Nella rassegna stampa di oggi:
1) Maria a Medjugorje - Messaggio del 25 gennaio 2011 - Cari figli! Anche oggi sono con voi e vi guardo, vi benedico e non perdo la speranza che questo mondo cambierà in bene e che la pace regnerà nei cuori degli uomini. La gioia regnerà nel mondo perché vi siete aperti alla mia chiamata e all’amore di Dio. Lo Spirito Santo cambia la moltitudine di coloro che hanno detto si. Perciò desidero dirvi: grazie per aver risposto alla mia chiamata.
2) «Una Giornata europea dei Martiri Cristiani» - 25-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
3) ALEKSANDR SOLŽENICYN, L’IRRIDUCIBILE DIFENSORE DELL’UOMO di Paolo Pegoraro* - ROMA, martedì, 25 gennaio 2011 (ZENIT.org).
4) La verità ragionevole del matrimonio cristiano nel discorso del Papa alla Rota romana (Francesco Ventorino) - Nel discorso del Papa alla Rota romana - La verità ragionevole del matrimonio cristiano di Francesco Ventorino (©L'Osservatore Romano - 26 gennaio 2011)
5) Per il presidente Medvedev l'attentato all'aeroporto Domodedovo è una sfida lanciata allo Stato - La Russia ripiomba nell'incubo del terrorismo (©L'Osservatore Romano - 26 gennaio 2011)
6) In "Hereafter" Eastwood raccoglie la sfida di confrontarsi con il tema dell'aldilà - L'occasione amara e dolce di Emilio Ranzato (©L'Osservatore Romano - 26 gennaio 2011)
7) Fede e ragione nel Discorso di Ratisbona (Daniele Piccini) - Cultura e Società: Fede e ragione nel Discorso di Ratisbona - Nel Palazzo apostolico Lateranense il primo dei tre appuntamenti promossi dall'Ufficio diocesano per la pastorale universitaria su "I grandi Discorsi di Benedetto XVI" di Daniele Piccini
8) La rivolta in Medio Oriente e noi di Riccardo Cascioli 26-01-2011 – da http://www.labussolaquotidiana.it
9) Avvenire.it, 26 gennaio 2011 - Udienza del mercoledì - Giovanna d'Arco: «Esempio per i laici impegnati in politica»
10) Avvenire.it, 26 gennaio 2011 - Quell’idea che domina. E la nostra - Riuscire? Intendiamoci di Davide Rondoni
11) Avvenire.it, 26 gennaio 2011 - Sentenze ecclesiastiche e delibazioni della Cassazione - Quel deficit da sanare nella legge matrimoniale
12) Cattolici dell’altro mondo di Lorenzo Albacete - mercoledì 26 gennaio 2011 – il sussidiario.net
«Una Giornata europea dei Martiri Cristiani» - 25-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
Strasburgo - Una Giornata Europea dei Martiri Cristiani per ricordare i tanti cristiani del nostro tempo uccisi in odio alla fede e alla Chiesa. L’ha proposta il sociologo italiano Massimo Introvigne, Rappresentante dell’OSCE, l'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, per la lotta all’intolleranza e alla discriminazione contro i cristiani, nel corso della sua audizione odierna al Consiglio d’Europa di Strasburgo sul tema Persecuzione dei cristiani orientali, quale risposta dall'Europa?.
All’audizione, promossa dal Centro Europeo per il Diritto e la Giustizia (ECLJ), hanno partecipato, oltre a Introvigne, mons. Antoine Audo, vescovo cattolico di rito caldeo di Aleppo in Siria, e padre Emanuel Youkhanna, amministratore apostolico della Chiesa Assira d'Oriente.
«Non c’è sufficiente consapevolezza – ha detto Introvigne – dell’intolleranza e delle persecuzioni contro i cristiani. Tre quarti dei casi di persecuzioni religiose nel mondo riguardano i cristiani, ma pochi lo sanno».
Introvigne ha ricordato il grande evento ecumenico che Papa Giovanni Paolo II organizzò al Colosseo il 7 maggio 2000, con otto "stazioni" che ricordavano i principali gruppi di martiri cristiani del nostro tempo: le vittime del totalitarismo sovietico, del comunismo in altri Paesi, del nazionalsocialimo, dell’ultrafondamentalismo islamico, dei nazionalismi religiosi violenti in Asia, dell’odio tribale e antimissionario, del laicismo aggressivo e della criminalità organizzata.
«Proprio il 7 maggio, in memoria di quel grande avvenimento – ha continuato Introvigne – potrebbe essere la data per una giornata del ricordo dei martiri cristiani. Il successo della Giornata della Memoria per un’efficace lotta all’antisemitismo, anche nelle scuole, suggerisce non certamente di farle concorrenza, ma di proporre uno strumento analogo per ricordare i tantissimi martiri – una parola che significa “testimone” – della persecuzione e dell’intolleranza contro i cristiani».
Questa giornata, ha detto il Rappresentante dell’OSCE per la lotta alla cristianofobia, potrebbe essere occasione ogni anno per un «esame di coscienza collettivo» e per un «accostamento esigente» dell’Europa al problema della tutela delle minoranze cristiane in diversi Paesi.
Introvigne ha ricordato infine l’appello che Giovanni Paolo II lanciò al Colosseo il 7 maggio 2000 al nuovo secolo XXI che allora iniziava: «Resti viva, nel secolo e nel millennio appena avviati, la memoria di questi nostri fratelli e sorelle. Anzi, cresca! Sia trasmessa di generazione in generazione, perché da essa germini un profondo rinnovamento». L’istituzione di una Giornata Europea dei Martiri Cristiani, ha concluso il sociologo italiano, sarebbe una bella risposta a questo appello oggi più che mai attuale.
ALEKSANDR SOLŽENICYN, L’IRRIDUCIBILE DIFENSORE DELL’UOMO di Paolo Pegoraro* - ROMA, martedì, 25 gennaio 2011 (ZENIT.org).
ROMA, martedì, 25 gennaio 2011 (ZENIT.org).- Chi ha paura di Aleksandr Solženicyn? La recente uscita della monumentale biografia Solženicyn di Ljudmila Saraskina (San Paolo, pp. 1441, € 84) rappresenta un’occasione per tornare a leggere il grande autore russo, Premio Nobel per la letteratura nel 1970, imprigionato nei campi di lavoro e successivamente esiliato dall’Unione Sovietica.
Strano destino, il suo: si dice che dopo aver letto il suo primo romanzo - Una giornata di Ivan Denisovič - la poetessa Anna Achmatova abbia detto: «Questo romanzo deve essere letto e imparato a memoria da ciascuno dei duecento milioni di cittadini dell’Unione Sovietica». Nikita Chruščëv in persona volle conoscere colui che aveva raccontato con tanta verità quello che accadeva nei campi di lavoro. Ma il favore sarebbe durato poco... ben presto il suo «umanesimo di compensazione» nonché l’«inutile senso di pietà» furono considerati ostacoli - così secondo la Pravda - contrari alla «battaglia per una moralità socialista».
Ne abbiamo parlato con Adriano Dell’Asta, professore di Lingua e Letteratura Russa all’Università Cattolica di Brescia e di Milano, Presidente dell’Istituto Italiano di Cultura a Mosca e curatore dell’edizione italiana della biografia di Solženicyn.
Professore, quanto e come è conosciuto Solženicyn nel nostro Paese?
«Solženicyn in Italia è decisamente meno conosciuto di quanto meriterebbe; basti pensare che della sua monumentale Ruota Rossa, l’opera dedicata alla ricostruzione della rivoluzione, è stato tradotto soltanto il primo nodo, Agosto 1914, mentre il resto è ancora inaccessibile a chi non conosce il russo: e non va dimenticato a questo proposito che il russo di Solženicyn non è certo una lingua facile».
