Nella rassegna stampa di oggi:
1) Noi ricordiamo di Andrea Tornielli 27-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
2) 27/01/2011 – FILIPPINE - Ucciso giornalista cattolico filippino: difendeva le tribù indigene - Gerry Ortega era famoso per le sue trasmissioni radio in cui ospitava missionari e attivisti per i diritti umani. La battaglia che gli è costata la vita era in difesa dell’isola di Palawan da un progetto di sfruttamento minerario devastante.
3) Giovanna d'Arco, la mistica della politica di Massimo Introvigne 26-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
4) BAGNASCO/ Vittadini: educarsi al possesso più vero di Giorgio Vittadini - giovedì 27 gennaio 2011 – il sussidiario.net
5) SENSO RELIGIOSO/ John Waters: così don Giussani mi ha offerto una "nuova" vita di John Waters - giovedì 27 gennaio 2011 – il sussidiario.net
6) SHOAH/ Nemmeno la Giornata della memoria può sostituire la nostra libertà di Sergio Belardinelli - giovedì 27 gennaio 2011 – il sussidiario.net
7) Suor Gian Paola Mina - di Cristina Siccardi - 26/01/2011 - Africa – da http://www.libertaepersona.org
8) Il mondo nuovo, di Aldous Huxley di David Ressegotti - 27/01/2011 – da http://www.libertaepersona.org/
9) Una testimone eroica di nome Wanda di Antonio Giuliano, 27-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
10) «L'annuncio della Verità non è per condannare» - di Angelo Bagnasco*, 27-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
11) Intervista - «Il tema delle virtù richiama all’importanza della cura di sé e della formazione del proprio essere». Parla il filosofo Antonio Da Re, di ANDREA LAVAZZA, Avvenire, 27 gennaio 2011
12) La teologia secondo san Tommaso d'Aquino -In adorazione discorrendo sull'essere di Inos Biffi (©L'Osservatore Romano - 28 gennaio 2011)
13) Nel discorso di Benedetto XVI al Collège des Bernardins - Quel monaco che è in noi - Nella serata di giovedì 27 gennaio si svolge nel Palazzo Apostolico Lateranense la seconda delle letture teologiche dedicate a "I grandi discorsi di Benedetto XVI". Al centro del dibattito il discorso tenuto il 12 settembre 2008 a Parigi al Collège des Bernardins. Anticipiamo ampi stralci di due delle relazioni. - di Giuseppe Dalla Torre (©L'Osservatore Romano - 28 gennaio 2011)
14) Negli inni sulla perla di sant'Efrem il Siro - La rivelazione trasparente dei misteri di Manuel Nin (©L'Osservatore Romano - 28 gennaio 2011)
15) Al servizio della libertà di Cristo. Massimo Introvigne, neo-eletto Rappresentante dell'OSCE per la lotta alla discriminazione contro i cristiani, spiega le principali minacce alla libertà religiosa nel mondo. - 26-01-2011 - di Omar Ebrahime, da http://www.vanthuanobservatory.org
16) Radio Vaticana, notizia del 27/01/2011, Benedetto XVI e le sue parole sulla Shoah: mai più la violenza umili la dignità dell’uomo
Noi ricordiamo di Andrea Tornielli 27-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
Oggi cerchiamo di ricordare. È la giornata della memoria, indetta per non dimenticare lo sterminio di milioni di ebrei, i lager, le camere a gas, la decisione lucidamente disumana di eliminare dalla faccia della terra un intero popolo. Ricordiamo perché in un mondo nel quale l’odio, il razzismo, la violenza, il predominio, il disprezzo dell’altro, la mancata tutela delle minoranze riempiono ancora le cronache quotidiane, la memoria è – può essere – un antidoto. Il vaccino per far sì che tragedie simili non si ripetano mai più.
La Shoah, figlia di un’ideologia barbara, antisemita e anticristiana, ha preso corpo ed è stata messa in atto nel cuore dell’Europa. Di quell’Europa che era stata faro di civiltà, che si era formata grazie al contributo essenziale del cristianesimo. Non si può e non si deve dimenticare che lo sterminio sistematico di milioni di persone innocenti, “colpevoli” soltanto di appartenere a un determinato popolo, è avvenuto nel nostro Continente.
Certo, l’antisemitismo, figlio del positivismo, non è invenzione nazista. C’era antisemitismo negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in tanti altri Paesi «liberi» e democratici. C’era e ci sarà antisemitismo nell’Unione Sovietica. E anche se è importante distinguere l’antisemitismo, cioè l’odio per l’inesistente “razza” ebraica fondato sull’appartenenza biologica, dall’antigiudaismo cristiano, basato invece sull’avversione alla religione ebraica, non si può non ammettere che il secondo ha costituito l’humus nel quale il primo ha potuto crescere e affermarsi.
Ricordare significa allora fare i conti con questo buco nero della coscienza europea, frutto marcio delle ideologie positiviste: si parla sempre tanto dei crimini della cristianità, ma si dimentica che i milioni di morti nei lager e nei gulag sono l’esito di ideologie pagane e anticristiane, il nazismo e il comunismo.
Ricordare significa guardare alla storia per capire innanzitutto come ciò sia potuto accadere, ma anche per valorizzare quegli bagliori di luce e di speranza che hanno illuminato le tenebre. Significa ricordare, accanto ai milioni di vittime, anche coloro che hanno messo in gioco la loro vita – e in molti casi l’hanno perduta – per accogliere, salvare, strappare dalla mano degli aguzzini uomini, donne e bambini innocenti.
A Roma, nella capitale della cristianità, su circa 750 case religiose presenti (475 femminili e 270 maschili) siamo in possesso di notizie certe e documentate sul fatto che almeno 220 femminili e almeno 70 maschili ospitarono per alcuni mesi degli ebrei, per un totale di circa 4.500. E soltanto la cecità di chi si ostina a considerare Pio XII un capro espiatorio può continuare a sostenere che tutto ciò sia avvenuto a insaputa del Papa e non con il suo consenso.
Far memoria significa ricordare il sacrificio di tutti i morti dei lager, nessuno escluso, anche se – ovviamente – è stato il popolo ebraico il principale bersaglio della follia sterminatrice, dell’intolleranza, dell’odio.
Colpisce, a questo proposito, la dimenticanza dell’Alta commissione per i diritti umani dell’Onu, che in un comunicato appena pubblicato per la Giornata della memoria, ricorda, oltre ai «milioni di uomini, donne e bambini ebrei», anche «le migliaia di altre vittime, inclusi i Rom, gli slavi, i disabili, gli omosessuali, i testimoni di Geova e altri dissidenti politici…». Ma non menziona il sacrificio dei cristiani (di tutte le confessioni) assassinati nei lager, come ad esempio il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer o la filosofa, e monaca carmelitana Edith Stein, o ancora i partigiani antinazisti della Rosa Bianca.
Nell’ora delle tenebre, ci furono persone che guardando al Dio crocifisso, a quel Gesù ebreo, figlio di una ragazza ebrea, e seppero testimoniare, spesso in modo eroico, la loro fedeltà al Vangelo. Delle luci flebili si accesero nel buio, per mostrarci che l’odio e la barbarie non avrebbero avuto l’ultima parola. Come quella di san Massimiliano Kolbe, il frate francescano che ad Auschwitz nel 1941 si offrì di morire nel bunker della morte al posto di un altro recluso, padre di famiglia.
Ricordiamo perché una tragedia come la Shoah non abbia mai più a ripetersi. Guardiamo a chi, salvando una vita umana, ha salvato il mondo intero.
27/01/2011 – FILIPPINE - Ucciso giornalista cattolico filippino: difendeva le tribù indigene - Gerry Ortega era famoso per le sue trasmissioni radio in cui ospitava missionari e attivisti per i diritti umani. La battaglia che gli è costata la vita era in difesa dell’isola di Palawan da un progetto di sfruttamento minerario devastante.
Manila (AsiaNews/Agenzie) – Un giornalista cattolico, e attivista per i diritti umani, Gerry Ortega è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco il 24 gennaio a Puerto Princesa, nell’isola di Palawan.
Gerry Ortega, è il 142mo giornalista ucciso nelle Filippine negli ultimi 25 anni. I vescovi filippini hanno di recente lanciato un allarme per la crescita del crimine e della violenza, particolarmente diretta contro giornalisti, religiosi e religiose, attivisti, sindacalisti e avvocati che difendono i diritti dei più poveri e marginalizzati.
Gerry Ortega, 47 anni, era impegnato in una campagna tesa a difendere le comunità indigene di Palawan. Nei suoi programmi radio ospitava spesso missionari, esponenti delle comunità cristiane e di organizzazioni non governative e gruppi di ambientalisti che avevano lanciato una petizione per salvare una delle più belle isole delle Filippine. Palawan corre il rischio di essere devastata da un grande progetto di miniere autorizzato dai governi centrale e provinciale.
Palawan è popolata da tribù indigene quali Tagbanua, Palawanon,Tau't Bato, Molbog e Batak, che vivono in piccoli villaggi nell’area montagnosa o lungo le coste, e vivono di pesca e agricoltura. Due multinazionali, MacroAsia e Celestial hanno già cominciato ad aprire cave e costruire strade.
MacroAsia ha un accordo con il governo di Manila che consente il diritto di estrazione da terre che sono sempre state di proprietà delle comunità indigene, alcune delle quali hanno di rado contatti con il mondo esterno, e la cui sopravvivenza potrebbe essere messa a rischio dai piani di estrazione.
La campagna per la difesa di Palawan ha portato a una richiesta al governo di Manila di rievocare il “Mining Act” del 1995 che ha aperto la via in tutto il Paese allo sfruttamento di terre appartenenti alle tribù indigene. Gerry Ortega, impegnato anche nella vita della Chiesa, era molto noto nelle Filippine per le sue battaglie via radio in difesa dei diritti umani.
Giovanna d'Arco, la mistica della politica di Massimo Introvigne 26-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
Se si ricorda quanto questa figura sia stata una bandiera nel XIX secolo nel confronto fra cattolici e anticlericali in Francia, su cui si giocavano la stessa natura e il significato della politica, il fatto che Benedetto XVI abbia dedicato l'udienza generale del 26 gennaio a santa Giovanna d'Arco (1412-1431) appare particolarmente interessante.
Il Papa ricorda che Giovanna è «citata più volte nel Catechismo della Chiesa Cattolica» ed è un esempio di «quelle “donne forti” che, alla fine del Medioevo, portarono senza paura la grande luce del Vangelo nelle complesse vicende della storia».
Dopo avere ricordato, contro le polemiche di ieri e di oggi, che le fonti sulla vita di Giovanna sono considerate dalla scienza storica del tutto sicure e affidabili, così che non si tratta di leggende, il Papa ricostruisce la giovinezza di questa contadina illetterata, figlia però di «contadini agiati, conosciuti da tutti come ottimi cristiani. Da loro riceve una buona educazione religiosa, con un notevole influsso della spiritualità del Nome di Gesù, insegnata da san Bernardino da Siena e diffusa in Europa dai francescani. Al Nome di Gesù viene sempre unito il Nome di Maria e così, sullo sfondo della religiosità popolare, la spiritualità di Giovanna è profondamente cristocentrica e mariana».
A tredici anni, «attraverso la “voce” dell'arcangelo san Michele, Giovanna si sente chiamata dal Signore ad intensificare la sua vita cristiana e anche ad impegnarsi in prima persona per la liberazione del suo popolo. La sua immediata risposta, il suo “sì”, è il voto di verginità, con un nuovo impegno nella vita sacramentale e nella preghiera: partecipazione quotidiana alla Messa, Confessione e Comunione frequenti, lunghi momenti di preghiera silenziosa davanti al Crocifisso o all'immagine della Madonna. La compassione e l’impegno della giovane contadina francese di fronte alla sofferenza del suo popolo sono resi più intensi dal suo rapporto mistico con Dio».
Dunque «uno degli aspetti più originali della santità di questa giovane è proprio questo legame tra esperienza mistica e missione politica. Dopo gli anni di vita nascosta e di maturazione interiore segue il biennio breve, ma intenso, della sua vita pubblica: un anno di azione e un anno di passione».
La storia è nota. Giovanna riesce a liberare la Francia, ma è catturata, condannata come strega e bruciata sul rogo. Il suo processo, afferma il Papa, «è una pagina sconvolgente della storia della santità e anche una pagina illuminante sul mistero della Chiesa, che, secondo le parole del Concilio Vaticano II, è “allo stesso tempo santa e sempre bisognosa di purificazione” (LG, 8). E’ l'incontro drammatico tra questa Santa e i suoi giudici, che sono ecclesiastici. Da costoro Giovanna viene accusata e giudicata, fino ad essere condannata come eretica e mandata alla morte terribile del rogo». I suoi giudici «sono teologi ai quali mancano la carità e l'umiltà di vedere in questa giovane l’azione di Dio. Vengono alla mente le parole di Gesù secondo le quali i misteri di Dio sono rivelati a chi ha il cuore dei piccoli, mentre rimangono nascosti ai dotti e sapienti che non hanno l'umiltà (cfr Lc 10,21). Così, i giudici di Giovanna sono radicalmente incapaci di comprenderla, di vedere la bellezza della sua anima: non sapevano di condannare una Santa».
Il «Mistero della carità di Giovanna d'Arco», afferma il Papa, sarà descritto adeguatamente solo da un grande poeta, Charles Péguy. Al cuore del mistero, secondo Benedetto XVI, c'è il fatto che «nell'Amore di Gesù, Giovanna trova la forza di amare la Chiesa fino alla fine, anche nel momento della condanna», che pure le viene da teologi e vescovi.
Giovanna non è solo «un bell’esempio di santità per i laici impegnati nella vita politica, soprattutto nelle situazioni più difficili». La santa introduce al tema grande e misterioso dell'esistenza di un'ascetica e di una mistica anche della politica. Un grande antidoto alle piccole miserie del nostro tempo.
BAGNASCO/ Vittadini: educarsi al possesso più vero di Giorgio Vittadini - giovedì 27 gennaio 2011 – il sussidiario.net
Il momento attuale sembra dominato dalla lotta tra poteri ingigantita da casse di risonanza mediatiche che distorcono i contorni e le proporzioni delle cose nel contesto dei problemi reali del nostro Paese.
Come ha sostenuto il cardinale Angelo Bagnasco, al recente Consiglio Episcopale Permanente della Cei, stiamo assistendo a una “convulsa fase che vede miscelarsi in modo sempre più minaccioso la debolezza etica con la fibrillazione politica e istituzionale, per la quale i poteri non solo si guardano con diffidenza ma si tendono tranelli, in una logica conflittuale che perdura ormai da troppi anni. Si moltiplicano notizie che riferiscono di comportamenti contrari al pubblico decoro e si esibiscono squarci - veri o presunti - di stili non compatibili con la sobrietà e la correttezza, mentre qualcuno si chiede a che cosa sia dovuta l’ingente mole di strumenti di indagine”.
Per ciò che concerne la giustizia, i magistrati battono il chiodo dell’“obbligatorietà dell’azione penale” verso il premier, ma la priorità data al bene comune dovrebbe far preoccupare maggiormente del fatto che sicurezza della pena e tempi equi dei processi non sono garantiti allo stesso modo per tutti. Ad esempio, che ne è di quei debitori morosi responsabili del fallimento di tanti imprenditori (e perdita di lavoro dei loro dipendenti) che devono aspettare anni perché i loro diritti vengano riconosciuti?
Oppure, che ne è di chi ha rovinato la vita di tante persone continuando impunemente a pubblicare notizie secretate, calunniando in trasmissioni televisive o articoli di giornale persone poi rivelatesi innocenti? O, ancora, perché tante inchieste sembrano essere andate a velocità diversa a seconda del colore politico dell’imputato? Lasciare che tante risorse umane e materiali siano destinate a poche inchieste orientate politicamente, come nel caso Why Not, è come decidere che la sanità pubblica venga concentrata su grandi trapianti per poche persone e trascuri le altre. Il tutto in perfetta apparente legalità, visto che ciò avviene semplicemente decidendo di aprire un procedimento invece che l’altro...
Pensare che, come sotto la rivoluzione francese, sia compito dei giudici esprimere la volontà popolare di un Paese, o dimenticare che in un referendum del 1987 la maggioranza degli italiani ha chiesto la responsabilità civile dei giudici, vuol dire affermare un sistema ingiusto. Forse per questo un recente sondaggio rivela che il 54% degli italiani ha poca o nessuna fiducia nella giustizia e che il 56% ritiene che i magistrati agiscano con fini politici.
Quanto detto non significa far finta che in Italia non stia succedendo nulla sul piano dell’etica personale di personaggi pubblici che offrono un’immagine squallida che, al di là delle strumentalizzazioni e dei possibili reati ancora da provare, squallida è e rimane. Ma è giusto ricordarsi che un certo modo di considerare la donna, l’amore, i rapporti sessuali è frutto di una mentalità a cui hanno contribuito tutti, chi oggi è accusato e chi accusa: i progressisti che si stracciano le vesti e i conservatori che invocano leggi morali che non rispettano, ipocriti come i Buddenbrock di Thomas Mann. Neanche chi è contro a certe manifestazioni di degrado umano è innocente da colpe, se si è limitato a opporsi in nome di regole etiche senza mostrare la convenienza umana di un modo di concepire i rapporti tra persone all’altezza del vero desiderio dell’uomo.
