Nella rassegna stampa di oggi:
1) Aldo Trento 15/01/11 (Interventi 69) - Ecco l'ultima, commovente, lettera di Padre Aldo Trento dal Paraguay
2) Il purgatorio c'è. E brucia - Ma il suo è un fuoco interiore. Il fuoco della giustizia e della grazia di Dio. Benedetto XVI l'ha spiegato in un'udienza a 7000 pellegrini. Ma più ancora in una memorabile pagina dell'enciclica "Spe salvi" di Sandro Magister
3) Yemen, la sfida della donna senza velo di Elisabetta Galeffi 17-01-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it
4) 17/01/2011 – PAKISTAN - Lahore: donne cristiane aggredite e umiliate in pubblico con false accuse di blasfemia di Jibran Khan Lahore (AsiaNews)
5) IL CAMMINO NEOCATECUMENALE IN MISSIONE PER IL MONDO di Antonio Gaspari (ZENIT.org)
6) IL DEMONIO VISTO DA SANTA VERONICA GIULIANI di Don Marcello Stanzione da http://www.pontifex.roma.it
7) 18 Gennaio Santa Margherita d’Ungheria di Emanuele da http://www.pontifex.roma.it
8) 07.01.2011 - Stati Uniti - Obama fa dietrofront sul "piano di fine vita" di Gregorio Schira da http://www.gdp.ch
9) MEETING NEW YORK/ La Messa col Vescovo cileno: sentirsi a casa nel cuore della Grande Mela – Redazione - lunedì 17 gennaio 2011
10) MEETING NEW YORK/ La Messa col Vescovo cileno: sentirsi a casa nel cuore della Grande Mela – Redazione - lunedì 17 gennaio 2011 – il sussidiario.net
11) La bellezza dell'incontro di Riro Maniscalco - martedì 18 gennaio 2011 – il sussidiario.net
12) La riabilitazione dei valori tradizionali - di Gianfranco Amato - 17/01/2011 - Cultura e società – da http://www.libertaepersona.org
Aldo Trento 15/01/11 (Interventi 69) - Ecco l'ultima, commovente, lettera di Padre Aldo Trento dal Paraguay:
Cari Amici, In queste settimane sono col pensiero fisso su due fatti che troviamo nel Vangelo: la nascita e la morte di Nostro Signore Gesù Cristo sulla croce e lo sguardo di Gesú a Zaccheo:
1-La nascita e morte di nostro Signore: i primi che andarono ad incontralo a Betlemme erano dei pastori. Normalmente quando pensiamo ai pastori, abbiamo di loro una immagine bucolica o romantica. Ma non credo che questa immagine risponda alla realtà. Erano beduini, si spostavano continuamente, vivevano di espedienti, rubavano, assaltavano ...una vita certamente disordinata, cioè vita da peccatori. Li penso così, perché mi ricordo dei pastori della mia terra, di fatto erano dei “banditi”, non avevano dimora fissa e tante volte neanche una famiglia. Si spostavano dalla montagna al mare secondo le stagioni. Facevano danni ovunque rubacchiando ovunque, in concreto una vita disordinata, e la bestemmia era il loro linguaggio normale. Vivevano con le loro pecore, cavalli, asini e cani diventando a volte come loro. Non voglio pensare al film dei fratelli Taviani: “Padre padrone”, però credo che entrassero un pó in quella categoria... insomma...erano dei peccatori. Come quei due che erano accanto a Gesú sulla croce.
Amici! tutto questo è sconvolgente: All’inizio come alla fine Gesú si trova fra peccatori, come durante la sua vita. E questo mi riempie di commozione perché risalta il fatto che Gesú è venuto per noi, poveri figli di Eva, è venuto grazie alla nostra povera e fragile umanitá.
Per questo mi è spontaneo chiedermi: ma quanto Carron ci dice rispetto alla nostra umanitá, come il cammino a Cristo é ancora il punto su cui lavoriamo seriamente?
Lo penso perché senza una grande simpatia per la nostra umanitá cosí com’é, cosa vuol dire che Cristo é contemporaneo?
Per me l’incontro con Cristo ha coinciso e coincide con un’affezione grande alla mia umanitá: la gioia di essere uomo, la libertá di guardare con ironia i miei peccati, i miei limiti.
