venerdì 28 gennaio 2011

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    A scuola di vita da Giussani - Carrón: «Il senso religioso», una bussola per capire come Cristo cambia l’esistenza - Sessantamila persone hanno seguito in contemporanea da 180 città italiane la presentazione DA MILANO GIORGIO PAOLUCCI, Avvenire, 28 gennaio 2011
2)    Europa, occasione persa? Di Mario Mauro, venerdì 28 gennaio 2011, il sussidiario.net
3)    Islam, quei segnali di riforma di Andrea Tornielli 28-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
4)    Da Casablanca al Cairo, si alza la richiesta di riforma dell'islam di Riccardo Cascioli, 28-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
5)    L'inverno demografico non finisce più di Danilo Quinto, 28-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
6)    BAGNASCO/ 2. Non sarà mai il moralismo a renderci migliori – Redazione, venerdì 28 gennaio 2011, il sussidiario.net
7)    Fine vita, la legge va in Aula - Di Virgilio: «Meglio tornare a dichiarazioni non vincolanti» - «Ma nel resto – puntualizza – la proposta che sarà discussa alla Camera dal 21 febbraio è migliore», di Pierluigi Fornari, Avvenire, 28 gennaio 2011
8)    Con 12mila bebé in meno, il 2010 è l’anno nero della nascite in Italia - Se il figlio “costa” il posto - Una ricerca rivela: le donne precarie? - Rinunciano alla gravidanza per paura, di Antonella Mariani, Avvenire, 28 gennaio 2011
9)    Embrioni «orfani», Francia divisa - Ok in commissione all’impianto dopo la morte del padre dei concepiti in provetta. Ma l’Aula dovrebbe votare no - DA PARIGI DANIELE ZAPPALÀ, Avvenire, 28 gennaio 2011

A scuola di vita da Giussani - Carrón: «Il senso religioso», una bussola per capire come Cristo cambia l’esistenza - Sessantamila persone hanno seguito in contemporanea da 180 città italiane la presentazione DA MILANO GIORGIO PAOLUCCI, Avvenire, 28 gennaio 2011

In una società sempre più smarrita e confusa, dove il desiderio di felicità innato in ogni uomo si appiattisce mentre crescono l’indifferenza e il cinismo, si gioca la sfida sulla credibilità del cristianesimo. La sfida di ridestare l’umano, di testimoniare la pertinenza della fede con tutte le dimensioni della vita, la sua capacità di rispondere alla domanda di senso che abita nel cuore di ogni persona.

Con questa sfida don Giussani si cimentò a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, e 'Il senso religioso' è il libro (tradotto in 19 lingue) che documenta questo percorso. Dopo più di mezzo secolo Julián Carrón, che gli è succeduto alla guida di Comunione e Libe­razione, lo ripropone come strumento di educazione alla fede: per tutto il 2011 sarà il testo della 'scuola di comunità', la catechesi popolare proposta a tutti gli aderenti al movimento e realizzata nelle scuole, nelle università, nei luoghi di la­voro e persino in carcere (vedere qui sotto). L’altra sera ne ha presentato i contenuti parlando davanti a 8mila persone che gremivano il Palasharp di Milano, mentre altre 50mila lo seguivano in diretta via satellite collegate con sale dislocate in oltre 180 città italiane: è la prima volta in Italia che un libro viene presentato con questa modalità.

A fianco del tavolo da cui Carrón parla, campeggia un’enorme scritta: «Vivere intensamente il reale». È uno dei leit-motiv di Giussani, che ha sempre scommesso sulla capacità del cristianesimo di permeare ogni aspetto dell’esistenza e di rendere pienamente umana la vita. La fede è capace di ridestare l’io e di mantenerlo nella posizione giusta per affrontare tutta l’esistenza, con le sue prove e la sua problematicità. Il senso religioso – l’aspirazione che muove ciascuno a conoscere il senso delle cose e ad aprirsi a un 'oltre' che la ragione riesce solo a intuire – trova compimento nell’in­contro con Cristo e ne viene conti­nuamente alimentato: non ne è soltanto la premessa, ma lo strumento per verificarlo. Soltanto una rivi­sitazione del senso religioso con gli occhi della fede permette all’uomo di tenere desto il desiderio, di non ridurlo o di non dimenticarlo.

«Il motivo per cui tanti abbandonano il cristianesimo – argomenta – è che non lo trovano umanamen­te conveniente, e così la mentalità dominante può allargare sempre più la sua influenza, trovando l’uomo sempre più disarmato». La vita può cambiare solo davanti a testi­moni credibili, che fanno riscopri­re la 'convenienza' dell’esperienza cristiana: è decisiva la categoria dell’incontro, proprio come accadde all’inizio, quando Andrea e Giovan­ni si imbatterono nell’umanità di Gesù e da quella umanità rimasero indelebilmente segnati. Ma se questa dinamica non si rigenera continuamente, si rischia di cadere nel formalismo, nella ripetitività di gesti e riti, nel sonno di una fede divenuta stanca, nella scontatezza di un’appartenenza religiosa che alla lunga non regge il confronto con il mondo. «Possiamo continuare ad affermare le verità della fede ma non essere protagonisti della storia, poiché in noi non vi è nessuna di­versità rilevabile, come ha detto Benedetto XVI: ’Il contributo dei cristiani è decisivo solo se l’intelligenza della fede diventa intelligenza della realtà».