Per uscire dalle secche nella guerra tra certo potere giudiziario e potere politico, e per imparare a concepire i rapporti tra uomini in modo più adeguato alla grandezza dell’uomo, occorre tornare a guardare l’esperienza di quelle persone, quelle famiglie, quelle comunità dove una diversità di vita si realizza; dove è tenuto vivo il desiderio della bellezza come segno del vero e l’amore è rispetto della sacralità dell’altro, come anche alcune opere letterarie ci mostrano (vedi il Dolce stil novo di Dante, il Miguel Manara di Milosz o I promessi sposi del Manzoni). Solo questo tipo di esperienze possono far capire quanto dice don Giussani in un suo libro: “Possedette di più la donna da marciapiede, la Maddalena, Cristo che la guardò un istante mentre le passava davanti o tutti gli uomini che l’avevano posseduta?”.
Il sostegno a questa ricerca è il contenuto dell’educazione. Non per niente da qualche anno si parla di “emergenza educativa”, termine usato anche dal cardinal Bagnasco nella prolusione citata. Solo l’educazione di noi stessi (chi di noi è esente da peccato?), del popolo e dei potenti alla scoperta dei desideri più profondi sperimentati personalmente e sostenuti nelle formazioni sociali, può aprire al desiderio del bene comune, a livello del singolo cittadino, come dei tre poteri, giudiziario, legislativo, esecutivo, che possono così ritornare a rispettarsi.
Di fronte all’imbarbarimento della lotta politica, o alla degradazione dell’amore, solo testimonianze vissute di rinnovato senso civico, di amore al Mistero che c’è nell’altro possono creare una nuova mentalità e maturare una nuova pietà, come quella che fa dire all’ex prostituta Sonia in Delitto e castigo,di frontea Raskolnikov che le ha confessato di avere ucciso una vecchietta: “Che pena devi avere nel cuore”. Senza scandalizzarsi, né giustificare l’errore, educarsi ed educare a un rinato desiderio personale e collettivo di bene, bello, giusto è l’unica via per il necessario cambiamento.
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SENSO RELIGIOSO/ John Waters: così don Giussani mi ha offerto una "nuova" vita
John Waters
giovedì 27 gennaio 2011
Nel 2005, il giorno del mio cinquantesimo compleanno, Don Giussani mi ha messo di fronte al Senso religioso e, in tal modo, anche di fronte a una nuova versione della mia vita. A quell’epoca era morto ormai da tempo, ma ho l’impressione che così gli sia stato più facile arrivare a me.
Come ho già raccontato altre volte, ero in viaggio verso Roma per festeggiare il mio compleanno quando incontrai Mario Biondi all'aeroporto di Dublino; da questo incontro casuale è iniziata una serie di eventi che mi hanno condotto a leggere il Senso religioso e a entrare sempre più in un’amicizia con Comunione e Liberazione.
Ho definito il Senso religioso come il libro più radicale che abbia mai letto. Può apparire come una deliberata iperbole, ma non lo è. Penso che chiunque lo legga con cuore e mente aperti possa arrivare alla stessa conclusione. È un libro che riunisce tutti quei pensieri dissociati, quelle domande frammentarie e quelle esperienze disgregate che popolano le nostre menti, e ce le ripresenta in una forma nuova, con una coerenza che non avremmo creduto possibile.
La coerenza non è una questione intellettuale, ma la percezione che le cose vengano rimesse al proprio posto sulla base della vita che abbiamo vissuto e del suo significato. In realtà, ciò che questo libro mi ha dato è una nuova mappa di me stesso e del mio viaggio attraverso la realtà.
Spesso ho affermato che per me il capitolo 10, che inizia a pagina 100 nell'edizione inglese, è il vero inizio del libro. Questo non significa che io voglia ignorare i primi 9 capitoli, ma che nelle prime 99 pagine è come se Don Giussani mi portasse per mano in un viaggio attraverso la cultura in cui vivo e mi mostrasse quanto sia possibile che io mi sia alienato da me stesso.
E, avendomi aperto gli occhi su questa possibilità, si voltasse improvvisamente e mi dicesse all’incirca: “Ehi, hai mai conosciuto questo tizio, John Waters?” Così, mi riporta alla mia primaria origine e mi invita, alla luce di ciò che mi ha detto sul mio viaggio, a una nuova conoscenza di me stesso e a ricominciare di nuovo la mia vita. Mi chiede di aprire gli occhi, come se fosse la prima volta.
Cosa vedo? Come mi sento? Mi riporta al senso della realtà della mia infanzia, alla percezione del mio essere creato, della mia dipendenza, alla sensazione di essere accompagnato. E mi offre questo come un metodo per vivere il resto della mia vita, per venir fuori da ciò che sono stato erroneamente portato a considerare realtà e rientrare nel puro, originale stato dell'umano.
Ogni volta che ci penso, rimango sbalordito di fronte al dono che tutto questo rappresenta.
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SENSO RELIGIOSO/ John Waters: così don Giussani mi ha offerto una "nuova" vita di John Waters - giovedì 27 gennaio 2011 – il sussidiario.net
Nel 2005, il giorno del mio cinquantesimo compleanno, Don Giussani mi ha messo di fronte al Senso religioso e, in tal modo, anche di fronte a una nuova versione della mia vita. A quell’epoca era morto ormai da tempo, ma ho l’impressione che così gli sia stato più facile arrivare a me.
Come ho già raccontato altre volte, ero in viaggio verso Roma per festeggiare il mio compleanno quando incontrai Mario Biondi all'aeroporto di Dublino; da questo incontro casuale è iniziata una serie di eventi che mi hanno condotto a leggere il Senso religioso e a entrare sempre più in un’amicizia con Comunione e Liberazione.
Ho definito il Senso religioso come il libro più radicale che abbia mai letto. Può apparire come una deliberata iperbole, ma non lo è. Penso che chiunque lo legga con cuore e mente aperti possa arrivare alla stessa conclusione. È un libro che riunisce tutti quei pensieri dissociati, quelle domande frammentarie e quelle esperienze disgregate che popolano le nostre menti, e ce le ripresenta in una forma nuova, con una coerenza che non avremmo creduto possibile.
La coerenza non è una questione intellettuale, ma la percezione che le cose vengano rimesse al proprio posto sulla base della vita che abbiamo vissuto e del suo significato. In realtà, ciò che questo libro mi ha dato è una nuova mappa di me stesso e del mio viaggio attraverso la realtà.
Spesso ho affermato che per me il capitolo 10, che inizia a pagina 100 nell'edizione inglese, è il vero inizio del libro. Questo non significa che io voglia ignorare i primi 9 capitoli, ma che nelle prime 99 pagine è come se Don Giussani mi portasse per mano in un viaggio attraverso la cultura in cui vivo e mi mostrasse quanto sia possibile che io mi sia alienato da me stesso.
E, avendomi aperto gli occhi su questa possibilità, si voltasse improvvisamente e mi dicesse all’incirca: “Ehi, hai mai conosciuto questo tizio, John Waters?” Così, mi riporta alla mia primaria origine e mi invita, alla luce di ciò che mi ha detto sul mio viaggio, a una nuova conoscenza di me stesso e a ricominciare di nuovo la mia vita. Mi chiede di aprire gli occhi, come se fosse la prima volta.
Cosa vedo? Come mi sento? Mi riporta al senso della realtà della mia infanzia, alla percezione del mio essere creato, della mia dipendenza, alla sensazione di essere accompagnato. E mi offre questo come un metodo per vivere il resto della mia vita, per venir fuori da ciò che sono stato erroneamente portato a considerare realtà e rientrare nel puro, originale stato dell'umano.
Ogni volta che ci penso, rimango sbalordito di fronte al dono che tutto questo rappresenta.
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SHOAH/ Nemmeno la Giornata della memoria può sostituire la nostra libertà di Sergio Belardinelli - giovedì 27 gennaio 2011 – il sussidiario.net
Non è facile fare i conti col male che segna la storia degli uomini. Tanto più il male è grande e tanto più sembra incomprensibile, assurdo, angosciante. Di fronte a interi popoli condotti al macello, semplicemente perché ritenuti indegni di abitare la terra, la mente e il cuore entrano in subbuglio; non ci sono categorie intellettuali - forse nemmeno quella di “male assoluto” - capaci di esprimere certe tragedie. Ma una cosa possiamo e dobbiamo fare sempre: ricordare; non permettere che l’oblio cada sulla sofferenza inaudita che alcuni nostri simili hanno subito per colpa di altri simili, né permettere che questa sofferenza possa diventare un pretesto per rimanere prigionieri del passato. A questo deve servire la “giornata della memoria” che celebriamo oggi.
Hannah Arendt, proprio pensando alla Shoah, ha scritto da qualche parte che c’è un male che non può essere perdonato, perché non sappiamo neanche come potrebbe essere adeguatamente punito. Usando l’immagine evangelica, meglio sarebbe che coloro che lo hanno commesso non fossero mai nati o che fosse stata legata loro al collo una macina da mulino e gettati nel mare. Parole che turbano e che sento di condividere nel profondo del cuore. Il martirio di un popolo e di tanti popoli deve diventare occasione di una vera e propria pedagogia civile, ricordarlo un modo per dire a noi stessi e alle persone che abbiamo vicino che non succederà più, almeno per quel poco o tanto che sarà in nostro potere. In questo senso la “giornata della memoria” ci orienta al futuro, tremanti e fiduciosi che i nostri figli non abbiano mai a vedere e subire ciò che altri figli, innocenti come loro, hanno invece visto e subito.
Ma la “giornata della memoria” non può essere soltanto questo. Essa deve essere in qualche modo anche una giornata del perdono e della riconciliazione. Non con i carnefici e gli assassini, ma con noi stessi, con i nostri contemporanei e con le generazioni ci hanno preceduto. Lo dobbiamo in primo luogo alle generazioni future, non fosse altro per non tenerle incatenate agli errori e agli orrori commessi da coloro che sono venuti prima. Del resto solo così la “giornata della memoria” può essere un gesto che, anziché limitarsi a una pur mobilissima “reazione”, mette in moto qualcosa di veramente nuovo e imprevisto.
Un po’ come l’apprendista stregone che non aveva la formula magica per rompere l’incantesimo, gli uomini tendono purtroppo a perpetrare la catena dell’odio e della vendetta. In questo modo, però, è sempre Hannah Arendt a dirlo, essi restano “per sempre vittime” delle conseguenze delle loro azioni; la stessa memoria si incancrenisce. Il perdono ristabilisce invece l’alleanza con le generazioni presenti e con quelle passate. Non può esserci libertà nell’odio e nella vendetta; reagire con l’odio all’odio di un altro è, potremmo dire, meccanico, addirittura naturale. Ciò che invece può rompere il meccanismo prevedibile dell’azione-reazione è imprevedibile e liberatorio perché veramente frutto della libertà: io ti perdono la sofferenza che mi hai procurato. È un’altra storia che incomincia. Auguriamoci che la “giornata della memoria” serva anche a questa catarsi culturale e civile, di cui abbiamo tutti bisogno.
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Suor Gian Paola Mina - di Cristina Siccardi - 26/01/2011 - Africa – da http://www.libertaepersona.org
Una missionaria certamente fuori dal comune suor Gian Paola Mina (1917-2000). Nei vent'anni trascorsi in Africa, questa missionaria della Consolata sollevò, partendo da zero, l'identità della donna in Kenya, promuovendo la persona con gli studi, la professionalità e la coscienza, in quanto donna, di essere perno della famiglia. Per questo mondo femminile, fino allora dimenticato e disprezzato, fondò degli enti nazionali dai riflessi internazionali come il Gitoro Women Center e la Women's union for social action (Wusa).
Realizzò tutto ciò affrontando mille difficoltà in un'epoca storica molto travagliata per il Kenya, una terra che per liberarsi dall'autorità inglese e in nome dell'indipendenza venne insanguinata duramente e tragicamente dall'insurrezione Mau Mau.
Suor Gian Paola venne sradicata dal luogo tanto amato. Eppure continuò a essere Makena, la gioiosa, come veniva chiamata dalla gente del Kenya. Ciò che non poté più fare sul campo, in Africa, lo fece dalla sua scrivania di giornalista e di scrittrice, narrando la missione e diffondendo l'amore per essa in migliaia di anime.
Itinerario di un’anima
Il suo programma di vita è scritto in due taccuini che suor Gian Paola, prossima alla fine della sua vita, affidò al suo amato fratello. Due taccuini tascabili e di poco valore economico, scritti per sé con una calligrafia fitta, fitta: parole dettate dalla sua coscienza con una convinzione che stupisce e meraviglia.
Il primo è stato compilato dal luglio 1940 all’avvento 1960, il secondo dal febbraio 1961 al gennaio 1992. Il cammino ascetico è evidente, ma non è così graduale come si potrebbe pensare per una comune progressione d’anima. Ci sono fasi alte e basse, chiaroscuri di una coscienza che è sempre stata assetata di Dio. Sorprende poi quella continua autocritica, il guardare ai propri difetti e mai a quelli degli altri e pur vivendo in prima persone sofferenze arrecate da chi le è superiore gerarchicamente, arrestando i suoi spazi di dilagante azione, lei non protesta e non inveisce, macina il dolore dell’umiliazione e se ne serve per migliorarsi.
Fin dall’inizio le tracce della sua maturità spirituale sono bene evidenti, nonostante la giovane età. Illuminante la citazione di don Pier de Hemptinne che suor Mina, ad appena 23 anni, scrive nel primo giorno di vita religiosa (Sanfrè, 29 luglio 1940): «Sono risoluto di convertirmi all’amore di Cristo… Voglio amare pazzamente. Spezzerò la mia volontà, sottometterò l’intelletto, farò tutto quello che mi si chiederà pur di non perdere il solo bene, Gesù Divino; anzi son sicuro che Egli non mi lascerà mai. Le nostre anime debbono piacere a Gesù e non ad altri» e poco dopo annota tre regole personali: «Un ideale solo: N.S. Gesù Crocifisso. Un desiderio solo: le anime. Un metodo solo: ardenter audenter. In nomine Jesu et Mariae».
È ben chiaro che Gian Paola ebbe come suo fine quello di essere una lode eterna di gloria a Dio: «Tutto è tuo. Ma ch’io sia e mi senta, o meglio, sia certa di essere veramente tua. Che ti ami con tutte le fibre dell’anima mia. Che Tu sia il fine di tutta la mia vita e di ogni azione». Propositi, meditazioni e preghiere ricorrono in queste pagine intime dove non si trovano soltanto i punti didattici di ritiri spirituali frequentati con impegno e trasporto, ma anche personali colloqui con il trascendente: Sanfré, Natale 1940: «Caro Gesù Bambino, in questo pomeriggio di Natale, il primo che passo lontano da casa, sento il bisogno di parlare con qualcuno che mi voglia bene e mi comprenda. E questo qualcuno sei Tu solo, mio dolce Signore. Tu che mi amasti da tutta l’eternità, che hai intessuta tutta la mia vita d’amore, che hai fatto della bimba e dell’adolescente turbolenta e ribelle di un tempo, la tua piccola sposa. Tu che mi hai segregato dal mondo non solo, ma dalle anime che pur mi avevi affidato, e mi hai condotta qui, perché sola con te solo, non avessi altra preoccupazione, altro lavoro, altro programma, che la mia identificazione con te, Gesù Crocifisso.
Ed io ti amo tanto. Voglio assecondarti in tutto, docilmente, volenterosamente, lietamente. Non ti seguii forse prontamente quando un giorno lontano, giovanissima, mi facesti sentire la tua voce, e alla mia giovinezza ansiosa di vita, di amore, di gioia, di dedizione, mostrasti un ideale di santità, di sacrificio di apostolato, riassunto in un nome, il tuo? E da allora, non mi sforzai forse di seguirti, di lavorare per te, anche se il cammino era duro, se la sofferenza si acuiva, se l’ideale pareva un sogno, un assurdo, una chimera irraggiungibile? Non forse cercai la tua volontà con rettitudine d’intento, fino a sacrificarti tutto? Caduta, è vero, migliaia di volte, ma la tua mano mi rialzò; peccai, ma nel tuo amore trovai perdono, fui debole, vile di fronte al sacrificio, ma tu mi rivestiti della tua forza. Perciò, mio Signore, oggi che questo mio povero cuore umano invoca con nostalgia tremenda, la sua casa, la sua mamma, oggi che i ricordi affollano e trascinano, e qui, in questa casa, fra tanti, io mi sento tanto sola, perdutamente sola, e mentre rido e scherzo per non turbare con le mie lacrime, la pace degli altri, mio Signore, io invoco te. Riempimi di te. Sii tutto! Appaga con il tuo amore questa mia anima che ha sete di te, ma perché la sua miseria la irretisce e le impedisce di volare a te, scendi tu a lei! Io mi offro ancora una volta a te, tutta! Possiedimi, alfine, interamente».