Non é piú il peccato, il limite, a definirmi, bensi quello sguardo, cosí come per i pastori una volta che L’hanno visto, cosí come quel ladrone una volta che sulla croce ha girato la testa e ha fissato Quell’Uomo.
Grazie a quello Sguardo gli ha rubato il paradiso. Un vero “ladrone” fino alla fine!
La simpatia per la nostra umanitá, simile a quella dei pastori o dei due ladroni in croce con Gesú, è cresciuto o é rimasta nascosta in un angolo del nostro Io?
Sono commoso nel sentirmi abbracciato da quel bambino come i pastori, o come quei due banditi , uno dei quali entró in paradiso nell'ultimo istante della sua vita quando riconobbe in Gesú al Figlio di Dio.
Amici, ma ci rendiamo conto che Cristo ha bisogno del mio limite, del mio temperamento?
In questi giorni ho ricevuto nella clinica, per la terza volta, un ragazzo ammalato di cancro. Un ragazzo di strada, con un´esperienza tremenda di amicizie, tentativi di omicidio, di furti, droga, ecc. Ha un cancro che sembra una pietra aguzza sulla testa e un´altra nella parte destra del collo che sembra un pallone. Piú volte lo abbiamo ricevuto e curato e piú volte è scappato, lasciandomi il cuore ferito. É finito piú volte in carcere. Adesso é tornato perché non ce la fa piú,é finito. Ha 18 anni. Ieri mi ha chiesto la confessione. É stato davvero un riaccadere di quello che é successo ai pastori o ai due sulla croce, o meglio a quello che ha chiesto perdono. Lo guardavo negli occhi neri e lucidi mentre chiedeva perdono. “Io ti assolvo...” e tutta la sua storia di miseria é diventato di colpo una storia di grazia.
Amici, potessimo lasciarci abbracciare da quel bambino o da quel Uomo che é venuto, vive, e si fa presente ogni giorno per dirci: “Di un amore eterno ti ho amato,avendo pietá del tuo niente”.In questi giorni il caldo é arrivato a 42 gradi eppure anche questo é grazia e mi permette dire, anche se tutto bagnato dal sudore, e con il respiro affatticato: “Tu oh, Cristo mio”.
E cosí tutto diventa una grazia, una vibrazione appassionata per la tenerezza di Gesú, che mi fa guardare i miei figli bellissimi con una tenerezza unica,un pó come quella di Gesú. Guardandoli li trovo di una bellezza indescrivibile, sorridenti, vivi, certi di quell'Io sono tu che mi fai, sebbene dentro le terribili violenze sofferte e delle quali sono state vittime, come i bambini che Erode ammazzó tentando di eliminare anche Gesú.
2- Lo sguardo di Zaccheo: mi impressiona e mi conforta come Carrón ci provoca continuamente con questo fatto...e piú assimilo quello sguardo, piú sento vibrare dentro me ció che Zaccheo sperimentó nel momento in cui Gesú lo chiamó per nome. Mi si é inchiodato nella mente quell'istante, quell'attimo in cui si incontrarono lo sguardo di Zaccheo con quello del Maestro. Provate a pensare nei casini di ogni giorno, cosa significhi sentirsi guardati, fissati in quel modo! Tutto si scioglie, si illumina. Non spariscono i problemi, gli stati d´animo, le malattie, la depressione, ma tutto diventa un´altra cosa perché quello sguardo muta tutto, abbraccia tutto, diventa dominante del tutto.
Florencio é un ragazzo di 20 anni, solo al mondo ,é stato raccolto da una donna con problemi psichiatrici. Un dramma dentro un´altro dramma. Miseria,fame ,abbandono. E infine un cancro al ragazzo gli ha “mangiato” la faccia, oggi terribilmente sfigurata.
La “mamma”, ricoverata diverse volte in manicomio. Siamo riusciti a tirarla fuori da questo lager e a portarla accanto al figlio. Giorno e notte lo assiste con una amorevolezza cosí grande che noi “sani”, se non vibrassimo come Zaccheo per Gesú, non riusciremo a capire o meglio neanche a renderci conto. Guardando quel ragazzo morente che ogni tanto riprende un pó di coscienza gli domando, “come stai Florencio?”, E lui alzando lievemente il pollice della mano mi fa capire: “bene”.
L´altro giorno pensavamo morisse e la mamma mi disse: "Padre, preferisco portarmelo a casa vivo, perché se muore qui, non ho i soldi per portalo fino a casa perché il tragitto é troppo caro" (300 Km.da qui).