L’emergenza educativa è uno degli aspetti più evidenti della crisi di senso che stiamo attraversando, come testimonia la Chiesa italiana che l’ha messa a tema in questo decennio di attività pastorale. Riguarda i giovani ma anche gli adulti, e rimanda alla necessità di maestri a cui guardare, da cui imparare, a cui alimentarsi. Solo acquisendo una capacità di conoscere la realtà e di giudicarla, le giovani generazioni possono superare lo smarrimento e la confusione e sce­gliere la strada per il compimento della loro umanità. Nell’incontro col Mistero diventato un fatto umano, carnale, può iniziare il cambiamento. In questa prospettiva, Carrón cita il retore romano Mario Vittorino («Quando ho incontrato Cristo, mi sono scoperto uomo») e sant’Agostino («Chi conosce Te, conosce sé»). La sfida per i cristiani è testimoniare Gesù come qualcosa di contemporaneo, non riducibile a una teoria o a una serie di norme etiche da rispettare, ma come affascinante compagno della vita quotidiana. Per tenere desta questa consapevolezza è necessario un lavoro permanente: è quello proposto per l’appunto dalla scuola di comunità, lo strumento di educazione alla fe­de proposto da Comunione e liberazione in tutto il mondo. Perché ogni uomo possa «vivere intensamente il reale».


Europa, occasione persa? Di Mario Mauro, venerdì 28 gennaio 2011, il sussidiario.net

Lascia francamente perplessi la reazione che l'autentico terremoto politico che si sta producendo in Tunisia, Algeria ed Egitto ha generato nei media italiani. Un disinteresse immotivato nei confronti delle tribolazioni di terre vicinissime ai nostri confini.
Le vicende di casa nostra, per quanto caratteristiche della lacerante transizione italiana, non possono oscurare totalmente eventi di portata epocale come quelli delle ultime settimane. Non ci si rende conto, forse anche a livello delle istituzioni, di quello che potrebbe comportare per la realtà regionale di cui facciamo parte - e cioè per il Mediterraneo - la destabilizzazione di questi paesi.

Il Mediterraneo, pur non essendo più al centro di ogni rapporto internazionale come nei tempi antichi, rimane un crocevia importantissimo. E' infatti il mare che ci collega ad una delle zone più calde del pianeta, il Medio Oriente. Sottolineo questo dato per rimarcare come ciò che accade a Tunisi, ad Algeri, al Cairo, ci deve interessare  come se avvenisse entro i nostri confini. Anche per questa ragione mi recherò a breve in Tunisia con la delegazione speciale dell'Unione europea concepita per far fronte a una situazione giustamente ritenuta di massima emergenza politico-istituzionale. Nessuno ne ha ancora parlato, ma non appare assolutamente utopico, considerando il gran numero di attori politici che fanno dell'estremismo e del populismo la propria ragion d´essere, che sia alle porte un fatale sovvertimento degli equilibri dell´area.

L’Europa sa benissimo che i regimi di questi paesi sono lontani dalla concezione di democrazia che vorremmo trasmettere. Sappiamo ancora meglio però che aver collaborato con essi per lo sviluppo e per la pace ha consentito comunque tassi di crescita significativi in questi ultimi anni, cui non è peraltro corrisposto un criterio redistributivo sufficiente a far fronte ai bisogni di una popolazione sempre crescente. Ma soprattutto sappiamo che la definizione di paesi arabi moderati, che abbiamo usato in questi anni, racchiudeva la disponibilità di questi governi a fare da argine ai gruppi jihadisti presenti in queste nazioni.
Il problema sta tutto qui. Possiamo gioire fino a quando vogliamo per la caduta di un regime autoritario, ma non dobbiamo mai abbandonare questo realismo politico: quella del terrorismo resta una minaccia immensamente più grande e più difficilmente gestibile.  E’ più che lecito in questo senso il dubbio se dobbiamo essere più contenti per la caduta del regime oppure dobbiamo essere più preoccupati per il pericolo di un caos istituzionale nel quale sarà ancora più complicato districarsi.
Quello che sta avvenendo in questi giorni è il segnale che quelle comunità sono animate da un'opprimente esasperazione generata da sistemi di potere ingessati e corrotti e da una legittima aspirazione al cambiamento. Le nuove generazioni con i nuovi media stanno riuscendo dove molti hanno fallito prima.
Il Presidente del parlamento europeo Buzek ha descritto la situazione in Tunisia come "un momento storico" e ha formulato quattro richieste a nome del parlamento per le autorità provvisorie tunisine: il rilascio immediato di tutti gli arrestati; la predisposizione d'inchieste indipendenti su corruzione e uso della violenza; l'organizzazione di elezioni libere, plurali e monitorate, un processo al quale il Parlamento garantisce assistenza; in vista delle elezioni, la costituzione di un governo di unità nazionale che includa tutte le forze politiche.

Con la delegazione del Parlamento europeo ci impegneremo ad offrire una vera prospettiva di aiuto e sostegno per scongiurare il pericolo di escalation di violenza e di successive involuzioni antidemocratiche.
L’Europa è già l’attore internazionale più accreditato per raggiungere obiettivi di cui tutta la comunità internazionale trarrà beneficio. E’ bene che l’Unione europea conservi il ruolo di leadership per scongiurare l’immane pericolo costituito dal fondamentalismo islamico.
L’Unione per il Mediterraneo è uno strumento nato anche per questo. E’ giunto però il momento di accelerare il passo: tutto il mondo ha bisogno che l’Europa si prenda questa responsabilità senza la quale sarà difficile il mantenimento di relazioni stabili e soprattutto pacifiche nell’area del Mediterraneo.
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Islam, quei segnali di riforma di Andrea Tornielli 28-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Mentre noi, qui in Italia, siamo costretti a occuparci ventiquattr’ore al giorno dei «bunga bunga» di Arcore (l’appello saggio affinché tutti si diano una regolata pronunciato lunedì dal cardinale Bagnasco, è stato purtroppo snobbato), una rivolta dagli esiti al momento imprevedibili infiamma Egitto, Tunisia e Yemen.

