede serio impegno e molti sforzi", e subito aggiunge che "tali sforzi sono nobilitanti per l'uomo e benefici per la comunità umana" (n. 20).
L'ultima parte dell'enciclica è un appello a questo serio impegno e a questi sforzi, sia all'indirizzo delle comunità, affinché "creino un clima favorevole all'educazione della castità" (n. 22), sia a riguardo dei pubblici poteri, come pure agli uomini di scienza, affinché riescano "a dare una base sufficientemente sicura ad una regolazione delle nascite, fondata sull'osservanza dei ritmi naturali" di fecondità (n. 24). L'enciclica fa appello infine ai coniugi stessi, all'apostolato delle famiglie per la famiglia, ai medici, ai sacerdoti e ai vescovi come pastori delle anime.
Agli uomini contemporanei, irrequieti e impazienti, e nello stesso tempo minacciati nel settore dei più fondamentali valori e principi, il Vicario di Cristo rammenta le leggi che reggono questo, settore. E poiché essi non hanno pazienza e cercano delle semplificazioni e delle apparenti facilitazioni, Egli ricorda loro quale debba essere il prezzo per i veri valori e quanta pazienza e sforzo occorra per raggiungere questi valori. Sembra che attraverso tutte le argomentazioni e appelli dell'enciclica, pieni per altro di una drammatica tensione, ci giungano le parole del Maestro: "con la vostra perseveranza salverete le vostre anime" (Luca, 21, 19). Poiché in definitiva si tratta proprio di questo.
L'Osservatore Romano - 28-29 luglio 2008


Sporcano l'universo. Smettete di far figli
L’ultima dalla Gran Bretagna: fate meno bambini, perché inquinano…
L’ultima dalla Gran Bretagna: fate meno bambini, perché inquinano. Il British Medical Journal pubblica l’appello del professor John Guillebaud, professore emerito di Pianificazione familiare all’University College di Londra, che esorta i suoi connazionali di andarci piano, con la riproduzione:
«Un bambino che nasce nel Regno Unito produrrà gas serra in misura 160 volte maggiore a un bambino etiope», denuncia il docente emerito, e spiega che se si vuole lasciare un pianeta abitabile ai nipoti «è opportuno non avere più di due figli». In realtà, quest’ansia pare inattuale, visto che a oggi il tasso di fecondità delle inglesi è di 1, 8 figli per donna, dunque di un figlio a coppia, al massimo due, più o meno come nel resto d’Occidente.
Ma questo non soddisfa i professori dell’«Optimum population trust», dediti ad alacri brain storm (tempeste di cervelli) sulla potenzialità inquinante di quell’invadente animale chiamato uomo. Basta fare due conti: quanto latte in polvere, quanti omogeneizzati e relativi vasetti, quanto detersivo fa consumare ogni nuovo arrivato, mentre ci distrae con quel suo candido sorriso? E i pannolini, vogliamo parlare dei pannolini, sintetici e orribilmente antiecologici? Ogni neonato ne consuma almeno cinque al giorno, per due anni fanno 3650 pannolini da riciclare – senza contare che qualcuno tarda anche di più, a imparare a non farsela addosso. E poi, crescendo, tricicli, biciclette, computer, moto. Plastica, chip, carta, ed energia, e carburante: è una massa opprimente, a pensarci, ciò che consumerà ogni nuovo venuto – con quella sua aria falsamente innocente.
E dunque, dicono dalle aule austere dell’University College, piantatela di fare tanti bambini. Bucano l’ozono, rodono le foreste amazzoniche, surriscaldano il pianeta, squagliano i ghiacci del Polo. Occorre essere responsabili, e pianificare il figlio unico come modello corretto di Famiglia Ecologicamente Sostenibile.
Un’amenità, quella del British Medical Journal, da stampa di mezza estate, quando si tirano fuori dai cassetti i resti che finora non si è osato pubblicare? No, all’«Optimum population trust» fanno sul serio.
