lunedì 31 gennaio 2011

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    Il dolore di Rebora di Pigi Colognesi, lunedì 31 gennaio 2011, il sussidiario.net
2)    Se gli interessi particolari fanno dimenticare il bene comune di Pio XII, 31-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
3)    CULTURA - DOSTOEVSKIJ/ Il suo Grande Inquisitore ci svela la nuova insidia del potere di Sergio Cristaldi, lunedì 31 gennaio 2011, il sussidiario.net
4)    31 Gennaio San Giovanni Bosco di http://www.pontifex.roma.it/
5)    Dall'India all'Indonesia non c'è pace per i cristiani di Anna Bono, 31-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
6)    Missionario in Etiopia guardando agli ortodossi di Massimo Introvigne, 31-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it


Il dolore di Rebora di Pigi Colognesi, lunedì 31 gennaio 2011, il sussidiario.net

L’epidemia di influenza è al suo acme. Al di là delle notizie sui giornali, ce ne rendiamo ben conto nella nostra vita quotidiana. C’è la riunione che salta perché uno dei partecipanti telefona con voce soffocata dicendo di essere costretto a letto; c’è il collega con cui era programmato un importante lavoro e che invece è dovuto restare a casa; c’è la donna delle pulizie che va su e giù dalle scale con continui e irrefrenabili colpi di tosse.

Io, per ora, ho preso solo un forte raffreddore. Sufficiente però nei suoi effetti - decine e decine di fazzoletti di carta consumati, il naso arrossato e dolorante, caldo improvviso seguito da brividi di freddo, difficoltà di concentrazione - a rammentarmi che il nostro corpo non è una macchina che funziona sempre alla perfezione, che può incepparsi, ammalarsi.

Mi sono tornati alla mente alcuni versi dei Canti dell’infermità di Clemente Rebora e sono andato a rileggere questa breve raccolta di poesie. Certamente non si può paragonare la lunga stagione di sofferenze che ha caratterizzato l’ultima parte della vita di Rebora, e che si sarebbe conclusa con la sua morte nel 1957, col piccolo disagio provocato da un raffreddore. Eppure, sebbene profondamente diversa in quantità, la qualità di quanto Rebora, allora sacerdote rosminiano inchiodato su un letto a Stresa, ha scritto è pertinente con ogni tipo di esperienza di dolore fisico.

«Sono qui infermo», scrive nel novembre del 1956; tutto il peso del ritmo del verso cade su quel «qui», che circostanzia concretamente la sofferenza e sembra bloccare ogni cosa nel suo doloroso orizzonte. «Inerte e informe giaccio con me stesso» scriveva l’anno prima; inerte perché il corpo non risponde come si vorrebbe e informe perché i pensieri stessi si confondono. E infatti in questa stessa poesia Rebora parla si sé come di una «salma».
La descrizione delle angustie che il malato è costretto ad attraversare è ricca di dettagli, che il verso reboriano, aspro e sintetico, trasforma in crudi colpi di luce, quasi rasoiate. «Per lo schianto, basta un niente». «E il corpo mi rifiuta ogni servizio». «Tutto ozio di tempo, orribil peso». Fino a giungere alla potentissima immagine contenuta in Notturno, scritto la vigilia di Natale del 1955: «Chiodo al muro, / in fisiche miserie io son confitto».

I Canti dell’infermità non sono però solo la constatazione e l’analisi di un fenomeno; sono anche la ricerca del suo senso. Come il pioppo dell’omonima poesia ha il tronco che «s’inabissa ov’è più vero», così «l’ansia del pensiero» di Rebora, malato e incapace di svolgere qualsiasi attività, «vibra», «spasima» nel desiderio di scoprire il significato di tutto questo soffrire.

È lo stesso desiderio che gli aveva fatto scrivere, ancora ateo, nel 1920: «Non aspetto nessuno», eppure «verrà d’improvviso», «verrà come ristoro», «verrà, forse già viene / il suo bisbiglio». È il desiderio che sul letto dell’infermità diventa questa stupenda preghiera: «L’umiliante decompormi vivo / sia l’indizio del Tuo vitale arrivo».
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Se gli interessi particolari fanno dimenticare il bene comune di Pio XII, 31-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Il sentimento profondo dei principi di un ordine politico e sociale, sano e conforme alle norme del diritto e della giustizia, è di particolare importanza in coloro che, in qualsiasi forma di regime democratico, hanno come rappresentanti del popolo, in tutto o in parte, il potere legislativo.

E poiché il centro di gravità di una democrazia normalmente costituita risiede in questa rappresentanza popolare, da cui le correnti politiche s'irradiano in tutti i campi della vita pubblica — così per il bene come per il male —, la questione della elevatezza morale, della idoneità pratica, della capacità intellettuale dei deputati al Parlamento, è per ogni popolo in regime democratico una questione di vita o di morte, di prosperità o di decadenza, di risanamento o di perpetuo malessere.

Per compiere un'azione feconda, per conciliare la stima e la fiducia, qualsiasi corpo legislativo deve - come attestano indubitabili esperienze - raccogliere nel suo seno una eletta di uomini, spiritualmente eminenti e di fermo carattere, che si considerino come i rappresentanti dell'intero popolo e non già come i mandatari di una folla, ai cui particolari interessi spesso purtroppo sono sacrificati i veri bisogni e le vere esigenze del bene comune.

Una eletta di uomini, che non sia ristretta ad alcuna professione o condizione, bensì che sia l'immagine della molteplice vita di tutto il popolo. Una eletta di uomini di solida convinzione cristiana, di giudizio giusto e sicuro, di senso pratico ed equo, coerente con se stesso in tutte le circostanze; uomini di dottrina chiara e sana, di propositi saldi e rettilinei, uomini soprattutto capaci, in virtù dell'autorità che emana dalla loro pura coscienza e largamente s'irradia intorno ad essi, di essere guide e capi specialmente nei tempi in cui le incalzanti necessità sovreccitano la impressionabilità del popolo, e lo rendono più facile ad essere traviato e a smarrirsi; uomini che nei periodi di transizione, generalmente travagliati e lacerati dalle passioni, dalle divergenze delle opinioni e dalle opposizioni dei programmi, si sentono doppiamente in dovere di far circolare nelle vene del popolo e dello Stato, arse da mille febbri, l'antidoto spirituale delle vedute chiare, della bontà premurosa, della giustizia ugualmente favorevole a tutti, e la tendenza della volontà verso l'unione e la concordia nazionale in uno spirito di sincera fratellanza.

I popoli, il cui temperamento spirituale e morale è bastantemente sano e fecondo, trovano in se stessi e possono dare al mondo gli araldi e gli strumenti della democrazia, che vivono in quelle disposizioni e le sanno mettere realmente in atto. Dove invece mancano tali uomini, altri vengono ad occupare il loro posto, per far dell'attività politica l'arena della loro ambizione, una corsa ai guadagni per se stessi, per la loro casta o per la loro classe, mentre la caccia agl'interessi particolari fa perdere di vista e mette in pericolo il vero bene comune.

(Tratto dal Radiomessaggio natalizio del 24 dicembre 1944)


CULTURA - DOSTOEVSKIJ/ Il suo Grande Inquisitore ci svela la nuova insidia del potere di Sergio Cristaldi, lunedì 31 gennaio 2011, il sussidiario.net

Continua a far discutere la vertiginosa Leggenda del Grande Inquisitore, che Dostoevskij ha incastonato ne I fratelli Karamazov, suo ultimo romanzo, sua ultima sfida, senza umano rispetto, alla coscienza europea. Il drammatico faccia a faccia messo in scena dalla Leggenda - protagonisti assoluti il vecchio cardinale spagnolo costantemente a caccia di eretici e il Figlio di Dio tornato sulla terra e fatto arrestare proprio dal geloso e occhiuto ecclesiastico - non ha perso la sua forza d’impatto. Evidentemente, la posta in gioco di queste pagine è ancora attuale. In che termini, oggi, la si può definire? 

Non c’è dubbio che uno dei poli attorno a cui la Leggenda gravita sia il dono della libertà; impegnativo, enigmatico dono, tanto da apparire piuttosto un fardello. Non è meglio barattarlo con più tollerabili surrogati? Così ritiene, nella sua decrepita saggezza, il Grande Inquisitore. Quali esattamente siano, queste alternative che tentano le maggioranze ottuse e fiacche e appaiono a misura delle umane possibilità anche alle menti più sagaci, Dostoevskij lo segnala con chiarezza, e bisogna essere leali con le sue indicazioni, recepirle nella loro precisa fisionomia, per riuscire all’altezza del paragone con lui, qualunque cosa si pensi dell’analisi che propone.

Primo succedaneo, dunque, il benessere, ciò che l’episodio evangelico delle tentazioni di Cristo designa come “pane”, l’indiscutibile pane terreno. È questo lo slogan dei sediziosi, il motto destinato a campeggiare su tutte le bandiere eversive. “Passeranno i secoli”, annuncia il Grande Inquisitore dalla sua specola controriformistica, “e l’umanità proclamerà per bocca della sua sapienza e della sua scienza che non esiste il delitto, e quindi nemmeno il peccato, ma che ci sono soltanto degli affamati”. Riduzione del desiderio in nome di una pretesa sollecitudine; caricatura del bisogno e della stessa attenzione al bisogno, la quale nelle sue forme autentiche accorre al fianco delle necessità immediate destando al tempo stesso l’avvertimento di quelle più radicali, aperte verso l’infinitamente grande.

Ma l’infinito non è la prospettiva dei rivoluzionari, i quali si preoccuperanno esclusivamente, senza peraltro riuscirvi, di ridistribuire i beni della terra; e non è nemmeno l’orizzonte del Grande Inquisitore, ancor più scettico sulla natura umana e persuaso che all’indomani delle rivoluzioni fallite scoccherà di nuovo la sua ora. Saranno i suoi eredi a prendersi carico con successo delle necessità degli uomini; i quali, da parte loro, diverranno docili e remissivi pur di essere rifocillati. È così che si serve e si governa il genere umano, saziando la sua fame. A patto, beninteso, di sedare anche l’inquietudine della sua coscienza. Il Grande Inquisitore, infatti, è consapevole che la sola offerta del pane sarebbe insufficiente: anche nei deboli e negli inetti la coscienza sopravvive. Occorre, allora, lusingarla.

A questo valgono “saldi principi morali”, in grado di “acquietare la coscienza umana una volta per sempre”: una ripresa, dopo Cristo, della “salda legge antica”, dalla quale Cristo si era allontanato. Si sta profilando abbastanza chiaramente, a questo punto, la fisionomia del personaggio dostoevskiano: se egli vuole tranquillizzare le moltitudini, e non c’è dubbio che sia questo il suo obiettivo, si ripromette di farlo attraverso un sistema di sicurezze materiali rinsaldato da una tavola di valori e di norme, con esclusione di ogni rischio, intrapresa, creatività, di ogni avventuroso azzardo d’amore. Sistema talmente perfetto che nessuno avrebbe più bisogno di essere buono, secondo l’efficace formula del poeta T.S. Eliot; e tutti, aggiungiamo, sarebbero unicamente preoccupati della propria correttezza.

Ma la correttezza, come ogni regolare meccanismo, ha bisogno di inserirsi entro un meccanismo più ampio, entro un vasto ingranaggio perfettamente solidale, dove ogni pezzo, mentre svolge in maniera esatta la sua predestinata funzione, sia assecondato dagli altri pezzi, in un’inappuntabile esecuzione collettiva del programma generale. Matura così l’ultimo tocco del gigantesco progetto: l’Inquisitore ha in serbo l’annuncio di un’utopia ecumenica, di una “unione mondiale e universale” che instaurerà fino agli estremi confini della terra “il regno della pace e della felicità”, senza attriti, conflitti, esclusioni, “in un formicaio indiscutibilmente comune e concorde”. Superfluo postillare che in una simile uniformità non sarà consentito a chicchessia rivendicare il proprio volto, andare controcorrente.