Dal mondo arabo non giungono soltanto notizie di scontri, manifestazioni di piazza, guerriglia urbana, manifestanti e poliziotti uccisi. Arrivano anche notizie importanti, che bisogna saper cogliere, interpretare e valorizzare e che potete leggere diffusamente nell’articolo di Riccardo Cascioli in primo piano su La Bussola.

La prima è l’«Appello di Casablanca», un richiamo urgente per la difesa e il consolidamento dei diritti umani e della democrazia nel mondo arabo, sottoscritto da più di 2200 studiosi, politici e attivisti provenienti da venti paesi arabi. È interessante notare che l’iniziativa è sostenuta da intellettuali e politici di ogni convinzione, uno spettro che va dalla sinistra ai Fratelli Musulmani.

Ancora più significativa è stata la pubblicazione, lunedì scorso, di un «Documento per il rinnovamento del discorso religioso», messo online sul sito del settimanale egiziano Yawm al-Sâbi’. In 22 punti presenta un grande programma di riforma dell’islam che propone la revisione del concetto di jihad (guerra santa), del ruolo della donna, di alcuni testi religiosi, e propone la separazione tra religione e politica.

Al contrario della prima, la seconda iniziativa è frutto di una forzatura: il settimanale ha infatti messo in fila e sistematizzato discorsi e interventi di 23 dotti islamici legati all’università Al Azhar del Cairo, sperando di farli uscire allo scoperto. Il fatto che in soli tre giorni il documento sia stato ripreso da dodicimila siti Internet la dice lunga sull’interesse suscitato, anche se i commenti prevalenti sono di sdegno e di rifiuto.

Si tratta di segnali da non sottovalutare. Che ci dicono, innanzitutto, come il mondo islamico non sia quel blocco uniforme e minaccioso che spesso ci viene dipinto dai media. È vero, oggi chi più grida più fa notizia, ed è inevitabile che la scena sia tenuta dal fondamentalismo, fenomeno in crescita preoccupante. Come pure è stato inevitabile che, dopo l’11 settembre 2001, la scena mediatica occidentale sia stata via via sempre più occupata dai sostenitori dell’inesorabilità dello scontro di civiltà - che ci vedrebbe comunque perdenti – e da coloro che ritengono l’islam irreformabile. Non invece dai fautori del dialogo, troppo spesso dipinti come sognatori deboli e illusi disposti a svendere la propria identità e incapaci di avvertire la minaccia musulmana.

Alla luce di quanto sta accadendo si può definire profetica la decisione di Giovanni Paolo II, all’indomani degli attacchi alle Torri Gemelle, di convocare ad Assisi le religioni per un incontro di preghiera e di pace, al fine di togliere giustificazione religiosa all’odio e di far comprendere come non si possa strumentalizzare il nome di Dio per giustificare atti di terrorismo. Quell’azione è continuata ora dal suo successore Benedetto XVI, il quale, in un momento in cui si moltiplicano le notizie di attacchi e persecuzioni ai cristiani nel mondo, ha nuovamente convocato per il prossimo ottobre le religioni ad Assisi, per invocare la pace.

Ciò che sta accadendo dovrebbe farci riflettere anche sulle conseguenze di un altro evento, inizialmente controverso: il famoso discorso di Ratisbona. Nel settembre 2006, come si ricorderà, Papa Ratzinger tenne una lezione nell’università dove aveva insegnato, dedicata al rapporto tra fede e ragione. Una frase molto dura su Maometto, pronunciata dall’imperatore bizantino Manuele II Paleologo e citata dal Pontefice, aveva incendiato il mondo musulmano.

Benedetto XVI non la condivideva, e nel recente libro intervista con Peter Seewald, smentendo quanti avevano detto che si trattava di una provocazione voluta, ha riconosciuto che avrebbe dovuto tener conto della valenza politica internazionale delle sue parole e dunque specificare meglio che quella citazione non esprimeva il suo pensiero. Quel discorso su fede e ragione, che da un lato ribadiva un radicale rifiuto della giustificazione religiosa della violenza, dall’altro difendeva l’eredità greca e la ragionevolezza della fede cristiana, ha portato dei frutti.

Al Papa si sono infatti rivolti 38 intellettuali musulmani, diventati 138 un anno dopo. Hanno rivendicato la razionalità dell’islam pur tenendo ferma l’assoluta trascendenza di Dio. Hanno precisato i limiti posti dalla dottrina islamica al ricorso alla guerra e all’uso della violenza. Hanno auspicato un rapporto tra islam e cristianesimo fondato sull’amore di Dio e del prossimo, definendo questa la parola comune e «la più solida base teologica possibile».

Quanto sta emergendo ora, la consapevolezza della necessità di maggiore democrazia e rispetto dei diritti umani, come pure di un rinnovamento interno alla religione islamica che allontani le interpretazioni e le spinte fondamentaliste, s’inserisce in questo percorso. Un percorso che va aiutato, valorizzato, sostenuto.