Qui, forse, sta il segreto della realizzazione di suor Gian Paola: lei voleva appartenere, come una vera sposa, tutta a Cristo, essere tutta sua, completamente sua e ogni minuto della sua vita religiosa doveva, secondo il suo intendimento, segnare l’aumento di Gesù in lei.
Riflessioni consistenti anche quelle del 1° gennaio 1941 quando dichiara che ogni istante è importante nel disegno del Padre per raggiungere il pieno possesso di Cristo «nella misura da lui stabilita». Perciò ogni minuto perso in pigrizia, suscettibilità, sciocchezze, colpe, negligenze, fantasie «è perduto per sempre e mancherà al completamento della mia santificazione e della mia missione di apostolato».
Si scuoteva e si pungolava per un perenne miglioramento: «Devo rinfocolare sempre il mio amore, la mia fede, perché a lungo andare, non abbia a cadere in mediocrità e banalità di vita qui, ove Dio, la Chiesa e le anime hanno il diritto di pretendere santità di opere» e così dimostra a noi, lettori indiscreti e non da lei autorizzati a leggere e commentare questi splendidi colloqui con il cielo, la sua cocente e solida personalità carica di volontà e di determinazione: «Se il pensiero delle migliaia di minuti sciupati, nulli, mi spaventa e mi umilia avanti a Dio, deve d’altra parte, raddoppiare il fervore della volontà per intensificare, riparare al tempo perduto».
Eppure Gian Paola si lamenta della sue giornate: una ridda di vibrazioni, di sentimenti contrastanti, di luci e di dubbi, di amore e di freddezza. Dubbi, perpessità per un’anima troppo intelligente per buttarsi nel vuoto senza conoscere la propria forza e allora scrive da Sanfrè agli esercizi spirituali in preparazione della vestizione (gennaio 1941): «Oh mio Signore, non badare ai gemiti della mia natura ribelle ed eccessivamente sensibile alla sofferenza morale, e continua l’opera che hai iniziata! Non posare lo scalpello fin tanto che l’ultimo colpo non sia dato! Ravviva la mia fede! Fa che il lamento e il pianto si trasformino in un grido: t’amo, Signore! Fa che oggi in cui sento iniziarsi il martirio della vita religiosa, io sappia soffrire sorridendo, morire cantando e camminare senza soste, con fede anche se intorno è buio e la tormenta avvolge, anche se dentro la mia volontà umana insorge e si ribella, anche se il cuore tenta di attaccarsi ad abbracciarsi alle piccole cose e creature del passato! T’amo, Signore, aumenta il mio amore!».
Senza illusioni e senza colpi di testa, suor Gian Paola si pone subito di fronte ai problemi della sua scelta. Possiamo dire che non si tratta di dubbi da dissipare, ma di considerazioni: la vita religiosa, come quella matrimoniale è costellata di sacrifici, occorre prenderne atto e dunque non è tutto petali di candore e pozze d’acqua pulita. Gian Paola, responsabile fin da ragazza, sa a cosa va incontro ed è più pronta per la sofferenza che per la gioia e ciò ci permette di comprendere la sua realizzazione di suora, di missionaria. Non si aspettava mai nulla dagli altri, ma pretendeva sempre da se stessa e dava al sacrificio il giusto valore di chi pretende molto dalla vita e sa che un prezzo va pagato.
Il noviziato fu per Gian Paola «il deserto al quale Iddio mi ha condotta per essere provata in tutti i modi. La tentazione più forte e frequente, dalle quali dipendono i turbamenti, le malinconie, i dubbi, le ripugnanze cui sono soggetta, sono quelle dell’amor proprio. Esso mi ispira ripugnanze ad assoggettare le mie azioni alla dipendenza, a chiedere permessi» (marzo 1941). Riteneva infatti l’amor proprio il suo difetto peggiore e lo combatteva quotidianamente, facendo violenza a se stessa. Nella domenica delle Palme dell’aprile dello stesso anno così riflette: «Anch’io oggi agito i rami di ulivo e canto l’osanna a Gesù! Ma so per esperienza che potrebbe bastare una piccola prova a farmi dimenticare ciò che devo a Gesù. Non è forse tutta la mia vita un alternarsi di atti d’amore e di concessioni a me stessa, al mio amor proprio? Perché questo? Perché il mio amore non è alimentato da una fede viva, umile, e preferisco la mia volontà all’umile sottomissione, e mi ribelllo quando mi sento contrariata. Per essere fedele al Signore e dargli gloria, sempre, cercherò di abituarmi: 1) a sottomettere protamente la mia volontà e il mio giudizio alle disposizioni e consigli dei Superiori nei quali vedo Dio. 2) a contrariarle anche in cose indifferenti».
Fra le meditazioni del ritiro datato maggio 1941 Gian Paola si espone in propositi dal peso non indifferente: «Gesù si è fatto Ostia. Diventare, con Gesù, ostia d’amore e di gloria al Padre, ecco ciò che voglio fare della mia vita religiosa, nell’anima e nel corpo, in tutto cioè il mio essere. Ma il mio contegno esterno, non dà certo il senso di questa consacrazione mia a Dio, perché sa troppo di mondo e di natura… In questo mese di maggio cercherò quindi, camminando e parlando, di tenere quella compostezza religiosa, semplice e disinvolta, lungi da ogni affettazione, che spanda attorno il buon profumo di Cristo».
La caparbietà nel contrastare i suoi difetti è costante e insistente e la si riscontra soltanto nelle anime sante. Ma Gian Paola la santità la ricercava. Scrive nelle Meditazioni del ritiro spirituale datato giugno 1941: «Lo Spirito Santo scendendo sugli Apostoli, opera in loro una trasformazione radicale, istantanea. Perché? Essi, fedeli all’ordine di Gesù l’avevano atteso nella preghiera e nella umiltà, e non avevano opposto alcun ostacolo alla sua azione. «Da tanti anni lo Spirito Santo lavora nell’anima mia, per la mia santificazione. Ma perché dunque così scarso è il frutto che io porto e così lenta la mia trasformazione?». Invoca continuamente l’umiltà, la semplicità, l’ubbidienza, l’annientamento del proprio orgoglio e segna mancanze e vittorie. Vuole imparare a «tesoreggiare» ogni momento della vita e «Com’è bello, del resto, agire semplicemente con l’occhio fisso in Dio, non curando né l’onore né l’umiliazione che può venirmi dalle persone».
Il suo modo di parlare e di camminare non è mai rientrato nei classici stereotipi delle suore: Gian Paola non era una religiosa standard, era lei. Spigliata, gioviale, sguardo vivace, attivo con un suo modo di fare spontaneo, privo di affettazioni e atteggiamenti di pietà religiosa ipocrita. Eppure Gian Paola, non rientrando in certi parametri comportamentali, si sforzava di correggersi: «Mi sforzerò di correggere il mio modo di parlare e di camminare per acquistare il contegno religioso. Ne seguirò mancanze e vittorie» (agosto 1941).
Di grande spessore spirituale sono le sue meditazioni sulla morte (agosto 1941): «Aver vissuto 30 o 50 anni, che me ne importerà, davanti alla morte? Non mi giova a nulla l’aver occupato un posto di gloria nel mondo, aver cercato me stessa, aver assecondato la mia volontà… Come cambiano d’aspetto le cose viste nella luce della morte, della eternità. Occorre quindi che davanti all’imminenza della morte, io imparo a tesoreggiare ogni momento della vita. Il Signore me la conceda ancora, non perché vegeti, ma, perché cresca in santità fino al giorno in cui Egli mi chiamerà. E se voglio che la morte segni per me l’inizio della vita, devo morire quaggiù ogni giorno a me stessa, alla mia volontà, al mio amor proprio. Mi costa tanto ubbidire e tacere! Eppure, Signore Gesù, se voglio poter dire con Te, il giorno della mia morte, il mio consumatum est devo fare il sacrificio totale della mia volontà nell’ubbidienza. Dammi Tu la forza di battere la strada che tu prima di me e per me hai battuto per andare al Padre».
Verso la fine della vita Gian Paola raggiungerà le sue speranze. Queste memorie sono un vero e proprio scrigno dove è custodito il segreto della vincente missionarietà e realizzazione di Gian Paola come donna e sposa di Cristo ed è molto netta e determinata nel condurre la sua esistenza: «Ho scelto Lui, perché Egli solo è buono, grande, degno di essere amato, Egli solo non possa e non fallisce come le creature, perché Egli mi ha amato per primo e tutto gli devo» (settembre 1941). Nel dicembre 1943 suor Gian Paola dà prova di grande volontà, di rinuncia e di sacrificio volendo mortificarsi nel camminare, nello stare seduta e nel dormire «evitando ogni posizione troppo comoda».
È una persona che vuole perfezionarsi giorno dopo giorno, affinare la sua anima per assurgere sempre più a Dio ed è più grande la volontà di farcela che lo sforzo di realizzazione, concetto avvalorato dal pensiero che troviamo scritto in data 1° gennaio 1944, quando si sta per staccare dalle proprie radici, dalle persone care e amate: «Da anni, Signore, io sento il tuo pungolo che mi spinge, che mi tormenta in un anelito mai soddisfatto di amore vero, di donazione completa, di santità. Io non so che cosa tu vuoi fare di me e in me» e non comprende ciò che Dio vuole fare di lei: «È un vuoto tremendo che mi scavi attorno. Le creature si allontanano. Anche quelle che mi sono più care sento che mi vengono meno; non sono più mie ed io non sono più loro. Sono tua, dovrei esserlo. Ma quando, Signore, io ti apparterrò completamente? Quando sciolta da ogni vincolo umano, libera di me stessa, io non mi occuperò che di te e di ciò che ti riguarda e non penserò a me se non per disprezzarmi, per dimenticarmi? Signore, io credo che tu devi essere il mio Tutto, e che lo sarai. E se vieppiù cresce la mia miseria e la vista di questa vorrebbe sgomentarmi, Signore io credo alla potenza del tuo amore per cui nessun abisso è incolmabile, nessuna miseria che non possa essere trasformata in un capolavoro di grazia Signore, io ammiro la tua opera nelle anime che mi circondano, in particolare in quelle di mio fratello e di mia sorella. Essi si son dati a te senza riserva, e tu lavori in essi liberamente. Essi ti amano. E di ciò ti ringrazio». Ed ecco sgorgare, percependo quasi un senso di inadeguatezza, l’autocritica: «Io mi sento invece troppo bambina, moralmente. E i tuoi santi sono dei forti. Signore, quando mi darai tanta forza da uscire da me stessa, da superare e domare le esigenze della natura per non inabissarsi che in te?». Gian Paola invoca aiuto e pietà al Creatore: «Signore, tu solo puoi compiere il miracolo della mia trasformazione morale. Compilo, dunque. Come posso correre dietro di te, se non dilaterai il mio cuore? Quante volte te n’ho pregato? E non mi stancherò di domandartelo ancora. Perché voglio seguirti nella via dell’amore e della croce. Tu sai quanta paura ho della croce. Tu conosci la mia debolezza». È chiaro che sorella Mina non si accontenta di aver accolto la vocazione, di essere suora, di portare Cristo agli altri, ma ha sete di santificazione: «Or dunque, se tu mi vuoi, come ne ho la certezza, nella via più alta dell’amore, rivestimi della tua forza. Rivestimi di te, o mio Signore diletto, come hai rivestito i tuoi santi. Perché tanto tardi a rivelarti nell’anima mia? Eppure lo sai che ti aspetto e ti cerco». E da queste parole rileviamo tutta la sua umiltà: « Sono cattiva, è vero, sono l’ultima delle tue spose, ma tu mi hai chiamato e io sono venuta qui per te, per te solo». Poi osa domandare a Cristo: «Signore Gesù, mostrami il Padre! Fino a quando mi lascerai nella oscurità, in cerca di una via, la via che tu mi hai segnata, e che mi deve condurre a te? Quando mi riempirai di Te e mi sazierai?». Infine la speranza fa capolino. Anche nei momenti più bui Gian Paola si rialza con vigore: «Signore, fa ciò che vuoi. Io ti amo, io sono sicura che tu verrai e mi aprirai gli occhi dell’anima ed io conoscerò che cosa racchiuda il nome di Dio. Io t’aspetterò senza stancarmi con la mia piccola lampada accesa. Questo ti dico oggi, alla soglia di un nuovo anno. Sarà tutto per te, nella ricerca di te». Sente di doversi sforzare di vivere sotto lo sguardo di Dio, con l’amore semplice della sposa, cosciente di avere su di sé gli occhi dello Sposo e desiderosa di acquistare purezza di cuore e libertà di spirito. S’impone non solo di smussare, ma anche di evitare le angolosità del suo carattere e indirizzare tutto a Dio. Già nell’ottobre dello stesso anno Gian Paola ha superato turbamenti, oscurità di pensiero e di anima precedenti: «Signore, ora finalmente posso guardare e vedere nella tua luce l’anima mia, posso guardare indietro e cercare di vedere ciò che tra te e l’anima mia è passato in quest’anno. Un senso di meraviglia, di gioia, di riconoscenza mi invade, poiché vedo chiaramente ciò che hai operato in me, vedo l’abbondanza di grazia di cui mi hai colmato e doni di luce che a tratti, ma intensamente, hai irradiato nella mia anima». Quando la grazia arriva è travolgente e invade l’anima della creatura rapita, creatura che dapprima si sente abbandonata, come chi è innamorato, ma non è corrisposto e poi viene avvolto dall’amore Infinito e trova la pienezza. «Potrò io specificare», afferma ancora suor Gian Paola in quell’ottobre del 1944, «e catalogare i tuoi doni. E chi mai può penetrare appieno in essi? È stato un anno duro. Qualche volta m’è parso di non poterne più, che tu fossi tanto lontano ed io impegnata in una lotta senza speranza di vittoria. Ogni giorno più povera e cattiva». Talvolta si era fermata e si era lasciata andare alle lacrime. «Ma nessuno ha saputo mai ciò che passava nell’anima mia, il torchio da cui ero premuta; tu solo sapevi. Come sono felice ora nel pensare che anche in quei momenti, fra le lacrime, a denti stretti stretti e con solo uno sforzo di volontà ti ho ripetuto: Signore, io credo in te, sono contenta di te, tutto ciò che fai è buono ed è bene per l’anima mia, tu sai quale cibo occorre all’anima mia. Signore, grazie di tutto». Gian Paola compie un tuffo in Dio, che lei definisce «oceano di amore» e nel dimenticare sé, emerge con maggior intensità la sua personalità, la sua vitalità, quelle potenzialità che ancora dovevano sprigionarsi. E l’incanto si fa luce di esistenza: «Come sposa a Sposo, perché sulla mia anima e sul mio corpo Egli eserciti i suoi diritti. Senza riserva. Irrevocabilmente. Patto d’amore e di fedeltà consacrato e firmato davanti a Maria, Madre di Gesù e Madre mia (Madre dello sposo e della sposa) perché renda più intima l’unione, perché la sposa non torni a galla mai più. Dimenticarmi!». Il patto d’amore, d’ora in poi sarà inscindibile e indissolubile. Generosità, apostolato, carità diventano conseguenza del suo sentirsi di Dio, «cosa sua». Passa sopra i turbamenti interiori con frequenti atti di abbandono in Dio e «dimenticanza di sé». Meticolosa come è suo uso, registra ogni mese le meditazioni maturate negli esercizi spirituali . Nell’agosto 1946 scrive: «Io mi preoccupo di determinare un proposito mentre vorrei formularne uno che dicesse così: Dimenticarmi – Andare fino in fondo… Penso pure che un giorno, al posto di scrivere il nome di una virtù da raggiungere ogni mese sul libretto dei propositi, mi piacerebbe scrivere il nome del Maestro delle virtù: il Signore Gesù! Ci vorrà tanto cammino ancora? Sono senza guida, non so aprirmi con nessuno: mi conduca lui Gesù dove vuole! Ad Patrem». Gian Paola come non si accontenta mai dei risultati ottenuti nelle sue attività, così non si siede di fronte ai traguardi spirituali e pretende sempre più dalla sua anima assetata di amore. Nell’ottobre 1946 scopriamo che il pensiero della carmelitana Elisabetta della Trinità (1880-1906), la beata innamorata di Dio Trino, risponde «così bene alle mie aspirazioni» e dunque «tutte le corde dell’anima mia, possono vibrare all’unisono ad ogni tocco della Mano Divina». Vuole combattere «a spada tratta» contro l’orgoglio, umiliarsi internamente, riducendo ogni sentimento di vana compiacenza e «andare fino in fondo nel sacrificio del cuore» e addirittura «rompere la mia volontà» per essere a disposizione di tutti, sforzandosi di agire «non sotto lo sguardo delle creature, ma sotto lo sguardo del Diletto». Tuttavia nell’ottobre 1947 ci pare di scorgere un salto di qualità, ora tutti i suoi sforzi e tutti i suoi propositi convergono su un punto, diventare cioè stulta propter Christus: «Allo stato attuale della mia anima impigliata in un vano raziocinare