La guardo con tenerezza e le dico: "Stella non ti preoccupare, ci penserá la Providenza".
E si tranquillizzó. Qualche ora dopo passai da lei e vidi con grande sorpresa che Florencio era seduto sul suo letto e con un pennarello stava disegnando una figura femminile. Guardo il disegno e guardo lui commosso...dalla sua bocca usciva un liquido marcio...ma che tenerezza!
É letteralmente consumato dal cancro, tutto gonfio dalla carne oramai in decomposizione, eppure con lo sguardo mi dice che la vita é bella! Lo capisco, lo invidio, perché lui é cosí perché ha trovato mesi fa, quando é arrivato qui in condizioni disperate, lo sguardo stesso che aveva sperimentato Zaccheo davanti allo sguardo del Signore.
Non si puó spiegare diversamente come un ragazzo in quelle condizioni, nei pochi momenti di luciditá e di coscienza, davanti alla mia domanda di come stá, mi risponde OK alzando il pollice e fissandomi col suo sguardo.
Cosa posso fare se non baciarlo e inginnocchiarmi davanti a lui e lasciarmi guardare come Zaccheo da Gesú , presente in Florencio, cosciente di essere di fronte alla morte.
Perché sente l´odore della sua povera carne che solo aspetta la risurrezione per ricomporsi, gloriosa e bella!
Amici, quando Carrón ci ricorda nel suo articolo per il Natale scorso, che Cristo é presente oggi, per me, per voi, istante per istante non posso non pensare all’inno: “Jesus dulcis memoriae”.
Davvero é proprio bello vivere con chi ti richiama e ti rimanda in ogni momento alla dolcezza di Gesú.
Padre Aldo
Il purgatorio c'è. E brucia - Ma il suo è un fuoco interiore. Il fuoco della giustizia e della grazia di Dio. Benedetto XVI l'ha spiegato in un'udienza a 7000 pellegrini. Ma più ancora in una memorabile pagina dell'enciclica "Spe salvi" di Sandro Magister
ROMA, 17 gennaio 2011 – Nell'illustrare la vita di santa Caterina da Genova, nell'udienza generale di mercoledì scorso, Benedetto XVI ha preso spunto dal pensiero di questa santa per spiegare che cosa è il purgatorio.
Nella seconda metà del XV secolo, l'epoca di Caterina, l'immagine corrente del purgatorio era come quella raffigurata qui sopra. Era la montagna di purificazione cantata da Dante nella "Divina Commedia".
Che il purgatorio fosse un luogo fisico è una convinzione molto antica, durata fino a tempi recenti.
Ma per Caterina non era così. Per lei il fuoco del purgatorio era pensato essenzialmente come un fuoco interiore.
E Benedetto XVI le ha dato pienamente ragione.
Alcuni media hanno rilanciato questa catechesi di papa Joseph Ratzinger mettendola tra le buone notizie. Come se il papa avesse decretato non tanto l'interiorità del purgatorio, ma la sua salutare scomparsa. Una scomparsa peraltro già avvenuta in larga misura nella predicazione corrente della Chiesa, da vari decenni.
Ma l'insegnamento di Benedetto XVI dice esattamente l'opposto. Non la scomparsa del purgatorio, ma la sua vera realtà.
Quasi nessuno l'ha ricordato. Ma le pagine più potenti sul purgatorio Benedetto XVI le ha scritte nell'enciclica "Spe salvi", la più personale delle tre encicliche sinora da lui pubblicate, l'unica ideata e scritta integralmente di suo pugno, dalla prima riga all'ultima.
Qui di seguito è riportato il passaggio della catechesi su santa Caterina da Genova relativo al purgatorio.
E subito dopo i paragrafi della "Spe salvi" anch'essi dedicati al purgatorio, sullo sfondo del giudizio di Dio che "è speranza sia perché è giustizia, sia perché è grazia".
__________
"QUESTO È IL PURGATORIO, UN FUOCO INTERIORE" di Benedetto XVI
Dall'udienza generale del 12 gennaio 2011
[...] Il pensiero di Caterina sul purgatorio, per il quale è particolarmente conosciuta, è condensato nelle ultime due parti del libro citato all’inizio: il "Trattato sul purgatorio" e il "Dialogo tra l’anima e il corpo".