L’appello possiede una sua logica, anche se declinata all’estremo: quella di un ecologismo integralista, che individua nell’uomo il distruttore del pianeta, e si affanna a contrastarlo in difesa di un ideale di natura incontaminata, senza strade né case né fabbriche. Un pianeta di foreste vergini, e pinguini e gnu felicemente prolificanti: dove tutte le creature si riproducono liete, tranne l’homo sapiens. L’uomo, che produce gas, e scava discariche, e inquina i cieli – l’uomo, che sporca.
È un idolo la natura per questo ambientalismo, un Eden da restaurare, ma espellendo Adamo. Che è un animale, sì, ma fastidiosamente, ostinatamente diverso: animale che immagina e crea, sempre teso ad andare oltre ciò che ha ereditato dai padri. Come da un altro stampo ricavato. Certo, l’uomo, anche, distrugge. E tuttavia, dalle palafitte al Partenone, alla scoperta del Dna, non tutto il fare dell’uomo può essere ridotto a un parassitario depredare. Ma, l’idolatria di certo ambientalismo sta proprio in questa divinizzazione di una natura intangibile, in antitesi all’operare umano, quasi che del Creato fossimo gli intrusi.
Forse, se gli accorati appelli dei Guillebaud britannici e nostrani venissero integralmente raccolti, secoli dopo l’implosione demografica e il crollo dell’economia sui ruderi delle autostrade tornerebbero a verdeggiare le foreste, e i fiumi scorrerebbero trasparenti come al principio. Un pianeta di nuovo vergine e selvaggio. Peccato che a guardarlo, e a raccontarlo, e a domandarsi chi ha creato tutto questo, non ci sarebbe più nessuno.
di Marina Corradi
Avvenire 27 luglio 2008


Immigrazione: il vero significato dell’accoglienza
Alberto Piatti29/07/2008
Autore(i): Alberto Piatti. Pubblicato il 29/07/2008 – IlSussidiario.net
L’emergenza immigrazione, prima che nei numeri, consiste nelle condizioni disumane in cui queste persone raggiungono l’Italia: disidratate, sfinite, cotte dal sole, stipate sulle bagnarole, e che talvolta non sopravvivono al viaggio. La vera emergenza consiste poi nella necessità di dare un’accoglienza adeguata e immediata. Per farlo non è certo possibile agire con mezzi ordinari.
Nel nostro mondo globalizzato, le migrazioni sono sempre più diffuse, e di fronte a una realtà tanto complessa, l’Italia ha trovato una sua strada e sta cercando di affrontare i problemi man mano che emergono. In questo, altri Paesi europei mostrano anche maggiori difficoltà e più severità.
Non si può pensare che da luoghi di estrema povertà, dove la sopravvivenza quotidiana è un impegno estremo e duro, le persone non desiderino fuggire: hanno una speranza e la perseguono.
Nei miei viaggi ho visitato alcuni dei Paesi da cui originano molti dei nostri immigrati. Lì vivono in condizioni veramente misere: combattono contro malattie che noi non ricordiamo più, come la malaria e la tubercolosi, o come il morbillo, e lottano contro la fame; cose che noi abbiamo sentito raccontare dai nostri nonni e che abbiamo sepolto sotto l’oblio dell’opulenza.
La maggior parte di loro desidera lavorare e costruirsi un futuro migliore. E se noi li accogliamo dobbiamo garantirgli un’opportunità vera. In caso contrario sarebbe un dovere umano dire che non riusciamo ad accoglierli, prima che a farlo siano le bande di criminali.
Un punto deve però essere chiaro: le regole non servono solo a noi per mantenere il nostro orto dorato, ma anche per le persone che arrivano da noi e che hanno diritto a una vita degna.
Il bombardamento illusorio del mondo luccicante già abbaglia tutti noi, figuriamoci una persona che viene da luoghi poverissimi, che ha vissuto di stenti. È facile immaginare cosa significhi per queste persone resistere alla tentazione del guadagno facile.
Accoglienza significa dunque presentare un quadro legislativo chiaro e perseguire la solidarietà cristiana che sollecita la Chiesa: due elementi che possono benissimo convivere.