mi pare che ciò sia il perfezionamento di quel “dimenticarsi” programmatico della mia vita spirituale da qualche anno. Sento di essere ad una svolta decisiva della mia vita… Diventare “stolta per Cristo” sarebbe la mia resa a Lui, per amore. … Oh se potessi essere semplice e piccola come una bimba, la vita sarebbe ancora facile e bella come un tempo! Devo diventarlo: devo innamorarmi così di Colui che mi ama, da essere pronta anche a questo: diventare stolta, rinunciando alla mia personalità, alla mia facoltà di raziocinio, ad ogni lume umano». E così in quel 1947 comprende che, quando l’assalgono ondate interne di ribellione o la mente si perde in ragionamenti troppo umani a «fil di logica», deve porsi davanti a Dio nell’atteggiamento del bimbo che non sa o «in quello della sposa che ama e che crede». La sua maturità di trentenne la disturba: gli arabeschi del pensiero della sua fervida e attiva intelligenza la portano a farsi troppe domande e a volte il suo sorriso nasconde il turbamento di chi prende sul serio la vita: «Chi intravede ciò che passa dentro di me?» si domanda nel dicembre 1947, «Chi può scrutare l’abisso che si nasconde dietro uno scherzo o una frase buttata là come per gioco? Ma non è un gioco, no, il mistero della mia vita. È un tormento. Guai se continuo a scrutarmi con occhio umano! Dio, Dio della mia giovinezza, discendi ancora, rivolgiti ancora verso di me, come un tempo. È una pazzia la santità, è una pazzia il tuo amore, è una pazzia credere al tuo Vangelo? Ebbene, sarò pazza, ma voglio credere e amare fino alla fine [sottolineato]… Ego stulta propter Christum!». Allora Gian Paola aveva l’intenzione di farsi santa? A noi pare di sì per quella adesione alla pazzia di cui parla, per quella passione con la quale si rivolge al Padre. La sua sapienza, dice, è la sua stoltezza. Nel luglio del 1948 la luce di Dio largheggia su di lei e le ha «aperto i pascoli delle scritture» ed «Egli mi possiede e io lo possiedo. Non credevo fosse così bello avere 30 anni! È un possedere ed un essere posseduti, una stabilità nuova, calma, sicura. È inoltre la padronanza di sé, la consapevolezza di essere completa nel pensiero e nel carattere». È la sposa realizzata che parla, è l’identità pienamente trovata che si rivela a noi con la profondità di un cuore cristallino e trasparente che sale a Dio non attraverso cerebrali studi teologici, ma attraverso l’amore e i sentimenti più veri del suo umano sentire. E straripante è la sua umiltà: «Io non so se sono nella luce o nelle tenebre, se porto calore o gelo, se semino o la mia mano è vuota. Eppure il tormento della mia vita sterile, è placato nella certezza di una fecondità insondabile e vera che è oltre la carne e il sangue. La mia anima sta preparando un volto, non so ancora definirlo con una parola, o con un nome, ma sono certa di scoprirlo un giorno. Sarà il nome col quale Dio mi ha chiamato dal seno di mia madre, e in esso sarà sintetizzata la mia vocazione interiore e apostolica». Voleva giudicare cose e avvenimenti nella luce di Dio. Il 24 giugno 1949 (a cinque mesi dalla professione perpetua) la Madre Generale comunica a suor Gian Paola che è destinata alla Missione e nel suo taccuino spirituale lei comunica tre pensieri che le danno fiducia: è la festa del Sacro cuore e «A me che sono il minimo, è stata data la grazia di evangelizzare alle genti il mistero di Cristo»; è la festa di san Giovanni Battista: «il Precursore la cui figura mi è stata sempre tanto cara: vox clamatis… E poi l’introito: “Dal seno di tua madre io ti ho chiamato” come la mia predestinazione». Infine «Il babbo morto: oggi è la mia festa. Mi pare che lui sia venuto tanto vicino per farmi coraggio. Sarà con me…». La partenza è ormai prossima, siamo nell’ottobre del ’49 e lei, lapidaria, annota nel mese di ottobre, con quella semplicità che illumina grandi realtà esistenziali: «Fare tutto bene: sono le ultime cose che faccio. Come se partire equivalesse a morire». Muore Rita, definitivamente, e nasce Gian Paola che salta nel buio e si affida totalmente a Dio che ha «segnato le vie, i buchi, di questo mio esilio terreno: Tu, tu, non le creature, anche se apparentemente sono esse a segnarle… Tu e tu ancora ne raccogli il pianto. Oh Padre, vederti sempre così, curvo sulla tua creatura ad ascoltarne il pianto, a numerarne le lacrime». Sa di essere accompagnata attimo per attimo e a Mojwa il 2 aprile 1950 annota sul taccuino di aver già visto la sua missione, l’ambiente, la gente, il lavoro da svolgere e con accento sagace commenta: «Al solito, Egli mi prepara prima. Buon psicologo. Egli sa che alle situazioni e richieste improvvise mi ribello. Perciò mi fa sempre vedere prima ciò che vuole, perché abbia tempo a prepararmi l’anima alla nuova prova». L’umiltà è dote perenne e sorprende quando annuncia a se stessa: «Comportarmi in modo che gli altri non abbiano soggezione ad usarmi come vogliono». È poi bellissimo ritrovare lo slancio affettivo della sua adolescenza quando scrive lo stesso giorno: «Che gioia! Ho ritrovato il Signore con la freschezza del mio primo incontro con Lui a 14 anni! Dovevo fare tanto cammino per ritrovarlo! Ma ne valeva la pena» e come chi ha trovato la felicità ha paura di perderla così invoca: «Potessi, mio Dio, non perderti mai più». Dio solo, questo il pensiero ricorrente: «Lavoro… con la strana convinzione che tutto è secondario se non si cerca Dio per primo… Basta questo per una missionaria? Ma non sono religiosa, ossia di Dio, prima di essere missionaria? Dio, Dio conducimi nella verità». È un grido il suo. Scruta e indaga nella sua anima e con insistenza, siamo nel 1951, si propone di lasciarsi «espropriare» da tutti e da tutto «anche dalla matematica e dai fagioli, dagli insetti di cui mi devo occupare» cioè delle cose alle quali non è affatto interessata. Si lascia usare e vuole lasciarsi «sciupare da Dio». Pagine e pagine di colloquio con la propria anima e di domande a Dio e indaga su di sé come l’investigatore scrupoloso.
Nell’agosto 1953 per gli esercizi spirituali di Egoji Gian Paola afferma di non sussultare più alla parola «Sposa di Cristo» e di non più parlare di «tuffi in Dio» perché «Mi pare di vivere dentro tutto questo… non mi scappa più di dire che la vita è un nonsenso, perché Dio e l’Africa le hanno dato un senso infinito». Leggere le pagine di suor Gian Paola ci pare di assistere ad uno spettacolo di un’anima appagata del suo Dio e allora non sfoglia più libri in cerca delle parole che la conducano al Padre, non interpreta più con geniali spunti la Sacra Scrittura e «mi sorprendo a dire molti Rosari mentre un tempo uno mi bastava».
Ora gli esami di coscienza non li compie più ad un’ora fissa del giorno, le servono quelli fatti camminando per la strada, la sera al buio, sotto le stelle o in classe «mentre le ragazze mi guardano e io so che mi scrutano l’anima». I propositi sono quelli di sempre: fedeltà a Dio, obbedienza, bontà, «non ne vedo altri novi» e a volte le prende il desiderio di inginocchiarsi ai piedi di un sacerdote, per sapere se è nella verità, per essere sgridata «ma in Africa queste sono cose che capitano di rado, ed è bene che sia così, perché qui tutto si invischia di gomma e ci si attacca perdutamente». Gian Paola ha raggiunto i 40 anni e a Mojwa l’8 novembre 1957 sul taccuino scrive: «…ho scoperto con gioia che la mia vita vera a cui sono chiamata è sempre quella d’unione con Lui».
Continua a credere che Dio scrive diritto su righe storte, cercando per primo il Regno di Dio e la sua giustizia perché sa che tutto il resto «vi sarà dato in soprappiù». È strano vedere come sia progressivo, a mano a mano che gli anni passano, il suo interesse per Gesù Crocifisso e si fa presente «il desiderio di appassionarmi alla Croce» perché, comprende, senza l’approfondimento di questo mistero l’apostolato avrebbe il sapore del «dilettantismo». È l’albero della croce che dà frutti veri e salutari ed è per questo che fa entrare (agosto 1962) nella sua vita la Madonna Addolorata alla quale domanda di essere da lei accompagnata sulla via del Calvario «con lei voglio soffrire, con lei crocefiggermi alla Tua croce: il grande doloroso talamo dell’Amore».
È attratta dalla croce e ciò lo notiamo in più tempi della sua vita: non aveva forse scoperto in tutto il suo valore il concetto di sacrificio e di sofferenza sperimentato da suor Irene Stefani? A mano a mano che trascorrono i decenni Gian Paola si avvicina sempre più al mistero della croce ed è per questo che la figura di Madre Teresa Fasce, la monaca agostiniana del Novecento vissuta nel monastero di Santa Rita a Cascia e innamorata della Croce (beatificata il 12 ottobre 1997), negli ultimi anni la affascina in maniera del tutto singolare. Il 6 settembre 1964 scrive che le è stato detto di recarsi a Getoro, ma la direzione di ogni cosa è stata affidata ad un’altra, non a lei, lei dovrà solo collaborare e tutto ciò, ammette, le provoca grande sofferenza: «È come aver generato una creatura desideratissima e poi non poterla portare tra le braccia… vederla in quelle di un’altra che ne farà forse una cosa diversa da quello che avevi pensato o creduto bene… A tutta prima mi sono ribellata. Mi pareva impossibile che non si capisse l’assurdità di ciò che mi si sta chiedendo… Ho pianto la mia sofferenza».
Quando è già in Italia (è il 25 marzo 1970), Gian Paola con tristezza confida l’immenso dolore provato in quell’aereo che la portava via dall’Africa e poi «che cosa terribile questo ritorno senza mamma, senza più casa – senza neppure Fausta, perché è malata… con padre Giuseppe che invecchia, Rina vicina e lontana». E da queste righe comprendiamo tutta la fatica che Gian Paola ha dovuto superare per reinserirsi in Italia, una fatica spossante, logorante. Si sente amata nell’Istituto di Torino «tutti mi vogliono bene – troppo – Ho tutto quello che voglio. Ma sono così sola, perché non so dire nulla di me. So ascoltare: non so ricambiare le confidenze… Sento che non so esprimere, senza lasciar urlare l’anima; meglio tacere». Il destino di Gian Paola è stato spesso quello di disboscare, di aprire varchi, di preparare il terreno per altri e battere vie nuove «L’eterno mio destino di battistrada, di Giovanni Battista» e la fatica del «pagare di persona» è immensa. Ma è comunque in grado di scuotersi la polvere di dosso e rinnovarsi e ringiovanire. Il suo grido d’amore si fa alto e sublime: «Mio Dio, ch’io ti ami. Che voglia di te, di te solo. Come una volta. Come sempre. Di te, il Fedele, l’immutabile, mia Roccia e Speranza!». Gian Paola ha già sessant’anni (1977) e il suo canto d’amore si fa frutto maturo, radioso come grano al sole: «Il grano della mia spiga, i chicchi dei miei giorni – 60 per 360 – finalmente unificati/frantumati perduti/ in farina pura/ servono per una piccola ostia/una povera ostia/un poco di pane» ed è bello notare come, nel suo diario di viaggio spirituale, non ci sia più il bisogno di annotare tutti i pensieri e i propositi. Passano cinque anni prima di trovare altre sue meditazioni.
Dall’anno Santo 1983 (quarantesimo di professione), si passa poi direttamente al 1987, quando esprime la sua volontà di porsi sotto il giogo del Signore «proprio in questi tempi in cui i pesi si succedono ai pesi e le spalle sono stanche. Prenderlo però con Lui, aggiogta con Lui che è il più Forte – il forte – e che porterà anche il mio peso… Nella speranza in cui devo crescere [è stanca nel fisico, ma non è mai stanca di crescere dentro] in questo mio prossimo settantennio, con gratitudine per “ciò che è stato il mio ieri”, con fede tranquilla, per ciò che è il mio “oggi”; con speranza per quello che sarà il mio “domani”, se ci sarà ancora. Non c’è del resto nulla di “mio” – Cristo solo è ieri, oggi, domani. Cristo è la nostra Pace!». Potrebbero, con tranquillità, essere le riflessioni di una suora di clausura e invece è suor Gian Paola, apostola delle genti, la missionaria impavida che ora segue la mitezza e si ripete: «Beati i miti perché possederanno la terra». L’ultimo messaggio è datato gennaio 1992. Ormai si propone programmi a termini brevi «che possano essere interrotti serenamente al suo arrivo, ad ogni ora». L’arrivo di Cristo che giunge a prendere la sua sposa innamorata e fedele.
Il mondo nuovo, di Aldous Huxley di David Ressegotti - 27/01/2011 – da http://www.libertaepersona.org/
Nell'ambito del romanzo di science fiction, si indica con il termine di distopia un determinato sotto-genere in cui l'autore immagina un tempo futuro o alternativo, solitamente frutto delle contraddizioni e dei pericoli contemporanei, in cui le peggiore paure prendono corpo e danno forma ad una società umana iniqua e anti-libertaria.
Il genere distopico, in circa un secolo di sviluppo dei temi fantascientifici, ha dato alla luce assoluti capolavori, specialmente nel mondo anglosassone: Farenheit 451 di Ray Bradbury, per esempio, o ancora il celeberrimo 1984 di Orwell (per citare solo i più noti), sono entrati a pieno titolo tra le opere che hanno segnato il '900. L'ideazione e descrizione di una distopia, peraltro, non ha lasciato indifferenti anche alcuni autori cattolici inglesi (è il caso, per esempio, de Il padrone del mondo di Benson o del divertente romanzo L'osteria volante di G.K. Chesterton).
Difficile, tuttavia, trovare fra le varie fantasie distopiche mai create una realtà tanto sorprendente e terrificante quanto quella descritta ne Il mondo nuovo di Aldous Huxley, pubblicato nel 1932 e primo vero successo editoriale di un autore originalissimo e molto controverso, uno spirito (a modo suo) profondamente religioso e precursore riconosciuto della celebre beat generation americana.
Il motivo è presto detto. Tutte le varie 'distopie' letterarie o cinematografiche hanno quasi sempre alcuni tratti in comune: viene molto spesso descritta una forma di regime totalitaria, in cui un governo rigido e pervasivo amministra il potere con brutale violenza sia fisica sia psicologica. Non è difficile riconoscere dietro quei sistemi meccanicamente perfetti di dominio la paura di una nuova tirannia di stampo hitleriano e/o staliniano (a partire, per esempio, da La svastica sul sole di P.K. Dick): l'impressione suscitata da queste terrificanti esperienze di governo autoritario continua persino oggi a lasciare il segno nella produzione distopica, in un tempo in cui simili paure sono state -grazie al Cielo!- scongiurate.
Il brave new world di Huxley, al contrario, in un certo senso oltrepassa anche quelle paure di governo dittatoriale: viene descritto una Terra in cui non c'è più scopo alla lotta politica. Nell'universo creato da Huxley lo stesso concetto di 'politica' non ha più senso: si è sviluppata infatti la perfetta rivoluzione 'psicologica' dell'umanità, e non solo quella meramente sociale. Nel “mondo nuovo” vengono dunque immaginati dei procedimenti di controllo mentale ed emotivo in grado di garantire un perfetto dominio sull'umanità: e se questo è certamente un tema ben presente anche in altre, molto celebri distopie (come quella di Orwell, per esempio), la genialità dell'autore è qui nel dare vita ad un controllo perfetto dell'umanità basato unicamente su meccanismi mentali, senza alcun bisogno di repressione violenta.
Con alcune semplici mosse, infatti, la vita dell'umanità viene incanalata in argini perfettamente ideati per negare alle persone anche solo la possibilità di sentirsi dominati.
La famiglia non esiste più: il governo si assume l'onere di programmare il numero di nascite e di immettere, grazie ad avanzate tecniche eugenetiche e “disgenetiche”, l'esatto quantitativo di essere umani necessari alla società. Questi feti vengono divisi, fin dal concepimento in vitro, in cinque categorie gerarchiche di importanza (da Alfa Plus a Epsilon Minus) e condizionati fin dall'incubazione al lavoro cui sono destinati. Particolare cura è destinata a inibire le capacità intellettuali e fisiche delle classi inferiori, in modo che siano perfettamente felici ed adatti agli incarichi più bassi – senza alcun desiderio di avanzare lungo la scala sociale.