Nell’introduzione alla biografia di Ljudmila Saraskina lei lo definisce uno «scrittore inattuale»…
«Il punto è che tutta la sua opera è un’opera impegnativa: è inattuale là dove si cerca di sfuggire alla serietà della vita, là dove si cerca di dimenticare l’impegno e la responsabilità di ogni giorno. Nata e sviluppata attorno a due delle esperienze più tragiche della storia dell’umanità, quelle della rivoluzione russa e dei campi di concentramento, è un’opera che ci costringe a fare i conti con il mistero del male che l’uomo si porta addosso, e questo non è certo facile; anche se andrebbe ricordato che questa disattenzione ci fa poi dimenticare che nella vita, come nelle opere di Solženicyn, agli abissi di iniquità risponde sempre un altro abisso, quello della risurrezione e della salvezza».
Quali sono le particolarità di questa biografia e qual è il significato della sua pubblicazione in Italia?
«La caratteristica fondamentale, irripetibile, del lavoro di L. Saraskina è legata al fatto che l’autrice ha potuto lavorare a lungo a diretto contatto con Solženicyn, quindi non solo potendo consultare i suoi archivi ma potendo anche fargli tutte le domande che riteneva necessarie per cercare di capire gli eventi centrali della sua storia e il loro significato. Tra l’altro questo ha permesso all’autrice di ricreare attorno al suo personaggio anche tutto un mondo: attraverso questa biografia noi non entriamo soltanto nella vita di Solženicyn ma anche nel periodo storico e in tante storie apparentemente piccole e invisibili che invece hanno contribuito a creare il volto autentico della grande storia; penso qui in particolare alle figure dei tanti personaggi sconosciuti che hanno aiutato Solženicyn e senza i quali, come lui stesso sottolinea, la sua opera sarebbe stata impossibile: Solženicyn era un gigante, ma questa biografia ci fa capire anche quanta sconosciuta e gratuita grandezza lo ha accompagnato nella sua lotta contro il male assoluto del XX secolo».
Solženicyn sostenne con forza la preminenza dell’uomo sull’ambiente e la possibilità di conservarsi liberi anche in condizioni totalmente sfavorevoli. Come questa convinzione ha plasmato la sua narrativa?
«L’idea della libertà dell’uomo e della sua irriducibilità alla pressione delle circostanze è una delle idee centrali della sua opera. La casa di Matriona, uno dei suoi primi racconti è la storia di una vecchia stupida, sfruttata da tutti, e che ha addirittura qualche macchia nel suo passato, eppure quando muore la gente si accorge che era “il Giusto senza il quale, come dice il proverbio, non esiste il villaggio. Né la città. Né tutta la terra nostra”. L’uomo ha dentro di sé qualcosa di grande e di infinito, non fatto da mano d’uomo, dice spesso Solženicyn, qualcosa che l’uomo, misero com’è, non è capace di darsi da solo, eppure questo nucleo misterioso lo definisce e lo rende capace di resistere e di rinascere dopo ogni caduta; bisogna solo saper guardare la realtà secondo tutta la sua complessità, senza pretendere di possederne la formula, prestando attenzione al movimento del cuore, perché è nel cuore dell’uomo che passa la linea che divide il bene dal male, e questa linea è mobile, si muove all’interno del cuore di ogni uomo».
Egli scrive pure, tuttavia, che «è puro caso se i boia non siamo noi, ma loro». Come conciliare libertà individuale e movimenti storici tanto più grandi del singolo?
«Noi abbiamo un’idea riduttiva del caso, come se fosse l’assenza di senso, mentre tutta la nostra vita, anche nei suoi movimenti più ragionati e soppesati, è fatta di casi, senza che questo implichi l’assenza di una ragione. Puškin ricordava che il caso è la mano della Provvidenza che ci libera dalle ferree leggi dell’algebra. L’esperienza di Solženicyn è che ciascuno di noi può diventare un boia – è l’idea della banalità del male che spiega gli abissi toccati nel XX secolo –, ma che non tutti lo sono diventati, questa differenza dipende appunto dalla libertà dell’uomo, dal modo diverso in cui ogni uomo risponde ai casi della vita, alle occasioni che la vita gli offre. E qui, per cercare di capire ulteriormente, andrebbe aggiunto che per Solženicyn la libertà dell’uomo, cioè la pienezza e il compimento dell’uomo, non è l’indifferenza della scelta, un vuoto, ma la sua disponibilità ad abbracciare la verità e il senso della vita: ogni caso porta un significato, un messaggio che va interpretato e ci offre la possibilità di decidere da cosa vogliamo essere definiti, dal finito e dal nulla o dalla nostra irriducibilità ai casi insensati, cioè dalla pienezza dell’essere e dall’infinito».
Lo stesso Solženicyn compì un lungo percorso per spogliarsi di una lettura ideologica della realtà e riscoprirne gli aspetti concreti. Quanto incisero l’esperienza della malattia e dell’imprigionamento?
«Il campo di concentramento, il cancro – dal quale Solženicyn fu colpito mentre era ancora detenuto – e, prima ancora, la guerra, furono i tre casi principali che gli consentirono di liberarsi dalla presunzione dell’ideologia, cioè dalla pretesa dell’uomo di poter possedere le leggi della storia e di poter sostituire alla realtà le proprie idee. Quelli che per altri furono casi disgraziati e maledetti per lui furono l’occasione per rendersi conto che la realtà – e innanzitutto il cuore dell’uomo – era sempre più ricca di quello che appariva o di quello che l’uomo poteva attribuirle, meglio, la realtà mostrava che ogni volta che l’uomo credeva che tutto fosse finito, ogni volta che il potere credeva di avere in mano l’uomo, tutto poteva nuovamente ricominciare; uno dei detenuti di Solženicyn dice ad un pezzo grosso del regime: “A un uomo al quale avete tolto tutto non potete più togliere niente: è di nuovo libero”».
L’istituzione statale del Gulag durò oltre mezzo secolo. A oggi, che marchio ha lasciato quest’esperienza nell’immaginario russo?
«L’esperienza concentrazionaria è stata il culmine della pretesa del regime sovietico di creare l’uomo nuovo, cioè un uomo definito dall’ideologia e non dalla realtà, un uomo definito dalla pretesa del potere di ridefinire e ricreare costantemente e a proprio piacimento la verità: solo a queste condizioni il sistema poteva giustificare il proprio dominio e la propria pretesa di dominare il mondo. Per fare questo il sistema ha dovuto fare di tutto per eliminare la verità, la realtà, la coscienza e il cuore dell’uomo; i campi di concentramento sono stati appunto lo strumento privilegiato per questa operazione, insieme alla distruzione dei contadini – con le grandi carestie indotte dell’inizio degli anni Venti e dell’inizio degli anni Trenta – e insieme alla persecuzione della Chiesa, tutti punti in cui la coscienza dell’uomo e della sua irriducibilità resistevano. Che la Russia sia uscita da questa tragedia senza una guerra è il segno di questa irriducibilità e un pegno per il futuro: è una vittoria la cui importanza può essere paragonata solo alla vittoria contro il nazismo, e di tale grandezza che il suo significato deve ancora essere capito fino in fondo. Ma qui il lavoro, siccome riguarda la rinascita della coscienza dell’uomo, è tutto affidato alla memoria e alla coscienza di ciascuno di noi e non riguarda solo la Russia, questa vittoria riguarda tutta l’Europa e tutta l’umanità».
A suo avviso, nelle istituzioni scolastiche europee viene trasmessa un’adeguata conoscenza del fenomeno? Almeno in Italia, Arcipelago Gulag è l’opera di Solženicyn più nota ma meno letta...
«Su avvenimenti così decisivi la conoscenza non è mai adeguata e il lavoro della memoria deve essere continuamente approfondito e liberato da qualsiasi preoccupazione che non sia quella del servizio alla verità e alla libertà dell’uomo. Il caso dell’Arcipelago è in questo senso esemplare: è l’opera più nota perché se ne è fatta spesso un’utilizzazione politica ma, in realtà, anche se la denuncia del comunismo che vi viene pronunciata è una delle più stringenti e inoppugnabili che siano mai state formulate, una lettura politica di quest’opera è quanto di più riduttivo e contrario alle stesse esplicite intenzioni di Solženicyn: come ho già ricordato, quello che interessa l’autore e quello che colpisce i lettori senza pregiudizi è la riscoperta dell’uomo e del suo cuore irriducibile a qualsiasi schieramento o idea».