È importante notare che Caterina, nella sua esperienza mistica, non ha mai rivelazioni specifiche sul purgatorio o sulle anime che vi si stanno purificando. Tuttavia, negli scritti ispirati dalla nostra santa esso è un elemento centrale, e il modo di descriverlo ha caratteristiche originali rispetto alla sua epoca.
Il primo tratto originale riguarda il “luogo” della purificazione delle anime. Nel suo tempo lo si raffigurava principalmente con il ricorso ad immagini legate allo spazio: si pensava a un certo spazio, dove si troverebbe il purgatorio. In Caterina, invece, il purgatorio non è presentato come un elemento del paesaggio delle viscere della terra: è un fuoco non esteriore, ma interiore.
Questo è il purgatorio, un fuoco interiore. La santa parla del cammino di purificazione dell’anima verso la comunione piena con Dio, partendo dalla propria esperienza di profondo dolore per i peccati commessi, in confronto all’infinito amore di Dio. Abbiamo sentito del momento della conversione, dove Caterina sente improvvisamente la bontà di Dio, la distanza infinita della propria vita da questa bontà e un fuoco bruciante all’interno di se stessa. E questo è il fuoco che purifica, è il fuoco interiore del purgatorio.
Anche qui c’è un tratto originale rispetto al pensiero del tempo. Non si parte, infatti, dall’aldilà per raccontare i tormenti del purgatorio – come era in uso a quel tempo e forse ancora oggi – e poi indicare la via per la purificazione o la conversione, ma la nostra santa parte dall’esperienza propria interiore della sua vita in cammino verso l’eternità.
L’anima – dice Caterina – si presenta a Dio ancora legata ai desideri e alla pena che derivano dal peccato, e questo le rende impossibile godere della visione beatifica di Dio. Caterina afferma che Dio è così puro e santo che l’anima con le macchie del peccato non può trovarsi in presenza della divina maestà. E anche noi sentiamo quanto siamo distanti, quanto siamo pieni di tante cose, così da non poter vedere Dio. L’anima è consapevole dell’immenso amore e della perfetta giustizia di Dio e, di conseguenza, soffre per non aver risposto in modo corretto e perfetto a tale amore, e proprio l’amore stesso a Dio diventa fiamma, l’amore stesso la purifica dalle sue scorie di peccato.
In Caterina si scorge la presenza di fonti teologiche e mistiche a cui era normale attingere nella sua epoca. In particolare si trova un’immagine tipica di Dionigi l’Areopagita, quella, cioè, del filo d’oro che collega il cuore umano con Dio stesso. Quando Dio ha purificato l’uomo, egli lo lega con un sottilissimo filo d’oro, che è il suo amore, e lo attira a sé con un affetto così forte, che l’uomo rimane come “superato e vinto e tutto fuor di sé”. Così il cuore dell’uomo viene invaso dall’amore di Dio, che diventa l’unica guida, l’unico motore della sua esistenza.
Questa situazione di elevazione verso Dio e di abbandono alla sua volontà, espressa nell’immagine del filo, viene utilizzata da Caterina per esprimere l’azione della luce divina sulle anime del purgatorio, luce che le purifica e le solleva verso gli splendori dei raggi fulgenti di Dio.
Cari amici, i santi, nella loro esperienza di unione con Dio, raggiungono un “sapere” così profondo dei misteri divini, nel quale amore e conoscenza si compenetrano, da essere di aiuto agli stessi teologi nel loro impegno di studio, di "intelligentia fidei", di "intelligentia" dei misteri della fede, di approfondimento reale dei misteri, per esempio di che cosa è il purgatorio. [...]
__________
"EGLI SI SALVERÀ, PERÒ COME ATTRAVERSO IL FUOCO..." di Benedetto XVI
Dall'enciclica "Spe Salvi" del 30 novembre 2007
[...] Io sono convinto che la questione della giustizia costituisce l'argomento essenziale, in ogni caso l'argomento più forte, in favore della fede nella vita eterna. Il bisogno soltanto individuale di un appagamento che in questa vita ci è negato, dell'immortalità dell'amore che attendiamo, è certamente un motivo importante per credere che l'uomo sia fatto per l'eternità; ma solo in collegamento con l'impossibilità che l'ingiustizia della storia sia l'ultima parola, diviene pienamente convincente la necessità del ritorno di Cristo e della nuova vita.