L'educazione è uniforme, fondata sulla divisione dei ceti e impartita attraverso condizionamenti forzati dell'inconscio: le lezioni (semplici e rassicuranti) vengono inculcate nel sonno (ipnopedia) e sono ripetute fino a diventare parte integrante e inscindibile della mente dei bambini. Vengono rafforzati soprattutto i comportamenti sessualmente disinibiti, la contraccezione, il consumismo sfrenato e la passione per lo sport, e demonizzati o resi privi di senso i rapporti d'amore, le coppie stabili, la maternità, la creatività, l'amore per la natura e per la riflessione.
Tutta la terra è pacificata e riunita in un unico governo federale, diviso in dieci macro-settori senza alcun conflitto interno. Il concetto stesso di patria è inesistente: tutti gli uomini sono uniformati e del tutto uguali gli uni agli altri in ogni parte del globo. Il corpo sociale è l'unica cosa importante: ogni individuo ne deve far parte con gioia e godersi la vita senza occuparsi di politica o società. “Ognuno appartiene a tutti” è una delle principali lezioni continuamente ripetute nel sonno.
La vita si svolge infatti in una routine di lavoro leggero e privo di difficoltà, seguito da notti di vita sociale e sessuale sfrenata e da frequenti dosi di un potente allucinogeno e ansiolitico, il soma, in grado di inibire qualunque istinto violento o malinconico e qualunque cattivo pensiero. Nessuno ha mai fatto esperienza di desiderio insoddisfatto, di bisogno, di frustrazione, di malinconia o anche solo di malattia. Tutto ciò che costa fatica, infatti, non vale neppure la pena di essere inseguito: per esempio, la donna desiderata (nel raro caso in cui non si conceda immediatamente) può essere sostituita da dozzine d'altre, o da una generosa dose di buon soma. La scienza farmacologica ha fatto tali passi da gigante che a tutti è garantita giovinezza e bellezza fisica fino alla morte.
I morenti, solitamente vecchi non più di 60 anni e consumati dall'interno dall'uso di droghe e dalla vita sfrenata, vengono cremati e usati come concime: l'umanità è condizionata fin dalla tenerissima età a non temere la morte, a considerarla un atto necessario al benessere della società e a non ritenere in nessun caso una persona insostituibile. Di nessun defunto viene coltivato o ravvivato il ricordo, se non del mitico fondatore dell'ordine mondiale, il grande Ford, la cui religione (l'unica esistente) è modellata su una versione distorta del cristianesimo e basata sul massiccio uso di soma “sacro” e di canti spersonalizzanti. Le “messe” sono orge sfrenate ed anonime, basate su ritmi musicali ossessivi e su visioni allucinogene della divinità.
Stanti così le cose, chi ha bisogno di lottare per avere la libertà? La “felicità” è garantita dall'alto, e assicurata da un'intera struttura sociale che non riconosce altro valore che l'immediata soddisfazione dei sensi.
Un giovane di nome John Watson, europeo e "civile" ma nato e cresciuto per caso in una delle poche 'Riserve' non civilizzate della Terra (un Messico tribale e selvaggio), è l'esploratore e critico di questo “mondo nuovo”. Avendo trovato da bambino un'antichissima opera omnia di Shakespeare, che legge e rilegge come un testo sacro fin dalla più tenera età, John usa frequenti citazioni del Grande Bardo per descrivere e criticare questa realtà, totalmente priva di Dio, di amore e di bellezza.
Sull'altare della soddisfazione dei bisogni primari John riconosce perfettamente il sacrificio del senso del divino. Nessuno degli uomini civilizzati, infatti, è in grado anche solo di comprendere le parole che lui recita: tutte le opere d'arte dell'umanità sono andate perdute dopo la fondazione del sistema Fordiano ed oggi sono ancor meno che vietate, essendo totalmente inutili ed oscure. Persino la scienza è concepita ormai come mero sviluppo tecnologico, totalmente privata di ogni anelito di verità e di conoscenza.
Nello splendido finale, che vede John contrapporsi ad uno dei padroni di quel mondo, viene posto il bivio finale: rinunciando all'umanità, è possibile creare un sistema in cui non v'è che pace, uniformità e soddisfazione; rivendicandola, ci si estranea dalla collettività e si è destinati alla solitudine, come folli e anti-sociali. Arrendersi alla stolida e facile “felicità” dei propri simili, o “reclamare il diritto di essere infelice”?
Questa descrizione del "mondo nuovo" vi ricorda per caso qualcosa del nostro mondo occidentale? Si rimane persino terrorizzati dall'esattezza di certe tendenze descritte nel libro, isolate e portate all'estremo dal genio di Huxley nel lontano 1931 e oggi, ottant'anni dopo, così tangibili e comuni. Terrore perché, a differenza di nazismo e comunismo sovietico, questi tentativi di assicurare il benessere in cambio della rinuncia all'individualità ed alla religiosità riuniscono il peggio dei due totalitarismi; e ancora oggi (pur vestendo un manto molto più rassicurante) sono tutt'altro che sconfitti. Un mondo senza malinconia e senza paure, certo, ma solo a patto di annichilire anche la libertà, l'amore e la bellezza: ecco la peggiore delle distopie che lo scrittore inglese è stato in grado di ideare. Un mondo, cioè, dove non esiste più l'Uomo.
I personaggi descritti nel brave new world, per quanto felici possano pensare di essere, sperimentano infatti la più umiliante delle violenze e delle dominazioni: viene negato loro persino la possibilità di sentirsi schiavi. Non c'è neppure bisogno di una polizia segreta.
John infine sceglie la via più dura, e ne paga le conseguenze morendo tristemente in solitudine. Ma vivere senza fare mai esperienza della bellezza, per lui e per Huxley, è una opzione ancora peggiore della morte. Anche a patto di avere salute, pancia piena e completa libertà sessuale vita natural durante. Chissà quanti, oggi, sarebbero in grado di fare ancora la stessa scelta...
Una testimone eroica di nome Wanda di Antonio Giuliano, 27-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
«Una sera studiavo con la mia amica Nata, quando all’ingresso risuonò una voce maschile, estranea e ostile, benché parlasse polacco: “Chi di voi è Wanda?”». Iniziò proprio così nel 1941 il calvario di una diciottenne studentessa polacca di nome Wanda Poltawska. Già, perché oltre allo sterminio di milioni di ebrei, conobbero l’inferno dei lager nazisti anche tanti cattolici, come questa donna impavida che il prossimo 2 novembre compirà 90 anni.
Quella maledetta sera, la ragazza, originaria di Lublino, fu trascinata al comando della Gestapo di Cracovia e interrogata per giorni. Aveva partecipato alla Resistenza polacca contro l’invasore tedesco. Eppure nonostante le percosse e le minacce, tenne duro e non fece nessun nome dei suoi compagni. Ma per lei si aprirono le porte del baratro. Sette mesi di prigionia prima di essere caricata su un sinistro treno merci destinato al famigerato lager di Ravensbrück, lì dove i medici nazisti usavano le persone come cavie per i loro esperimenti.
Riuscì a venirne fuori dopo quasi 5 lunghissimi anni, come racconta lei stessa in un libro impressionante uscito qualche anno fa in Italia (Edizioni dell’Orso) e ora riproposto dalla San Paolo. Il titolo parla da sè: “E ho paura dei miei sogni” (pp. 254, euro 16). Chi non ha vissuto l’esperienza traumatica di un campo di concentramento non potrà mai capire come si possa aver paura dei propri sogni. Solo Wanda Poltawska può testimoniare le notti insonni seguite al suo ritorno a casa nel 1945.
«Già dalla prima notte provai qualcosa di terribile - spiega nel testo -. Giorno dopo giorno, o meglio notte dopo notte, sognai di Ravensbrück. I sogni assunsero una vivezza e una plasticità inafferrabile, al punto che non potevo distinguere se si trattasse di un sogno o della prosecuzione del lager». Seguì allora il consiglio di una sua vecchia insegnante e affidò alla scrittura il compito di liberarla dagli incubi: avrebbe provato a raccontare ciò che aveva vissuto. L’idea funzionò, smise di sognare. Ma chiuse i manoscritti in un cassetto.
Soltanto dopo molti anni acconsentì alla pubblicazione. Troppe le cicatrici che rimarranno incancellabili. E quelle pagine sono pugni nello stomaco. Sin dall’arrivo nel campo. «Eravamo destinate a morire. Le nostre sorveglianti ci picchiavano a sangue. Fummo spogliate nude, ci diedero dei vestiti a righe, ci raparono a zero, volevano distruggere la nostra personalità». Poi i lavori pesanti, fino allo sfinimento: «Ricordo di aver portato sulle mie spalle 80 chili di cemento salendo scale strette fino al soffitto di una casa a due piani: mi sentivo morire ma non potevo far cadere quel peso perché dietro di me c’era un’altra prigioniera e l’avrei uccisa... Dovevamo spalare sabbia. Avevamo accanto le sorveglianti con terribili cani che ringhiavano minacciosi appena una di noi si riposava un poco».
Non c’era sosta al tormento: «Tornavamo dal lavoro con le mani gonfie, le ossa rotte. Ci buttavamo sulle brande e dopo un’ora suonava la sirena e dovevamo alzarci per gli appelli. Ritornavamo nel dormitorio e dopo un’altra ora ancora la sirena per l’appello. Non si riusciva a chiudere occhio. La stanchezza era enorme. A volte, durante gli appelli, si dormiva in piedi, a occhi aperti, e qualcuna cadeva a terra tramortita e veniva presa a bastonate. La fame era più forte del desiderio di dormire. Eravamo magre come scheletri».
Nel dormitorio si gelava, nelle baracche di lavoro il caldo era asfissiante. Ma più di ogni altro patimento era temuto il padiglione dell’infermeria. Qui i prigionieri arrivavano in piedi e ritornavano spesso su una sedia a rotelle. Bastava un’iniezione degli infermieri nazisti per perdere coscienza e ritrovarsi con le gambe ingessate. Gli interventi chirurgici si ripetevano a intervalli di tempo regolare e lasciavano ferite aperte pronte a tradursi in infezioni.
Wanda Poltawska pur fiaccata dagli “esperimenti” si trascinava ogni volta dalle compagne più sofferenti per consolarle. Rimase immutata la sua fiducia nell’uomo: «Non provavo odio e neanche adesso lo provo. Cosa vedevo in quei tedeschi? Li guardavo e cercavo in loro le persone».
C’era da impazzire e quando tutto finì ci vollero diversi anni per ricominciare a vivere. Ma riuscì a superare i traumi laureandosi in medicina e specializzandosi in psichiatria. E se la scrittura riuscì a lenire il dolore, quando ritornò a casa molto le giovò l’incontro con un giovane prete polacco: Karol Wojtyla. A lui confidò le sofferenze indicibili e l’amicizia profonda che si creò tra di loro proseguì anche durante gli anni di pontificato di Giovanni Paolo II. Insieme fondarono l’Accademia per la vita di Cracovia, per sostenere le ragazze che sceglievano di non abortire.
E Wojtyla che la chiamava affettuosamente “dusia”, sorellina, la volle con sé a Roma. Sul legame profondo che li univa l’anno scorso è uscito anche Diario di un’amicizia (San Paolo, 24 euro) in cui Wanda Poltawska rivela un prodigio: nel 1962 si ammalò gravemente. Don Karol scrisse a padre Pio di pregare per lei e il tumore sparì. Woytyla che pure aveva conosciuto gli orrori della guerra, condivideva nell’intimo le sofferenze che aveva patito la sua migliore amica.
Lo rivelò in una lettera del 1978: «A me Dio ha risparmiato quella prova, perché lei è stata lì. Si può dire che questa convinzione fosse “irrazionale”, tuttavia essa è sempre stata in me, e continua a rimanerci». Così come non si spiega razionalmente la forza interiore di questa donna testimone dell’abisso del male. Scrive Wanda Poltawska: «Non ho mai perduto la fede nel fatto che l’uomo è creatura divina, capace di azioni eroiche; ma Ravensbrück mi ha anche insegnato che l’uomo non è automaticamente un’immagine di Dio, che deve anzi lavorare per essere tale».
«L'annuncio della Verità non è per condannare» - di Angelo Bagnasco*, 27-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
Pubblichiamo alcuni passaggi dell'omelia pronunciata questa mattina dal cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale Italiana (Cei) durante la messa celebrata al Consiglio Permanente della Cei, che si è chiuso oggi ad Ancona.
Cari Amici,
sappiamo che per essere lucerna della Luce dobbiamo stare accanto alla Luce, lasciarla entrare in noi perché invada la nostra anima anche se dovessimo sentirne dolore, e così, illuminati, illuminare. Siamo sospinti ad intensificare la nostra vita spirituale, e quanto più le responsabilità e i compiti pastorali ci inseguono, tanto più sentiamo il bisogno di dimorare nella luce perché la luce, che è Cristo, ci abiti e ci custodisca. In questa imprescindibile missione, siamo anche incoraggiati a non avere paura, paura delle possibili incomprensioni, delle critiche: ce lo testimonia nel suo Magistero e nella guida pastorale il Papa Benedetto XVI, che segue con puntualità e affetto grandi la Chiesa che è in Italia, noi Vescovi, i sacerdoti, le nostre Comunità. Sì, ci insegna l’umiltà del tratto, la chiarezza disarmata della verità, la sapienza lucida del dialogo, la prudenza ardita dei gesti, la libertà di fronte al mondo, il coraggio che deriva dal sapersi nelle mani di Dio.
Ma c’è una seconda parola che vorremmo brevemente richiamare: “Con la stessa misura con la quale misurate, sarete misurati anche voi”. Forse il ministero della verità che illumina viene ridimensionato con queste parole? Forse dobbiamo commisurare la verità evangelica sul piccolo metro delle nostre forze o delle nostre personali coerenze? Sappiamo che non è questo lo scopo del Maestro: si tratta, infatti, di restare fedeli alla Luce, alla Verità tutta intera, con le sue altezze esigenti e affascinanti, con i suoi richiami inderogabili, ma senza mai scoraggiare o, peggio, condannare l’uomo, rinchiudendolo nelle sue prigioni interiori, privandolo del futuro. Come sacerdoti che hanno la grazia di essere ministri della riconciliazione, sappiamo che le anime desiderano avere indicate le mete sublimi e senza sconti della vita cristiana, riconoscere i propri peccati, rinnovare il cammino della conversione; ma nel contempo sono, come tutti, mendicanti di misericordia e di fiducia, chiedono di essere rassicurate circa la forza della grazia, la fedeltà di Dio, l’amore di Cristo, la maternità della Chiesa.
Testo integrale dell’omelia
Luce e lucerna
27-01-2011
Cari Confratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato
Cari Fratelli e Sorelle nel Signore
Tutto parte dall’Eucaristia e tutto vi ritorna: i giorni di lavoro del nostro Consiglio Permanente trovano in questa Celebrazione il punto più alto. Ogni nostra parola, infatti, come ogni decisione e speranza, qui trovano sintesi ed efficacia, perché maturate nel clima della fede, nella fraternità episcopale, nella comunione con il Santo Padre, nel desiderio e nel dovere di servire le nostre Chiese e il Paese. Abbiamo la grazia di concludere il nostro lavoro in questa splendida cattedrale, e vogliamo ringraziare il Pastore di questa Arcidiocesi, S. E. mons. E. Menichelli per la fraterna ospitalità e per l’intensa preparazione al Congresso Eucaristico Nazionale. Insieme a lui, rivolgiamo il nostro grato saluto ai suoi collaboratori e ai Delegati qui giunti da molte Diocesi italiane.
In quanto Pastori, siamo richiesti di mantenere la professione della nostra speranza senza vacillare, come raccomanda la Lettera agli Ebrei. E noi questo lo facciamo con l’aiuto della grazia che mai tradisce, guardando al Ministero di Pietro, e stimolandoci a vicenda nella carità evangelica, sorgente di ogni bene. Siamo così sollecitati a rispondere all’attesa non solo della comunità cattolica, ma anche dell’intera società che esige da noi – nonostante limiti e debolezze – le parole che echeggiano quelle del Signore, che sono testimoniate da duemila anni di storia cristiana, che sono bagnate dal sangue dei martiri di ieri e di oggi.
La divina Eucaristia, cuore della vita e della missione della Chiesa, invera il nostro dire e feconda la nostra ansia pastorale, introduce le nostre umili persone nella Liturgia del Cielo: tutto purifica e restituisce come gesto d’amore.
Ma sopra le nostre parole, risuona la Parola, il Verbo di Dio fatto carne. Egli è il Maestro e il Pastore grande delle anime, e noi siamo consapevoli - per diuturna esperienza – che solo nella assiduità alla sua scuola, come discepoli docili e amorosi, potremo essere a nostra volta eco del supremo Maestro, potremo essere voce della Parola che salva. Per questo sentiamo gli insegnamenti che il Vangelo rivolge a noi oggi con particolare vigore e con specialissimo affetto.