Da Casablanca al Cairo, si alza la richiesta di riforma dell'islam di Riccardo Cascioli, 28-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Un appello per la democratizzazione del mondo arabo e un programma di riforma del pensiero islamico: negli ultimi giorni due importanti fatti arrivano dall’interno del mondo arabo e islamico a testimonianza che dietro le rivolte di piazza di questi giorni sta emergendo prepotente anche una inquietudine religiosa che attraversa tutta la regione.

Ma procediamo con ordine: sulla scia delle rivolte in Tunisia ed Egitto, oltre 2200 studiosi, politici e attivisti arabi, provenienti da 20 paesi arabi, hanno pubblicato un appello urgente per la difesa e il consolidamento dei diritti umani e della democrazia nel mondo arabo. E’ stato chiamato «Appello di Casablanca», dal nome della città del Marocco dove nello scorso ottobre è stata organizzata una conferenza proprio per discutere del futuro dei paesi arabi. «L’Appello di Casablanca – ha detto Radwan Masmoudi, presidente del Center for the Study of Islam and Democracy (Csid) e organizzatore della Conferenza dell’ottobre scorso – è sostenuto da intellettuali e politici arabi di primo piano, di ogni convinzione politica, dall’ala sinistra e dei secolaristi fino agli islamici moderati e anche i Fratelli Musulmani, tutti d’accordo che la democrazia e i diritti umani sono oggi una ‘necessità assoluta’ per il mondo arabo». «La rivoluzione tunisina – gli ha fatto eco Emad El-Din Shahin, docente di Religioni, Conflitti e Operazioni di pace all’Università di Notre Dame, tra gli estensori del documento – ha spazzato via diversi miti: il mito dell’eccezione mediorientale alla democrazia, il mito di poter ottenere riforme economiche senza una liuberalizzazione politica, e il mito per cui il sostegno occidentale ai regimi autocratici della regione manterrà la stabilità e proteggerà gli interessi strategici occidentali».

Il documento cita alcuni punti critici per l’evoluzione della giustizia politica e sociale: anzitutto il diritto a organizzare liberi sindacati, visto che secondo i rapporti internazionali la regione mediorientale è quella messa peggio in quanto a diritti sindacali. Inoltre chiede pari diritti per donne e giovani nella partecipazione allo sviluppo dei rispettivi paesi, e libertà di espressione per tutti. Interessante, al proposito la questione dell’educazione che – secondo Masmoudi – è «al centro di ogni sforzo di sviluppo, per cui la libertà di espressione deve includere la libertà di insegnamento nelle scuole e nelle università».

Potenzialmente più esplosiva è la seconda iniziativa, che è partita dall’Egitto il 24 gennaio, ovvero la pubblicazione di un «Documento per il rinnovamento del discorso religioso», postato sul sito del settimanale Yawm al-Sâbi’. Dieci pagine, ventidue punti: un programma di riforma dell’islam che spazia dalla revisione del concetto di jihad (guerra santa) al ruolo della donna, dalla revisione dei testi religiosi (le parole attribuite a Maometto e i commentari coranici) fino alla separazione tra religione e politica. L’iniziativa è partita da un gruppo di persone legate al settimanale che hanno però ripreso e sistematizzato discorsi e scritti di 23 dotti islamici legati alla famosa Università Al Azhar del Cairo, il centro più importante per la formazione e la teologia islamica.

Le foto dei 23 dotti sono state pubblicate accanto al documento: un chiaro invito a uscire allo scoperto che, se si verificasse, diventerebbe una vera e propria bomba per il mondo religioso islamico. Tra i nomi dei dotti ci sono infatti personalità religiose di rilievo come Nasr Farid Wasel, ex gran Mufti dell’Egitto; l’imam Safwat Hegazi; il dott. Gamal al-Banna, fratello del fondatore dei Fratelli Musulmani; i professori Malakah Zirâr e Âminah Noseir; il celebre scrittore islamista Fahmi Huweidi; il dott. Mabruk Atiyyah; un gran numero di predicatori (du‘ât), incaricati della Propaganda islamica quali Khalid al-Gindi, Muhammad Hedâyah, Mustafa Husni.

In soli tre giorni, il documento è stato rilanciato su 12mila siti, a dimostrazione del polverone sollevato. Ci sono già stati centinaia di commenti, da cui emerge lo scandalo che tali posizioni suscitano, mentre una minoranza soltanto si dimostra d’accordo. Vuol dire che qualsiasi forma di rinnovamento culturale sarà comunque lunga e avrà moltissime resistenze, ma significa anche che qualcosa si è messo in movimento; che sotto l’apparente monolitismo del mondo islamico ribolle il desiderio di fare i conti con la modernità e si cercano sponde anche al di fuori del mondo arabo per sostenere questo cammino.


L'inverno demografico non finisce più di Danilo Quinto, 28-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Inverno demografico. Così il demografo francese Gerard François Dumont definisce la situazione di un Paese che non permette la sostituzione delle generazioni. La rilevazione Istat degli indicatori demografici 2010, diffusa nei giorni scorsi, indica proprio questo. Le donne italiane fanno 1,4 figli a testa (nel 2009, la media era 1,41; nel 2008, 1,42), mentre il livello di rimpiazzo generazionale è fissato ad una percentuale del 2,1 figli per donna. La media di procreazione delle donne italiane fa riflettere rispetto a quella che si registra per le donne immigrate nel nostro Paese, le quali fanno 2,3 figli a testa. Ed è proprio la popolazione immigrata (quella regolare è pari a 4 milioni e mezzo) che determina l’aumento della popolazione complessiva: siamo 60 milioni e 600 mila.