44. La protesta contro Dio in nome della giustizia non serve. Un mondo senza Dio è un mondo senza speranza (cfr. Efesini 2, 12). Solo Dio può creare giustizia. E la fede ci dà la certezza: Egli lo fa. L'immagine del Giudizio finale è in primo luogo non un'immagine terrificante, ma un'immagine di speranza; per noi forse addirittura l'immagine decisiva della speranza. Ma non è forse anche un'immagine di spavento? Io direi: è un'immagine che chiama in causa la responsabilità. Un'immagine, quindi, di quello spavento di cui sant'Ilario dice che ogni nostra paura ha la sua collocazione nell'amore.
Dio è giustizia e crea giustizia. È questa la nostra consolazione e la nostra speranza. Ma nella sua giustizia è insieme anche grazia. Questo lo sappiamo volgendo lo sguardo sul Cristo crocifisso e risorto. Ambedue – giustizia e grazia – devono essere viste nel loro giusto collegamento interiore. La grazia non esclude la giustizia. Non cambia il torto in diritto. Non è una spugna che cancella tutto così che quanto s'è fatto sulla terra finisca per avere sempre lo stesso valore. Contro un tale tipo di cielo e di grazia ha protestato a ragione, per esempio, Dostoëvskij nel suo romanzo "I fratelli Karamazov".
I malvagi alla fine, nel banchetto eterno, non siederanno indistintamente a tavola accanto alle vittime, come se nulla fosse stato. [...] Gesù, nella parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro (cfr. Luca 16, 19-31), ha presentato a nostro ammonimento l'immagine di una tale anima devastata dalla spavalderia e dall'opulenza, che ha creato essa stessa una fossa invalicabile tra sé e il povero: la fossa della chiusura entro i piaceri materiali, la fossa della dimenticanza dell'altro, dell'incapacità di amare, che si trasforma ora in una sete ardente e ormai irrimediabile. Dobbiamo qui rilevare che Gesù in questa parabola non parla del destino definitivo dopo il Giudizio universale, ma riprende una concezione che si trova, fra altre, nel giudaismo antico, quella cioè di una condizione intermedia tra morte e risurrezione, uno stato in cui la sentenza ultima manca ancora.
45. Questa idea vetero-giudaica della condizione intermedia include l'opinione che le anime non si trovano semplicemente in una sorta di custodia provvisoria, ma subiscono già una punizione, come dimostra la parabola del ricco epulone, o invece godono già di forme provvisorie di beatitudine. E infine non manca il pensiero che in questo stato siano possibili anche purificazioni e guarigioni, che rendono l'anima matura per la comunione con Dio.
La Chiesa primitiva ha ripreso tali concezioni, dalle quali poi, nella Chiesa occidentale, si è sviluppata man mano la dottrina del purgatorio. Non abbiamo bisogno di prendere qui in esame le vie storiche complicate di questo sviluppo; chiediamoci soltanto di che cosa realmente si tratti.
Con la morte, la scelta di vita fatta dall'uomo diventa definitiva, questa sua vita sta davanti al Giudice. La sua scelta, che nel corso dell'intera vita ha preso forma, può avere caratteri diversi. Possono esserci persone che hanno distrutto totalmente in se stesse il desiderio della verità e la disponibilità all'amore. Persone in cui tutto è diventato menzogna; persone che hanno vissuto per l'odio e hanno calpestato in se stesse l'amore. È questa una prospettiva terribile, ma alcune figure della stessa nostra storia lasciano discernere in modo spaventoso profili di tal genere. In simili individui non ci sarebbe più niente di rimediabile e la distruzione del bene sarebbe irrevocabile: è questo che si indica con la parola inferno. Dall'altra parte possono esserci persone purissime, che si sono lasciate interamente penetrare da Dio e di conseguenza sono totalmente aperte al prossimo: persone delle quali la comunione con Dio orienta già fin d'ora l'intero essere e il cui andare verso Dio conduce solo a compimento ciò che ormai sono.
46. Secondo le nostre esperienze, tuttavia, né l'uno né l'altro è il caso normale dell'esistenza umana. Nella gran parte degli uomini – così possiamo supporre – rimane presente nel più profondo della loro essenza un'ultima apertura interiore per la verità, per l'amore, per Dio. Nelle concrete scelte di vita, però, essa è ricoperta da sempre nuovi compromessi col male. Molta sporcizia copre la purezza, di cui, tuttavia, è rimasta la sete e che, ciononostante, riemerge sempre di nuovo da tutta la bassezza e rimane presente nell'anima.