1. “Si porta forse la lampada per metterla sotto il moggio o sotto il letto? O non piuttosto per metterla sul lucerniere?”. Ci accorgiamo che l’immagine parla di noi e disegna il nostro ministero. Al riguardo, ci viene in aiuto San Tommaso quando ricorda che la luce non ha valore solo perché brilla nelle tenebre, ma soprattutto perché illumina. Se per un verso siamo chiamati ad essere luminosi e a risplendere, per l’altro siamo richiamati e sospinti perché la luce del nostro sacerdozio sia a servizio del mondo, si ponga in relazione con i molti ambiti della vita, e illumini circa le perenni questioni: il mistero del dolore e della morte, il senso del nostro esistere, il destino di ciascuno, la meta di questo straordinario e drammatico universo, il bene e il male morale. Tutto ciò fa parte dell’enigma di fondo – come ricorda il Concilio Vaticano II – quello che ogni uomo è per se stesso, enigma che può anche essere rimosso dalla coscienza personale e collettiva, ma che prima o poi ritorna incomprimibile con tutta la sua implacabile forza.
Ed è qui, nelle pieghe profonde di questo mondo interiore che si vorrebbe esorcizzare da parte di una cultura nichilista ridente e triste, che il Maestro ci ha inviato come i suoi primi Apostoli, per portare la luce della redenzione e della speranza. E noi ci siamo messi in cammino, sorpresi e grati fino alle lacrime per questa elezione frutto della sola liberalità di Dio; ci siamo incamminati sapendo che la luce deposta nelle nostre fragili mani non potevamo tenerla nascosta, ma dovevamo viverne per esserne lucerna benefica. Cari Amici, sappiamo che per essere lucerna della Luce dobbiamo stare accanto alla Luce, lasciarla entrare in noi perché invada la nostra anima anche se dovessimo sentirne dolore, e così, illuminati, illuminare. Siamo sospinti ad intensificare la nostra vita spirituale, e quanto più le responsabilità e i compiti pastorali ci inseguono, tanto più sentiamo il bisogno di dimorare nella luce perché la luce, che è Cristo, ci abiti e ci custodisca. In questa imprescindibile missione, siamo anche incoraggiati a non avere paura, paura delle possibili incomprensioni, delle critiche: ce lo testimonia nel suo Magistero e nella guida pastorale il Papa Benedetto XVI, che segue con puntualità e affetto grandi la Chiesa che è in Italia, noi Vescovi, i sacerdoti, le nostre Comunità. Sì, ci insegna l’umiltà del tratto, la chiarezza disarmata della verità, la sapienza lucida del dialogo, la prudenza ardita dei gesti, la libertà di fronte al mondo, il coraggio che deriva dal sapersi nelle mani di Dio.
2. Ma c’è una seconda parola che vorremmo brevemente richiamare: “Con la stessa misura con la quale misurate, sarete misurati anche voi”. Forse il ministero della verità che illumina viene ridimensionato con queste parole? Forse dobbiamo commisurare la verità evangelica sul piccolo metro delle nostre forze o delle nostre personali coerenze? Sappiamo che non è questo lo scopo del Maestro: si tratta, infatti, di restare fedeli alla Luce, alla Verità tutta intera, con le sue altezze esigenti e affascinanti, con i suoi richiami inderogabili, ma senza mai scoraggiare o, peggio, condannare l’uomo, rinchiudendolo nelle sue prigioni interiori, privandolo del futuro. Come sacerdoti che hanno la grazia di essere ministri della riconciliazione, sappiamo che le anime desiderano avere indicate le mete sublimi e senza sconti della vita cristiana, riconoscere i propri peccati, rinnovare il cammino della conversione; ma nel contempo sono, come tutti, mendicanti di misericordia e di fiducia, chiedono di essere rassicurate circa la forza della grazia, la fedeltà di Dio, l’amore di Cristo, la maternità della Chiesa.
3. Vi è, infine, una terza parola che forse suona un po’ misteriosa e che sempre sollecita la nostra meditazione: “A chi ha sarà dato, e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”. Come ben sappiamo, non basta avere i talenti e i doni dello Spirito, è necessario coltivarli. Come tutte le cose vive, non è sufficiente che ci siano, bisogna curarle. Così è per l’amore, così per la fede, così per ogni dono di grazia. In questa logica, trascurare significa perdere. E la tentazione di trascurare è alla portata di tutti. Il Santo Padre non manca di esortare tutta la Chiesa ad un’opera di rinnovamento del cuore e della vita, come il fondamento e la condizione di ogni vera riforma: ce lo insegnano nella storia innumerevoli Santi, basta pensare a san Francesco, santa Caterina, santa Teresa d’Avila…E noi, Pastori della Chiesa, siamo chiamati ad essere davanti alle nostre comunità per dare l’esempio e segnare la strada dietro a Benedetto XVI. Sì, dobbiamo tutti lottare contro l’abitudine che scolora la vita, indebolisce la ferialità del bene, rende opaca la fede, smorza la vibrazione dell’anima davanti al mistero eucaristico. Potremmo dire, che l’abitudine stanca e annoiata conduce in una nebbia indistinta che fa perdere quei doni di grazia di cui Dio riveste le anime. Dobbiamo ogni giorno rinfocolare il “si” a Colui che ci ha scelti per misericordia e rivestiti del suo sacerdozio.
Cari Amici, chiediamo al Signore Gesù, in questo giorno dedicato alla ‘memoria’ dell’Olocausto, la grazia di essere Pastori luminosi per il nostro popolo, e di indicare a tutti, sostenuti dalla Santa Vergine, la luce calda di Gesù Eucaristia.
Angelo Card. Bagnasco
Arcivescovo di Genova
Presidente della Conferenza Episcopale Italiana
«Il bene è la prima parola dell’etica»
Intervista - «Il tema delle virtù richiama all’importanza della cura di sé e della formazione del proprio essere». Parla il filosofo Antonio Da Re, di ANDREA LAVAZZA, Avvenire, 27 gennaio 2011
L a filosofia morale indaga i grandi temi dell’uomo, che riguardano tutti da vicino. Ma la specializzazione tecnica ha spesso tenuto lontana la riflessione contemporanea dall’ambito della cultura diffusa. Gettare un ponte è allora un servizio tanto più utile quanto più l’opera è salda e agevole da 'percorrere'.
Entrambe qualità del recente volume di Antonio Da Re ( Le parole dell’etica , Bruno Mondadori, pp. 216, euro 18), docente all’Università di Padova, membro del Comitato nazionale per la bioetica, filosofo stimato e autore di numerosi saggi.
Professore, parlare oggi di etica al di fuori dell’accademia sembra rimandare subito agli episodi più eclatanti di immoralità pubblica, dimenticando che c’è un discorso sull’etica il quale – da Platone a oggi – interpella ciascuno nei propri costumi e nelle proprie abitudini di vita.
Quali sono allora le parole dell’etica che dobbiamo cominciare a rivalutare?
«Ne scelgo due tra le molte che meriterebbero di essere menzionate e che vengono approfondite nel volume: bene e virtù. Ai miei studenti sono solito dire, quasi a mo’ di slogan, che la prima parola dell’etica non è il dovere, la norma o l’obbligazione. La prima parola è il bene: è a partire dalla prioritaria e fondante esperienza del bene, a partire dalla nostra aspirazione alla vita buona che può trovare un’adeguata comprensione il momento espressamente normativo e obbligante, il quale pure rientra nell’esperienza etica. Il lessico delle virtù, prepotentemente riproposto dalla riflessione contemporanea, allude poi a quei tratti del carattere che attraverso l’esercizio e la ripetizione di atti dello stesso tipo danno vita ad habitus ,
ovvero a disposizioni stabili; tali disposizioni sono chiamate virtù, se gli atti sono buoni; oppure vizi, se gli atti sono cattivi. Attraverso il tema delle virtù si richiama l’attenzione sull’importanza della cura di sé e della formazione del proprio essere. Per me addirittura questo costituisce uno dei compiti fondamentali dell’etica ».
A tale proposito, il primo capitolo del suo libro s’intitola «Il duplice compito dell’etica ». Che cosa intende sostenere?
«Nella mia prospettiva l’etica assolve fondamentalmente a due compiti: il primo consiste nell’analisi critica e riflessiva dell’ethos , inteso come insieme di comportamenti, di modi di agire, di costumi, di consuetudini; il secondo compito ha a che vedere con la cura di sé e con la formazione dell’ethos , inteso questa volta come carattere del soggetto. Riguardo al primo compito, quello più propriamente critico, va detto che l’etica non può identificarsi con l’ethos esistente; il fatto che determinati comportamenti siano assai diffusi socialmente non comporta che essi siano anche eticamente fondati. Qui si apre una riflessione a mio parere centrale: nella società post-moderna assistiamo a un moltiplicarsi delle forme dell’ethos e a un conseguente disorientamento della coscienza morale del soggetto; e l’etica, in un simile contesto, è ancor più chiamata a un’opera di interpretazione critica».
Nel libro lei porta un esempio molto 'concreto', si direbbe quasi 'politico', ovvero l’approvazione nel 2009 del cosiddetto 'Pacchetto sicurezza' da parte del Parlamento italiano...
«In quell’occasione si sono confrontati e scontrati due tipi di ethos , quello che in nome della tutela della sicurezza pubblica imponeva ai medici, secondo la prima formulazione della legge, di denunciare i clandestini che si fossero rivolti alle strutture sanitarie per le cure; e quello, più tradizionale, risalente alla stessa etica ippocratica, che affida al medico una missione universalistica, chiedendogli di curare chiunque. Come è noto la versione finale della legge ha recepito le ragioni dei medici, esentandoli dall’obbligo della denuncia del clandestino, anche se lo stesso non si può dire per altre professioni (per esempio gli assistenti sociali). Si è trattato di un confronto-scontro a tratti molto duro tra diversi tipi di ethos ; a mio parere l’etica aveva qui il compito di mostrare la maggior pertinenza dell’ ethos ippocratico rispetto a quello che vorrebbe trasformare il medico in un poliziotto, sia pure per esigenze comprensibili di difesa della sicurezza».
Ma questo compito riflessivo dell’etica non rischia di essere troppo debole e inefficace, anche alla luce del clima deteriorato che si respira nella vita pubblica italiana?
«In effetti, la riflessività dell’etica da sola non basta. Per questo nel libro parlo di una doppia riflessività, quella dell’etica e quello del soggetto. Per rimanere all’esempio: l’ethos ippocratico non può continuare a sussistere solo confidando in un riconoscimento giuridico, che pure è rilevante; esso necessita di essere continuamente sostenuto e alimentato da significati e motivazioni personali. Per questo è fondamentale il ruolo dei soggetti singoli, della loro riflessività, della loro capacità valutativa e quindi anche della corrispondente cura di sé. Riguardo all’attualità, è desolante quanto sta emergendo in queste settimane a proposito di abitudini e stili di vita di persone investite di responsabilità pubbliche al più alto livello. Preoccupano però anche una certa qual indifferenza, un senso di assuefazione e di disincanto, che emergono nell’opinione pubblica. È l’attestazione di un vero disorientamento morale e della necessità di ricostruire un nuovo ethos , per evitare il rischio di un collasso morale».
Sembra che il dibattito accademico sia progressivamente dominato dall’approccio analitico di marca anglosassone. Come cerca di rinnovare la propria proposta un’etica cristianamente ispirata?
«Nel libro cerco di confrontarmi con la tradizione filosofico-morale dell’Europa continentale, nella quale mi sono formato, senza però dimenticare la rilevanza dell’approccio analitico. Di quest’ultimo ho cercato di valorizzare gli studi di pensatrici come Elizabeth Anscombe e Iris Murdoch, entrambe allieve di Wittgenstein, che tra l’altro sono anche credenti.
Di Murdoch per esempio sottolineo la centralità dell’'attenzione', quasi a voler dire che la vita etica richiede preliminarmente di affinare un atteggiamento di disponibilità, di ascolto e di attesa verso il reale e verso gli altri. Al contrario, l’egoismo per Murdoch spinge a rinchiudersi in se stessi, perché è 'dis-attento'. L’agire dipende quindi da come si guarda al reale. In queste prospettive teoriche si riconosce l’autonomia dell’etica, anche se opportunamente tale autonomia non è considerata come assoluta; e si riconosce l’importanza della stessa esperienza di fede, che risulta feconda sul piano dell’ispirazione e delle motivazioni personali. Una fede invece 'moralizzatrice', che in qualche misura si appiattisse sulle preoccupazioni normative dell’etica, finirebbe con il non rispettarne l’autonomia e, quel che è ancor più grave, per compromettere la valenza profetica e la dimensione di ulteriorità che le sono proprie».
La teologia secondo san Tommaso d'Aquino -In adorazione discorrendo sull'essere di Inos Biffi (©L'Osservatore Romano - 28 gennaio 2011)
Nelle attuali ricerche o, come si dice, nel dialogo sul monoteismo - riguardo al quale la fede cattolica professa l'esistenza di un solo Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo - è diffusa la discussione sull'essenza di Dio e sulla possibilità di nominarlo e quindi sul valore dei nomi che vengano attribuiti.
Quanto alla denominazione di Dio: parrebbe che nessun nome gli convenga e che nessuna idea ci si possa fare di lui, a motivo della sua trascendenza assolutamente inarrivabile e inattingibile e quindi inconcepibile dalla conoscenza umana, pena la sua riduzione ai confini e quindi ai limiti umani. Ed è come dire che di Dio non si può avere nessun concetto e che ogni concetto a suo riguardo sia destinato a essere equivoco: di Dio non si può parlare, ma solo tacere.
Ma, se questo fosse vero, la conseguenza sarebbe un'assoluta teoria dell'ateismo, nel senso che qualsiasi tentativo di raggiungere Dio sarebbe destinato al fallimento, e la stessa Rivelazione risulterebbe vana e impossibile, per l'impotenza e l'improprietà di ogni concetto o "immagine" a riferirsi a Dio.
San Tommaso ha riflettuto acutamente e ampiamente sui "Nomi di Dio", sia nel Commento al De divinis nominibus dello Pseudodionigi - uno dei testi più luminosi e vibranti dell'Angelico - sia in altre sue opere, tra cui la vasta e analitica questione 13 della Summa theologiae.
In queste ultime possiamo notare come programmatica, l'affermazione: "Noi possiamo denominare Dio a partire dalle creature, ma non in modo tale che il nome che lo significa (nomen significans ipsum) esprima la sua essenza così com'essa è (exprimat divinam essentiam secundum quod est)" (Summa theologiae, i, 13, 1, c.). Noi diciamo che "Dio non ha nome o sta al di sopra di qualsivoglia nome dal momento che la sua essenza oltrepassa ciò che di Dio possiamo comprendere con l'intelletto o significare con la voce" (Ea ratione dicitur Deus non habere nomen, vel essere supra nominationem, quia essentia eius et supra id quod de Deo intelligimus et voce significamus, ibidem, 1m).
Non ci è noto il modo di essere di Dio, ma solo il suo riflettersi in modo imperfetto nelle creature: "Così com'è, il nostro intelletto, in questa vita, non lo conosce" (intellectus noster non cognoscit eum ut est, secundum hanc vitam, ibidem, 2m). Infatti, "in questa vita noi lo conosciamo secondo quello che di lui si trova rappresentato nelle perfezioni delle creature" (ibidem, c.).
L'affermazione è ripetuta: nessun nome è in grado di esprimere perfettamente quello che Dio è (quod est Deus perfecte): "Qualsiasi nome lo significa in modo imperfetto, così come in modo imperfetto egli si trova rappresentato nelle creature" (unumquodque [nomen] imperfecte eum significat, sicut et creaturae imperfecte eum repraesentant, ibidem, 2, 1m).
In altre parole, bisogna distinguere tra "perfezioni significate" (perfectiones ipsae significatae) e "modo di significare" (modus significandi, ibidem, 3, c.).
Quanto alle "perfezioni" significate alcuni nomi convengono a Dio in senso proprio, anzi, valgono primariamente per lui - come i nomi indicanti vita, bontà, sapienza, e così via; quanto invece al "modo di significare" non gli convengono in senso proprio: noi conosciamo solo il modo con cui tali perfezioni si ritrovano e si predicano nelle creature, mentre ignoriamo "come" esse si trovino in Dio, come siano in lui la vita, la bontà, la sapienza.
In conclusione: noi non siamo in grado di oltrepassare lo schermo, il prisma creaturale per collocarci all'interno di Dio, evadendo lo spazio del mondo creato.
D'altronde in san Tommaso sono chiare due convinzioni.
La prima convinzione è che "di Dio non possiamo sapere quello che è, ma quello che non è; non siamo in grado di riflettere su come Dio sia, ma piuttosto su come non sia" (De Deo scire non possumus quid sit, sed quid non sit; non possumus considerare de Deo quomodo sit, sed potius quomodo non sit, Summa theologiae, i, 3, introduzione). Dio - ed è il pensiero di Agostino nel De verbis Domini (38, 2, 3) - "non può essere alla portata del nostro intelletto, ma il modo più perfetto di conoscerlo nello stato presente sta nel conoscere che egli è superiore a tutto ciò che il nostro intelletto è capace di concepire, per cui ci uniamo a lui come a uno sconosciuto" (Ipse non potest esse pervius intellectui nostro; sed in hoc eum perfectissime cognoscimus in statu viae quod scimus eum esse super omne id quod intellectus noster concipere potest; et sic ei quasi ignoto conjungimur, In iv Sententiarum, 49, 2, 1, 3m). Anche se la Rivelazione ci ha fatto senza dubbio conoscere Dio più pienamente (plenius), manifestandoci perfezioni e proprietà ignote alla "ragione naturale" (ratio naturalis) - si pensi al suo essere uno e trino.