Detto questo le priorità in tema di immigrazione sono, a mio parere, sostanzialmente tre.
Innanzitutto la lotta ai trafficanti di uomini: esiste un business che spreme dalle tasche di coloro che fuggono cifre impensabili, facendoli viaggiare nelle condizioni a noi ben note. Questa è una battaglia seria da riprendere, coinvolgendo i governi che spesso usano gli uomini come arma di ricatto per farsi aiutare a costruire strade e dighe. È una battaglia da portare avanti insieme a quella contro il terrorismo.
È poi necessaria una cooperazione con i popoli, perché possano costruire un mondo migliore là dove sono, senza dover lasciare tutto. Questo può avvenire attraverso l’educazione e la formazione.
Infine va creato un ambiente adeguato all’accoglienza: regole chiare, certe, definizione chiara delle reali possibilità di accoglienza, senza tentennamenti, insieme a un tessuto in cui i nuovi arrivati possano trovare punti di riferimento per la loro vita quotidiana. Questo li può mettere in grado di convivere con noi, di distinguere giusto e ingiusto, vero e falso, legale e illegale, facendo crescere la loro responsabilità. Per questo è necessario anche sostenere le iniziative del privato sociale.


29 luglio 2008
Oggi il Senato vota sul conflitto d'attribuzione
Una legge impossibile per Eluana Englaro, di Giuliano Ferrara – dal Foglio.it
Da un momento all’altro Beppino Englaro, con il conforto dei suoi stimabili amici della consulta bioetica, fior di medici biologi e professori che la pensano diversamente da me o dalle suore o dai vescovi sul ciclo finale della vita di persone prive di coscienza, potrebbe interrompere la nutrizione di sua figlia Eluana e, con questo, mettere in moto il deperimento e la fine della vita di quella giovane donna nel giro di dieci-dodici giorni. E’ un suo diritto di tutore, certificato da una doppia sentenza, della Cassazione e della Corte civile d’Appello di Milano. Sebbene il mio istinto sia di battermi contro quella decisione, per il suo significato e il suo risvolto pubblico, non gliene vorrei personalmente. (D’altra parte odio l’aborto ma ho amore e compassione per ogni donna costretta dalla cultura contemporanea ad abortire la sua creatura, vorrei che la mentalità prevalente del mio tempo elevasse quella strage e quella “violenza indicibile” nel grembo delle donne a tabù, la qualificasse per quello che è, una risposta barbarica, facile, moralmente indifferente al problema del rifiuto di maternità, ma non penso che l’aborto sia una colpa delle donne.)
Ho letto un testo del signor Englaro, sull’Unità di sabato, l’ho trovato intenso e forte, e penso di poter dire conclusivamente che questo padre eseguirebbe come una gioiosa istanza di liberazione quella che a molti di noi sembra una crudele condanna a morte. Lo farebbe con piena convinzione, come persona e come familiare di Eluana, come chi la conosce meglio al mondo, e anche come membro di una società (la consulta di bioetica del professor Maurizio Mori) il cui scopo dichiarato è promuovere gli “stili di vita secolari”, cioè un modo di nascere, vivere e morire nel secolo fuori di ogni ipoteca trascendente o cristiana, laica o secolare, dentro una filosofia dell’esistenza che non prevede l’essere e il suo ordine al di là della materia e del suo funzionamento chimico (non prevede la metafisica), non prevede sostanza e speranza e fede e coltiva invece quel tipo di gioia di vivere naturalistico e nichilistico che sta nel disporre di sé con la massima libertà e padronanza possibile, concludendo per il nulla quando lo si ritenga giusto. (Aborto, maltrattamento degli embrioni nella fecondazione artificiale ed eutanasia sono tre segni distintivi, ma non gli unici, di questi stili di vita sicuri di sé, vincenti, dominatori, self-righteous, che sarebbero modi di vita stoici se non fondessero in uno l’indifferenza per sé e quella per gli altri.)