Quale significato conserva per noi la Leggenda, che risale, col romanzo in cui è inserita, allo scorcio finale dell’Ottocento, dove erano in incubazione le convulsioni poi esplose nel secolo successivo? Forse sarebbe più giusto chiedersi se l’invenzione di Dostoevskij acquisti significati ulteriori nel momento in cui ci raggiunge. Raffigurando il Grande Inquisitore, il romanziere russo polemizzava certo coi gesuiti; al tempo stesso, come risulta anche dal suo epistolario, prendeva di mira il socialismo (conferendogli, a detta di Henri de Lubac, una venatura positivistica, tanto che il protagonista della Leggenda e i suoi accoliti finiscono per somigliare ai servitori dell’Umanità vagheggiati da Augusto Comte).

Ma il senso di un testo non è interamente dispiegato in origine, cresce nel rapporto con situazioni inedite, con lettori appartenenti a nuovi contesti; e non è arbitrario scorgere nella Leggenda una potenziale anticipazione dell’odierna riluttanza all’iniziativa e alla scommessa, una profezia in germe della nostra aspirazione a trattenere una cornice di garanzie, non importa se a scapito del desiderio, censurato e ridimensionato. In luogo della responsabilità personale, il ricorso a reti protettive; al posto dell’amore e della sua inventività, il binario delle regole. E nessuno venga a scuoterci, le nostre guide stabiliscano piuttosto le precise condizioni in grado di assicurare, se coscienziosamente ottemperate, il mantenimento dello status quo. Basterà che ciascuno, nel proprio ambito, le rispetti, in solidale concordia con gli altri. Con tutti. Con l’universalità degli uomini di un mondo omologato, dove vigono dappertutto le stesse, ben riconoscibili, procedure. Se questa interpretazione della Leggenda è plausibile, Dostoevskij si rivela, ancora oggi, altamente nutritivo.


Ma il segreto della Leggenda sta in un punto ulteriore, che poi è quello che la regge interamente. Il sotterraneo lavorio del romanziere a scapito del suo protagonista, la smentita dell’Inquisitore verboso attraverso la stessa enormità delle sue parole, non comporta appena un’implicita rivendicazione della libertà rispetto alla legge. Si tratterebbe di una controproposta ancora astratta; e tutto sommato insostenibile. Dostoevskij è su un’altra lunghezza d’onda, non per caso pone il Grande Inquisitore al cospetto di un altro personaggio, sempre silenzioso, ma non per questo inattivo. Le sue rauche frasi, non dimentichiamolo, il cardinale di Spagna le pronuncia di fronte a Cristo, divenuto suo prigioniero. Non è certo un elemento del testo dal quale si possa prescindere, fino a trascrivere le battute dostoevskiane in chiave esclusivamente secolare, quasi fossero un preludio alle filosofie novecentesche dell’arbitrio (quando invece prevengono il riflusso dell’arbitrio nella sudditanza al regime politico, violento o morbido che sia), o comunque si prestassero a una qualsiasi ricodifica di stampo naturalistico.

Il fatto è che la libertà dispone di una vera chance solo di fronte al Figlio di Dio, che l’ha abilitata rompendo i sigilli di una legge incombente. O meglio, la libertà è nella Leggenda il necessario margine di gioco in cui si muove l’affezione, che è calamitata non da un ideale, o da una nostalgia, o da un progetto, ma da un’irrecusabile presenza; questo, per lo scrittore, è assunto non negoziabile, e la nostra interpretazione è tenuta a prenderne atto. “Tu”, esclama lo spietato ma lucidissimo prete, rivolgendosi all’insolito interlocutore, “volesti il libero amore dell’uomo, perché ti seguisse liberamente, attratto e conquistato da Te. In luogo di seguire la salda legge antica, l’uomo doveva per l’avvenire decidere da sé liberamente, che cosa fosse bene e che cosa fosse male, avendo dinanzi come guida la sola Tua immagine”. Si sottragga all’affermazione l’ultimo segmento (è stato già fatto), ed essa non solo muterà natura, ma non riuscirà a reggersi; come l’Inquisitore stesso aveva sagacemente previsto, col suo annuncio dell’inevitabile schiavitù dopo la pretesa dell’anarchia; come la storia ha quindi provveduto a confermare, lungo i suoi ben noti percorsi novecenteschi. Ciò che l’Inquisitore non aveva messo in preventivo è la reazione dell’accusato all’implacabile requisitoria: “Il Prigioniero l’ha sempre ascoltato (...). Ma tutt’a un tratto si avvicina al vecchio in silenzio e lo bacia piano sulle esangui labbra novantenni. Ed ecco tutta la Sua risposta”.

All’indomani del XX secolo e dei suoi totalitarismi, ci muoviamo entro paesaggi meno terrificanti; anche se abbiamo ragione a temere le forme blande e insinuanti che il potere adesso assume. Il metro con cui misurare il potere è peraltro la sua disponibilità a rispettare e favorire la libera mossa del soggetto. Sempre che questa mossa ci sia. Non è detto, insomma, che la vera insidia venga dal di fuori, e non piuttosto dalla nostra riluttanza a scegliere e a giocarci, dall’inconfessata tentazione di riposare in alvei predefiniti e sicuri, al riparo da brusche novità e spiazzanti sorprese, magari grazie a uno Stato in veste di tutore benevolo, che senza farlo pesare indirizzi e sorvegli i passi, promettendo in cambio di coprire tutti gli incerti, di ammortizzare anche gli infortuni più temibili.

Ecco: Dostoevskij costituisce un formidabile antidoto contro ogni statolatria. Non per questo combacia con un puro liberalismo sciolto da ogni riferimento assoluto; semmai ritrova le radici da cui l’idea della libertà, in Europa, si è storicamente sviluppata. 


O meglio, la libertà è nella Leggenda il necessario margine di gioco in cui si muove l’affezione, che è calamitata non da un ideale, o da una nostalgia, o da un progetto, ma da un’irrecusabile presenza; questo, per lo scrittore, è assunto non negoziabile, e la nostra interpretazione è tenuta a prenderne atto. “Tu”, esclama lo spietato ma lucidissimo prete, rivolgendosi all’insolito interlocutore, “volesti il libero amore dell’uomo, perché ti seguisse liberamente, attratto e conquistato da Te. In luogo di seguire la salda legge antica, l’uomo doveva per l’avvenire decidere da sé liberamente, che cosa fosse bene e che cosa fosse male, avendo dinanzi come guida la sola Tua immagine”.

Si sottragga all’affermazione l’ultimo segmento (è stato già fatto), ed essa non solo muterà natura, ma non riuscirà a reggersi; come l’Inquisitore stesso aveva sagacemente previsto, col suo annuncio dell’inevitabile schiavitù dopo la pretesa dell’anarchia; come la storia ha quindi provveduto a confermare, lungo i suoi ben noti percorsi novecenteschi. Ciò che l’Inquisitore non aveva messo in preventivo è la reazione dell’accusato all’implacabile requisitoria: “Il Prigioniero l’ha sempre ascoltato […]. Ma tutt’a un tratto si avvicina al vecchio in silenzio e lo bacia piano sulle esangui labbra novantenni. Ed ecco tutta la Sua risposta”.

All’indomani del XX secolo e dei suoi totalitarismi, ci muoviamo entro paesaggi meno terrificanti; anche se abbiamo ragione a temere le forme blande e insinuanti che il potere adesso assume. Il metro con cui misurare il potere è peraltro la sua disponibilità a rispettare e favorire la libera mossa del soggetto. Sempre che questa mossa ci sia. Non è detto, insomma, che la vera insidia venga dal di fuori, e non piuttosto dalla nostra riluttanza a scegliere e a giocarci, dall’inconfessata tentazione di riposare in alvei predefiniti e sicuri, al riparo da brusche novità e spiazzanti sorprese, magari grazie a uno Stato in veste di tutore benevolo, che senza farlo pesare indirizzi e sorvegli i passi, promettendo in cambio di coprire tutti gli incerti, di ammortizzare anche gli infortuni più temibili.

Ecco: Dostoevskij costituisce un formidabile antidoto contro ogni statolatria. Non per questo combacia con un puro liberalismo sciolto da ogni riferimento assoluto; semmai ritrova le radici da cui l’idea della libertà, in Europa, si è storicamente sviluppata.
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31 Gennaio San Giovanni Bosco di http://www.pontifex.roma.it/

Castelnuovo d’Asti, 16 Agosto 1815- Torino, 31 Gennaio 1888. San Giovanni Bosco è indubbiamente il Santo piemontese più noto di tutti i tempi e su scala mondiale, anche il più famoso Santo temporaneo. In tutto il mondo è fiorito il suo frutto più importante, la Famiglia Salesiana; la congregazione religiosa di recente fondazione più diffusa nei cinque continenti. Giovanni nasce il 16 Agosto 1865 a Castelnuovo d’Asti, oggi Castelnuovo Don Bosco. Cresce in una modesta famiglia, il padre Francesco e la madre, serva di Dio Margherita Occhiena, allevano i figli alla fede e al Vangelo. A soli nove anni, Giovanni ebbe un sogno che gli rivelò la sua futura missione volta all’educazione dei più giovani, fondò in quegli anni la “società dell’allegria”, basata sulla guerra al peccato. Entrò nel seminario teologico di Chieri e ricevette l’ordinazione presbiterale nel 1841; cominciò, dunque il triennio di teologia morale sempre nella stessa scuola, tra i suoi insegnanti vi era San Giuseppe Cafasso, suo compaesano. In quegli anni si forma in Giovanni l’idea della futura famiglia Salesiana, basandosi anche sull’attuale situazione sociale torinese, che vedeva masse di cittadini trasferirsi in città dalle campagne, formando grandi sacche di emarginati ed indigenti. Giovanni intuì che proprio quei ragazzi meno fortunati sarebbero stati il suo futuro, ragazzi che crescevano tra mille difficoltà, quali l’analfabetismo, la disoccupazione, il degrado morale e la mancata assistenza religiosa. Erano i tempi confusi in cui l’era preindustriale stava sostituendo una società agricola, Giovanni intuì che l’oratorio potesse essere un’adeguata risposta alla situazione e l’8 Dicembre 1841 iniziò a radunare i ragazzi presso il convitto di San Francesco a Torino, intitolando il primo oratorio a San Francesco di Sales.

Quattro anni più tardi trasferì la struttura presso Casa Pinardi, dalla quale si sviluppò la grandiosa opera odierna di Valdocco. Nel 1847 Don Bosco aprì l’oratorio di San Luigi, presso la stazione torinese di Porta Nuova. Nel 1852 l’arcivescovo di Torino, monsignor Luigi Fransoni lo nominò responsabile dell’ordine degli oratori, affidandogli anche quello dell’Angelo custode. Don Bosco, articolò gli oratori organizzandoli quali luoghi di aggregazione, ricreazione, evangelizzazione,catechesi e promozione sociale; istituendo delle scuole professionali che avviavano i ragazzi al mondo del lavoro. Giovanni, faceva dell’amore verso i ragazzi il suo metodo d’ insegnamento, favorendo il lato gioviale della gioventù e coniando il suo celebre motto “State allegri, ma non fate peccato”.

Nel 1863 a Mirabello, nella diocesi di Casale Monferrato, fondò un collegio, ritenendolo un valido metodo d’insegnamento. Dopo il Concilio Vaticano I, Giovanni si sentì coinvolto dalla sensibilità missionaria propugnata dal concilio stesso e sostenuto dal beato Papa Pio IX, nel 1875 inviò i suoi primi missionari in America latina, con il principale compito di apostolato presso gli immigrati italiani. Ma ben presto, i missionari convertirono anche numerosi indio, battezzando anche il Venerabile Zeffirino Namuncurà, figlio dell’ultimo capo indio araucano. Don Bosco, con grande arguzia, capì che la stampa sarebbe stato un grande strumento per la divulgazione culturale cristiana. Scrisse testi tra i quali “Storia d’Italia”, “Il sistema metrico decimale” e la collana “Letture cattoliche”. Uno dei più importanti figli spirituali di Don Bosco, fu il giovane San Domenico Savio. Per dare continuità e stabilità ai suoi progetti, fondò a Torino la società di San Francesco di Sales (detti Salesiani) e nel 1872 con Santa Maria Domenica Mazzarello, fondò le figlie di Maria Ausiliatrice. Nonostante la sua battaglia in favore dei più poveri, la stampa laicista dell’epoca le rimase sempre avversa, anche dopo la sua morte; questo perché la sua forte personalità non permetteva a nessuno di esserle indifferente.