Solženicyn fu pure un critico severo della cultura consumistica che incontrò negli anni dell’esilio statunitense, venendo bollato come reazionario. Le sue parole sono ancora attuali?
«L’inattualità di Solženicyn di cui parlavamo all’inizio è legata appunto a questa sua irriducibilità a settori parziali, dipende da questa sua capacità di richiamare l’uomo all’essenziale, un essenziale che viene tradito sia dal “bazar del Partito”, sia “dalla fiera del commercio”. In questo senso Solženicyn diventa fondamentalmente inutilizzabile per chi cerchi in lui uno strumento di pura lotta politica, mentre diventa un punto di riferimento altrettanto fondamentale per chi nella letteratura cerchi l’immagine di una bellezza che sia realmente splendore del vero».
Quali sono, secondo lei, le pagine narrativamente più alte della sua opera? Al lettore che volesse confrontarsi con Solženicyn, da cosa consiglierebbe di cominciare?
«Di pagine altissime e di formulazioni irripetibili è ovviamente piena tutta l’opera di Solženicyn, dalla Ruota Rossa all’Arcipelago, a Divisione Cancro o a Primo cerchio... così come di caratteri che rendono la sua scrittura unica, come il particolare uso dei proverbi e dell’ironia, tanto per suggerire due elementi che risaltano immediatamente anche per il lettore più affrettato. Forse può valere la pena di cominciare dalle cose più brevi: oltre alla già citata Casa di Matrjona, Una giornata di Ivan Denisovič, il breve racconto della vita di una giornata qualunque di un detenuto qualunque negli ultimi anni dello stalinismo, l’opera che fece conoscere Solženicyn e che passerà comunque alla storia come quella dove si tornava finalmente a dire “tutta la verità”, grazie alla quale le parole tornarono a corrispondere alla realtà».
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*Paolo Pegoraro (Vicenza, 1977) si è laureato in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana e in Letterature comparate presso l'Università "La Sapienza" di Roma. Collabora da anni alle pagine culturali di numerose riviste, tra cui L'Osservatore Romano, La Civiltà Cattolica e Famiglia Cristiana.
La verità ragionevole del matrimonio cristiano nel discorso del Papa alla Rota romana (Francesco Ventorino) - Nel discorso del Papa alla Rota romana - La verità ragionevole del matrimonio cristiano di Francesco Ventorino
È una sfida notevole quella che il Papa ha lanciato nel discorso ai prelati uditori del tribunale della Rota romana, tenuto lo scorso 22 gennaio. Partendo dalla premessa che "il matrimonio celebrato dagli sposi, quello di cui si occupa la pastorale e quello messo a fuoco dalla dottrina canonica, sono una sola realtà naturale e salvifica", Benedetto XVI ha tratto la logica conseguenza che l'obiettivo immediato della preparazione al matrimonio, ritenuta sempre più essenziale alla validità stessa del gesto sacramentale, non è rivolgere alla coppia "un messaggio ideologico", né tanto meno imporre un "modello culturale", quanto piuttosto "promuovere la libera celebrazione di un vero matrimonio, la costituzione cioè di un vincolo di giustizia ed amore tra i coniugi, con le caratteristiche dell'unità ed indissolubilità, ordinato al bene dei coniugi e alla procreazione ed educazione della prole". È questo vincolo, infatti, che "tra battezzati costituisce uno dei sacramenti della Nuova Alleanza".
Perché questo si realizzi è necessario che i fidanzati vengano posti in grado di scoprire "la verità di un'inclinazione naturale e di una capacità di impegnarsi che essi portano inscritte nel loro essere relazionale uomo-donna", dalla quale scaturisce la capacità e il diritto di quella donazione consensuale che si attualizza nel sacramento del matrimonio. "Ragione e fede - conclude il Papa - concorrono a illuminare questa verità di vita".
La sfida è tutta qui: saper mostrare, all'interno di un itinerario pastorale, quanto nella concezione sacramentale e giuridica del matrimonio cristiano vengano comprese e portate a piena realizzazione le esigenze naturali dell'uomo e della donna, nonché della relazione stessa che intendono stabilire tra di loro nella specificità dell'unione coniugale.
Con questo suggerimento metodologico Benedetto XVI si inserisce nella più nobile tradizione del pensiero cristiano. È noto, infatti, che Tommaso d'Aquino, per confermare la visione biblica dell'unione coniugale, adduce delle ragioni eminentemente "laiche": "Era giusto che nella prima costituzione delle cose la donna fosse formata dall'uomo, a differenza di quanto fu fatto per gli altri animali (...) affinché l'uomo, sapendo che la donna è uscita da lui, l'amasse di più e le fosse unito indissolubilmente". A favore della sua affermazione, l'Aquinate cita l'autorità di colui che era ritenuto il filosofo per eccellenza, e cioè Aristotele, secondo il quale "il maschio e la femmina si uniscono nella specie umana non solo per la necessità di generare, come tutti gli altri animali, ma anche per la vita domestica", vale a dire per una convivenza di cui hanno reciprocamente bisogno (Summa theologiae, i, q. 92, a. 2, c.).
Per ragioni della stessa natura viene condannata la fornicazione, unione occasionale dell'uomo e della donna. Essa è indebita perché priva della totalità propria della comunione coniugale, dentro la quale soltanto può essere accolta e educata quella vita che l'atto stesso dell'unione sessuale tende a generare (cfr. ibidem, ii-ii, q. 154, a. 2, c.).
Questo modo di argomentare ha sempre contraddistinto il magistero della Chiesa, soprattutto recente; pensiamo, in particolare, alla Humanae vitae di Paolo VI e alla Familiaris consortio di Giovanni Paolo II, cui il Papa fa particolarmente appello nel suo discorso. In essa, infatti, è stato efficacemente evidenziato come solo da questa visione del matrimonio e dell'atto sessuale derivino un'esaltazione e un compimento specifico della sessualità umana.
"La sessualità, mediante la quale l'uomo e la donna si donano l'uno all'altra con gli atti propri ed esclusivi degli sposi, non è affatto qualcosa di puramente biologico, ma riguarda - si legge nella Familiaris consortio (n. 11) - l'intimo nucleo della persona umana come tale. Essa si realizza in modo veramente umano, solo se è parte integrale dell'amore con cui l'uomo e la donna si impegnano totalmente l'uno verso l'altra fino alla morte. La donazione fisica totale sarebbe menzogna se non fosse segno e frutto della donazione personale totale, nella quale tutta la persona, anche nella sua dimensione temporale è presente: se la persona si riservasse qualcosa o la possibilità di decidere altrimenti per il futuro, già per questo essa non si donerebbe totalmente".
Con la lucidità intellettuale che gli è propria, Benedetto XVI ribadisce nell'oggi della Chiesa questa urgenza metodologica. Nel proporre la dottrina cristiana del matrimonio è sempre più necessario mostrarne la piena corrispondenza all'ordine della ragione; altrimenti diverrebbe inevitabile che essa venga ridotta a una particolare visione ideologica comprensibile solo all'interno di un contingente e relativo modello culturale.
(©L'Osservatore Romano - 26 gennaio 2011)
Per il presidente Medvedev l'attentato all'aeroporto Domodedovo è una sfida lanciata allo Stato - La Russia ripiomba nell'incubo del terrorismo (©L'Osservatore Romano - 26 gennaio 2011)
Mosca, 25. "Il terrorismo rimane la minaccia principale per la sicurezza dello Stato e di tutti i cittadini russi": lo ha detto questa mattina il presidente Dmitri Medvedev durante l'annuale riunione dei servizi segreti, quella in cui viene tracciato il bilancio dell'attività dell'Fsb. Ma la riunione di oggi ha avuto luogo all'indomani dell'attentato all'aeroporto internazionale di Domodedovo, il più grande del Paese, con 35 morti (otto delle vittime sono straniere) e 110 feriti.