Insisto, tuttavia. Beppino Englaro toglierebbe la nutrizione a sua figlia con emozione, con una remora di dolore ma anche con una spinta felice, e realizzando nel proprio cuore un superiore atto di giustizia, un dare a ciascuno il suo, e a sua figlia Eluana la libertà, a lei cara, di non vivere nella costrizione della cura e nell’indisponibilità della propria vita. Ciò che una parte dell’opinione giudica omicidio è missione la più alta di rispetto umano per il padre di Eluana Englaro.
Bisogna dunque dirsi la verità sullo stato d’animo e di cultura delle società occidentali. Una minoranza pensa che Eluana Englaro, da sedici anni priva di coscienza vigile e nutrita e idratata attraverso un sondino nel naso, abbia diritto alla carità, cioè all’amore, e dunque alla vita nella speranza. La maggioranza, e tra questi il padre della ragazza sofferente, giudica questa carità, questa cura non direttamente terapeutica, come un accanimento, una arbitraria prigionia, la arrogante negazione di un diritto a essere se stessi, il prolungamento di un tormento quando non una tortura. Il conflitto tra la società della speranza e quella della disperazione, tra la cultura della carità per il tutto e quella della libertà per il niente, è costernante ma ineludibile.
Questa settimana sarà connotata da diversi voti parlamentari su conflitti di attribuzione tra poteri dello stato (il Senato contro la magistratura) e su mozioni di orientamento legislativo alla Camera. Ho paura che ne risulterà un pasticcio. Difficile legiferare su un elemento così filosoficamente inafferrabile come il confine tra la vita e la morte o come il titolo di proprietà dell’esistenza umana. L’unica legge sensata sarebbe quella che in un solo articolo dicesse, risolvendo il conflitto tra carità e legge in modo chiaro, e a favore della carità: nessun malato o portatore di handicap può essere soppresso finché qualcuno nel mondo sia pronto a darsi per la sua amorevole cura.


28 luglio 2008
Caro Walter, l’idea era buona ma il tuo Pd è una delusione
Per recuperare credibilità (e potere) non basta prendersela col Cav.
Il segretario del Partito democratico ha gentilmente replicato ieri nel Foglio a un mio commento pubblicato da Panorama, del che lo ringrazio. Mi dicevo stupefatto perché il progetto incarnato dalla sua leadership è in disarmo. Invece di riconvocare le primarie dopo la sconfitta elettorale e cercare una nuova legittimazione popolare per le sue idee, nel fuoco di un confronto chiaro e stanando i suoi avversari interni, Veltroni ha scelto tattiche elusive e difensive della vecchia politica d’apparato. Indebolendosi.
Paura di una scissione? Fragilità di quel corpo politico appena fuso e già sottoposto allo stress da perdita del governo? Inquietudine per il plebiscito nordista-leghista e la variante spettacolare della conquista del Campidoglio da parte di Alemanno? Carattere personale di Veltroni, ostile agli scontri all’arma bianca? Realistica valutazione del peso specifico di D’Alema e della sua dottrina di restaurazione del potere dei partiti in un quadro di Repubblica parlamentare vecchio stile, insomma il contrario del progetto bipolarista, della vocazione maggioritaria del Pd, della leadership personale legittimata nelle primarie? Spiazzamento derivato dallo scarto di Berlusconi, che ha sbaragliato un nuovo agguato giudiziario nel modo radicale e volitivo che sappiamo, con il lodo Alfano, mettendo il suo interlocutore politico e istituzionale dell’opposizione in grave difficoltà con la sua base elettorale e politica?
Le spiegazioni possibili sono tante, elencarle tutte sarebbe una lungaggine, ma il risultato non cambia. Veltroni ha perso parecchio peso nel Pd e, in rapporto al paese, il Pd va perdendo ogni giorno il suo tratto di novità e di senso, il suo crisma battesimale impallidisce: doveva essere una formazione politica originale, un partito democratico in senso americano, nuovo nell’ideologia e nella forma organizzativa, e non più un partito popolar-cattolico o socialista nella tradizione europea. Doveva esserlo, secondo i piani pubblicamente esposti, ma non lo è diventato e non lo sta diventando.