Anche in ambito ecclesiastico, ebbe molte divergenze con alcuni vescovi piemontesi, mentre Papa Pio IX lo sostenne sempre senza riserve. Giovanni Bosco morì a Torino il 31 Gennaio 1888, la sua salma fu posta nell’istituto salesiano di Valsalice; successivamente fu trasferita nella basilica di Maria Ausiliatrice da lui fatta edificare. Pio XI, suo grande ammiratore, lo beatificò il 2 Giugno 1929 e lo canonizzò il 1° Aprile 1934. La città di Torino ha onorato il santo, dedicandogli una strada, un ospedale e una scuola. Nel 1988 Giovanni Paolo II, visitando i luoghi donboschiani, lo nominò Padre e Maestro della Gioventù. Negli anni 90 del XX secolo, la famiglia salesiana, ricordando l’amore verso la madre di Giovanni, intraprese la causa di beatificazione di mamma Margherita. La famiglia Salesiana fino ad oggi comprende: 5 Santi, 51 Beati, 8 Venerabili e 88 Servi di Dio. PREGHIERA A SAN GIOVANNI BOSCO O San Giovanni Bosco, padre e maestro della gioventù, che tanto lavorasti per la salvezza delle anime, sii nostra guida nel cercare il bene delle anime nostre e la salvezza del prossimo; aiutaci a vincere le passioni e il rispetto umano; insegnaci ad amare Gesù Sacramentato, Maria Ausiliatrice e il Papa; e implora da Dio per noi una buona morte, affinché possiamo raggiungerti in Paradiso. Amen. [Fonte Santiebeati.it]


Dall'India all'Indonesia non c'è pace per i cristiani di Anna Bono, 31-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

In Indonesia la buona notizia sarebbe che i cristiani di Bogor, West Java, costretti a Natale a rinunciare alle funzioni religiose non disponendo di un locale per svolgerle, hanno infine ottenuto l’autorizzazione della Corte suprema a utilizzare l’edificio la cui costruzione è stata sospesa nel 2008 su pressione della Bogor Islamic Community Association. Ma gli estremisti islamici, che li accusano di conversioni forzate, si sono opposti alla sentenza e, con il favore dell’amministrazione locale poco propensa a perseguire i casi di intolleranza religiosa, stanno facendo circolare un appello a tutti i musulmani affinché la domenica convergano sulla chiesa e impediscano la celebrazione della messa.

In Cina decine di milioni di cristiani praticano la fede di nascosto, in piccoli gruppi chiamati chiese domestiche, per evitare di essere perseguitati. Il 18 gennaio Wang Yi, il leader di una di queste chiese, è stato arrestato insieme a tre altri fedeli mentre all’aeroporto di Chedgu, stato di Sichuan, attendeva di partire per Hong Kong dove avrebbe partecipato a un convegno di cristiani evangelici. Rilasciato alcune ore dopo, ha tentato di raggiungere l’aeroporto, ma è stato ancora una volta fermato dagli agenti di polizia e riportato nella caserma in cui era già stato detenuto.

Brutte notizie giungono anche dall’Iran dove, a partire dal giorno di Natale, sono stati arrestati 70 fedeli, anch’essi membri di chiese domestiche, sottoposti poi a violenti interrogatori e a intimidazioni. L’agenzia di stampa AsiaNews riporta le dichiarazioni del governatore di Teheran, Morteza Tamadon, che il 14 gennaio annunciava imminenti, nuovi arresti: “i ‘missionari’ – così Tamadon chiama i cristiani – sono dei parassiti e hanno creato un movimento deviato e corrotto con l’appoggio della Gran Bretagna in nome del cristianesimo, ma il loro complotto è fallito”.

In India, come è noto, le violenze degli estremisti indù contro i cristiani sono incessanti. Le autorità degli stati in cui si concentrano le aggressioni sono a dir poco restii a perseguire i responsabili. È il caso dello stato di Orissa dal quale negli ultimi anni più di 50.000 cristiani sono fuggiti, impauriti dai diffusi sentimenti anticristiani e dall’impunità di solito garantita agli aggressori. Un esempio del clima di insicurezza in cui i fedeli sono costretti a vivere è l’arresto di due giovani cristiani, vittime di un ladro indù, avvenuto il 10 gennaio nel villaggio di Bodimunda. Il ladro, dopo aver strappato a uno dei due una medaglia d’oro raffigurante la Croce, ha iniziato a gridare accusando i ragazzi di aver tentato di convertirlo. La polizia accorsa ha arrestato senza indugio i giovani cristiani, fidandosi della versione dei fatti data dal ladro.

In Pakistan sono due donne cristiane di Lahore le ultime vittime dell’intolleranza religiosa. In seguito a false accuse di blasfemia mosse loro da alcuni parenti, il 16 gennaio sono state aggredite, percosse e umiliate da una folla di estremisti islamici che le hanno imbrattate, caricate su degli asini e portate in giro per le strade del loro quartiere. Da allora vivono nascoste in una località segreta. La causa scatenante della violenza è un contrasto familiare sull’educazione religiosa della figlia del fratello cristiano di una delle due donne, sposato a una musulmana.

Proprio in Pakistan, a Karachi, le donne del movimento Jamat-e-Islami hanno organizzato il 29 gennaio una marcia a sostegno della legge sulla blasfemia e il giorno successivo i fondamentalisti islamici hanno indetto una manifestazione nazionale, sempre in difesa della cosiddetta ‘legge nera’, minacciando altre iniziative nel caso venga condonata la pena capitale ad Asia Bibi, la donna cristiana in carcere da settimane e condannata a morte per blasfemia per la quale il mondo occidentale si è mobilitato chiedendone la grazia.

Il 24 gennaio nelle Filippine si è verificato l’episodio di violenza anticristiana più grave, come già riportato diffusamente da La Bussola Quotidiana. Il giornalista cattolico Gerry Ortega, noto per le sue campagne in difesa dei diritti umani combattute insieme a missionari ed esponenti delle comunità cristiane, è stato assassinato a Puerto Princesa, nell’isola di Parawan. Ultimamente si stava dedicando alla causa delle tribù indigene dell’isola la cui sopravvivenza è minacciata da progetti di sfruttamento minerario sconsiderati.


Missionario in Etiopia guardando agli ortodossi di Massimo Introvigne, 31-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Nella settimana in cui, con il Messaggio per la Giornata Mondiale Missionaria di cui La Bussola Quotidiana ha pubblicato un commento, ha ricordato come nell’epoca della nuova evangelizzazione in Occidente non sia venuta meno la necessità della missione ad gentes, il Papa ha tratto occasione dall’incontro con la comunità del Pontificio Collegio Etiopico per ricordare la figura di un grande missionario italiano, san Giustino de Jacobis (1800-1860). Molto attento agli anniversari, Benedetto XVI non ha potuto per i numerosi impegni partecipare alle celebrazioni per il 150° anniversario della morte di san Giustino nel 2010, ma «ripara» ora ritornando su quel «significativo anniversario».

San Giustino, «degno figlio di san Vincenzo de’ Paoli [1581-1660]», dopo essere stato provinciale della Congregazione della Missione a Lecce e a Napoli, fu – come ricorda il Papa – «inviato a trentotto anni dall’allora Prefetto di Propaganda Fide, il Cardinale [Giacomo Filippo] Franzoni [più spesso scritto Fransoni, 1775-1856], come missionario in Etiopia». Il santo «lavorò prima ad Adua e poi a Guala», e fu consacrato vescovo da un altro illustre missionario, il futuro cardinale servo di Dio Guglielmo Massaia O.F.M. Cap. (1809-1889).

Ma mentre Massaia – di cui si è celebrato nel 2009 il secondo centenario della nascita, tra l’altro con importanti convegni storici – dedicò una parte significativa della sua missione ai non cristiani, san Giustino riprese soprattutto l’antico progetto di riportare alla comunione con Roma i cristiani ortodossi etiopi. Incaricato originariamente di una giurisdizione di rito latino, decise invece di adottare il rito etiope – una delle due varianti, insieme al rito copto, del rito alessandrino – costituendo così il primo nucleo della Chiesa Cattolica Etiope, «controparte» cattolica della Chiesa Ortodossa Etiopica, che oggi conta circa duecentomila fedeli.

San Giustino, ricorda il Papa, «pensò subito a formare preti etiopi, dando vita ad un seminario chiamato “Collegio dell’Immacolata”. Con il suo zelante ministero operò instancabilmente perché quella porzione di popolo di Dio ritrovasse il fervore originario della fede, seminata dal primo evangelizzatore san Frumenzio  [IV secolo]».

«Imparando la lingua locale – aggiunge il Papa – e favorendo la plurisecolare tradizione liturgica del rito proprio di quelle comunità, egli si adoperò anche per un’efficace opera ecumenica». Per la verità i rapporti con la Chiesa Ortodossa Etiopica, nonostante gli sforzi del santo, non furono facili; Benedetto XVI parla di «molte sofferenze e persecuzioni». Ed è significativo che il Pontefice, un giorno dopo avere incontrato la Commissione Mista Internazionale per il Dialogo Teologico tra la Chiesa Cattolica e le Chiese Orientali Ortodosse, rallegrandosi per i progressi ecumenici, celebri un santo che – senza trascurare il dialogo con gli Ortodossi – annunciò però sempre la verità della Chiesa Cattolica, accogliendo senza reticenze nella Chiesa di Roma quegli Ortodossi che desideravano entrarvi, mantenendo le loro plurisecolari peculiarità liturgiche.

Parlando a seminaristi, a proposito di san Giustino il Papa ricorda «la sua passione educativa, specialmente nella formazione dei sacerdoti», e l’esempio di santità sacerdotale. Benedetto XVI insiste molto sui santi, dedicando a parecchi di loro discorsi e catechesi. I santi sono infatti molto importanti per la nostra formazione. «Ce lo ricorda – spiega Benedetto XVI – il Concilio Vaticano II che, tra l’altro, afferma: “Nella vita di quelli che, sebbene partecipi della nostra natura umana, sono tuttavia più perfettamente trasformati nell’immagine di Cristo (cfr 2 Cor 3,18), Dio manifesta vivamente agli uomini la sua presenza ed il suo volto. In loro è Egli stesso che ci parla e ci mostra il contrassegno del suo Regno” (Cost. dog. Lumen gentium, 50)».

La santità sacerdotale, in questa prospettiva, ha un significato speciale. Infatti «Cristo, l’eterno Sacerdote della Nuova Alleanza, che con la speciale vocazione al ministero sacerdotale ha “conquistato” la nostra vita, non sopprime le qualità caratteristiche della persona; al contrario, le eleva, le nobilita e, facendole sue, le chiama a servire il suo mistero e la sua opera. Dio ha bisogno anche di ciascuno di noi “per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù” (Ef 2,7). Nonostante il carattere proprio della vocazione di ciascuno, non siamo separati tra di noi; siamo invece solidali, in comunione all’interno di un unico organismo spirituale. Siamo chiamati a formare il Cristo totale, un’unità ricapitolata nel Signore, vivificata dal suo Spirito per diventare il suo “pleroma” e arricchire il cantico di lode che Egli innalza al Padre. Cristo è inseparabile dalla Chiesa che è il suo Corpo».