"Il livello della minaccia terroristica in Russia è più alto di quello negli Stati Uniti", ha aggiunto Medvedev, sottolineando che "nel 2010 il numero degli attentati in Russia è aumentato, un segnale, questo, molto serio per i servizi segreti e le forze dell'ordine". Bisogna fare tutto il possibile - ha ammonito - "perché i banditi che hanno commesso questo mostruoso delitto vengano giudicati, e coloro che cercheranno di opporre resistenza vanno eliminati sul posto". In precedenza Medvedev aveva detto che la direzione dell'aeroporto Domodedovo dovrà rispondere del sanguinoso attentato.
La comunità internazionale è rimasta scioccata e ha condannato fermamente il feroce atto di terrorismo. Benedetto XVI ha inviato un messaggio - a firma del cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato - al presidente della Federazione russa in cui "esprime profondo dolore e ferma riprovazione per il grave atto di violenza, desiderando far giungere sentimenti di vicinanza spirituale e di vive condoglianze ai familiari delle vittime". Il Papa - prosegue il messaggio - "assicura fervide preghiere di suffragio per le vite stroncate" e "invoca dal Signore il conforto celeste a quanti ne piangono la tragica dipartita". Lo stesso cardinale Tarcisio Bertone si è unito al dolore della Federazione russa.
L'attentato rischia di evocare lo spettro degli anni bui del terrorismo ceceno e della instabilità: una parola che non piace agli investitori stranieri, come confermano anche le perdite della Borsa (circa due punti il Micex) dopo la strage. Ma il timore è quello di una escalation in vista di un doppio turno decisivo di elezioni: a fine anno le politiche, a marzo del 2012 le presidenziali. Un'ombra che si allunga sui Giochi invernali di Soci nel 2014 e addirittura sui Mondiali di calcio del 2018, che Mosca si è aggiudicata recentemente per trasformarli in un volano di crescita. Su questa strada ricca di appuntamenti politici e di business, la Russia si scopre vulnerabile proprio nel cuore del Paese, dove transita l'80 per cento dei flussi finanziari, in gran parte generati da gas e petrolio.
Lo scorso 29 marzo furono due donne a farsi saltare in aria in due stazioni della metro, causando nel complesso quaranta vittime e oltre un centinaio di feriti. Da tempo le autorità russe accusano i mercenari arabi di sostenere la sempre più frammentata ribellione nel Caucaso del nord, ma potrebbe trattarsi anche di qualche militante locale, come ipotizzano alcuni investigatori rispolverando l'intramontabile pista cecena. Ciò che più inquieta, però, è che sembra quasi un attentato annunciato: le forze di sicurezza hanno rivelato che sapevano dell'imminenza di un atto contro uno degli aeroporti di Mosca. Sarebbero state sulle tracce di tre sospetti che però sono riusciti a introdursi nell'aeroporto e a osservare l'esplosione del loro complice - forse una donna - prima di dileguarsi. Uno smacco per un Paese dove i controlli di sicurezza sono ossessivi e dove fino a lunedì tutti i mezzi di trasporto saranno posti in regime di emergenza.
In "Hereafter" Eastwood raccoglie la sfida di confrontarsi con il tema dell'aldilà - L'occasione amara e dolce di Emilio Ranzato (©L'Osservatore Romano - 26 gennaio 2011)
L'aldilà è un conforto troppo grande per il personaggio di un dramma. Lo è ancora di più per il personaggio di un film di Clint Eastwood, ossia l'ultima forma di dramma che ci è rimasta sul grande schermo fra colossi di plastica e alchimie postmoderne. Perché ciò che è riuscito meglio a questo ormai conclamato maestro del cinema, soprattutto negli ultimi vent'anni, è stato delineare con sempre maggior profondità, precisione, sensibilità, la parabola tragica ed eroica dell'individualista americano alle prese con un mondo in cui i valori sbiadiscono, le istituzioni vacillano, i rapporti familiari deludono, e i miti della filosofia nazionale - dal sogno americano al mito della seconda possibilità - tradiscono. Ma in cui un atto di libero arbitrio può ancora salvare chi lo mette in pratica e chi lo riceve dalle ombre di un darwinismo incombente. E la poetica di Eastwood sta soprattutto nell'imperfezione di questo gesto estremo, che non è detto affatto coincida con ciò che è giusto, ma solo con ciò che il protagonista è in grado di fare. Caricandosi però sulle spalle, nel bene o nel male, le responsabilità di una comunità intera. È d'altronde questo, più di ogni stilema, ciò che rende il regista statunitense un autore classico e moderno insieme: l'ideale del professionismo e del lavoro ben fatto, tipico in particolare della narrativa western da cui la sua carriera ha preso le mosse, calato però nell'enigmatica selva di valori della società contemporanea. E l'assoluto non può che mandare a monte questo faticoso e umanissimo gioco di contrappesi.
Nel recente Gran Torino (2009) un prete cattolico - non a caso figura ricorrente ma anche dialettica dell'ultimo cinema di Eastwood - apriva l'omelia funebre con queste parole: "La morte è un'occasione amara e dolce per noi cattolici, amara nel dolore, dolce nella salvazione". E infatti per l'anziano protagonista la pace arrivava come premio per sé e per gli altri alla fine di un sacrificio che perveniva a esiti quasi cristologici dopo aver attraversato lo scosceso crinale delle ambiguità morali. Per i personaggi di Hereafter, invece, la consapevolezza di questa ricompensa arriva troppo presto; il dolore non è assente dalle loro vicende, ma non ha il tempo di diventare esperienza. Soprattutto, manca un codice morale da decifrare, un ordine da ristabilire, come dire il pane quotidiano del cinema di Eastwood. Non c'è da stupirsi, allora, se nella struttura tripartita del film il personaggio della giornalista francese vittima di una calamità e quello del ragazzino inglese che ha perso il fratello, non hanno un vero sviluppo, e vengono adoperati più che altro in funzione accessoria per la terza storia, quella del medium interpretato da Matt Damon - non a caso l'americano - dove si riconosce molto di più la mano del regista.
Il dramma di George consiste nel non trovare un punto di incontro fra sé e chi lo circonda. Usare le proprie capacità medianiche per lui vuol dire dare conforto - e non sempre - agli altri, ma anche condannare se stesso alla solitudine. La sua massima aspirazione è trovare qualcuno con cui riuscire a non condividere esperienze ultraterrene, ossia ciò che tutti, al contrario, sembrano cercare. È lui, insomma, il personaggio eastwoodiano costretto alla scelta necessaria. Ma tracce del regista qui si riconoscono anche nella delicatezza con cui apre e chiude la digressione della ragazza incontrata al corso gastronomico, nella simbologia discreta ma efficace del "ritorno" alla vita terrena attraverso i sapori della cucina e di una incipiente seduzione reciproca, nel determinismo che ancora una volta serpeggia malignamente - George riceve i suoi poteri da un'operazione andata male; è la mancanza di una moglie e di una famiglia a fargli perdere il posto di lavoro - nei rapporti familiari più votati al tornaconto economico che agli slanci d'affetto, nell'effetto terapeutico delle piccole ma sane abitudini, qui rappresentate dalle letture di Dickens.
Peccato allora che Eastwood e il suo sceneggiatore Peter Morgan - autore fra l'altro dell'ottimo script di The queen (Stephen Frears, 2006) - non abbiano deciso di fare di questo personaggio il vero protagonista del film, evitandoci così spiegazioni didascaliche e fredde circa le esperienze post-mortem sullo sfondo di una clinica svizzera da cartolina, o scene di suspense degne al massimo di un thriller paranormale di Shyamalan, ancorché raccontate con il perfetto senso del ritmo a cui siamo abituati.
Non sarà però una prova più opaca delle altre a intaccare l'amore che negli ultimi anni critica e pubblico hanno dimostrato a Eastwood. Anche perché chi conosce appena il suo cinema sa che un passo falso - non a caso traduzione di Malpaso, la casa di produzione da lui fondata - è l'effetto sintomatico di qualità che tutti gli riconoscono, e che lo accomunano ormai alle grandi figure del cinema americano, ossia la mancanza di una spocchia autoriale e la volontà di mettersi al completo servizio delle storie di cui di volta in volta si innamora.