Che cosa avviene di simili individui quando compaiono davanti al Giudice? Tutte le cose sporche che hanno accumulate nella loro vita diverranno forse di colpo irrilevanti? O che cosa d'altro accadrà? San Paolo, nella prima lettera ai Corinzi, ci dà un'idea del differente impatto del giudizio di Dio sull'uomo a seconda delle sue condizioni. Lo fa con immagini che vogliono in qualche modo esprimere l'invisibile, senza che noi possiamo trasformare queste immagini in concetti, semplicemente perché non possiamo gettare lo sguardo nel mondo al di là della morte né abbiamo alcuna esperienza di esso.
Paolo dice dell'esistenza cristiana innanzitutto che essa è costruita su un fondamento comune: Gesù Cristo. Questo fondamento resiste. Se siamo rimasti saldi su questo fondamento e abbiamo costruito su di esso la nostra vita, sappiamo che questo fondamento non ci può più essere sottratto neppure nella morte. Poi Paolo continua: "Se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l'opera di ciascuno sarà ben visibile: la farà conoscere quel giorno che si manifesterà col fuoco, e il fuoco proverà la qualità dell'opera di ciascuno. Se l'opera che uno costruì sul fondamento resisterà, costui ne riceverà una ricompensa; ma se l'opera finirà bruciata, sarà punito: tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco" (3, 12-15).
In questo testo, in ogni caso, diventa evidente che il salvamento degli uomini può avere forme diverse; che alcune cose edificate possono bruciare fino in fondo; che per salvarsi bisogna attraversare in prima persona il "fuoco" per diventare definitivamente capaci di Dio e poter prendere posto alla tavola dell'eterno banchetto nuziale.
47. Alcuni teologi recenti sono dell'avviso che il fuoco che brucia e insieme salva sia Cristo stesso, il Giudice e Salvatore. L'incontro con Lui è l'atto decisivo del Giudizio. Davanti al suo sguardo si fonde ogni falsità. È l'incontro con Lui che, bruciandoci, ci trasforma e ci libera per farci diventare veramente noi stessi. Le cose edificate durante la vita possono allora rivelarsi paglia secca, vuota millanteria e crollare. Ma nel dolore di questo incontro, in cui l'impuro ed il malsano del nostro essere si rendono a noi evidenti, sta la salvezza. Il suo sguardo, il tocco del suo cuore ci risana mediante una trasformazione certamente dolorosa "come attraverso il fuoco". È, tuttavia, un dolore beato, in cui il potere santo del suo amore ci penetra come fiamma, consentendoci alla fine di essere totalmente noi stessi e con ciò totalmente di Dio.
Così si rende evidente anche la compenetrazione di giustizia e grazia: il nostro modo di vivere non è irrilevante, ma la nostra sporcizia non ci macchia eternamente, se almeno siamo rimasti protesi verso Cristo, verso la verità e verso l'amore. In fin dei conti, questa sporcizia è già stata bruciata nella Passione di Cristo. Nel momento del Giudizio sperimentiamo ed accogliamo questo prevalere del suo amore su tutto il male nel mondo ed in noi. Il dolore dell'amore diventa la nostra salvezza e la nostra gioia.
È chiaro che la "durata" di questo bruciare che trasforma non la possiamo calcolare con le misure cronometriche di questo mondo. Il "momento" trasformatore di questo incontro sfugge al cronometraggio terreno: è tempo del cuore, tempo del "passaggio" alla comunione con Dio nel Corpo di Cristo.
Il Giudizio di Dio è speranza sia perché è giustizia, sia perché è grazia. Se fosse soltanto grazia che rende irrilevante tutto ciò che è terreno, Dio resterebbe a noi debitore della risposta alla domanda circa la giustizia, domanda per noi decisiva davanti alla storia e a Dio stesso. Se fosse pura giustizia, potrebbe essere alla fine per tutti noi solo motivo di paura.
L'incarnazione di Dio in Cristo ha collegato talmente l'uno con l'altra – giudizio e grazia – che la giustizia viene stabilita con fermezza: tutti noi attendiamo alla nostra salvezza "con timore e tremore" (Filippesi 2, 12). Ciononostante la grazia consente a noi tutti di sperare e di andare pieni di fiducia incontro al Giudice che conosciamo come nostro avvocato, "parakletos" (cfr. 1 Giovanni 2, 1).