Anche i santi che sono stati sacerdoti, nella comunione dell’unica Chiesa fatta di presbiteri, di religiosi e di laici, parlano a tutti. «La santità – afferma infatti il Papa – si colloca quindi nel cuore stesso del mistero ecclesiale ed è la vocazione a cui tutti siamo chiamati. I Santi non sono un ornamento che riveste la Chiesa dall’esterno, ma sono come i fiori di un albero che rivelano la inesauribile vitalità della linfa che lo percorre. E’ bello contemplare così la Chiesa, in modo ascensionale verso la pienezza del Vir perfectus; in continua, faticosa, progressiva maturazione; dinamicamente sospinta verso il pieno compimento in Cristo».




domenica 30 gennaio 2011

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    Radio Vaticana, notizia del 30/01/2011 - Benedetto XVI all'Angelus: la Chiesa non teme le persecuzioni, il mondo si apra ai valori delle Beatitudini. Liberate le colombe della pace con i giovani dell'Acr
2)    MARITAIN E IL CARDINALE SIRI di P.Giovanni Cavalcoli,OP, da http://www.riscossacristiana.it
3)    La legge sul Testamento biologico rischia di introdurre l'eutanasia - La legge è in calendario alla Camera a inizio febbraio. E' già stata approvata dal Senato. La legge si allarga fino a comprendere non solo i malati in stato di coma ma anche quelli terminali (ricordiamo che Eluana Englaro non era una malata terminale). Il fiduciario, poi, ha un ruolo sproporzionato che può portare se non all'eutanasia attiva, sicuramente a quella per omissione di cure di Benedetta Frigerio, 29 Gen 2011, da http://www.tempi.it

Radio Vaticana, notizia del 30/01/2011 - Benedetto XVI all'Angelus: la Chiesa non teme le persecuzioni, il mondo si apra ai valori delle Beatitudini. Liberate le colombe della pace con i giovani dell'Acr

La Chiesa non teme la persecuzione che contro di lei esercita una società troppo incline al benessere e poco ai valori dello spirito. Lo ha affermato questa mattina Benedetto XVI, commentando all’Angelus il Vangelo delle Beatitudini proposto oggi dalla liturgia. Al termine della preghiera mariana, il Papa ha ricordato la Giornata mondiale di lotta alla lebbra e quella di intercessione per la pace in Terra Santa, per poi concludere con il lancio delle colombe dalla finestra del suo studio, attorniato da due giovani dell’Azione Cattolica. Il servizio di Alessandro De Carolis:

Il giorno in cui Gesù trasformò la montagna in una “cattedra” non lo fece per lanciare una nuova ideologia, ma per insegnare all’umanità che i beni del cielo saziano davvero la fame e asciugano per intero le lacrime di chi soffre, molto più delle ricchezze e le consolazioni terrene. E’ l’insegnamento desunto da Benedetto XVI, che si è soffermato con una breve riflessione sul “grande discorso” – come lo ha definito – delle Beatitudini, quasi un Vangelo nel Vangelo. Il messaggio che Cristo lancia dalla montagna, proclamando “Beati” i reietti, “è diretto a tutto il mondo nel presente e nel futuro – ha affermato il Papa – e può essere compreso e vissuto solo nella sequela di Gesù”:

“Non si tratta di una nuova ideologia, ma di un insegnamento che viene dall’alto e tocca la condizione umana, proprio quella che il Signore, incarnandosi, ha voluto assumere, per salvarla (...) Le Beatitudini sono un nuovo programma di vita, per liberarsi dai falsi valori del mondo e aprirsi ai veri beni, presenti e futuri. Quando, infatti, Dio consola, sazia la fame di giustizia, asciuga le lacrime degli afflitti, significa che, oltre a ricompensare ciascuno in modo sensibile, apre il Regno dei Cieli”.

Prendendo spunto dal suo libro ‘Gesù di Nazareth, Benedetto XVI ha osservato che “le Beatitudini sono la trasposizione della croce e della risurrezione nell’esistenza dei discepoli”. Esse, ha soggiunto, “rispecchiano la vita del Figlio di Dio che si lascia perseguitare, disprezzare fino alla condanna a morte, affinché agli uomini sia donata la salvezza”. Un atteggiamento che ha profondamente inciso sui duemila ani di storia della Chiesa:

“Il Vangelo delle Beatitudini si commenta con la storia stessa della Chiesa, la storia della santità cristiana, perché – come scrive San Paolo – ‘quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono’. Per questo la Chiesa non teme la povertà, il disprezzo, la persecuzione in una società spesso attratta dal benessere materiale e dal potere mondano”.

Denso il post-Angelus, che ha visto il Papa entrare in dialogo diretto con le migliaia di giovanissimi dell’Azione Cattolica Ragazzi, circa cinquemila quelli in Piazza San Pietro, che hanno percorso le vie di Roma nella tradizionale “Carovana della pace”, per poi convergere nel colonnato del Bernini, guidati dal cardinale vicario, Agostino Vallini. Benedetto XVI li ha ascoltati con calore e poi ha ceduto il microfono a uno di loro, che ha citato alcuni progetti di solidarietà promossi dall’Azione Cattolica Ragazzi per poi lanciare un appello alla pace:

“Ultimamente abbiamo ascoltato tante brutte notizie. Troppe persone decidono di usare la violenza per imporre le proprie idee politiche e religiose. Tutte le volte che litighiamo con i compagni, i grandi ci dicono sempre che dobbiamo fare la pace, che dobbiamo parlare tra di noi e andare d’accordo. E noi oggi vorremmo dire la stessa cosa a tutti: dobbiamo volerci bene come fratelli, a qualsiasi religione o cultura apparteniamo!”.

Poco prima, il Papa si era soffermato sulla “Giornata mondiale dei malati di lebbra”, salutando l’Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau, che proprio nel 2011 compie 50 anni di attività, e aggiungendo una preghiera per chi ancora oggi è vittima della malattia:

“La lebbra, pur essendo in regresso, purtroppo colpisce ancora molte persone in condizione di grave miseria. A tutti i malati assicuro una speciale preghiera, che estendo a quanti li assistono e, in diversi modi, si impegnano a sconfiggere il morbo di Hansen”.

Benedetto XVI ha augurato “serenità e prosperità” ai Paesi dell’Estremo Oriente che nei prossimi giorni celebreranno il capodanno lunare, quindi, in lingua francese, ha invitato i giovani a partecipare numerosi alla prossima Gmg di Madrid.


MARITAIN E IL CARDINALE SIRI di P.Giovanni Cavalcoli,OP, da http://www.riscossacristiana.it

Nel momento attuale della cultura cattolica, nel quale occorre da una parte più che mai l’unione delle forze e far chiarezza su cosa vuol dire essere cattolico, credo possa essere utile ed interessante un brevissimo confronto tra le due grandi e note figure di Jacques Maritain e del Card.Giuseppe Siri, anche se il discorso richiederebbe una trattazione ben più ampia di quella che può essere questo breve articolo.                      

L’interesse di ricordare questi due eminenti rappresentanti del mondo cattolico è dato non solo dall’importanza dei personaggi in sè stessi e dal vasto influsso che essi hanno avuto soprattutto nella seconda metà del secolo scorso sulla teologia, la filosofia, il costume, la vita ecclesiale e in particolare sull’impegno dei cattolici nella vita sociale e politica, ma è dato anche in relazione al loro atteggiamento nei confronti del Concilio Vaticano II e della sua interpretazione, questione oggi ancora assai viva, nonostante siano passati quarantacinque anni dalla chiusura della grande assemblea ecclesiale.

Le due illustri figure di cui parliamo sono congiunte da un comune, profondo amore per la Chiesa e fedeltà al Sommo Pontefice, da un grande attaccamento alla verità cattolica sostanziato da una vasta cultura filosofico-teologica ancorata alla scuola di S.Tommaso d’Aquino e alla grande Tradizione ecclesiale, in un costante impegno per la diffusione e la difesa della verità, ed in una condotta di vita esemplare, animata da una fede profonda, nella messa in pratica generosa dei doni ricevuti da Dio, l’apostolato intellettuale a servizio della Chiesa e dell’umanità nel laico Jacques Maritain, la guida illuminata ed illuminante di una grande diocesi italiana nel Principe di Santa Romana Chiesa, ardimentoso sostenitore e difensore della Sposa di Cristo, nel confronto rischioso ed a volta aspro con le potenti forze della modernità.

Collocando a parte questi due fattori di unità, dal resto fondamentali, tra queste due personalità, evidenti sono anche le differenze e, diciamo pure, anche un certo contrasto, di non sempre facile valutazione e discernimento, contrasto che ha suscitato moltissime discussioni e credo anche eccessive polemiche. L’uno e l’altro personaggio del resto non solo non sono mai stati oggetto di censure da parte della Chiesa, ma anzi hanno sempre goduto della stima e dell’approvazione dei Sommi Pontefici: il Maritain, notoriamente ammirato da Paolo VI, che gli consegnò, al termine del Concilio, il messaggio conciliare agli intellettuali; quanto a Giovanni Paolo II, il santo Pontefice nel 1982 scrisse una lettera di lode al filosofo francese indirizzata al prof.Lazzati in occasione di un congresso su Maritain organizzato dall’Università cattolica di Milano e nell’enciclica Fides et Ratio presenta il Maritain come maestro tra altri eminenti rappresentanti della cultura cristiana.

Quanto al card.Siri, sappiamo quanto seguito egli abbia avuto all’interno della Chiesa, tanto che, dopo la morte di Paolo VI, poco mancò che egli fosse eletto Papa, se egli, per la sua modestia, non avesse rinunciato alla proposta dei Cardinali.

Le differenze tra i due sono presto dette: si inquadrano in quella opposizione che, maturata nel cattolicesimo sin dall’epoca di S.Pio X tra conservatori e progressisti, venne in piena luce durante i lavori del Concilio Vaticano II, per continuare sino ad oggi in alterne vicende, che, se da una parte registrano un confronto reciprocamente rispettoso come è avvenuto tra Maritain e Siri, dall’altra purtroppo il confronto è degenerato nello scontro, che ha portato l’una e l’altra parte ad assumere atteggiamenti faziosi e scismatici per non dire eretici, uscendo dai legittimi confini di una sana dialettica tra posizioni reciprocamente complementari.

Mi riferisco ai partiti opposti dei lefevriani e dei modernisti, che ancor oggi creano serie difficoltà alla serena e costruttiva vita ecclesiale, un gravissimo problema che tutti i veri cattolici sperano che venga quanto prima risolto, perché si sta trascinando tra troppo tempo con serio danno per le anime e gravi intralci per la vera attuazione del Concilio.

Anche tra le due tendenze alle quali appartennero Maritain e Siri vi sono state reciproche incomprensioni, ma non certo come è avvenuto e sta avvenendo tra modernisti e lefevriani. Maritain vedeva nei tradizionalisti un’opposizione esagerata alla modernità, opposizione che aveva come conseguenza nella vita ecclesiale e nell’impegno temporale del cattolico un’eccessiva ritrosia riguardo alla collaborazione con forze politiche non-cattoliche.

Siri, dal canto suo, più attento del Maritain al valore della tradizione, vedeva non senza qualche ragione nel progressimo cattolico, e in particolare nel Maritain, un coinvolgimento eccessivo nel dialogo con la modernità, col rischio di sottolineare talmente l’autonomia del temporale, da farne quasi un polo per conto proprio separato dalla sfera superiore dei valori soprannaturali ed ultimi della vita del cristiano.

Il Cardinale esprime questa sua preoccupazione nel suo famoso libro Gethsemani del 1980, dedicato alla denuncia della tendenza modernista verificatasi dopo il Concilio, libro nel quale egli accompagna ad una giusta critica a Rahner e de Lubac, anche una critica al Maritain, dove viceversa a mio giudizio Siri non mostra di aver veramente compreso il filosofo francese accusandolo del suddetto dualismo, quando invece, per la mia lunga conoscenza del pensiero maritainiano, non avrei alcuna difficoltà a dimostrare (cosa impossibile nella brevità di questo articolo) che il Maritain, alla luce del pensiero tomista e degli insegnamenti sociali della Chiesa, sui quali si fondava, ci insegna proprio il modo per evitare quel nefasto dualismo e realizzare un “umanismo integrale”, nel quale l’impegno cattolico per il bene comune temporale è perfettamente ordinato al conseguimento delle finalità soprannaturali della vita cristiana.

Elemento che accomuna Maritain e Siri è l’aver capito ed apprezzato il vero senso del messaggio conciliare, il Maritain nella chiave di un sano progressimo rispettoso della tradizione, Siri dal punto di vista di un sano tradizionalismo aperto al progresso, ma affratellati entrambi nella comune cristallina fede cattolica e piena comunione con la Chiesa.