Il 55,4% delle famiglie italiane è costituito al massimo da due componenti: sono costituite da coniugi senza figli e famiglie monogenitoriali. Il 28% di famiglie ha un solo componente: per la metà – dice l’Istat – si può pensare si tratti di persone vedove, perché hanno più di 65 anni; nell’altra metà, ci sono i single, i separati, gli omosessuali, le nubili e i celibi. Gli ultra 65enni sono già un quinto della popolazione e si stima che nel giro di pochi anni ne costituiranno un terzo. L’aspettativa di vita per un uomo è di oltre 79 anni. Per una donna di oltre  84. Il numero degli ultracentenari è di oltre 16mila ed è più che triplicato negli ultimi 10 anni.

La situazione italiana non è sostanzialmente diversa da quella degli altri Paesi europei. L’ultimo rapporto della Rete Europea dell’Istituto di Politica Familiare (IPF), rileva che in 25 anni in Europa si è assistito ad una perdita di giovani di meno di 14 anni pari a 23 milioni, che rappresenta una riduzione del 21% - il 10% negli ultimi dieci anni – mentre le persone con più di 80 anni sono aumentate dell’84%. In due case europee su tre, non c’è un bambino, mentre negli Stati Uniti la crescita della popolazione è di dodici volte superiore a quella europea. In base alle statistiche, viviamo in un continente dove si consuma ogni 25 secondi un aborto, prima causa di mortalità, perché fa più vittime delle malattie di cuore, di quelle cardiovascolari, degli incidenti stradali, della droga, dell’alcool, dei suicidi; dove crolla il numero dei matrimoni; dove sono un milione all’anno i divorzi, dove ogni giorno vengono chiuse tre scuole per mancanza di bambini.

Gli andamenti della natalità, il mutare della aspettativa di vita e i flussi migratori, incidono fortemente sul modo di concepire e governare la società. L’invecchiamento della popolazione e la conseguente rivoluzione epidemiologica in ambito sanitario – ad esempio – dovrebbero obbligare a ripensare l’intero sistema del Welfare, compreso il comparto relativo alla salute. Diventeranno prioritarie le malattie cardiovascolari (prima causa di morte), i tumori (prima causa di anni di vita attiva persi), le patologie dell’invecchiamento e della infanzia, il diabete e le malattie metaboliche. Il peso delle malattie croniche, che già oggi colpiscono il 25 per cento della popolazione e rappresentano il 70 per cento della spesa, inciderà sempre di più sul bilancio del sistema sanitario.
Ad un allungamento della aspettativa di vita non corrisponde la garanzia di una proporzionale vita attiva. Per gli ultrasettantacinquenni è di quasi dieci anni la prospettiva di vita in condizioni di disabilità.

I responsabili dell’Istat, nel presentare i dati della ricerca, hanno sottolineato – tra l’altro - l’aumento del numero degli stranieri e la loro maggiore fecondità; il moltiplicarsi delle famiglie di fatto; l’attenzione da dare alle persone anziane e non autosufficienti; il fatto che le percentuali di natalità sono più alte laddove i servizi sociali sono efficienti e dove ci sono maggiori possibilità di lavoro; il dato della migrazione interna verso il centro e il nord – siamo al 2 per mille della popolazione; il disagio, sul piano dell’autonomia economica, dei giovani adulti: il 30,1% dei 35enni vive in casa con i genitori.

L’insieme di questi elementi fornisce il quadro di una società che è mutata profondamente, con grande rapidità ed accelerazioni. Ci sono tante priorità da affrontare, ma ve n’è una essenziale, quella che ha espresso Benedetto XVI lo scorso 14 gennaio, ricevendo gli amministratori della Regione Lazio, del Comune e della Provincia di Roma: “La famiglia deve essere sostenuta da politiche organiche che non si limitino a proporre soluzioni ai problemi contingenti, ma abbiano come scopo il suo consolidamento e sviluppo e siano accompagnate da un’adeguata opera educativa”.


BAGNASCO/ 2. Non sarà mai il moralismo a renderci migliori – Redazione, venerdì 28 gennaio 2011, il sussidiario.net

Riceviamo e pubblichiamo l'intervento di Oscar Pini a commento della recente prolusione  del presidente dei vescovi italiani, card. Angelo Bagnasco, sulla difficile situazione del paese.

Riguardo ai fatti che da vari giorni occupano le prime pagine dei giornali e che coinvolgono il premier del nostro governo, la confusione è almeno proporzionale alla quantità di notizie erogate. Il bombardamento mediatico tende a sollecitare le corde più viscerali e istintive del popolo italiano, somministrando succulenti pezzi di vite private e chiedendo soltanto, come nei vecchi circhi imperiali, che si ruoti il pollice in su o in giù, senza troppe domande, senza giudicare la sensatezza della questione posta, senza ficcare il naso nei criteri tacitamente fatti valere.

A tali fatti si è riferito il cardinale Bagnasco, nella sua prolusione di lunedì. Ha parlato di «debolezza etica» e di «stili non compatibili con la sobrietà e la correttezza» e ha, insieme, con esemplare coraggio, denunciato «l’ingente mole di strumenti di indagini», in una situazione in cui «i poteri si tendono tranelli, in una logica conflittuale che perdura ormai da troppi anni», con la conseguenza che «l’equilibrio» e «l’immagine generale del Paese» risultano gravemente minacciati.