Con tutto questo, la seconda convinzione di san Tommaso è che l'impossibilità di conoscere Dio univocamente, cioè nella sua essenza, non rende equivoco il nostro parlare di lui, ma lo rende analogico, inadeguato sì, ma vero e provveduto di sen- so (analogice, et non equivoce pure, neque univoce, Summa theologiae, i, 13, 5, c).
Lo pensano alcuni filosofi che, dopo aver sostenuto vanamente che il Dottor Angelico includeva Dio nell'àmbito degli enti, adesso fraintendono la dottrina sull'assoluta trascendenza divina, giungendo a concepire l'ineffabilità di Dio come una equivocità e a parlare di non-Essere di Dio.
Senza dire che una logica alternativa alla conoscenza analogica dovrebbe essere un completo silenzio su Dio, o una teologia totalmente "negativa". Che Tommaso rifiuta per affermare che "Dio si onora sì con il silenzio, non perché non si dica o non si conosca nulla di lui, ma perché, qualsiasi cosa impariamo o conosciamo di lui, ci rendiamo conto che la nostra intellezione ha fallito" (Deus honoratur silentio, non quod nihil de ipso dicatur vel inquiratur, sed quia quidquid de ipso discamus vel inquiramus, intelligimus nos ab eius comprehensione defecisse, Super Boetium de Trinitate, 2, 1, 6m): Dio sta sempre, inarrivabilmente, di là; imprendibile e impercorribile.
È la prospettiva anselmiana: Dio è il sempre "Oltre", Colui che non è disposto nella serie, neppure come il primo e il più alto, perché sta nella inconcepibilità (quo magis cogitari nequit). La teologia di Tommaso nasce dall'incessante e gioioso desiderio di comprendere Dio: desiderio che tiene vigile e impegnata la ricerca, che la nutre di speranza, in attesa della visione.
Un ultimo rilievo sul Nome divino che ha incantato l'Angelico, quello di Essere. In Dio - egli ripete - l'essenza e l'essere coincidono; "la sua essenza è il suo essere (essentia eius est suum esse)", e questo significa che egli è l'Atto puro e Perfezione illimite. Lasciando trasparire una profonda, anche se come sempre contenuta, emozione, Tommaso definirà la coincidenza tra l'essere e l'essenza di Dio una "Verità sublime" (Haec sublimis veritas, Summa contra Gentiles, i, 22, n. 10), ampiamente dimostrata con la ragione e insieme rivelata a Mosè, il quale la imparò da Dio, quando alla sua domanda si sentì rispondere che il suo nome è "Colui che è".
Qualcuno confonde il puro Essere di Dio con la staticità o una distaccata mancanza di sentimenti, per cui sente il bisogno di definirlo come essenzialmente relativo alla creatura, dotato a sua volta di mobili sentimenti, in tal modo concependo Dio a immagine dell'uomo.
È vero invece che, se Dio è l'Essere, non lo è nel modo in cui noi abbiamo l'esperienza dell'essere: egli non "è", come "siamo" noi, bensì è in modo tutto proprio, che lui solo conosce e che a noi sfugge, legati tuttora come siamo alle insuperabili restrizioni di creature.
Ma ciò non produce tristezza o risentimento; al contrario genera stupore e incontenibile ammirazione, o una specie di confusione che si risolve in adorazione, che diventa sconfinata e si confonde al pensiero che Dio in ogni istante, dal nostro intimo, ci comunica il dono dell'essere che ci fa esistere. Non è necessario aggiungere la preghiera alla teologia o anche alla filosofia dell'essere: esse sono oranti per natura loro.
Nel discorso di Benedetto XVI al Collège des Bernardins - Quel monaco che è in noi - Nella serata di giovedì 27 gennaio si svolge nel Palazzo Apostolico Lateranense la seconda delle letture teologiche dedicate a "I grandi discorsi di Benedetto XVI". Al centro del dibattito il discorso tenuto il 12 settembre 2008 a Parigi al Collège des Bernardins. Anticipiamo ampi stralci di due delle relazioni. - di Giuseppe Dalla Torre (©L'Osservatore Romano - 28 gennaio 2011)
Che il cristianesimo abbia dato un contributo fondamentale a plasmare l'identità europea e, quindi, la sua cultura, è un dato storico innegabile, che solo da posizioni ideologiche di parte può essere - come peraltro non di rado oggi accade - ignorato o addirittura negato.
In effetti tra tardo antico ed età di mezzo operano fattori che costruiscono l'identità europea: la cultura classica greco-romana, la cultura germanica, la cultura celtica, la cultura slava vengono poste nel crogiolo di fusione dato dal cristianesimo. La religione forgia la cultura del continente, base, almeno per l'Europa occidentale, della sua stessa unità politica nel medioevo. E la cultura ha le sue parole, i suoi paradigmi, i suoi valori; modula sensibilità e promuove processi intellettuali e materiali. I relativi processi sono lunghi nel tempo, ma mettono radici profonde.
Anche i modelli cambiano. Ad esempio è stato giustamente osservato da Jacques Le Goff che "l'Europa medievale inventa anche nuovi modelli culturali diversi dall'eroe guerriero e dall'oratore dell'antichità. Il primo è l'espressione della nuova religione, del cristianesimo. È il modello del santo"; ed aggiunge: "Anche quando il medioevo si allontanerà e gli ideali religiosi si andranno affievolendo, il santo rimarrà presente tra gli europei, presente nell'arte e nella letteratura, presente in un'idea di perfezione umana (ci saranno i santi laici), presente nel calendario delle feste e nella grande quantità di nomi che molti europei portano tuttora".
Nel suo affascinante discorso tenuto al Collège des Bernardins a Parigi, il 12 settembre 2008, Benedetto XVI ha richiamato un altro grande modello che il cristianesimo ha introdotto nella cultura europea, nell'atto di forgiarla, vale a dire il monachesimo. Un monachesimo diverso da quello proprio di altre esperienze, come quello tardogiudaico degli esseni, col suo dualismo tra Dio e Belial, tra luce e tenebre; come quello induista e buddista; come lo stesso monachesimo cristiano orientale, di un Antonio abate, padre degli anacoreti, dalle forme di ascesi estreme, o di un Pacomio, padre dei cenobiti, che addita la possibilità di una vita monastica comunitaria. Quello cui fa riferimento Benedetto XVI è un monachesimo nuovo, che nella scelta di una condizione di vita non ordinaria non fugge peraltro dal mondo, ma entra a trasformarlo profondamente. Come infatti annota il Papa sin dall'inizio delle proprie riflessioni, la vita dei monaci era caratterizzata dalla ricerca: "Erano alla ricerca di Dio. Dalle cose secondarie volevano passare a quelle essenziali, a ciò che, solo, è veramente importante e affidabile. Si dice che erano orientati in modo "escatologico". Ma ciò non è da intendere in senso cronologico, come se guardassero verso la fine del mondo o verso la propria morte, ma in un senso esistenziale: dietro le cose provvisorie cercavano il definitivo. Quaerere Deum".
La componente essenziale e caratteristica del monachesimo cristiano è racchiusa nel noto principio dell'ora et labora, che unisce l'orientamento alla parola, che appartiene all'essenza della ricerca dalle verità penultime alla Verità ultima, con l'orientamento al lavoro, cioè a quella peculiarità della condizione umana data dal suo coinvolgimento nell'opera di Dio nella creazione del mondo.
Il monachesimo incarna in maniera esemplare l'atteggiamento nuovo del cristianesimo nei confronti del mondo. La sua esperienza si distacca nettamente da esperienze precristiane e non cristiane alle quali solo apparentemente potrebbe assimilarsi.
Si distacca innanzitutto dall'idea della scelta monastica quale paradigma della fuga dal mondo al quale, in una prospettiva salvifica, l'uomo religioso si crede e si sente obbligato. La scelta monastica non è trascendimento della dimensione mondana, non è fuga dalle realtà create, non è annullamento della persona in un misticismo disincarnato, non è tantomeno contrapposizione dualistica di anima e di corpo, non è tensione, come nella prospettiva platonica, verso la liberazione dell'anima dalla prigione corporea. L'ora et labora di Benedetto ha costituito, nei secoli, un antidoto forte alle tentazioni che periodicamente si sono ripresentate per il cristiano: di uno spiritualismo disincarnato; di un manicheismo - nascente da una mala interpretazione di Agostino - che vede nel mondo il male da rifuggire; di un escatologismo apocalittico, che induce al disimpegno, alla rassegnazione, al terrore; di un rifiuto dall'impegno sociale e politico perché gli Stati sono percepiti solo come magna latrocinia.
Ma quella monastica si distacca da esperienze apparentemente analoghe anche sul fronte, opposto, di una escatologia tutta inframondana, di un annullamento dell'io nel mare della natura, di un eterno ritorno nelle forme più varie degli esseri viventi. Anche qui l'ora et labora di Benedetto ha costituito, nel divenire della storia, un antitodo forte contro le risorgenti tentazioni nascenti da una cattiva lettura di Tommaso, vale a dire di un regno di Dio realizzabile e da realizzare tutto qui e ora, di una funzione meramente politica del messaggio evangelico, nella prospettiva - pur condivisibile, ma non esclusiva né ultima - di una rivoluzione trasformante le strutture sociali e politiche in un senso più giusto, più sociale, più umano. Cioè, capovolgendo la nota immagine agostiniana, in un impegno a modellare la città di Dio sul paradigma della città terrena.
Come annota Benedetto XVI, "del monachesimo fa parte, insieme con la cultura della parola, una cultura del lavoro, senza la quale lo sviluppo dell'Europa, il suo ethos e la sua formazione del mondo sono impensabili". Ma aggiunge: "Questo ethos dovrebbe però includere la volontà di far sì che il lavoro e la determinazione della storia da parte dell'uomo siano un collaborare con il Creatore, prendendo da Lui la misura. Dove questa misura viene a mancare e l'uomo eleva se stesso a creatore deiforme, la formazione del mondo può facilmente trasformarsi nella sua distruzione". Dunque nel discorso aux Bernardins vi è una forte provocazione a noi europei: quella diretta a far crescere il "monaco che è in noi". Il riferimento qui non è ovviamente allo stato di vita, tra i vari possibili per i christifideles; il riferimento è ad uno spirito, ad un'idea di esperienza, ad un percorso intellettuale, ad una metodologia di ricerca. In quanto tale, l'invito sotteso al discorso parigino a far crescere "il monaco che è in noi" si rivolge non solo ai credenti, ma a tutti noi europei - che crocianamente non possiamo non dirci cristiani - come esperienza probabile, nel senso che si può provare, di una ricerca intellettuale aperta alla scoperta di Dio: quaerere Deum. In questo senso si coglie appieno l'invito, fatto dal Pontefice in altre occasioni, a sviluppare le esperienze personali e sociali nella prospettiva dell'etiamsi Deus daretur.
Centrale nell'esperienza monastica, che viene assunta a paradigma imitabile, è la parola. Nel senso che "le désir de Dieu, include l'amour des lettres, l'amore per la parola, il penetrare in tutte le sue dimensioni". E poiché "nella Parola biblica Dio è in cammino verso di noi e noi verso di Lui, bisogna imparare a penetrare nel segreto della lingua, a comprenderla nella sua struttura e nel suo modo di esprimersi". Parlando agli uomini, Dio si esprime in parole umane: dunque occorre affinare gli strumenti intellettuali e culturali per cogliere, dietro e dentro le parole umane, la Parola di Dio. In questo senso, fa notare Benedetto XVI, "il monastero serve alla eruditio, alla formazione e all'erudizione dell'uomo - una formazione con l'obbiettivo ultimo che l'uomo impari a servire Dio. Ma questo comporta proprio anche la formazione della ragione, l'erudizione, in base alla quale l'uomo impara a percepire, in mezzo alle parole, la Parola".
Ma il monachesimo può dirci ancora qualcosa? Può ancora oggi, nella nostra società tecnologicamente raffinata e disincantata dalla secolarizzazione, costituire per tutti, credenti ed in ricerca, un modello ancora proponibile? Può offrire ragioni di speranza e rimedi allo scetticismo, alla rassegnazione o al disimpegno?
Attraverso il paradigma del monachesimo cristiano Benedetto XVI indica una via possibile per l'oggi, con quanto c'è di diverso dal passato, ma anche con quanto c'è di analogo; con quanto, meglio, è proprio sempre, per tutti e dappertutto, della condizione umana. Una via possibile a chi è credente e a chi non lo è, dunque, giacché si tratta di non di mortificare l'intelligenza e la ragione, ma di stimolarle a cogliere la struttura interna dell'intera creazione, con le sue leggi intrinseche immesse da Dio creatore e ordinatore.
Ma il Papa mette in guardia contro due pericoli, che possono allontanare dal paradigma proposto. Il primo è quello dell'individualismo, dell'arbitrio individuale, che se dal punto di vista soggettivo non tiene conto della naturale struttura relazionale propria dell'uomo, dal punto di vista oggettivo non tiene conto del legame che deriva da una ragione che, purificata, conosce la verità oggettiva; così come ignora e prescinde dal legame che deriva dall'amore.
L'altro pericolo è quello del fondamentalismo. Si tratta di un pericolo rispetto al quale siamo più avvertiti e sensibili: ma, dobbiamo riconoscerlo, essenzialmente nella misura in cui riguarda l'esterno; cioè verso quelle manifestazioni che vengono da realtà culturali ed esperienze religiose estranee alla nostra tradizione. Per noi, oggi, il fondamentalismo coincide essenzialmente con l'islam.
In realtà anche nel nostro interno, dentro la nostra civiltà così come s'è storicamente sviluppata, nelle derive moderne del processo di secolarizzazione, a fronte di un apparente trionfo della tolleranza come virtù, cioè dell'affermarsi dell'idea relativistica della dignità di ogni posizione, si riscontra spesso la sostanza di nuove forme di fanatismo fondamentalista. In configurazioni nuove, sono riapparsi gli idola fori, nei cui confronti è richiesto in maniera intransigente l'omaggio cultuale. Anche qui si ripropone quella tensione tra legame e libertà, che ha segnato l'esperienza monastica e ha plasmato profondamente la cultura occidentale, e che è data dal binomio "intelletto" ed "amore". "Sarebbe fatale - ammonisce conclusivamente Benedetto XVI -, se la cultura europea di oggi potesse comprendere la libertà solo come la mancanza totale di legami e con ciò favorisse inevitabilmente il fanatismo e l'arbitrio", perché "mancanza di legame e arbitrio non sono la libertà ma la sua distruzione".
Negli inni sulla perla di sant'Efrem il Siro - La rivelazione trasparente dei misteri di Manuel Nin (©L'Osservatore Romano - 28 gennaio 2011)
Le Chiese di tradizione siriaca e quelle di tradizione bizantina celebrano il 28 gennaio la festa di sant'Efrem il Siro, teologo morto nell'anno 373 che, a partire dalla Sacra Scrittura, riflette poeticamente sul mistero della redenzione. Riflessione teologica svolta con immagini e simboli presi dalla natura, dalla vita quotidiana e dalla Bibbia in inni per la liturgia di carattere didattico. Attraverso questi componimenti, strumento catechetico estremamente efficace, Efrem diffondeva, in occasione delle feste liturgiche, la dottrina della Chiesa.
Negli 87 Inni sulla fede ve ne sono cinque "sulla perla", dove Efrem contempla i diversi aspetti del mistero di Cristo, della Chiesa, dei sacramenti e del cristiano. La perla è segno del mistero di Dio che sfugge a un unico sguardo: "Un giorno, fratelli miei, presi una perla: vidi in essa i simboli che si riferiscono al Regno, le immagini e le figure della grandezza (divina). Divenne una fonte, dalla quale bevvi i simboli del Figlio. La posi, miei fratelli, sul palmo della mia mano, per poterla esaminare. Mi misi a osservarla da un lato: aveva un solo aspetto da tutti i lati. Così è la ricerca del Figlio, imperscrutabile, poiché essa è tutta luce. Nella sua limpidezza, io vidi il Limpido, che non diventa opaco. E, nella sua purezza, il simbolo grande del corpo di nostro Signore, che è puro. Nella sua indivisibilità, io vidi la verità, che è indivisibile".