Il card.Siri, che passava presso alcuni per essere una reazionario contrario allo “spirito del Concilio”, diceva che “I documenti del Concilio dovrebbero esser letti in ginocchio”, mentre per il Maritain il messaggio conciliare era “il vero fuoco nuovo”. Mentre il Maritain che appariva ad alcuni come “modernista”, quegli stessi che accusavano ed accusano il Concilio di “modernismo”, era invece colui che ne Le Paysan de la Garonne fin dal 1966 ha previsto il risorgere del modernismo, falso interprete del concilio, e che ha sferrato un lucido attacco contro l’odierno modernismo, quale non si trova neanche tra i più agguerriti tradizionalisti.

Naturalmente è possibile riscontrare difetti nell’uno come nell’altro personaggio, ma che non intaccano la genuinità della loro fede cattolica e la generosità coraggiosa del loro servizio alla Chiesa, alla cultura ed alla società nel campo della giustizia e della pace.

Il dialogante Maritain ha scritto una critica rigorosa del comunismo. L’anticomunista Siri al termine della sua vita mostrò una sensibilità straordinaria per i problemi della classe operaia, sì da attirarsi la sua stima e riconoscenza. Vogliamo vedere entrambi questi campioni della fede ed esempi di virtù cristiana dal cielo intercedere per la pace della Chiesa oggi travagliata dalle divisioni ed alla ricerca della vera interpretazione ed attuazione del grande Concilio Vaticano II.


La legge sul Testamento biologico rischia di introdurre l'eutanasia - La legge è in calendario alla Camera a inizio febbraio. E' già stata approvata dal Senato. La legge si allarga fino a comprendere non solo i malati in stato di coma ma anche quelli terminali (ricordiamo che Eluana Englaro non era una malata terminale). Il fiduciario, poi, ha un ruolo sproporzionato che può portare se non all'eutanasia attiva, sicuramente a quella per omissione di cure di Benedetta Frigerio, 29 Gen 2011, da http://www.tempi.it

In un film del 1965, La decima vittima, il protagonista, un giovanissimo Marcello Mastroianni, è costretto a tenere nascosti i suoi genitori. Questo perché nella pellicola fantascientifica gli anziani vanno consegnati ai “centri raccolta per vecchi” gestiti dallo Stato. La storia, tra l'ironico e il grottesco, prospettava un futuro così. La donna che cerca di rapire i genitori davanti all'opposizione del protagonista gli chiede: «Ma che se ne fa dei suoi genitori? Perché non li consegna allo Stato?». Lui risponde che «in Italia li teniamo ancora nascosti». Lei si stupisce, trovando «incredibile un senso filiale tanto vivo». E chiede stranita all'attore se «ama davvero tanto i suoi genitori?».

Il film non sarà così lontano dalla realtà, se la legge in calendario alla Camera a inizio febbraio, e già approvata dal Senato sul Testamento biologico, dovesse passare. Inoltre, se già il vecchio ddl passato al Senato era poco realistico, nonostante la buona fede, ora con i nuovi emendamenti approvati la norma si fa grave. Innanzitutto, si è allargata la legge dai malati in stato di coma a tutti quelli terminali. Il fiduciario, poi, ha un ruolo sproporzionato che può portare se non all'eutanasia attiva, sicuramente a quella per omissione di cure.

Vediamo gli articoli più controversi. Innanzittutto, l'articolo 5 ai commi 6 e 7 prevede che «il tutore possa decidere per l'interdetto, il curatore per l'inabilitato, l'amministratore di sostegno per l'assistito, i genitori per i figli minori». Ciò significa che quello che è capitato ad Eluana potrà capitare a molti altri. Per i medici infatti è «vietato somministrare terapie» in mancanza di consenso, tanto che se manca si dovranno riferire ai giudici. I rappresentanti possono rifiutare anche terapie salvavita: l'articolo 2,3 dice che questi soggetti possono «rinunciare ad ogni o alcune forme di trattamento sanitario in quanto da essi (i tutori, ndr) ritenute di carattere straordinario».

Con i due articoli si potranno includere nella legge anche neonati, prematuri e persone incapaci di esprimersi, affidate a tutori che potranno disporre di loro a proprio piacimento. L'articolo 1,1 vieta invece al medico «trattamenti sanitari non proporzionati, non efficaci o non tecnicamente adeguati». Sarebbe un giusto divieto d'accanimento se la legge riguardasse solo casi di morte imminente.

Ma il ddl si rivolge anche ai malati di tumore o a tutti i pazienti la cui vita probabilmente si spegnerà nel giro di qualche mese, giorno o anno. Più avanti, poi, si parla genericamente del divieto a «trattamenti sproporzionati rispetto agli obbiettivi». Che significa? Questa norma potrebbe aprire parecchi contenziosi. Ad esempio, un genitore come Beppino Englaro, che giudicasse sproporzionate certe cure, potrebbe denunciare i medici e anche gli ospedali, per «obiettivi» di spesa.

Il testo parla poi di una «compiuta e puntuale informazione medico-clinica». Ma come è possibile stabilirla prima di ammalarsi? E chi garantirà che chi firma abbia il senno sufficiente per farlo? Chi tutelerà, poi, i soggetti soli? Inoltre l'articolo 7,2 dice che «in caso di controversia tra il fiduciario ed il medico curante, la questione viene sottoposta alla valutazione di un collegio di medici... Tale collegio dovrà sentire il medico curante. Il parere espresso dal collegio medico è vincolante per il medico curante il quale non è comunque tenuto a porre in essere prestazioni contrarie alle sue convinzioni di carattere scientifico e deontologico». Questo nuovo comma fa sì che se anche la proposta di legge vieta di cagionare la morte al paziente, il medico potrà arrecarla attraverso l'omissione.

Allargando inoltre la normativa ai malati di cancro o a chi è incosciente si è dovuto aggiungere che alimentazione e idratazione sono obbligatorie, ma «a eccezione del caso in cui le medesime risultino non più efficaci nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche essenziali del corpo». Si capisce quanto il giudizio in merito sia opinabile e come possa far comodo agli sponsor dell'eutanasia, e ai loro tribunali, che potrebbero interpretare la norma a proprio piacimento.

Perciò, facciamo nostre le parole di Medicina & Persona e di moltissime altre associazioni di medici che si stanno scagliando contro la norma: «Regolamentare la vita e la morte “patteggiandole” significa averne già accettata la relativizzazione... Certo fa specie che sia un Parlamento a dover dissertare di temi che esulano totalmente dalla sua competenza, come quando si discute di quale assistenza sia dovuta a un uomo malato, alla fine della sua vita. Chi cura e assiste i malati sa bene che solo la condizione clinica di ciascun paziente può determinare la scelta del medico che lo assiste. Dopo l’approvazione della norma di legge l’agire del medico sarà inevitabilmente condizionato da essa, da un foglio di carta o dal parere di “fiduciari”, presi a sicuri interpreti della volontà del malato. Il testo di legge attuale è inevitabilmente a rischio di legittimazione dell’abbandono terapeutico (cioè di eutanasia passiva) nei punti in cui prevede la loro sospensione in caso di assistenza a un “malato terminale”(oggi non c’è in letteratura una definizione univoca su chi è malato terminale, Eluana non lo era eppure è stata diagnosticata tale) e nei casi in cui il medico dissente dalle volontà anticipate del paziente, venendo così sostituito da una commissione di “esperti”. Accadrebbe per legge quello che si è verificato nei giorni scorsi a Firenze (Biotestamento, sì del Tribunale - Il Corriere della Sera 13/01/2011)...».



sabato 29 gennaio 2011

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    Il berlusconismo oltre il bunga bunga di Massimo Introvigne 29-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
2)    Il giorno in cui Gesù fu presentato al Tempio di Ruggero Sangalli, 29-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
3)    I matrimoni omosessuali e i pacs nel mondo -scheda- Legali in 10 paesi, in Italia non c'è ancora una legislazione, da http://www.portaledibioetica.it
4)    Avvenire.it, 29 gennaio 2011 - Illegali forzature eutanasiche - Spot mortali. Si lascia fare? Di Francesco D'Agostino
5)    L’iniziativa Lezioni di biopolitica al servizio della democrazia, da ROMA PIER LUIGI FORNARI, Avvenire, 29 gennaio 2011
6)    Il dibattito Benedetto XVI e la strada della verità - In Laterano la seconda delle tre serate dedicate ai discorsi del Pontefice con Dalla Torre, Lanza e Ferrara.Vallini: il Papa indica il senso della vita, Avvenire, 29 gennaio 2011

Il berlusconismo oltre il bunga bunga di Massimo Introvigne 29-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Al disagio e perfino allo «sgomento» dei cattolici italiani di fronte alle ultime vicende della politica ha dato voce in modo duro ma equilibrato il cardinale Bagnasco, condannando sia il «libertarismo» sia il «moralismo». A una chiara denuncia di stili di vita incompatibili con l'educazione che si deve ai giovani e con il decoro delle istituzioni, si è accompagnata una critica di «modelli mentali e di comportamento radicalmente faziosi» dove i torti non stanno certo tutti da una sola parte: e «qualcuno — ha aggiunto il cardinale — si chiede a che cosa sia dovuta l’ingente mole di strumenti di indagine» profusa per un certo, particolare imputato.

Tutto questo richiama però a una riflessione il più possibile seria e profonda sul cosiddetto berlusconismo, di cui — trovandomi in questi giorni all'estero — comprendo bene tutte le difficoltà. Non è la prima volta che, frequentando ambienti internazionali, fuori dell’Italia mi chiedono come spiegare il fenomeno Berlusconi. La difficoltà straniera di capire il berlusconismo non comincia certo con il bunga bunga. Si può dire del resto che anche la sinistra italiana e i suoi intellettuali del berlusconismo abbiano capito ben poco: di qui le loro ricorrenti sconfitte. Anche solo per impostare la questione non basterebbero diversi volumi, e alcuni – di diseguale valore – sono già stati pubblicati.

Credo che l’uso di cinque categorie sociologiche e proprie della scienza politica ci permetta non di risolvere il problema ma almeno di descriverlo, aprendo «finestre» diverse su una questione che non è semplice.



UN'ITALIA, TANTE DESTRE

La prima è la nozione di destra. Benché Berlusconi si definisca un uomo di centro, la nozione di centro è vaga e nebulosa. La consistenza elettorale e molte proposte politiche di Berlusconi appartengono alla destra, o almeno si presentano come ostili e alternative alla sinistra. Sul tema della destra molti – compreso il sottoscritto – sono tornati in occasione delle recenti e rapidissime mutazioni di Gianfranco Fini. Vale la pena di ricordare l’essenziale di questa discussione. Le nozioni di destra e sinistra nascono semplici, dopo la Rivoluzione francese. È di destra chi si oppone alla Rivoluzione francese e ai suoi principi. Chi invece alla Rivoluzione è a diverso titolo favorevole è di sinistra.

Nel corso del XIX e XX secolo – dal momento che il processo rivoluzionario che ha avuto un passaggio decisivo nella Rivoluzione francese non si ferma, ma continua – nascono altre «destre», che complicano il quadro. C’è una «destra» liberale, che accetta i principi della Rivoluzione francese ma rifiuta l’ulteriore passaggio costituito dal socialismo. E c’è una «destra» nazional-rivoluzionaria, o socialista nazionale, che accetta molti aspetti essenziali del socialismo ma rifiuta l’inveramento finale del socialismo nel comunismo marxista di obbedienza sovietica.

Ognuna di queste «destre» si frammenta in numerose varianti, così che i libri sulle destre in Europa – e altrove – sembrano talora sforzi di classificazione degni di un Carlo Linneo (1707-1778). E in Italia le «destre» sono socialmente diffuse. Per anni hanno trovato scarsa rappresentanza politica, ma periodicamente si è verificata quella che Giovanni Cantoni in un suo libro ha chiamato la «lezione italiana».