Comunque si chiariranno le cose, da una simile situazione «nessuno ricaverà realmente motivo per rallegrarsi e per ritenersi vincitore»; anzi vi è il pericolo reale che si producano «segni anche profondi, se non vere e proprie ferite» nell’animo collettivo, che «si affermino modelli mentali e di comportamento radicalmente faziosi», realizzando con ciò «un attentato grave alla coesione sociale» del Paese, inquinando il terreno in cui vive. Perciò «è necessario fermarsi – tutti – in tempo, fare chiarezza in modo sollecito e pacato, e nelle sedi opportune».

Se questa presa di posizione è significativamente diversa da tutte le altre, e stupisce per equilibrio e lucidità, è perché in essa è all’opera un altro criterio (il grande assente di quasi tutte le discussioni attuali), che la Chiesa ha sempre usato per giudicare la politica e i politici: il bene comune, prima e più che l’ineccepibilità morale del singolo, fatta salva ovviamente la differenza tra peccato e reato.

Il servizio al bene comune (che è, attenzione, il bene di tutti e di ciascuno) è lo scopo cui deve concorrere l’operato di chiunque abbia responsabilità pubbliche. L’irreprensibilità morale individuale, sempre auspicabile, potrebbe benissimo infatti coniugarsi con una profonda immoralità nell’esercizio delle proprie funzioni, qualora valutazioni e azioni non avessero al centro il bene del Paese, ma ne mettessero a repentaglio la coscienza unitaria e il raggiunto benessere. Vi è certamente un problema relativo al rapporto tra moralità e democrazia. Ma esso non può essere ridotto alla moralità privata.

Ancora il cardinale Bagnasco offre un decisivo passaggio al riguardo: «La vita di una democrazia – sappiamo – si compone di delicati e necessari equilibri, poggia sulla capacità da parte di ciascuno di auto-limitarsi, di mantenersi cioè con sapienza entro i confini invalicabili delle proprie prerogative». Che cosa si chiede a un politico? Che cosa deve fare e come deve essere un magistrato? Quale scopo devono perseguire i mezzi di comunicazione? Si tratta di altrettante questioni morali, che toccano il cuore di una democrazia, ma non riguardano il comportamento privato dei singoli attori, bensì una moralità pubblica, cioè connessa con l’esercizio delle rispettive funzioni in vista del bene comune.

A prescindere da come si chiariranno le cose nelle sedi opportune, il fatto che nell’attuale contingenza tutta l’attenzione si sposti sulla moralità intesa come capacità di coerenza nei comportamenti privati non lascia tranquilli, poiché mantiene aperto il varco a pericolose strumentalizzazioni, indebolendo la stabilità del Paese e distogliendo dalle urgenze che occorrerebbe affrontare e a partire dalle quali anzitutto giudicare le decisioni di chi si assume una responsabilità nella sfera politica.

Non è scontato che nel panorama attuale vi sia qualcuno che, irriducibile al gioco delle parti, richiami al bene comune come criterio di giudizio. Anzi, in un clima di preoccupante scontro e sconfinamento di poteri, ciò rappresenta un fattore essenziale per la salute di questa come di ogni democrazia.

Ancor meno scontata è la presenza di chi affermi, sfidando un moralismo dilagante (spesso interessato e sapientemente orientato), che quando si parla di debolezza e di incoerenza siamo tutti in questione («Se diciamo di essere senza peccato inganniamo noi stessi e la verità non è in noi»; 1 Gv 1,8). D’altra parte, collocandosi sul piano della moralità privata e spingendo al limite la logica implicita in ciò che sta accadendo, non si fatica a immaginare una società che faccia di alcuni valori morali preventivamente selezionati e adeguatamente enfatizzati uno strumento di lotta politica per l’eliminazione degli avversari. Nulla di nuovo, intendiamoci. La storia ci ha già fornito esempi in questo senso.

Non sarà mai il moralismo a rendere migliori. Occorre un luogo dove l’uomo possa venire ridestato nella sua grandezza, sostenuto nella sua tensione ideale, non ridotto ai suoi errori e alle sue miserie. Una società in cui mancasse un luogo dove l’uomo può sempre ritrovare se stesso, essere affermato al di là dei propri limiti, abbracciato e corretto, e perciò, in una umiltà che cresce, continuamente riprendersi, «guardare avanti con fiducia», come ancora ha detto Bagnasco, sarebbe una società senza speranza, esposta al terrore dell’arbitrio e delle mode e alla violenza, anche se in forme più sofisticate di un tempo. Per questo, oltre al bene comune, l’altro criterio di giudizio sulla vita politica che la tradizione cristiana consegna alla storia è quello della libertas ecclesiae, che ha a che fare col fatto che la Chiesa – luogo di educazione e di perdono – abbia la possibilità di esistere e di esprimersi, in funzione del cammino umano di tutti.

(Oscar Pini)
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Fine vita, la legge va in Aula - Di Virgilio: «Meglio tornare a dichiarazioni non vincolanti» - «Ma nel resto – puntualizza – la proposta che sarà discussa alla Camera dal 21 febbraio è migliore», di Pierluigi Fornari, Avvenire, 28 gennaio 2011

La proposta di legge sul fine vita approderà nell’aula della Camera il 21 febbraio. Lo ha annunciato ieri Giuseppe Palumbo (Pdl), presidente della com­missione Affari sociali di Montecitorio, che ha esaminato e approvato il testo. «La prossima settimana o al massimo all’inizio di quella successiva – ha preci­sato – arriveranno i pareri delle commissioni Giustizia e Affari costituzionali. Ma l’importante è aver ottenuto il via libera della commissione Bilancio». Que­st’ultimo pronunciamento è arrivato una settimana fa. Se resteranno i piedi le modifiche apportate in commissione rispetto alla versione del Senato, il testo dovrà tornate a Palazzo Madama per una loro ratifica. Gli adempimenti che re­stano da espletare in commissione sono l’esame degli ultimi pareri ed il man­dato al relatore. Il sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella, ha ribadito in­tanto che il governo auspica che si arrivi nel più breve tempo possibile alla leg­ge, non escludendo però cambiamenti rispetto al testo uscito dalla Affari so­ciali. «Il testo è di iniziativa parlamentare e già sono state fatte alcune correzioni in commissione – ha ricordato il sottosegretario con delega alle materie bioe­tiche –. Non è escluso che possano essercene delle altre in aula». Peraltro, «al Se­nato almeno in un paio di casi il governo è stato smentito dalla sua stessa mag­gioranza, e proprio nel senso di maggiori garanzie in difesa della vita».