Fede e ragione nel Discorso di Ratisbona (Daniele Piccini) - Cultura e Società: Fede e ragione nel Discorso di Ratisbona - Nel Palazzo apostolico Lateranense il primo dei tre appuntamenti promossi dall'Ufficio diocesano per la pastorale universitaria su "I grandi Discorsi di Benedetto XVI" di Daniele Piccini
La dialettica tra fede e ragione, analizzata da Papa Benedetto XVI nel Discorso all’Università di Regensburg del settembre 2006, è stata al centro del primo dei tre incontri che l’Ufficio diocesano per la pastorale universitaria intende dedicare a “I grandi Discorsi di Benedetto XVI” presso il Palazzo apostolico Lateranense.
Il rettore della Pontificia Università Lateranense, il vescovo Enrico Dal Covolo, ha parlato de “La questione religiosa tra pagani e cristiani” mostrando come questi ultimi si avvalessero di strumenti filosofici per affrontare quel discorso sul divino che la religio dei pagani impostava ancora su basi mitiche: «La fede cristiana ha fatto la sua scelta netta contro gli dei della religione per il Dio dei filosofi, vale a dire contro il mito della consuetudine, per la verità dell’essere. Fin dalle sue prime origini il cristianesimo ha coniugato la questione di Dio con la verità dell’essere, lungo un dialogo inesausto tra ragione e fede: dove, in maniera coerente, la ragione stessa rende disponibile al mistero e "si dilata"».
Francesco D’Agostino, professore di Filosofia del diritto a Tor Vergata, ha colto nel Discorso di Regensburg il monito di Papa Benedetto XVI alla scienza di non «smarrirsi nello scientismo riduttivistico». L’avvertimento rivolto da Benedetto XVI alla scienza di «difendersi da se stessa», non vuole affatto ridimensionare le metodologie scientifiche. «Gli scienziati - ha concluso D’Agostino - non devono fare passi indietro. La scienza è vera, ma insufficiente nei confronti della realtà. Questo allargamento di "visione" attraverso aspetti metafisici, esistenziali, estetici, ha delle ripercussioni etiche. È giusto obbedire alla verità delle cose. Non da schiavi però. Ma come figli che obbediscono al padre. Non possiamo conoscere le cose se non le amiamo».
Giorgio Israel, professore di matematica all’Università La Sapienza di Roma, ha dimostrato l’intima solidarietà tra il razionalismo greco e le tre religioni monoteistiche, rappresentate culturalmente e storicamente da Maimonide, San Tommaso e Averroè. Un connubio che resiste fino all’epoca moderna. «L’affermazione di Galileo, che il mondo sia matematico - ha spiegato Israel - è proprio il frutto del sodalizio teologico tra religione e scienza. Il principio di Galilei è stato però estremizzato e frainteso fino a farle significare che non solo il mondo fisico, ma ogni aspetto del mondo sia matematico, con ciò inaugurando quel riduzionismo positivistico e quella "limitazione autodecretata della ragione" denunciati dal Pontefice». La difesa migliore dal relativismo, ha concluso Israel, consiste nell’ammettere «una razionalità e un’idea di oggettività più ampie di quelle suggerite dai canoni scientifici, dentro i quali non c’è spazio per l’idea di Dio».
Il cardinale vicario Agostino Vallini, sottolineando la soddisfazione del Pontefice nell’apprendere di questi incontri "filosofici" presso il Palazzo apostolico, ha ricordato infine come «i martiri cristiani, morendo, avessero difeso proprio la sfera della coscienza individuale, contro le imposizioni della religio». Il prossimo incontro, di giovedì 27 gennaio, riguarderà il Discorso tenuto nel 2008 da Benedetto XVI al Collége de Bernardins, dedicato a “La cultura europea: origine e prospettive”.
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La rivolta in Medio Oriente e noi di Riccardo Cascioli 26-01-2011 – da http://www.labussolaquotidiana.it
«La Tunisia è la soluzione» diceva un cartello dei manifestanti ieri in Egitto. E’ il segno che c’è un filo rosso che lega le diverse rivolte che stanno scoppiando in tutto il Nordafrica e Medio Oriente: Tunisia, Algeria, Libano, Egitto, Yemen, tanto per citare i paesi finiti in questi giorni sulle prime pagine dei giornali.
E’ un filo rosso che lega situazioni politiche e sociali molto diverse, in alcuni casi neanche lontanamente assimilabili, ed è un filo rosso che in effetti contraddice quanto scritto su quel cartello: non c’è già una soluzione. C’è invece una grande turbolenza, un grande rivolgimento, c’è un’aria di rivolta generalizzata ma senza che si possa prevedere per ora alcun esito di questa crisi.
Non c’è per ora una soluzione in Tunisia, dove è di fatto fallito anche il tentativo di un governo di transizione che porti alle elezioni, mentre la rivolta continua; non c’è una soluzione in Libano, dove il governo varato dagli Hezbollah sembra aver aperto più problemi di quanti ne abbia risolti; non c’è uno sbocco chiaro neanche in Egitto dove la rivolta sembra aver preso in contropiede anche i più forti avversari del presidente Mubarak, i Fratelli Musulmani.
L’unica cosa certa è che siamo di fronte a eventi epocali che hanno le potenzialità di ridisegnare il volto della regione. Ci sarà una svolta fondamentalista? Si metterà in moto un processo democratico, almeno in alcuni paesi? O le vecchie nomenclature riusciranno comunque a riciclarsi e riprendere il controllo della situazione, perpetuando regimi autoritari e corrotti? E poi: emergerà davvero l’Iran come nuova potenza regionale, oppure Egitto e Arabia Saudita saranno ancora in grado di ritornare i principali attori in Medio Oriente? Al momento è impossibile dirlo, troppe sono le variabili che potrebbero spingere per una soluzione o l’altra, non ultima l’atteggiamento e gli interessi delle grandi potenze in questo rimescolìo.
E proprio su questo ultimo punto è importante fare attenzione: ci sono interessi immediati che consigliano di seguire e accompagnare da vicino questi eventi. Ciò che avviene sull’altra sponda del Mediterraneo, ad esempio, avrà comunque grandi ripercussioni per l’Italia e l’Europa, come ha già spiegato perfettamente Robi Ronza su questo quotidiano. E le sorti dell’Egitto saranno decisive per gli equilibri in tutto il Medio Oriente: non a caso gli Stati Uniti stanno già intervenendo per evitare che i vertici dell’esercito abbandonino Mubarak come è invece successo in Tunisia per il presidente Ben Alì (il capo di stato maggiore delle forze armate egiziane è in questi giorni a Washington).
Ma gli interventi sull’immediato devono avere come orizzonte il processo a lungo termine che padre Giuseppe Scattolin ha ben evidenziato nell’intervista a La Bussola Quotidiana: c’è un grande travaglio nel mondo islamico, un inizio di processo di rinnovamento culturale che – anche nel nostro interesse – deve essere favorito. La Tunisia è storicamente il paese dove gli studiosi islamici sono più preparati a un confronto con la modernità, ma – come ci ha testimoniato padre Scattolin – anche nell’Università Al Azhar del Cairo qualcosa si sta muovendo. E’ importante sostenere questo movimento, sia evitando mosse che possano provocare reazioni di chiusura; sia studiando con attenzione e aprendo canali di confronto con queste realtà (la Fondazione Oasis del cardinale Angelo Scola è un esempio); sia favorendo nei nostri paesi la presenza delle organizzazioni moderate anziché inseguire e corteggiare i movimenti più radicali, che finiscono per ricattarci.
In questo scenario risalta ancora di più la scelta profetica di Benedetto XVI che pone la libertà religiosa come criterio fondamentale della politica internazionale, contro le minacce più gravi che ci sono di fronte: il laicismo e il fondamentalismo. Guarda caso, laicismo e fondamentalismo sono le possibili derive – non auspicabili – della rivoluzione in atto in Nordafrica e Medio Oriente.