Comunque sia, gli italiani non vogliono la sinistra esplicitamente al potere e, quando questo pericolo incombe, si ribellano. Dal punto di vista dottrinale più una posizione è chiara, più è forte. È questo il vantaggio della destra cattolica contro-rivoluzionaria – che da un punto di vista storico può ben dire di essere la destra originaria, quella doc – rispetto alle altre «destre». Ma a questo vigore speculativo non corrisponde un’uguale forza operativa. Nella pratica politica – che si tratti di elezioni o di altri modi per conquistare il potere – la destra «vera» non può vincere se non alleandosi con qualcun altro, spesso con le altre «destre» che pure chiama, non a torto, «false».



L'OPERAZIONE FUSIONISTA

Di qui la seconda nozione rilevante per il nostro problema: il «fusionismo». Si pensa che questo concetto nasca negli Stati Uniti nel secolo XX, ma non è così. Nasce in Francia nel XIX secolo, tra destre monarchiche divise da questioni sia dottrinali sia dinastiche. Una «destra» liberale, quella detta orléanista perché fa capo alla dinastia degli Orléans, tenuta in sospetto sia dalla destra contro-rivoluzionaria perché gli Orléans avevano aderito alla Rivoluzione francese, sia dalle destre nazional-rivoluzionarie per il legame degli stessi Orléans con una borghesia accusata di sfruttare implacabilmente i più poveri, propone un’alleanza che chiama appunto «fusionista» a tutte le destre monarchiche. Queste la pensano diversamente su molte cose, ma dovrebbero almeno avere in comune la preferenza per la monarchia rispetto alla repubblica. I tempi e i luoghi non sono maturi, e il «fusionismo» degli Orléans fallisce.

Ma altrove avrà successo, particolarmente negli Stati Uniti dove il «fusionismo» che unisce «destre» cristiane, liberali e perfino libertarie porterà il Partito Repubblicano alle sue vittorie più spettacolari. Berlusconi ha messo in campo una classica operazione fusionista. Ha tirato su una tenda, sotto la quale tutte le «destre» possono stare insieme. A nessuna viene chiesto di tradire la sua identità.

La destra cattolica può stare sotto la tenda e fare la sua parte – il che è molto perché, come nota spesso il Papa, nel mondo moderno spesso i cattolici fedeli ai loro principi non negoziabili sono semplicemente espulsi ed emarginati. La «destra» liberale classica è la benvenuta. Perfino «destre» socialisteggianti – pensiamo a certi «partiti della spesa pubblica» del Sud che, almeno fino a tempi recenti, sono rimasti saldamente con Berlusconi – ovvero radicaloidi e libertarie sono bene accolte. A nessuno è impedito di dire la sua, ma neppure gli è permesso di vietare al vicino di dire cose piuttosto diverse.

I vicini danno fastidio, è vero: i cattolici non sono entusiasti di ritrovarsi con radicali libertari e liberali talora libertini. Ma stanno sotto questa tenda perché qui possono dire più o meno quello che vogliono e altrove no. Anzi, su alcuni temi tutt’altro che secondari – pensiamo soltanto al matrimonio omosessuale – i cattolici sono riusciti a far accogliere la loro posizione alla maggioranza dei compagni di tenda, più o meno convincendoli ma comunque portando a casa il risultato.



IL "NEMICO" COMUNISTA

Terza nozione: la designazione del nemico. Perché le operazioni fusioniste riescano ci vuole la rilevante presenza di un avversario. È difficile fare stare insieme persone che non si amano. Ma rimarranno insieme se avranno paura dello stesso nemico che si avvicina. Perché il fusionismo abbia successo bisogna che Annibale (247-182 a.C.) sia alle porte. Il più grande fusionista nella storia politica statunitense, Ronald Reagan (1911-2004), riuscì a tenere insieme «destre» disparate convincendole che l’«impero del male» comunista sia minacciava tutti, sia poteva essere sconfitto. Aveva ragione su entrambi i punti.

Berlusconi ha costruito la sua vittoria del 1994 sulla paura dei «comunisti». O vinceva lui, diceva, o «Occhetto e D’Alema a Palazzo Chigi». Vinse lui. Il fusionismo di Berlusconi funziona attraverso il meccanismo sempre reiterato della designazione del nemico comunista. Gli avversari di Berlusconi ripetono come dischi rotti che «i comunisti non ci sono più». Ma proprio su questo punto perdono. Dire che l’Unione Sovietica non esista più significa ripetere una banalità, anche se questo non è di totale conforto a un poveretto che vive in Corea del Nord, dove di certo il comunismo c’è ancora.

Ma soprattutto il comunismo italiano del secondo dopoguerra non era quello sovietico dei carri armati. La teoria dell’egemonia di Antonio Gramsci (1891-1937) – che il PCI aveva adottato un po’ per convinzione e un po’ per costrizione internazionale – sostituiva la presa del potere diretta con il colpo di Stato e, appunto, i carri armati con la lenta infiltrazione nei gangli del potere reale: scuola, cultura, università, giornali, magistratura. Il vecchio PCI non era al governo. Ma nelle università, nelle redazioni dei giornali, nei tribunali era ampiamente al potere. Era quel potere che dava molto fastidio a tanti italiani, e che c’è ancora. Quando Berlusconi dice che molte redazioni di giornali e molte procure della Repubblica sono «comuniste» usa forse un linguaggio semplificante, ma dice anche una verità che gli italiani sperimentano sulla loro pelle.

L’apparato egemonico della sinistra nella cultura, nell’educazione e tra i magistrati non è stato smantellato. Soprattutto i centristi – che su questo si giocano l’esistenza – hanno un bell’insistere sul fatto che i «comunisti» non ci sono più. Si può cavillare sul significato cangiante dell’espressione «comunista» – forse incorporando le tesi radicali su vita e famiglia i «comunisti» di oggi, diventati partito radicale di massa, sono peggiori di quelli di ieri – ma gli italiani che votano Berlusconi sono convinti che abbia ragione lui e torto i centristi e gli intellettuali: il sistema di potere comunista continua a funzionare, che ci sia o no il Muro di Berlino. E quanto ai giudici certamente non tutti i magistrati sono comunisti, ma qualche volta gli italiani hanno l’impressione - certo esagerata, ma comprensibile - che tutti i comunisti siano magistrati.



IL CARISMA

Quarta nozione: il carisma. Non c’è bisogno di scomodare Max Weber (1864-1920) per sapere che un’operazione fusionista, oltre che di un nemico alle porte, ha bisogno di un capo carismatico. Barry Goldwater (1909-1998) aveva pensato l’operazione fusionista in modo forse più profondo di Reagan, ma fu Reagan a portarla alla vittoria perché era dotato di carisma, quella strana realtà tanto difficile da definire quanto facile da riconoscere.

Che Berlusconi sia carismatico non lo negano neppure i suoi più fanatici detrattori. E i sociologi che hanno studiato il carisma lo hanno definito come una forma, non come un contenuto. Il fatto che sia difficile afferrare e definire una «dottrina del berlusconismo» non è di ostacolo al carisma. È piuttosto il contrario. Il carisma, nella sua declinazione fusionista, consiste nel farsi riconoscere da tutti come vicino, da nessuno come identico. Chiunque sta sotto la tenda e si specchia in Berlusconi in lui vede qualcosa di se stesso.

Weber aveva anche previsto i conflitti tra diversi tipi di autorità che coesistono nelle società moderne: legale-burocratica, tradizionale (tipica della Chiesa Cattolica) e carismatica. Il carisma nel senso di Weber è spesso sorto nella storia al di fuori di qualunque contesto istituzionale, anche se le istituzioni hanno trovato modi per «routinizzarlo»: un'espressione coniata dallo stesso sociologo tedesco per indicare come, per esempio, la Chiesa Cattolica attraverso il riconoscimento degli ordini religiosi e le canonizzazioni dei santi fosse riuscita a ricondurre alle istituzioni, s'intende dopo averli vagliati, anche carismi difficili.

Andando oltre Weber, la sociologa delle religioni contemporanea Eileen Barker ha coniato nel 1993 il neologismo «carismatizzazione» per indicare come nel mondo postmoderno il carisma si costruisce attraverso una interazione, che funziona anche «dal basso», tra la figura carismatica e i suoi sostenitori. Senonché, costruito così, il carisma postmoderno ha spesso tratti imprevedibili e anarchici, come mostra bene il caso di Berlusconi.

Ne nasce un rapporto difficile fra l'autorità che a Berlusconi deriva dal carisma - e dalla legittimazione elettorale, certo, ma la seconda non ci sarebbe senza il primo - e diversi tipi di autorità: quella legale-burocratica delle istituzioni e della magistratura, e quella tradizionale della Chiesa. I casi contingenti hanno certo una loro speciale gravità. Ma le radici del disagio manifestato dal cardinale Bagnasco attengono pure a questo «contrasto carismatico» che viene da molto lontano.



L'ETHOS ITALIANO

Quinta nozione: l’ethos. Ciascuna nazione ha un suo ethos, costituito dai tratti del carattere nazionale che derivano dalla lingua, dalla cultura, dalla religione, da un lungo deposito di virtù e di vizi. Forse Reagan non avrebbe vinto in Italia perché era un leader quintessenzialmente americano. Berlusconi invece è un arci-italiano, e ha piantato i paletti della sua ampia tenda fusionista sempre tenendo fermo lo sguardo sui caratteri nazionali italiani.

Sa che l’Italia è cattolica, e nella tenda non ha mai fatto mancare crocifissi, cappellani e un’attenzione non solo formale ai principi non negoziabili – il caso Eluana insegna. I suoi stessi vizi sono, ahimé, vizi storici e diffusi tra gli italiani, anche se le dimensioni quando si tratta di capi carismatici diventano spesso francamente esorbitanti, e magari peggiorano con l’età.

Se introduciamo queste categorie capiamo qualche cosa che gli stranieri e anche molti intellettuali nostrani non capiscono quasi mai, e cioè perché Berlusconi ha successo. Lo ha perché in Italia le «destre», pure rimaste spesso nella storia senza rappresentanza, sono diffuse nel corpo sociale. Perché ha saputo metterle insieme con un’operazione fusionista talora spregiudicata, designando con chiarezza il nemico: il «comunismo», che secondo gli intellettuali è scomparso ma secondo la maggioranza degli italiani c’è ancora. Perché a tutti i convenuti nella tenda fusionista ha offerto un capo carismatico – unico collante con cui i fusionismi funzionano. Ma, forse soprattutto, perché ha mostrato una sintonia non soltanto retorica con l’ethos nazionale. Il problema del carisma è che è legato alla persona. Non ci sono partiti carismatici, ci sono solo leader carismatici. Per questo ogni fusionismo collegato al carisma di un capo è esposto all’invecchiamento e al declino, perché gli uomini invecchiano.

Il problema non è solo il bunga bunga quanto la crescente consapevolezza che, come tutti i nati da donna, anche Berlusconi non è eterno e che la «fase postcarismatica» di un movimento sociale è sempre un periodo difficile e complesso. Può capitare fra cinque giorni o fra cinque anni, ma la formula a cinque stadi che ho cercato di descrivere è destinata a esaurire i suoi effetti.

Quando finirà, i cattolici legati ai principi non negoziabili che hanno deciso di stare sotto quella tenda potranno dire di non avere, tutto sommato, sbagliato scelta. Molti nostri vicini – compresa la cattolicissima, almeno per storia, Spagna – hanno il riconoscimento delle unioni omosessuali, i bimbi dati in adozione alle coppie dello stesso sesso, spesso anche l’eutanasia. In Italia queste cose non ci sono – i casi, per ora fortunatamente isolati, alla Eluana sono opera della magistratura – perché i paletti della tenda hanno in qualche modo e misura tenuto.

Resterà certo ai cattolici la sensazione sgradevole che deriva dall'avere dovuto coesistere con i libertari e i libertini, sotto la bandiera di un carisma eticamente anarchico e strutturalmente postmoderno, molto lontano dal percorso tradizionale che porta una persona a essere riconosciuta come autorevole che è invece proprio della Chiesa. Ma forse la vera questione è un'altra.