Di fronte alle spinte eutanasiche di un’ideologia relativista e di economie di­sumane, la legge sul fine vita che dal 21 febbraio approda nell’aula della Camera «sal­vaguarda la professionalità del medico orienta­ta alla salute e alla vita del paziente, rispettan­done la dignità e tenendo conto delle sue indi­cazioni come previsto dalla Convenzione di O­viedo e dall’articolo 32 della Costituzione». Ne è convinto il relatore Domenico Di Virgilio, per­ché «l’unico modo vero per attuare questi prin­cipi è l’alleanza terapeutica, che nella legge ha un ruolo prioritario». E proprio in base ad essa, il parlamentare vicepresidente del gruppo del Pdl trae alcune conseguenze sulla attuale for­mulazione della proposta: «Dopo aver a lungo riflettuto e letto, per quanto riguarda l’articolo 7, ritengo più giusto tornare al testo approvato dal Senato e cioè che il parere del collegio a cui si fa ricorso in caso di controversia tra fiducia­rio e medico curante non sia vincolante. È un mio parere personale ricavato dalla esperienza di primario ospedaliero e non a titolo di relato­re. L’aula della Camera è sovrana, ma ritengo che vadano rispettate le convinzioni di caratte­re scientifico e deontologico».

Perché è importante la non vincolatività?

Il medico deve poter tenere conto del pro­gresso della scienza che si è verificato dopo la redazione delle dichiarazioni anticipate, cosa che non sarebbe possibile con la vincolatività.

A parte l’articolo 7 cosa pensa del testo che arriva in aula?

Ritengo che la commissione Affari socia­li della Camera l’abbia migliorato rispet­to alla formulazione del Senato. Ad e­sempio all’articolo 1 è stato specificato che è vietata in modo assoluto qualsiasi forma di eutanasia. Nel secondo si pun­tualizza che le decisioni relative al sog­getto incapace devono essere adottate a­vendo come scopo non solo la sua salute ma anche la sua vita.

Ma è stato modificato anche l’articolo 3

relativo al divieto di sospendere alimen­tazione e idratazione...

Si ribadisce che queste forme di sostenta­mento vitale non possono fare oggetto di di­chiarazioni anticipate, non essendo tratta­mento medico. Ma, sulla base della mia e­sperienza di medico, ho fatto approvare co­me relatore una norma la quale prevede che nel caso in cui non risultino più efficaci nel fornire al paziente i fattori nutrizionali ne­cessari alle funzioni fisiologiche essenziali del corpo, possano essere sospese. Ci sono dei casi evidenti infatti in cui continuare ad idra­tare può essere nocivo provocando ad esem­pio uno scompenso acuto. È solo in questi ca­si che tali cure essenziali possono essere so­spese.

Non c’è il rischio di una formulazione vaga di accanimento terapeutico?

L’articolo 1 afferma chiaramente che il medi­co deve astenersi da trattamenti straordinari non proporzionati, non ef­ficaci o tecnicamente ade­guati rispetto alle condi­zioni cliniche del paziente o agli obiettivi di cura. An­che il magistero ha sottoli­neato che la rinuncia a trat­tamenti sproporzionati, i­nutili o dannosi non equi­vale al suicidio o all’euta­nasia, ma esprime «piutto­sto l’accettazione della condizione umana di fron­te alla morte».

A chi è indirizzata la legge?

La legge uscita dal Senato riguardava uni­camente i soggetti in stato vegetativo, con l’approvazione di un mio emendamento in­vece il testo che ora va in discussione nel­l’aula della Camera estende la platea a tut­ti i soggetti che si possono trovare in modo permamente in una condizione di incapa­cità di comprendere le informazioni circa il trattamento sanitario e di assumere le de­cisioni che lo riguardano.

Altre modifiche importanti?

La previsione che l’assistenza ai soggetti in stato vegetativo rientra nei livelli essenzia­li di assistenza e deve essere assicurata attra­verso prestazioni ospedaliere, residenziali e domiciliari.