Avvenire.it, 26 gennaio 2011 - Udienza del mercoledì - Giovanna d'Arco: «Esempio per i laici impegnati in politica»
Cari fratelli e sorelle,
oggi vorrei parlarvi di Giovanna d'Arco, una giovane santa della fine del Medioevo, morta a 19 anni, nel 1431. Questa santa francese, citata più volte nel Catechismo della Chiesa Cattolica, è particolarmente vicina a santa Caterina da Siena, patrona d'Italia e d'Europa, di cui ho parlato in una recente catechesi. Sono infatti due giovani donne del popolo, laiche e consacrate nella verginità; due mistiche impegnate, non nel chiostro, ma in mezzo alle realtà più drammatiche della Chiesa e del mondo del loro tempo. Sono forse le figure più caratteristiche di quelle "donne forti" che, alla fine del Medioevo, portarono senza paura la grande luce del Vangelo nelle complesse vicende della storia. Potremmo accostarle alle sante donne che rimasero sul Calvario, vicino a Gesù crocifisso e a Maria sua Madre, mentre gli Apostoli erano fuggiti e lo stesso Pietro lo aveva rinnegato tre volte. La Chiesa, in quel periodo, viveva la profonda crisi del grande scisma d'Occidente, durato quasi 40 anni. Quando Caterina da Siena muore, nel 1380, ci sono un Papa e un Antipapa; quando Giovanna nasce, nel 1412, ci sono un Papa e due Antipapa. Insieme a questa lacerazione all'interno della Chiesa, vi erano continue guerre fratricide tra i popoli cristiani d'Europa, la più drammatica delle quali fu l'interminabile "Guerra dei cent’anni" tra Francia e Inghilterra.
Giovanna d'Arco non sapeva né leggere né scrivere, ma può essere conosciuta nel più profondo della sua anima grazie a due fonti di eccezionale valore storico: i due Processi che la riguardano. Il primo, il Processo di Condanna (PCon), contiene la trascrizione dei lunghi e numerosi interrogatori di Giovanna durante gli ultimi mesi della sua vita (febbraio-maggio 1431), e riporta le parole stesse della Santa. Il secondo, il Processo di Nullità della Condanna, o di "riabilitazione" (PNul), contiene le deposizioni di circa 120 testimoni oculari di tutti i periodi della sua vita (cfr Procès de Condamnation de Jeanne d'Arc, 3 vol. e Procès en Nullité de la Condamnation de Jeanne d'Arc, 5 vol., ed. Klincksieck, Paris l960-1989).
Giovanna nasce a Domremy, un piccolo villaggio situato alla frontiera tra Francia e Lorena. I suoi genitori sono dei contadini agiati, conosciuti da tutti come ottimi cristiani. Da loro riceve una buona educazione religiosa, con un notevole influsso della spiritualità del Nome di Gesù, insegnata da san Bernardino da Siena e diffusa in Europa dai francescani. Al Nome di Gesù viene sempre unito il Nome di Maria e così, sullo sfondo della religiosità popolare, la spiritualità di Giovanna è profondamente cristocentrica e mariana. Fin dall'infanzia, ella dimostra una grande carità e compassione verso i più poveri, gli ammalati e tutti i sofferenti, nel contesto drammatico della guerra.
Dalle sue stesse parole, sappiamo che la vita religiosa di Giovanna matura come esperienza mistica a partire dall'età di 13 anni (PCon, I, p. 47-48). Attraverso la "voce" dell'arcangelo san Michele, Giovanna si sente chiamata dal Signore ad intensificare la sua vita cristiana e anche ad impegnarsi in prima persona per la liberazione del suo popolo. La sua immediata risposta, il suo "sì", è il voto di verginità, con un nuovo impegno nella vita sacramentale e nella preghiera: partecipazione quotidiana alla Messa, Confessione e Comunione frequenti, lunghi momenti di preghiera silenziosa davanti al Crocifisso o all'immagine della Madonna. La compassione e l’impegno della giovane contadina francese di fronte alla sofferenza del suo popolo sono resi più intensi dal suo rapporto mistico con Dio. Uno degli aspetti più originali della santità di questa giovane è proprio questo legame tra esperienza mistica e missione politica. Dopo gli anni di vita nascosta e di maturazione interiore segue il biennio breve, ma intenso, della sua vita pubblica: un anno di azione e un anno di passione.
All'inizio dell'anno 1429, Giovanna inizia la sua opera di liberazione. Le numerose testimonianze ci mostrano questa giovane donna di soli 17 anni come una persona molto forte e decisa, capace di convincere uomini insicuri e scoraggiati. Superando tutti gli ostacoli, incontra il Delfino di Francia, il futuro Re Carlo VII, che a Poitiers la sottopone a un esame da parte di alcuni teologi dell'Università. Il loro giudizio è positivo: in lei non vedono niente di male, solo una buona cristiana.
Il 22 marzo 1429, Giovanna detta un'importante lettera al Re d'Inghilterra e ai suoi uomini che assediano la città di Orléans (Ibid., p. 221-222). La sua è una proposta di vera pace nella giustizia tra i due popoli cristiani, alla luce dei nomi di Gesù e di Maria, ma è respinta, e Giovanna deve impegnarsi nella lotta per la liberazione della città, che avviene l'8 maggio. L'altro momento culminante della sua azione politica è l’incoronazione del Re Carlo VII a Reims, il 17 luglio 1429. Per un anno intero, Giovanna vive con i soldati, compiendo in mezzo a loro una vera missione di evangelizzazione. Numerose sono le loro testimonianze riguardo alla sua bontà, al suo coraggio e alla sua straordinaria purezza. E' chiamata da tutti ed ella stessa si definisce "la pulzella", cioè la vergine.
La passione di Giovanna inizia il 23 maggio 1430, quando cade prigioniera nelle mani dei suoi nemici. Il 23 dicembre viene condotta nella città di Rouen. Lì si svolge il lungo e drammatico Processo di Condanna, che inizia nel febbraio 1431 e finisce il 30 maggio con il rogo. E' un grande e solenne processo, presieduto da due giudici ecclesiastici, il vescovo Pierre Cauchon e l'inquisitore Jean le Maistre, ma in realtà interamente guidato da un folto gruppo di teologi della celebre Università di Parigi, che partecipano al processo come assessori. Sono ecclesiastici francesi, che avendo fatto la scelta politica opposta a quella di Giovanna, hanno a priori un giudizio negativo sulla sua persona e sulla sua missione. Questo processo è una pagina sconvolgente della storia della santità e anche una pagina illuminante sul mistero della Chiesa, che, secondo le parole del Concilio Vaticano II, è "allo stesso tempo santa e sempre bisognosa di purificazione" (LG, 8). E’ l'incontro drammatico tra questa Santa e i suoi giudici, che sono ecclesiastici. Da costoro Giovanna viene accusata e giudicata, fino ad essere condannata come eretica e mandata alla morte terribile del rogo. A differenza dei santi teologi che avevano illuminato l'Università di Parigi, come san Bonaventura, san Tommaso d'Aquino e il beato Duns Scoto, dei quali ho parlato in alcune catechesi, questi giudici sono teologi ai quali mancano la carità e l'umiltà di vedere in questa giovane l’azione di Dio. Vengono alla mente le parole di Gesù secondo le quali i misteri di Dio sono rivelati a chi ha il cuore dei piccoli, mentre rimangono nascosti ai dotti e sapienti che non hanno l'umiltà (cfr Lc 10,21). Così, i giudici di Giovanna sono radicalmente incapaci di comprenderla, di vedere la bellezza della sua anima: non sapevano di condannare una Santa.
L'appello di Giovanna al giudizio del Papa, il 24 maggio, è respinto dal tribunale. La mattina del 30 maggio, riceve per l'ultima volta la santa Comunione in carcere, e viene subito condotta al supplizio nella piazza del vecchio mercato. Chiede a uno dei sacerdoti di tenere davanti al rogo una croce di processione. Così muore guardando Gesù Crocifisso e pronunciando più volte e ad alta voce il Nome di Gesù (PNul, I, p. 457; cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 435). Circa 25 anni più tardi, il Processo di Nullità, aperto sotto l'autorità del Papa Callisto III, si conclude con una solenne sentenza che dichiara nulla la condanna (7 luglio 1456; PNul, II, p 604-610). Questo lungo processo, che raccolse le deposizioni dei testimoni e i giudizi di molti teologi, tutti favorevoli a Giovanna, mette in luce la sua innocenza e la perfetta fedeltà alla Chiesa. Giovanna d’Arco sarà poi canonizzata da Benedetto XV, nel 1920.