I cattolici hanno approfittato di questi anni di relativa libertà di azione sotto la tenda del berlusconismo per costruire attraverso i percorsi di formazione e di educazione richiamati dal cardinale Bagnasco una loro presenza più robusta, quella che Benedetto XVI ha chiamato una nuova classe dirigente, avvertendo anche che «non si inventa»? Non sono le parole di questo o quel politico a contare. Tra poco si vedranno i fatti. Il seguito, come si dice, alla prossima puntata.


Il giorno in cui Gesù fu presentato al Tempio di Ruggero Sangalli, 29-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

La Chiesa celebra questa festa il 2 febbraio, quaranta giorni dopo il 25 dicembre, date estreme comprese. Per le Chiese orientali è la festa dell’incontro del Signore. È anche la festa della vita consacrata e rendiamo grazie con gioia di ogni vita donata a Dio.

Non è possibile sapere con certezza se le date corrispondessero al 25 dicembre per la nascita, al 1° gennaio per la circoncisione e al 2 febbraio per la presentazione, ma il periodo dell’anno era proprio quello: sono numerosi gli indizi dei Vangeli che avvalorano l’ipotesi invernale del Natale, a cavallo tra la fine del 2 a.C. e l’inizio del 1 a.C., in corrispondenza dei mesi di kislev, teveth e shevat del calendario ebraico.

I Vangeli dell’infanzia di Matteo e di Luca non sono contraddittori: quanto descritto è un insieme di informazioni che si integrano, senza smentirsi o escludersi a vicenda. Durante i quaranta giorni tra la nascita a Betlemme e la presentazione di Gesù al Tempio di Gerusalemme, ci fu la visita dei Magi.

Non ha alcun senso che nel frattempo la famiglia, d’inverno e con un neonato da accudire, si fosse allontanata da Betlemme, dove comunque c’erano dei parenti. Inoltre la mamma, resa impura dal parto, doveva restare ad attendere la propria purificazione, secondo quanto stabilito dalla legge del Signore.

In Levitico 12,2-8 leggiamo che la madre di un figlio maschio doveva purificarsi trentatre giorni dopo la circoncisione, il che equivale a quaranta giorni dopo la nascita, prima di presentarsi al sacerdote e offrire in olocausto o un agnello di un anno o, per i più poveri, una coppia di colombe o di tortore, una per l’olocausto e l’altra in espiazione del peccato.

Il giorno stabilito, Giuseppe e Maria portarono il bambino Gesù al Tempio di Gerusalemme. Il Vangelo di Luca non riporta dell’agnellino, ma solo delle tortore/colombi, il che deporrebbe a favore di una condizione di ristrettezza in quel frangente.

Impressiona anche quel numero 33: esattamente trentatre anni dopo, la Madre sarà protagonista di ben altra offerta riparatrice del figlio, per i peccati del mondo. L’agnello lo aveva già offerto senza ancora saperlo.

In seguito Giuseppe fu «avvertito in sogno» (Mt 2,13) di stare attento ad Erode: dal Vangelo di Luca è possibile intuire che dopo la presentazione al Tempio andarono a Nazaret e che quindi la fuga in Egitto potrebbe anche essere partita da là. In effetti una volta che le indagini di Erode avessero appurato l’indirizzo di Giuseppe, anche la Galilea non sarebbe stata sicura per Gesù, persino la sconosciuta Nazaret: comunque la famigliola partì per l’Egitto. Si stabilirà a Nazaret dopo la morte di Erode (1 d.C.).

Tra i protagonisti dell’episodio della presentazione di Gesù al tempio figurano due anziani.
Il primo è Simeone (Lc 2,25), uomo giusto e pio, che attendeva la redenzione di Israele.
Lo Spirito Santo (si badi che Luca ne fa esplicita menzione avendo scritto il suo Vangelo ben prima di ogni sviluppo teologico in senso trinitario, il che dovrebbe interrogare chi pensasse che la Chiesa abbia “inventato qualcosa”) gli aveva rivelato che non sarebbe morto senza aver veduto il Messia.

Prendendo tra le braccia Gesù, recita una meravigliosa preghiera: «Ora lascia o Signore che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola…». A Maria rivolse un ben triste augurio: «A te una spada trapasserà l’anima».
Non può non commuovere immaginare l’impressione che queste parole poterono avere su Maria, all’incirca quindicenne. Parole mai dimenticate, come quelle dell’annunciazione, che Maria stessa deve aver riferito così che fossero scritte nel Vangelo, più che mai resoconto di cose successe davvero.

La seconda persona anziana in scena è Anna (Lc 2,36), descritta da Luca come profetessa e con una precisione anagrafica e cronologica tutta particolare: figlia di Fanuel tribù di Aser, sette anni di matrimonio prima di rimanere vedova e ottantaquattro anni di età all’epoca della presentazione di Gesù al Tempio.
Tanto dettaglio dovrebbe però far dubitare chi non ritenesse scrupoloso Luca nell’attribuire i trenta anni che aveva Gesù (Lc 3,23) al momento del suo battesimo: perché Luca dovrebbe essere stato così pignolo sull’età di Anna ed invece approssimativo sul Messia?    

Nelle parole dei due anziani, è grande la pubblicità a quel Bambino: per Simeone egli è «luce che illumina le genti e gloria del tuo popolo Israele». Anna ne parla a tutti come l’atteso da quelli che agognavano la liberazione di Gerusalemme.

La presentazione di Gesù al Tempio non fu un’anonima cerimonia, bensì un episodio che fece discutere la gente. Forse queste voci trapelarono fino alle orecchie invidiose di Erode, già irritato per aver perso le tracce dei Magi.


I matrimoni omosessuali e i pacs nel mondo -scheda- Legali in 10 paesi, in Italia non c'è ancora una legislazione, da http://www.portaledibioetica.it

Roma, 28 gen. (TMNews) - Un quadro delle differenti legislazioni sui matrimoni omosessuali nel mondo, dopo che la Corte costituzionale francese ha dichiarato conforme alla Costituzione il divieto delle nozze gay, legali in dieci paesi.
- Paesi Bassi: dopo aver creato nel 1998 una partnership aperta agli omosessuali, l'Olanda è stato il primo paese, nell'aprile 2001, ad aprire ai matrimoni civili per le coppie dello stesso sesso. Obblighi e diritti dei congiunti sono identici a quelli delle coppie eterosessuali, tra cui quello di adozione.
- Belgio: i matrimoni tra omosessuali sono legali dal giugno 2003. Le coppie gay hanno gli stessi diritti di quelle etero, ad eccezione delle leggi sui figli. Hanno tuttavia ottenuto nel 2006 il diritto di adottare dei bambini.
- Spagna: il governo ha legalizzato nel luglio 2005 le nozze tra omosessuali ed è possibile per queste coppie, sposate o meno, di adottare dei bambini.
- Canada: matrimonio e diritto di adozione per le coppie gay è legge dal luglio 2005. In precedenza la maggioranza delle province canadesi concedeva già le unioni tra persone dello stesso sesso.
- Sudafrica: nel novembre 2006 il Sudafrica è divenuto il primo paese africano a legalizzare le unioni tra due persone dello stesso sesso tramite "nozze" o "partenariato civile".
- Norvegia: una legge del gennaio 2009 mette sullo stesso piano le coppie omosessuali ed eterosessuali, sia in merito alle nozze che all'adozione di bambini e ai benefici legati alla fecondazione assistita. Dal 1993 esisteva la possibilità di stipulare un patto civile.
- Svezia: pioniera in materia di diritto all'adozione, la Svezia concede dal 2009 alle coppie gay di sposarsi civilmente o tramite rito religioso. Dal 1995 erano autorizzate le unioni di fatto.
- Portogallo: Una legge del primo giugno 2010 modifica la definizione di matrimonio, cassando il riferimento "tra sessi diversi", ma per le coppie gay è escluso il diritto all'adozione.
- Islanda: il primo ministro Johanna Sigurdardottir ha sposato la sua compagna il 27 giugno 2010, giorno in cui è entrata in vigore la legge che legalizza le nozze gay. In precedenza gli omosessuali potevano stipulare delle unioni, diverse tuttavia dai matrimoni.
- Argentina: il 15 luglio 2010, l'Argentina è diventato il primo paese a autorizzare i matrimoni omosessuali in Sudamerica, la più grande regione cattolica del pianeta. Le coppie gay possono adottare e hanno gli stessi diritti degli eterosessuali.
Ci sono poi paesi che autorizzano le nozze omosessuali su buona parte del loro territorio, come Stati Uniti (negli Stati di Iowa, Connecticut, Massachusetts, Vermont, New Hampshire e la capitale Washington), e Messico (nella capitale federale).
Altri paesi hanno adottato una legislazione sulle unioni civili che concedono dei diritti più o meno estesi agli omosessuali, tra cui la Danimarca, che ha aperto la strada nel 1989 creando un "registro di partenariato", la Francia che ha creato i Pacs (Pacte civil de solidarité, 1999), la Germania (2001), la Finlandia (2002), la Nuova Zelanda (2004), il Regno Unito (2005), la Repubblica Ceca (2006), la Svizzera (2007), l'Uruguay e la Colombia.
L'Italia non ha attualmente una legislazione effettiva nè per i matrimoni gay, nè per le unioni civili. Alcune regioni italiane hanno tuttavia approvato degli statuti favorevoli ad una legge sulle unioni civili, anche omosessuali, tra cui la Calabria, la Toscana, l'Umbria e l'Emilia-Romagna.

Fonte: http://notizie.virgilio.it


Francia, niente matrimoni gay
Lo ha stabilito il consiglio costituzionale francese.

Il Consiglio costituzionale francese ha dichiarato quest’oggi che l’interdizione dell’unione tra due omosessuali è conforme alla Costituzione. Secondo l’ultima istanza giudiziaria francese, per la legge un matrimonio è valido solo se coinvolge un uomo e una donna. I saggi hanno preso posizione dopo che una coppia lesbica legata da un patto civile (PACS), si era rivolta alla corte per ottenere una maggiore sicurezza giuridica per i loro quattro figli. Il Consiglio ha nel contempo dichiarato che in futuro spetterà ai politici statuire su un eventuale cambiamento della legislazione in materia.

28 gen 2011 - 11:25

Fonte: http://www.ticinolibero.ch/


EST - Francia, il Consiglio costituzionale legittima il no alle nozze gay
La sentenza non esclude che il legislatore modifichi le norme in vigore

Roma, 28 gen (Il Velino) - Secondo la legge francese il matrimonio è l’unione tra un uomo e una donna. Questa la motivazione con cui il Consiglio costituzionale ha dichiarato conformi alla Costituzione gli articoli del codice civile francese che non permettono il matrimonio tra persone dello stesso sesso. L’alto organo costituzionale ha validato l’annullamento decretato dalla Cassazione di un matrimonio gay celebrato a Begles nel 2004. Il Consiglio, tuttavia, non preclude a priori la strada alla celebrazione di nozze omosessuali. Ricordando che “il legislatore ha valutato che la diversa situazione tra coppie dello stesso sesso e coppie di sesso diverso può giustificare un differente trattamento quanto alle regole del diritto di famiglia”, il Consiglio osserva anche che non è nelle proprie competenze “sostituire la propria valutazione con quella del legislatore”. Al quale di conseguenza spetta l’ultima parola in materia.
Alla sentenza del Consiglio si è giunti dopo che Corinne Cestino e Sophie Hasslauer, due donne conviventi da 14 anni e madri di quattro figli - tre dei quali ottenuti con l’inseminazione artificiale in Belgio – hanno adito le vie legali dopo che il sindaco della loro città sei anni fa rifiutò di sposarle. Legate dal Patto civile di solidarietà (Pacs) da dieci anni, Corinne e Sophie non si accontentano di una tutela che ritengono incompleta e dopo il no del sindaco si sono rivolte al Tribunale di Reims, prima e alla Cassazione poi. L’Alta corte ha infine sollevato il caso davanti al Consiglio costituzionale.