I conti elettorali del centrosinistra si possono leggere in un solo modo, se non si abbia voglia di scherzare o di truffare il prossimo. L’Unione e il governo Prodi, insieme con l’estrema sinistra radicale e un coacervo di idee e di abitudini e di pregiudizi antropologici e morali dell’antiberlusconismo militante, sono il mondo che è uscito letteralmente distrutto dal voto. Invece il progetto veltroniano di Partito democratico, sia per la percentuale raccolta sia per il Parlamento uscito dalle urne, in cui ad esso è consegnato sostanzialmente il monopolio dell’opposizione, ha tenuto e ha creato le condizioni politiche di un rilancio e di una strategia di alternativa di lungo periodo, fondata sul governo ombra e un rapporto normalmente conflittuale e competitivo ma non di reciproca delegittimazione e paralisi con la maggioranza.
Quel progetto, nominalmente, era appoggiato, insieme con la leadership di Veltroni, da una vasta maggioranza interna ai due partiti postdemocristiano e postcomunista che hanno dato vita all’idea. Nominalmente. In realtà era legato a un salto di generazione e di cultura, come aveva scritto in modo preveggente il professor Salvati in queste colonne, la prima volta che fu sistematizzata la stessa idea di un Partito democratico. Ma il salto non c’è stato, tutto procede nella continuità e nella melassa burocratica, l’identità del partito sfiorisce, la sua silhouette si accuccia all’ombra di una ordinaria operazione di unificazione delle due formazioni originarie. La politica del Pd si presenta già come una qualunque ricerca di ordinarie alleanze nel panorama politico così com’è, dal pigro e irrilevante Casini agli extraparlamentari di sinistra fino al populismo giustizialista di un Di Pietro. Niente di male, tutto legittimo.
Ma questo che c’entra con quella grande idea di partito nuovo che avrebbe dovuto favorire e col tempo guidare un mutamento grandioso nella forma dello stato e nell’assetto stesso della società politica italiana? Che c’entra con il Pd come agente di grandi riforme istituzionali e costituzionali, come contraente di un patto per una nuova Repubblica fuori dalla vischiosa transizione di questi “quindici anni” che Veltroni non smette mai di mettere sotto accusa come un passato di cui liberarsi? Le pratiche politiche nel Pd dopo le elezioni fanno invece prevedere nuove Unioni e nuovi centrosinistra da comporre con il tradizionale metodo del rassemblement antiberlusconiano ingovernabile e di poca coesione per un serio governo del paese.
A queste contestazioni non faziose, non antipatizzanti, che partono dal riconoscimento del significato positivo e interessante del progetto che la sua leadership ha incarnato, Veltroni ha risposto esibendo ancora una volta la sua buona volontà, che nessuno mette in dubbio; ha rivendicato un cambiamento di tono e di stile che si è segnalato nella presa di distanza dall’orgia demenziale di sciocchezze realizzata a Piazza Navona; e per l’essenziale ha attribuito la colpa dei disastri all’inclinazione di Berlusconi, di nuovo rivelatosi “totalmente inaffidabile”, a difendersi dai magistrati che cercano di stroncare da quindici anni la sua notevole carriera politica o, per riprendere un fantastico Baget Bozzo sulla Stampa di ieri, il suo potere sovrano di rappresentanza costruito, e non in plastica, nel vuoto di legittimazione dello stato. A me sembra poco, caro Walter, e te lo dico con la stessa gentilezza sincera da te usata nella tua lettera di ieri.