Cari fratelli e sorelle, il Nome di Gesù, invocato dalla nostra Santa fin negli ultimi istanti della sua vita terrena, era come il continuo respiro della sua anima, come il battito del suo cuore, il centro di tutta la sua vita. Il "Mistero della carità di Giovanna d'Arco", che aveva tanto affascinato il poeta Charles Péguy, è questo totale amore di Gesù, e del prossimo in Gesù e per Gesù. Questa Santa aveva compreso che l’Amore abbraccia tutta la realtà di Dio e dell'uomo, del cielo e della terra, della Chiesa e del mondo. Gesù è sempre al primo posto nella sua vita, secondo la sua bella espressione: "Nostro Signore servito per primo" (PCon, I, p. 288; cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 223). Amarlo significa obbedire sempre alla sua volontà. Ella afferma con totale fiducia e abbandono: "Mi affido a Dio mio Creatore, lo amo con tutto il mio cuore" (ibid., p. 337). Con il voto di verginità, Giovanna consacra in modo esclusivo tutta la sua persona all'unico Amore di Gesù: è "la sua promessa fatta a Nostro Signore di custodire bene la sua verginità di corpo e di anima" (ibid., p. 149-150). La verginità dell'anima è lo stato di grazia, valore supremo, per lei più prezioso della vita: è un dono di Dio che va ricevuto e custodito con umiltà e fiducia. Uno dei testi più conosciuti del primo Processo riguarda proprio questo: "Interrogata se sappia d'essere nella grazia di Dio, risponde: Se non vi sono, Dio mi voglia mettere; se vi sono, Dio mi voglia custodire in essa" (ibid., p. 62; cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 2005).
La nostra Santa vive la preghiera nella forma di un dialogo continuo con il Signore, che illumina anche il suo dialogo con i giudici e le dà pace e sicurezza. Ella chiede con fiducia: "Dolcissimo Dio, in onore della vostra santa Passione, vi chiedo, se voi mi amate, di rivelarmi come devo rispondere a questi uomini di Chiesa" (ibid., p. 252). Gesù è contemplato da Giovanna come il "Re del Cielo e della Terra". Così, sul suo stendardo, Giovanna fece dipingere l'immagine di "Nostro Signore che tiene il mondo" (ibid., p. 172): icona della sua missione politica. La liberazione del suo popolo è un’opera di giustizia umana, che Giovanna compie nella carità, per amore di Gesù. Il suo è un bell’esempio di santità per i laici impegnati nella vita politica, soprattutto nelle situazioni più difficili. La fede è la luce che guida ogni scelta, come testimonierà, un secolo più tardi, un altro grande santo, l’inglese Thomas More. In Gesù, Giovanna contempla anche tutta la realtà della Chiesa, la "Chiesa trionfante" del Cielo, come la "Chiesa militante" della terra. Secondo le sue parole,"è un tutt'uno Nostro Signore e la Chiesa" (ibid., p. 166). Quest’affermazione, citata nel Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 795), ha un carattere veramente eroico nel contesto del Processo di Condanna, di fronte ai suoi giudici, uomini di Chiesa, che la perseguitarono e la condannarono. Nell'Amore di Gesù, Giovanna trova la forza di amare la Chiesa fino alla fine, anche nel momento della condanna.
Mi piace ricordare come santa Giovanna d’Arco abbia avuto un profondo influsso su una giovane Santa dell'epoca moderna: Teresa di Gesù Bambino. In una vita completamente diversa, trascorsa nella clausura, la carmelitana di Lisieux si sentiva molto vicina a Giovanna, vivendo nel cuore della Chiesa e partecipando alle sofferenze di Cristo per la salvezza del mondo. La Chiesa le ha riunite come Patrone della Francia, dopo la Vergine Maria. Santa Teresa aveva espresso il suo desiderio di morire come Giovanna, pronunciando il Nome di Gesù (Manoscritto B, 3r), ed era animata dallo stesso grande amore verso Gesù e il prossimo, vissuto nella verginità consacrata.
Cari fratelli e sorelle, con la sua luminosa testimonianza, santa Giovanna d’Arco ci invita ad una misura alta della vita cristiana: fare della preghiera il filo conduttore delle nostre giornate; avere piena fiducia nel compiere la volontà di Dio, qualunque essa sia; vivere la carità senza favoritismi, senza limiti e attingendo, come lei, nell'Amore di Gesù un profondo amore per la Chiesa. Grazie.
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Avvenire.it, 26 gennaio 2011 - Quell’idea che domina. E la nostra - Riuscire? Intendiamoci di Davide Rondoni
In mezzo al tormentone di questi giorni, e tra tante cose torbide, altre oscure, e altre che si chiariranno, ci sono alcune evidenze che interrogano tutti. Intendo alcune cose che non riguardano immediatamente il risvolto politico della faccenda o dell’uso che di essa si fa. La prima evidenza è che lo scopo di Ruby è riuscire nella vita. Come quello di tante ragazze della sua età, e come quello di tanti di ogni età. Riuscire, ovvero ottenere una vita coronata da successo e benessere. In effetti, questo è il medesimo lo scopo che sembrano avere in tanti. Il medesimo. Se ci guardiamo intorno – e se ci guardiamo dentro – spesso il motore più o meno evidente che spinge azioni, scelte, carriere, è il medesimo: riuscire, ovvero avere benessere, e possibilmente fama.
In genere, i moralisti di ogni razza, quelli sempre pronti a scagliare la prima e anche la seconda pietra, a questo punto dicono: va bene, lo scopo è la riuscita come soldi e successo, ma c’è modo e modo per ottenerli. Modi più "morali" e modi meno morali. Non è del tutto sbagliato, ovvio. Anche i modi contano, nella vita come nella politica.
Ma intendiamoci. E non dimentichiamo che la grande immoralità, la grande sconcezza, sta prima. Sta nell’avere quello scopo nella vita. La radice profonda dell’immoralità sta nell’avere come scopo della vita quel genere di riuscita, che accomuna le ragazze come Ruby a tanti magari "seri" professionisti in ogni campo: più benessere, più gloria. Una certa idea limitata di riuscita (aver soldi, aver fama) si è imposta nel tempo lungo le vie delle filosofie e delle mode come la migliore e forse unica possibile. Come se gli uomini più realizzati fossero quelli che possono contare su benessere e fama. Una certa idea di "divo" – messa a fuoco nei secoli da pensatori e esaltata nei mezzi di comunicazione di massa – è diventata il modello normale. Per tutti o quasi, non solo per ragazze portate dalla vita e da scelte infami a svendere la propria dignità per ottenere prima che si può quel genere di riuscita.
C’è meno infamia apparente, c’è meno apparente immoralità in molte scelte che tutti compiamo tutti i giorni in nome di quell’ideale di riuscita. Ma solo meno apparente. Quante ipocrisie, omissioni, tiepidezze, o quanti geli di indifferenze regolano i nostri rapporti quando sono vissuti come mezzi per ottenere quella riuscita? Gli antichi, e un poeta vasto e profondo come Eliot, invitavano a «rendere perfetta la nostra volontà». Ovvero a desiderare per la vita una riuscita che non si limitasse a taluni aspetti o ne esaltasse alcuni come totalizzanti. L’esperienza ci insegna a volte in modo drammatico come il raggiungimento di un ottimo benessere o di una grande fama non coincidono con una vera "riuscita" della personalità. In molti uomini di successo si vede la triste grottesca maschera di qualcosa di disumano. Per i cristiani – che in tutte le messe battono il proprio petto e non quello del vicino o del potente o della prostituta – lo scopo della vita è meritare il centuplo quaggiù e una speranza per l’eterno. Qualcosa di incommensurabile con ogni benessere o successo (spesso negati o impossibili).