(dam) 28 gen 2011 10:39



Avvenire.it, 29 gennaio 2011 - Illegali forzature eutanasiche - Spot mortali. Si lascia fare? Di Francesco D'Agostino

I radicali sostengono di amare la dignità dell’uomo. I radicali sostengono di difendere i diritti umani. I radicali affermano di venerare la nostra Costituzione e si indignano tutte le volte che la vedono umiliata e calpestata. Ciò non di meno i radicali continuano da settimane e settimane a far trasmettere da diverse televisioni locali (ma sono anche riusciti a introdursi in una rete nazionale) uno spot sull’eutanasia: uno spot che offende la dignità dell’uomo e che quindi non può che essere definito indegno. Uno spot che ci indigna, perché va contro un diritto umano fondamentale, e di rango costituzionale, quale quello alla vita. Uno spot che introduce, in un dibattito delicatissimo come quello sulla fine della vita umana, una dimensione mediatico-pubblicitaria, assolutamente indebita, pensata evidentemente per orientare (non però attraverso l’argomentazione, ma attraverso l’emozione) le decisioni dei parlamentari che saranno presto chiamati a votare in via conclusiva sul disegno di legge sul fine vita.

Sono esagerate queste affermazioni? No. Anzi esse dovrebbero essere ancora più aspre, perché l’offesa che lo spot arreca al dignità umana è particolarmente subdola. La dignità umana, infatti, è offesa non solo quando viene sadicamente umiliata, ma anche, paradossalmente, quando viene ideologicamente esaltata. Nello spot i fautori dell’eutanasia volontaria costruiscono un’immagine irreale e quindi ideologica dell’ uomo, un’immagine nella quale il malato che "sceglie" la morte e chiede di essere ascoltato dal "governo" appare sereno, lucido, consapevole, coraggioso e quindi esemplarmente ammirevole: ma in tal modo (chissà se se ne rendono conto i radicali) essi sottraggono dignità, umiliandoli, a tutti i malati terminali che vivono la loro esperienza nella debolezza, nella solitudine, nella paura, nella fragilità e spesso nella disperazione, meritano paradossalmente il biasimo che va riservato ai pavidi, a chi non avendo il coraggio di chiedere l’eutanasia…

Intervenire su di un dibattito così tragico e sottile come quello sul fine vita ricorrendo, anziché ad argomentazioni esplicite, articolate e sofferte, a uno spot umilia la democrazia, prima ancora che l’etica. Sappiamo infatti che esistono visioni del mondo che banalizzano il dono della vita o che non riescono più a percepirne il senso quando la malattia si impadronisce ineluttabilmente del corpo. È doveroso però che queste visioni del mondo, quando entrano nel dibattito etico, politico e sociale rispettino fino in fondo i valori non solo formali, ma sostanziali della legalità. Legalità significa in primo luogo rispetto sincero e onesto delle leggi vigenti (anche di quelle che non si condividono!) e nel nostro Paese è tuttora vigente una legislazione (per di più penale) esplicitamente orientata alla difesa della vita e di quella terminale in particolare. Legalità significa correttezza nell’informazione data al pubblico: i radicali non possono non sapere che le indicazioni statistiche che essi forniscono in chiusura dello spot (e cioè che il 67% degli italiani sarebbe favorevole all’eutanasia) sono inattendibili, fino a che il termine non sia rigorosamente precisato nel suo significato. Legalità significa soprattutto rinuncia a forme indebite di propaganda mediatica, soprattutto quando la posta in gioco verte su temi etici fondamentali. Uno spot mediaticamente efficace attiva una sorta di corto-circuito mentale, induce cioè a comportamenti fondati non su convinzioni autentiche e su scelte meditate, ma su emozioni, su sentimenti o peggio ancora su sottili e occulte forme di condizionamento psicologico. Lo spot sull’eutanasia sembra paradossalmente pensato per confermare l’accusa alla televisione di essere una "cattiva maestra".

È davvero stupefacente che nessuna autorità istituzionale – e ce ne sono diverse che possiedono e dovrebbero riconoscersi e onorare una competenza in questo campo – abbia preso posizione in merito, malgrado le tante esplicite sollecitazioni ricevute.


L’iniziativa Lezioni di biopolitica al servizio della democrazia, da ROMA PIER LUIGI FORNARI, Avvenire, 29 gennaio 2011

U na scuola di biopolitica per dar modo a futuri le­gislatori, amministratori e uomini di governo di fronteg­giare le sfide poste dalle scoperte scientifiche, in particolare dalle biotecnologie. L’iniziativa pro­mossa dalla fondazione Magna Carta è stata presentata ieri dal sottosegretario alla Salute, Euge­nia Roccella, e dal vicecapo­grupppo del Pdl al Senato, Gaeta­no Quagliariello. «A due anni dal­la morte di Eluana Englaro e alla vigilia del dibattito nell’aula della Camera della proposta di legge sul fine vita – ha osservato il presi­dente della Fondazione, France­sco Valli –, si impone una rifles­sione di alto livello su queste te­matiche in linea con il nostro ap­proccio culturale».

La Roccella ha evidenziato «la ne­cessità e l’urgenza» di una infor­mazione e formazione sulla bio­politica, perché i problemi atti­nenti sono entrati nella vita quo­tidiana delle persone e dei legi­slatori che spesso invece «non rie­scono a fronteggiarle con cogni­zione di causa». Una formazione di questo tipo non rientra nella «vecchia conce­zione » della cosa pubblica, ha proseguito il sottosegretario, ser­ve perciò una preparazione scien­tifica e culturale adeguata per e­vitare che questioni importanti, come quelle relative alla procrea­zione e al termine della vita, sia­no governate al di fuori dei cana­li democratici, nei quali si esprime la sovranità popolare. «Deve de­cidere il Parlamento perché, se non lo fa allora decide la magi­stratura con le sue sentenze», ha spiegato la Roccella. Il riferimen­to concreto è ad esempio alle de­cisioni della Corte dei diritti uma­ni di Strasburgo che ha condan­nato l’Austria per il divieto della fecondazione eterologa in vitro, pronunciamento ripreso da alcu­ni tribunali italiani che hanno sol­levato un dubbio di costituziona­lità sulla legge 40 presso la Con­sulta. Per questo l’Italia ha pre­sentato una memoria in favore di Vienna nel giudizio definitivo che si terrà alla Grande Chambre. Il modo in cui, poi, in Olanda è sta­ta introdotta l’eutanasia attraver­so progressivi pronunciamenti della magistratura, nell’arco di un quindicennio, sta a dimostrare la rilevanza del problema.

È questione decisiva per «la de­mocrazia e la politica del XXI se­colo » emersa in Italia nella tragi­ca vicenda della Englaro, ha con­cordato Quagliariello, presidente onorario di Magna Carta, rimar­cando che nel momento in cui «lo sviluppo della scienza ha portato i problemi bioetici nello spazio pubblico la politica deve svilup­pare competenze e conoscenze per combattere i pregiudizi basa­ti sull’ignoranza». Il corpo docen­te è composto da cristiani, fedeli di altre religioni e non credenti, ha specificato il senatore pidiellino, nella convinzione che con queste diverse provenienze ideali si «pos­sa creare un’alleanza fondata su­gli stessi principi di civilità».

Il corso che mette a tema «la sfi­da antropologica e l’etica della vi­ta », prevede 16 ore di lezione, ar­ticolate in quattro sabati a parti­re da oggi e fino al 19 febbraio. Nel corso del mese è prevista anche la formazione online in cui gli stu­denti potranno dialogare a di­stanza con gli insegnanti. Gli i­scritti sono quaranta, laureati o laureandi in materie affini alla interdisciplinarietà del corso. La scuola si rivolge anche agli ad­detti del settore: insegnanti, pro­fessionisti in ambito giuridico e socio-sanitari, membri di comi­tati etici. Prestigioso il collegio dei docenti. Oltre alla Roccella, direttrice del­la scuola, tra gli altri: Sergio Be­lardinelli (responsabile del comi­tato scientifico), Carlo Bellieni, Raffaele Calabrò, Francesco D’Agostino, Adriano Fabris, Al­berto Gambino, Giorgio Israel, Assuntina Morresi, Eleonora Porcu.

Saranno analizzati in 4 moduli didattici: il Caso Englaro, nei ri­svolti giuridici e politici; le fron­tiere della tecnoscienza (pro­creazione medicalmente assisti­ta). Il terzo modulo sarà dedica­to ad una riflessione sulla per­sona («l’umano tra natura e ar­tificio »). Nell’ultimo si indagherà sull«individualismo distruttore», concludendo, però, con «una definizione positiva di bioetica».

La Roccella e Quagliariello spiegano le ragioni della scuola promossa da Magna Carta: «Necessaria e urgente perché, di fronte allo sviluppo delle tecno­scienze, sia ancora il Parlamento a decidere»


Il dibattito Benedetto XVI e la strada della verità - In Laterano la seconda delle tre serate dedicate ai discorsi del Pontefice con Dalla Torre, Lanza e Ferrara.Vallini: il Papa indica il senso della vita, Avvenire, 29 gennaio 2011



DA ROMA
In Europa la verità non è più di moda, sostituita dalla mania dell’occulto. Per questo è più che mai attuale l’insegnamento del Papa sulla riscoperta delle radici cristiane del Continente e sulla necessità di «cercare Dio». Lo ha ribadito monsignor Sergio Lanza, assi­stente ecclesiastico dell’Uni­versità Cattolica del Sacro Cuo­re, nell’ampio intervento di gio­vedì sera nel Palazzo del Late­rano, a Roma, tenuto nell’am­bito della riflessione sul tema «La cultura europea: origine e prospettive». L’appuntamento, il secondo di un ciclo di tre let­ture (su altrettanti discorsi del Pontefice) promosso dall’Uffi­cio per la pastorale universita­ria della diocesi di Roma, ha preso in esame l’intervento del Papa al Collège des Bernardins di Parigi (12 settembre 2008). Con Lanza hanno preso la pa­rola il rettore della Lumsa, Giu­seppe Dalla Torre e Alessandro Ferrara, docente di filosofia al­l’Università di Roma Tor Verga­ta. L’uomo di oggi, ha notato Lanza, è «uomo tecnologico» e «continua a cadere vittima del­l’illusione idolatra. E non sol­tanto nelle forme – mascherate, ma ben note – del denaro e del potere; anche in nuove forme di religiosità, esotica e moderni­stica a un tempo, nel cui cro­giolo trovano risonanza, e mo­mentaneo appagamento, le a­spirazioni di superficie del no­stro tempo». Allora, la parola della fede, ha aggiunto Lanza, «può essere accolta e suscitare risposta di adesione solo se l’uo­mo di oggi, abbandonata la pre­sunzione della ragione prome­teica e l’abdicazione del pen­siero debole, si fa di nuovo – co­raggiosamente e umilmente – cercatore di verità».

Dalla Torre, poi, ha fatto pre­sente che nel discorso a Parigi, «attraverso il paradigma del monachesimo cristiano, Bene­detto XVI indica una via possi­bile per l’oggi, con quanto c’è di diverso dal passato, ma anche con quanto c’è di analogo; con quanto, meglio, è proprio sem­pre, per tutti e dappertutto, del­la condizione umana. Una via possibile a chi è credente e a chi non lo è, giacché si tratta di non di mortificare l’intelligenza e la ragione, ma di stimolarle a co­gliere la struttura interna del­l’intera creazione, con le sue leg­gi intrinseche immesse da Dio creatore e ordinatore». Non va scordato, ha aggiunto, che il mondo monastico «ha plasma­to il mondo occidentale col bi­nomio di intelletto ed amore».

«Quando la ricerca di Dio si di­spiega entro comunità di fede che si raccolgono attorno alla Parola di Dio la vita degli esseri umani si arricchisce e splende di luce – ha spiegato Alessandro Ferrara – quando invece la Pa­rola interpretata aspirò a tra­mutarsi in legge la vita umana si è imbarbarita ed è stata fune­stata ». Chiudendo l’incontro il cardinale Agostino Vallini, vica­rio di Roma, ha sottolineato che Benedetto XVI «fa riflettere, fa pensare e stimola proprio al pensiero. Queste serate – ha concluso Vallini – invitano a pensare per ritrovare il senso della propria vita, questi di­scorsi aprono prospettive enor­mi ».

Fabrizio Mastrofini