Gli inni sulla perla di Efrem sono sicuramente i testi in cui viene messa in luce in modo più evidente l'abilità e la profondità poetica del diacono siriaco. I testi sono composti per la recita o per il canto, con l'indicazione per ognuno di un versetto responsoriale e di un tono musicale, certo ben conosciuti dal suo uditorio. I componimenti nascono da una meditazione sulla Sacra Scrittura, ma anche dall'osservazione di ogni aspetto della realtà creata. Efrem accosta così la nascita e la formazione della perla con la natività di Cristo: la prima nel seno dell'ostrica, senza essere né tagliata né modellata; Cristo - generato eternamente nel seno, del Padre e dunque non creato - nel seno di Maria.
Efrem paragona poi la perla, trapassata e appesa in un gioiello all'orecchio e che splende nella sua bellezza, a Cristo che, trapassato dai chiodi ed appeso alla croce, splende di bellezza unica: "La tua natura assomiglia all'agnello silenzioso. Nella sua mansuetudine! Se uno la perforasse la sollevasse e l'appendesse all'orecchio, come Golgota, ancor più getterebbe tutti i suoi raggi su quelli che la contemplano. Nella tua bellezza è dipinta la bellezza del Figlio, che rivestì la sofferenza. I chiodi lo trapassarono; una punta ti ha trapassato, perché anche te perforarono, o perla, come le sue mani".
La perla che esce dal mare e viene sulla terra, è simbolo di Cristo che lascia il seno del Padre e viene ad abitare in mezzo agli uomini: "O figlia delle acque, che hai lasciato il mare nel quale eri nata, per salire sulla terra asciutta in cui sei amata. Gli uomini ti hanno avuto in gran conto, ti hanno preso e si sono adornati di te. Così è anche per il Figlio che i popoli hanno amato teneramente, di cui si sono coronati".
La contemplazione del mistero di Dio suppone per Efrem l'adorazione e la contemplazione, non una ricerca fine a se stessa o che allontani dalla verità sul mistero di Dio e dell'uomo. Il poeta dà poi voce alla perla stessa: "Figlia io sono del mare immenso, e più vasto di quel mare dal quale sono risalita. Grande è il tesoro di simboli, che è nel mio seno: Scruta il mare, ma non scrutare il Signore del mare!". Con un retroterra chiaramente battesimale, Efrem mette in evidenza il fatto che, per prendere la perla, cioè per ottenere la fede, bisogna che l'uomo si spogli e si faccia povero: "Uomini spogliati si tuffarono, estraendoti dal mare, o perla! Non i re ti donarono per primi agli uomini, ma gli spogliati: simbolo dei poveri, dei pescatori e dei galilei. Non avrebbero potuto infatti, coi corpi vestiti, venire fino a te. Giunsero poiché si erano spogliati come bimbi appena nati; seppellirono i loro corpi e discesero fino a te: e tu sei andata loro incontro con gioia, e in loro hai cercato rifugio, tanto ti hanno amato!".
Efrem ancora allude ai predicatori del vangelo: "I poveri pescatori le aprirono, traendo fuori e mostrando la nuova ricchezza in mezzo ai mercanti. Nella palma della mano di uomini ti posero come una medicina di vita. Gli apostoli del simbolo videro la tua risurrezione sulla riva del mare. E sulla riva del lago, gli apostoli di verità videro la risurrezione del Figlio del tuo Creatore".
Gli Inni sulla perla rispecchiano chiaramente la teologia di Efrem, per il quale il cammino verso il mistero di Dio non sono le sottili disquisizioni, bensì la rivelazione trasparente dei misteri. "E pur volendo chiedere se ha ancora altri simboli, la perla non ha bocca, perché io possa ascoltarla, e neppure orecchie, perché possa ascoltarmi. O perla, priva di sensi, presso cui ho acquisito sensi del tutto nuovi".
Al servizio della libertà di Cristo. Massimo Introvigne, neo-eletto Rappresentante dell'OSCE per la lotta alla discriminazione contro i cristiani, spiega le principali minacce alla libertà religiosa nel mondo. - 26-01-2011 - di Omar Ebrahime, da http://www.vanthuanobservatory.org
Dopo l'europarlamentare Mario Mauro, che l'aveva ricoperto nel corso dell'ultimo anno, l'incarico di Rappresentante OSCE [l'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa] per la lotta “contro il razzismo, la xenofobia e la discriminazione con un'attenzione particolare alla discriminazione contro i cristiani” è stato affidato ancora una volta ad un italiano: si tratta di Massimo Introvigne, sociologo delle religioni, fondatore e direttore del CESNUR, il Centro Studi sulle Nuove Religioni che ha sede a Torino. Vita Nuova lo ha intervistato all'indomani del suo insediamento per saperne di più sulle tante discriminazioni che colpiscono la fede nel mondo e sulla strategia d'intervento che l'OSCE, la più importante organizzazione internazionale nel campo della sicurezza e della promozione dei diritti umani dopo l'ONU, si propone di perseguire nelle diverse aree interessate nel corso del 2011.
Dopo che gli ultimi mesi del 2010 avevano fatto registrare una recrudescenza preoccupante negli episodi di violenza verso le minoranze cristiane un po' ovunque nel mondo, soprattutto nel Medio Oriente, nell'Africa Centrale e in molti Paesi dell'Asia come la Cina, l'India e il Pakistan, sembra che finalmente la comunità internazionale stia prendendo atto che esiste una persecuzione mondiale che colpisce i cristiani, per il semplice fatto di essere tali, una vera e propria “cristianofobia” per usare le parole del giurista statunitense Joseph Weiler che per primo ha coniato questa evocativa espressione: è l'inizio di una nuova consapevolezza da parte delle organizzazioni internazionali?
Il fatto che l'OSCE abbia istituito l'ufficio di un Rappresentante per la lotta alla discriminazione contro i cristiani, che si affianca a quelli dei due Rappresentanti per la lotta contro l'antisemitismo e contro l'islamofobia rappresenta un successo della diplomazia della Santa Sede e di quei governi, come l'attuale governo italiano, che l'hanno intelligentemente affiancata. Detto con tutta franchezza, la nomina di un cattolico italiano come il sottoscritto a questo ruolo di Rappresentante è un altro successo delle stesse diplomazie. Le difficoltà e le opposizioni certo non mancheranno ma un cambio di passo, indubbiamente, c'è stato. Anche perchè la persecuzione è un dato incontrovertibile ed evidente. Fonti molto diverse concordano sul fatto che il 75% degli episodi di violenza e discriminazione contro gruppi religiosi vede come vittime i cristiani. E' certamente giusto segnalare anche altre persecuzioni e discriminazioni, ma è paradoosale che proprio le vittime più numerose, i cristiani, siano quelle di cui la grande stampa internazionale parla di meno.
In occasione del recente Messaggio per Giornata della Pace e ancora nel discorso del 10 gennaio al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, il Santo Padre ha rivolto alla comunità internazionale un vero e proprio grido di aiuto, richiamando tutte le situazioni di sofferenza che vedono oggi come oggetto i cristiani e non tralasciando praticamente nessun Paese. Dal suo nuovo osservatorio come vede la situazione? che cosa può fare concretamente l'OSCE?
Sono molto grato al Papa per avere indicato, specialmente nel suo discorso del 10 gennaio, un'agenda precisa. Nei limiti delle mie possibilità e capacità, e del necessario coordinamento con gli altri organi e Rappresentanti dell'OSCE, cercherò di fare mia questa agenda. Direi che il Papa ha indicato cinque rischi per la libertà religiosa: il primo riguarda un possibile equivoco su che cosa la libertà religiosa esattamente sia. Richiamando il Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, il Papa allude a discussioni che esistono anche all'interno della Chiesa sulla corretta interpretazione della dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965). La libertà religiosa è stata spesso confusa con il relativismo, cioè con la tesi che non esista una verità e che la scelta di una religione o un'altra sia più o meno indifferente. Mentre, come lo stesso Benedetto XVI ha richiamato nell'enciclica Caritas in Veritate al n. 55, “la libertà religiosa non significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte le religioni siano uguali”. D'altronde, il timore che la libertà di religione porti con sé il relativismo, magari quello sempre più aggressivo che si manifesta oggi in Occidente, è la prima ragione per cui Paesi con una forte identità religiosa islamica, indù o buddhista resistono all'applicazione delle convenzioni internazionali in materia di libertà religiosa. Vanno convinti che non è così e che la libertà religiosa e la denuncia della “dittatura del relativismo” (per usare sempre le parole del Papa) possono e dovono coesistere. Il secondo rischio è quello che vede protagonista l'Islam ultra-fondamentalista nel tentativo di porre fine all'esistenza bimillenaria di comunità cristiane nel vicino Oriente, ricorrendo anche al terrorismo. In alcuni Paesi il tentativo di una pulizia etnica che elimini definitivamente i cristiani è ormai del tutto evidente. Certo, i governi prendono le distanze dagli ultra-fondamentalisti e, d'altronde, non bisogna confondere l'Islam ultrafondamentalista con l'Islam in genere. Ma il tempo delle parole non seguite dai fatti è scaduto: occorrono misure efficaci ed occorrono subito. Il terzo rischio è poi costituito dalle aggressioni verso i cristiani messe in atto da parte di 'fondamentalisti' indù o buddhisti, che identificano l'identità nazionale dei loro Paesi con un'identità religiosa specifica ed unica, difesa in modi talora violenti. Sono quelle che il Papa, nel recente discorso al Corpo Diplomatico cui lei faceva riferimento, chiama “situazioni preoccupanti, talvolta con atti di violenza, [che] possono essere menzionate nel Sud e nel Sud-Est del continente asiatico, in Paesi che hanno peraltro una tradizione di rapporti sociali pacifici. Il peso particolare di una determinata religione in una nazione non dovrebbe mai implicare che i cittadini appartenenti ad un’altra confessione siano discriminati nella vita sociale o, peggio ancora, che sia tollerata la violenza contro di essi”. Il quarto rischio è costituito dal fatto che, anche se molti vorrebbero dimenticarlo, ci sono ancora regimi comunisti che non concepiscono a nessun livello la dimensione religiosa della persona umana, meno che mai a livello pubblico. Pensiamo alla Cina, al Vietnam, alla Corea del Nord. Infine, l'ultimo rischio è rappresentato da quella 'cristianofobia', certo non cruenta come le altre appena ricordate, che caratterizza la società occidentale di oggi in genere e l'Europa in particolare. Penso a quei Paesi nei quali si accorda una crescente importanza al pluralismo e alla tolleranza, ma dove la religione subisce una crescente emarginazione. O alle realtà dove sono in vigore leggi che limitano il diritto all'obiezione di coscienza degli operatori sanitari o di certi operatori del diritto. Senza andare lontano, pensiamo anche al caso italiano, dove una sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo potrebbe vietare l'esposizione del crocefisso nelle scuole. E ancora a quella 'cristianofobia' educativa che si manifesta nelle minacce alla libertà di educazione e nell'avversione amministrativa alle scuole cattoliche.
Un panorama impressionante: immagino che non sarà facile farsi sentire nell'attuale clima sociale venato di relativismo e di indifferentismo religioso, non teme dei probabili insuccessi?
E' prevedibile che ci saranno difficoltà ed opposizioni, naturalmente, e va anche considerato che in tempi di crisi economica le risorse delle organizzazioni internazionali sono severamente limitate. L'agenda indicata dal Papa però è molto realistica e precisa. Dovrebbe apparire ragionevole non solo ai cattolici, ma a tutte le persone di buona volontà. Si tratta ora di realizzarla, altrimenti significherebbe che ci troviamo di fronte a un'evidente forma di laicismo, che poi altro non è che l'altra faccia di quel fondamentalismo religioso che si deplora. A ben vedere, entrambi negano il corretto rapporto tra fede e ragione. Nel fondamentalismo, la fede nega la ragione. Nel laicismo la ragione, o meglio il razionalismo, nega la fede. Ma tutti e due sono nemici della libertà religiosa: il fondamentalismo vuole imporre la religione con la forza, il laicismo con la forza vuole imporre l'irreligione. E' soltanto l'equilibrio tra fede e ragione, invece, (senza confusione certo, ma anche senza separazione), che garantisce in ultima analisi la libertà religiosa e il fondamento morale dell'agire umano.
Radio Vaticana, notizia del 27/01/2011, Benedetto XVI e le sue parole sulla Shoah: mai più la violenza umili la dignità dell’uomo
Ricorre oggi la Giornata internazionale in memoria delle vittime della Shoah, adottata nel 2005 dalle Nazioni Unite. Benedetto XVI è intervenuto più volte su questa tragedia che ha segnato la storia del XX secolo. Storiche e commoventi, inoltre, le visite del Papa al campo di sterminio di Auschwitz nel 2006 e al Memoriale dello Yad Vashem a Gerusalemme, nel 2009. Il servizio di Alessandro Gisotti:
“La Shoah induca l’umanità a riflettere sulla imprevedibile potenza del male quando conquista il cuore dell’uomo”: è uno dei tanti pensieri che Benedetto XVI ha dedicato allo sterminio degli ebrei per mano dei nazisti. Intensa e memorabile la visita del Papa ad Auschwitz, al culmine del suo viaggio apostolico in Polonia, nel maggio del 2006:
“Prendere la parola in questo luogo di orrore, di accumulo di crimini contro Dio e contro l'uomo che non ha confronti nella storia, è quasi impossibile – ed è particolarmente difficile e opprimente per un cristiano, per un Papa che proviene dalla Germania. In un luogo come questo vengono meno le parole, in fondo può restare soltanto uno sbigottito silenzio: un silenzio che è un interiore grido verso Dio: Perché, Signore, hai taciuto?” (Visita ad Auschwitz-Birkenau, 28 maggio 2006)
“Non potevo non venire qui”, afferma il Papa commosso. “Era – soggiunge – ed è un dovere di fronte alla verità e al diritto di quanti hanno sofferto, un dovere davanti a Dio, di essere qui come successore di Giovanni Paolo II e come figlio del popolo tedesco”. Il Pontefice sottolinea quindi che con la distruzione degli ebrei, i nazisti volevano edificare un mondo senza Dio:
“I potentati del Terzo Reich volevano schiacciare il popolo ebraico nella sua totalità; eliminarlo dall'elenco dei popoli della terra. Allora le parole del Salmo: ‘Siamo messi a morte, stimati come pecore da macello’ si verificarono in modo terribile. In fondo, quei criminali violenti, con l'annientamento di questo popolo, intendevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo, che parlando sul Sinai stabilì i criteri orientativi dell'umanità che restano validi in eterno”. (Visita ad Auschwitz-Birkenau, 28 maggio 2006)
Della Giornata della Memoria, Benedetto XVI parla specificamente all’udienza generale del 28 gennaio 2009. Il Papa ribadisce che la Shoah è “monito contro l’oblio, contra la negazione o il riduzionismo, perché la violenza fatta contro un solo essere umano è violenza contro tutti”:
"La Shoah insegna specialmente, sia alle vecchie sia alle nuove generazioni, che solo il faticoso cammino dell’ascolto e del dialogo, dell’amore e del perdono conduce i popoli, le culture e le religioni del mondo all’auspicato traguardo della fraternità e della pace nella verità. Mai più la violenza umili la dignità dell’uomo!” (Udienza generale, 28 gennaio 2009)
Una violenza che Joseph Ratzinger ha visto con i suoi occhi. Il Papa ricorda l’inizio della furia nazista contro gli ebrei nella cosiddetta “Notte dei Cristalli” tra il 9 e il 10 novembre 1938:
“Ancora oggi provo dolore per quanto accadde in quella tragica circostanza, la cui memoria deve servire a far sì che simili orrori non si ripetano mai più e che ci si impegni, a tutti i livelli, contro ogni forma di antisemitismo e di discriminazione, educando soprattutto le giovani generazioni al rispetto e all’accoglienza reciproca”. (Angelus, 9 novembre 2008)
Negli ultimi due anni, Benedetto XVI compie due visite storiche in cui commemora i sei milioni di ebrei uccisi nella Shoah e ancora una volta rivolge un accorato appello a non dimenticare la tragedia dell’Olocausto. Nel maggio del 2009, durante il viaggio in Terra Santa, il Papa si reca allo Yad Vashem di Gerusalemme. I nomi di coloro che persero la vita nella Shoah, afferma al Memoriale dell’Olocausto, “sono stabilmente incisi nei cuori dei loro cari, dei loro compagni di prigionia e di quanti sono decisi a non permettere mai più che un simile orrore possa disonorare ancora l’umanità”. Quindi, il 17 gennaio dell’anno scorso, Benedetto XVI visita la Sinagoga di Roma e riconosce con rammarico che molti cattolici rimasero indifferenti al dramma della Shoah. Il Pontefice ribadisce l’irrevocabilità del cammino di amicizia tra ebrei e cattolici intrapreso col Concilio Vaticano II e chiede perdono per le sofferenze inflitte dai cristiani al popolo ebraico:
“La Chiesa non ha mancato di deplorare le mancanze di suoi figli e sue figlie, chiedendo perdono per tutto ciò che ha potuto favorire in qualche modo le piaghe dell’antisemitismo e dell’antigiudaismo. Possano queste piaghe essere sanate per sempre!” (Visita alla Sinagoga di Roma, 17 gennaio 2010)