Giuliano Ferrara


SUL CRINALE DEL CASO ENGLARO - QUELLE SENTENZE SVUOTANO IL COMPITO MEDICO
Avvenire 29 luglio 2008
FRANCESCO D’AGOSTINO
Abbiamo già letto autorevoli, sottili e perti­nenti analisi giuridiche in merito al con­flitto di attribuzioni tra Parlamento e Magistra­tura, sollevato a partire dal caso Englaro: anali­si tutte meritevoli di attenzione, che però non incidono sul cuore del problema, che non ha un carattere primariamente giuridico, ma bioe­tico. Anche se la vicenda Englaro (come tutte quelle dei malati in coma) è umanamente stra­ziante, non è però di per sé particolarmente complessa, se si è in grado di stabilire alcuni punti fermi, come è assolutamente necessario fare, se non si vuole che la pur feconda diver­sità di opinioni tra i bioeticisti porti ad un’as­surda paralisi decisionale ogni qual volta sorga un qualsiasi problema bioetico (paralisi oltre tutto che verrebbe inevitabilmente sciolta in questo modo: poiché ci sono tante opinioni di­verse, vanno tutte bene; va quindi bene tutto e il contrario di tutto).
Nel nostro caso, la questione è riassumibile in pochi ed essenziali principi. La vita umana è in­disponibile, non perché sia un bene morale, ma perché è il presupposto di ogni bene morale; la medicina è quella pratica epistemologica e so­ciale, elaborata da generazioni e generazioni di uomini, col fine specifico di garantire la cura, la promozione, la difesa della vita e in particolare di ogni singolo essere umano vivente, indipen­dentemente dalla sua età, dalla sua salute, dal­le sue fragilità. I malati in coma persistente han­no, come qualsiasi altro malato, un diritto asso­luto alle terapie e all’assi­stenza loro dovute.
Ebbene, le due ultime sen­tenze sul caso Englaro (quella della Cassazione e quella della Corte di ap­pello di Milano) hanno in­ciso in modo estrema­mente rilevante sul para­digma sopra riassunto. Il coma persistente, anziché essere riconosciuto per quello che è, cioè uno sta­to patologico di estrema gravità, da affidare alla competenza terapeutica dei medici, è stato di fatto interpretato, in modo arbitrariamente innova­tivo, come una dimensione mediana tra la vita e la morte. In questa paradossale zona bioetica­mente grigia, il principio ippocratico di 'garan­zia' è stato svuotato dall’interno e il dovere dei medici, da quello di operare per la vita, è stato riformulato in quello (del tutto inedito!) di por­si al servizio di una pretesa (peraltro nel nostro caso ben poco documentata) volontà sovrana del paziente di interruzione di ogni terapia. Ma non basta: per giustificare giuridicamente la so­spensione dell’alimentazione e dell’idratazione dei malati in coma è stato necessario che i giu­dici riqualificassero formalmente queste prati­che come terapeutiche: essi sono così entrati in un ambito scientificamente ed eticamente mol­to controverso, assumendo come incontestata l’opinione di alcuni, pur se autorevoli, medici e delegittimando nello stesso tempo la ben di­versa opinione di altri, parimenti autorevoli, me­dici e soprattutto del senso comune.
In breve: con queste sentenze i magistrati han­no alterato (ma possiamo continuare a credere che lo abbiano fatto inconsapevolmente?) l’im­magine storica, epistemologica e deontologica della medicina e lo hanno fatto in modo così incisivo, da creare vere e proprie situazioni di 'vuoto' normativo, tali da mettere in serio im­barazzo pratico gli operatori sanitari che do­vrebbero assistere la povera Eluana dopo la so­spensione dell’alimentazione e dell’idratazione. Di qui l’ultimo paradosso: la stessa sentenza che individua le corrette (!) procedure legali per far morire Eluana impone altresì ai medici di seguire regole minute di condotta (come l’idra­tazione delle mucose del suo corpo o la som­ministrazione di peculiari sostenze farmacolo­giche) per non farla 'soffrire' nell’attesa del de­cesso. In queste sentenze la giuridificazione del­la medicina appare ormai un fatto compiuto, tanto quanto l’umiliazione scientifica e deon­tologica dei medici. Dietro al conflitto di competenza tra Parlamen­to e Magistratura non è difficile scorgere un ben più grave conflitto: quello tra una medicina a saldo e nobile fondamento ippocratico, chia­mata a difendere la propria autonomia scienti­fica ed etica, e una medicina pensata invece co­me neutrale pratica sociale, incapace di auto­governarsi e controllata biopoliticamente da norme e regole minuziosamente formali.