Con 12mila bebé in meno, il 2010 è l’anno nero della nascite in Italia - Se il figlio “costa” il posto - Una ricerca rivela: le donne precarie? - Rinunciano alla gravidanza per paura, di Antonella Mariani, Avvenire, 28 gennaio 2011

E vissero precarie e... scontente. Non è certo una bella favola, quello che accade a un numero crescente di giova­ni donne: precarie nel lavoro, precarie nella vita, con maternità rimandate di anno in anno a ogni scadenza del con­tratto, in attesa di quello definitivo. Lo vediamo intorno a noi, ora ce lo dice anche chi per mestiere studia le tendenze socio-economiche della società. In Italia il precariato fem­minile incide sulle cifre della maternità, peral­tro già bassissime: nel 2009 il numero medio di figli per donna era 1,41, nel 2010 è sceso a 1,4, con 12.200 nascite in meno. Dunque, in Italia si fan­no sempre meno figli e un ruolo (al ribasso) lo gioca anche la precarietà femminile. Francesca Modena e Fabio Sabatini, rispettivamente dell’Università di Trento e di Siena, nei giorni scor­si hanno pubblicato u­no studio in cui, incro­ciando i dati statistici in loro possesso e corredandoli con una ricerca qualitativa su un campione di coppie in cui le donne sono disoccupate o occupate con contratti a tempo indeterminato oppure 'ati­pici'. Ebbene, i due stu­diosi dimostrano che «le coppie in cui la don­na è precaria hanno il 3% di probabilità in meno di pianificare una gravidanza» rispetto a quelle in cui la donna ha un contratto a tempo indeterminato, a parità di altre con­dizioni come l’età e l’istruzione. La precarietà è un deterrente pesante, nonostante anche i contratti a tempo, quelli a progetto o co.co.co. prevedano forme di tutela della maternità, tra cui il congedo obbligatorio e un’inden­nità economica. Ma non, ovviamente, la ga­ranzia di un rinnovo del contratto. «La precarietà femminile – notano i due ricercatori nel loro studio, pubblicato dal forum internet neodemos.it – è associata a una forte in­certezza relativa ai redditi futuri e al fondato timore che la scelta di diventare madre pos­sa compromettere ogni possibilità di realiz­zazione nel mondo del lavoro». Una gravi­danza può costare il posto, così come com­promettere la possibilità di reinserimento pro­fessionale dopo un periodo trascorso a casa accanto al figlio. Proprio ieri su Repubblica u­na lettrice, Ilaria Riggio, «34 anni, una laurea, un master», raccontava che dopo anni il suo contratto a progetto stava per essere trasfor­mato in contratto a tempo determinato, ma quando lei ha scoperto di attendere un figlio l’azienda improvvisa­mente si è «dimentica­ta » della promessa. «Io ora sono incinta e an­che disoccupata. Così facendo le aziende co­stringono le donne a mentire o a rinunciare, con il ricatto della non assunzione, alla mater­nità », conclude amara­mente.

«Al corso pre-parto – racconta ad Avvenire una neomamma milanese 33enne – eravamo quasi tutte precarie, qualcuna a tempo de­terminato, altre co.co.co. Io ero la più giovane, alcune sfiora­vano i 40 anni. Aveva­no aspettato, anno do­po anno, sperando in un contratto stabile. Poi si sono arrese all’orolo­gio biologico. E adesso incrociano le dita». Dunque, che fare? Se u­no degli scenari più preoccupanti per l’Italia è quello dell’inverno de­mografico, bisogna tro­vare una via d’uscita perché la flessibilità del lavoro non sia per le giovani donne sinoni­mo (solo) di instabilità, bassi stipendi e scarsa tutela. Ed ecco, allora, i suggerimenti dei due economisti Modena e Sabatini: le misure di sostegno alla fecondità finora si sono concentrate sulla coppia con figli, «dimenticando colpevolmente le donne che sono sta­te costrette a rimandare o rinunciare. È indispensabile combattere alla radice le cause del declino della fecondità, adottando serie politiche del lavoro che riducano la precarietà, soprattutto quella femminile». Come, è tutta un’altra storia.


Embrioni «orfani», Francia divisa - Ok in commissione all’impianto dopo la morte del padre dei concepiti in provetta. Ma l’Aula dovrebbe votare no - DA PARIGI DANIELE ZAPPALÀ, Avvenire, 28 gennaio 2011

In vista dell’apertura del dibattito in aula il pros­simo 8 febbraio, all’Assemblée nationale avanza­no i lavori nella commis­sione parlamentare specia­le per la modifica della leg­ge francese sulla bioetica.

La commissione ha appena approvato la possibilità d’innesto in utero di un embrione congelato entro i 6 mesi successivi alla mor­te del padre, se c’è il con­senso scritto di quest’ulti­mo e in assenza di proce­dure di divorzio in corso. Questo termine riguarda la decisione della donna sul primo innesto ed è esteso a un periodo di 18 mesi per gli eventuali tentativi suc­cessivi.

Si tratta di una decisione che contraddice la volontà del governo, che si è invece chiaramente opposto alla prospettiva di «far nascere un bambino orfano». Non si escludono dunque colpi di scena come quelli già vi­sti nei giorni scorsi in Se­nato, dove un progetto di legge sull’eutanasia votato in commissione era poi sta­to bocciato in aula su im­pulso dell’esecutivo. Fra coloro che si sono astenu­ti in commissione figura pure il deputato neogolli­sta Jean Leonetti, respon­sabile della maggioranza parlamentare per le que­stioni di bioetica e coordi­natore di tutto il progetto di revisione della legge. U­scendo dai lavori, Leonetti ha manifestato motivi di scetticismo verso la misu­ra appena adottata: «Il dispositivo non è ancora totalmente sicuro. Occorre che la misura sia possibile a titolo davvero eccezionale». La stessa commissione ha invece bocciato la possibi­lità di fecondazione in vi­tro a partire dai gameti di un padre deceduto.

Un via libera provvisorio è stato dato poi alla possibilità di donare ovociti per le donne maggiorenni non ancora madri. Si tratta di una misura anch’essa molto controversa e che è stata giustificata dai suoi difensori con l’argomento della 'disponibilità limitata' di gameti femminili destinati alla fecondazione in vitro. Su questi e altri punti, il di­battito parlamentare si annuncia acceso.