Per noi l’uomo riuscito non è il divo, ma anche chi, magari gravemente colpito dalla vita, merita cento volte gioia e speranza grazie a un atteggiamento volto a compiere il desiderio di bene e di giustizia che alberga in ogni cuore. Ci sono santi sconosciuti, uomini ignoti che compiono le dimensioni del cuore, donando se stessi, cercando il vero, offrendo con pazienza la vita per il bene anche degli altri. E sono imprenditori e suore, medici e contadini, preti e attori, operai e musicisti... Questi sono i "riusciti". Proporre e accettare invece l’altro modello di riuscita, e poi accusare di immoralità chi cerca di raggiungere (anche in modo pietoso e grottesco) quel modello, è la vasta immoralità diffusa nei nostri giorni.
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Avvenire.it, 26 gennaio 2011 - Sentenze ecclesiastiche e delibazioni della Cassazione - Quel deficit da sanare nella legge matrimoniale
La Corte di Cassazione prosegue, lentamente ma si direbbe con sistematicità, a svuotare di contenuto la disposizione di cui all’articolo 8 del Concordato, nella parte in cui prevede la delibazione in Italia delle sentenze di nullità matrimoniale pronunciate dai tribunali ecclesiastici. È quanto emerge dalla sentenza della Suprema Corte che, giovedì scorso, avrebbe introdotto un nuovo ostacolo alla delibazione, quando cioè la sentenza ecclesiastica si riferisca a un matrimonio contratto da molti anni.
Non entro negli aspetti tecnici della questione, che pure meritano attenzione. Mi limito ad un paio di osservazioni di carattere generale. La prima attiene al fatto che le diversità tra la disciplina del matrimonio canonico e quella del matrimonio civile sussistono, nonostante il fatto che questo sia storicamente nato da quello.
Anzi, più avanza la secolarizzazione, più i due modelli si allontanano e le due discipline si differenziano. Ma a ben vedere è proprio a causa della diversità di discipline che trova la sua ragione d’essere la norma concordataria che prevede la possibilità di delibare, sia pure a certe condizioni, la decisione ecclesiastica. Se la disciplina fosse assolutamente eguale, il problema non si porrebbe e le sentenze ecclesiastiche potrebbero trovare ingresso nel nostro ordinamento pressocché automaticamente, come avviene generalmente per sentenze provenienti da ordinamenti di altri Stati, grazie alle disposizioni di diritto internazionale privato.
Se questo è vero, la conseguenza dovrebbe essere quella del favor alla delibazione e non quella, opposta, che a mio avviso erroneamente la Cassazione – e seppure con discontinuità – manifesta da anni, sull’idea che possano trovare ingresso in Italia solo le sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio che non si allontanino dal paradigma civilistico di matrimonio.
La seconda riguarda il fatto che, sotto la travagliata vita delle disposizioni concordatarie sulla giurisdizione ecclesiastica in materia matrimoniale, c’è un problema irrisolto. Il problema è quello dell’assenza di un’adeguata regolamentazione dei rapporti patrimoniali tra ex coniugi, che tenga conto sia del fatto che se il negozio matrimonio è nullo, logica giuridica vuole che da esso non discendano obbligazioni di carattere (anche) patrimoniale; sia peraltro del fatto che, dal punto di vista sociale, ci sono casi nei quali il principio di solidarietà consiglierebbe o inviterebbe a prevedere interventi adeguati a favore della parte più debole. Oggi la materia è regolata ancora dalla legge matrimoniale del 1929: una buona legge, ma dettata in un contesto normativo e sociale del tutto diverso dall’odierno.
Il problema è, dunque, il Concordato? Proprio no. Il vero problema è che, nonostante alcuni tentativi fatti negli anni Ottanta, subito dopo la revisione del testo concordatario, il Parlamento italiano non ha mai seriamente posto mano a una moderna legge matrimoniale, nella quale anche questa delicata questione venisse equamente risolta. E fin tanto che le cose rimarranno così, ci saranno sempre delle persone che si opporranno alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità, perché le condizioni economiche poste dalla legge sul divorzio sono più favorevoli.
Credo che sia giunto il momento di risolvere legislativamente una questione che, in definitiva, nulla ha a che fare con il Concordato, ma che prolungandosi nel tempo rischia di ridurre le norme pattizie in materia a mere dichiarazioni di principio.
Giuseppe Dalla Torre
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Cattolici dell’altro mondo di Lorenzo Albacete - mercoledì 26 gennaio 2011 – il sussidiario.net
Quando leggerete questo articolo, il presidente Barack Obama avrà probabilmente già tenuto il suo discorso sullo “Stato dell’Unione” al Congresso in seduta plenaria, e sarà senza dubbio questo il tema che terrà banco sui media per il resto della settimana.
Tutti si aspettano un discorso ideologicamente “centrista”, che enfatizzi la riduzione della spesa federale e la creazione di nuovi posti di lavoro attraverso “l’investimento” (cioè la spesa!) del denaro risparmiato con i tagli alla spesa. Sembra contraddittorio? Vuole esserlo.
I Repubblicani sono pronti a insistere su maggiori tagli alla spesa, magari tornando ai livelli del 2006, ma i Repubblicani del Tea Party non sono inclini a negoziare e hanno perfino scelto, per rispondere al discorso del presidente, una persona diversa da quella scelta dal Partito Repubblicano “ufficiale”.
Tuttavia, questo confronto avverrà verosimilmente in modo da riflettere la nuova “correttezza”, che si suppone ciascuno faccia propria in risposta alla tragedia di Tucson di poche settimane fa, come sollecitato dal presidente, la cui popolarità ha cominciato a crescere dopo il suo discorso sui fatti di Tucson. Sembra quindi che Repubblicani e Democratici saranno insieme, piuttosto che nel tradizionale schieramento su due fronti (si spera che il “popolo americano” veda oltre tutti questi gesti da show-business. Ma chi lo sa, sempre più gente ha una visione della vita filtrata dagli spettacoli televisivi. Posso immaginare che i sostenitori del Tea Party e i poveri guarderanno a tutto questo con scetticismo).
Secondo i commentatori, c’è un altro movimento politico la cui popolarità è crescente: “l’ala sinistra dei libertari”, come descritta da Sheldon Richman in un interessante articolo nell’ultimo numero di The American Conservative (due miei riferimenti a questa rivista nei miei articoli faranno pensare ai miei amici moderati di sinistra che io stia rischiando di perdere la mia identità politica, che presumono essere simile alla loro. Non devono preoccuparsi, perché sono ancora ben radicato nel “Partito Mistico”, che non è né di destra, né di sinistra, progressista o conservatore, ma, al di sopra di tutto questo, avvolto nel Mistero).
Questi libertari di sinistra in favore del libero mercato hanno forti radici nel pensiero politico americano, come spiega Richman nel suo articolo, e anche se divisi al loro interno (naturalmente!), sembrano guadagnare popolarità. A volte appaiono simili al Tea Party, altre volte si riferiscono positivamente al pensiero marxista. Sebbene il neo conservatorismo sia il loro comune nemico, possono essere definiti dei “neo-liberal”.
In questa atmosfera politica di cecità e totale confusione, ho riletto il messaggio di Papa Benedetto XVI per la Giornata Mondiale della Pace 2011. È un documento che va alle radici della dottrina sociale cattolica, tanto soddisfacente sotto il profilo intellettuale, quanto “bello” da ammirare. Direi che è un “altro mondo” rispetto al nostro attuale dibattito nazionale; questo è proprio il punto, è un altro mondo, ma in questo mondo e con lo scopo di salvare la nostra umanità dal nichilismo attuale.
Come al solito, mi chiedo quanti cattolici sono preparati per essere testimoni del tipo di vita che il documento descrive e definisce possibile e che corrisponde ai nostri bisogni e desideri. L’interesse dimostrato la scorsa settimana nella Chiesa e tra le personalità politiche e accademiche di Porto Rico per la presentazione di Don Julián Carrón de Il Senso Religioso di Don Giussani, come successo anche al New York Encounter, ci fa sperare che le cose stiano cambiando.
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