48. Un motivo ancora deve essere qui menzionato, perché è importante per la prassi della speranza cristiana. Nell'antico giudaismo esiste pure il pensiero che si possa venire in aiuto ai defunti nella loro condizione intermedia per mezzo della preghiera (cfr. per esempio 2 Maccabei 12, 38-45: I secolo a.C.). La prassi corrispondente è stata adottata dai cristiani con molta naturalezza ed è comune alla Chiesa orientale ed occidentale.
L'Oriente non conosce una sofferenza purificatrice ed espiatrice delle anime nell'"aldilà", ma conosce, sì, diversi gradi di beatitudine o anche di sofferenza nella condizione intermedia. Alle anime dei defunti, tuttavia, può essere dato "ristoro e refrigerio" mediante l'Eucaristia, la preghiera e l'elemosina. Che l'amore possa giungere fin nell'aldilà, che sia possibile un vicendevole dare e ricevere, nel quale rimaniamo legati gli uni agli altri con vincoli di affetto oltre il confine della morte, questa è stata una convinzione fondamentale della cristianità attraverso tutti i secoli e resta anche oggi una confortante esperienza. Chi non proverebbe il bisogno di far giungere ai propri cari già partiti per l'aldilà un segno di bontà, di gratitudine o anche di richiesta di perdono?
Ora ci si potrebbe domandare ulteriormente: se il "purgatorio" è semplicemente l'essere purificati mediante il fuoco nell'incontro con il Signore, Giudice e Salvatore, come può allora intervenire una terza persona, anche se particolarmente vicina all'altra? Quando poniamo una simile domanda, dovremmo renderci conto che nessun uomo è una monade chiusa in se stessa. Le nostre esistenze sono in profonda comunione tra loro, mediante molteplici interazioni sono concatenate una con l'altra. Nessuno vive da solo. Nessuno pecca da solo. Nessuno viene salvato da solo. Continuamente entra nella mia vita quella degli altri: in ciò che penso, dico, faccio, opero. E viceversa, la mia vita entra in quella degli altri: nel male come nel bene. Così la mia intercessione per l'altro non è affatto una cosa a lui estranea, una cosa esterna, neppure dopo la morte. Nell'intreccio dell'essere, il mio ringraziamento a lui, la mia preghiera per lui può significare una piccola tappa della sua purificazione. E con ciò non c'è bisogno di convertire il tempo terreno nel tempo di Dio: nella comunione delle anime viene superato il semplice tempo terreno. Non è mai troppo tardi per toccare il cuore dell'altro né è mai inutile.
Così si chiarisce ulteriormente un elemento importante del concetto cristiano di speranza. La nostra speranza è sempre essenzialmente anche speranza per gli altri; solo così essa è veramente speranza anche per me. Da cristiani non dovremmo mai domandarci solamente: come posso salvare me stesso? Dovremmo domandarci anche: che cosa posso fare perché altri vengano salvati e sorga anche per altri la stella della speranza? Allora avrò fatto il massimo anche per la mia salvezza personale. [...]
Yemen, la sfida della donna senza velo di Elisabetta Galeffi 17-01-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it
Le donne yemenite hanno molti diritti sanciti dalla Carta costituzionale e dalle leggi del loro paese, ma pochissimi riconosciuti nella vita di tutti i giorni. La Repubblica Presidenziale dello Yemen, nata nel 1990 dalla riunificazione dello Yemen del sud con quello del nord, non garantisce di fatto la libertà e il diritto all’uguaglianza delle sue donne. Gli usi e costumi locali, culture patriarcali e il fondamentalismo di alcuni gruppi religiosi sono ancora più forti dello Stato di diritto.
Così le yemenite, sebbene non abbiano nessun obbligo giuridico di indossare neppure il velo, si vedono passeggiare per le strade, anche della capitale Sana’a, immerse dentro tuniche nere lunghe fino ai piedi e con un cappuccio in testa che lascia appena un piccolo pertugio sugli occhi per permettere alle donne di orientarsi.
Nelle stime ufficiali, solo undici sono le donne che, in tutto lo Yemen, hanno l’ardire di mostrarsi per le strade a viso scoperto. Una di loro è Amal Basha, quarantenne, discendente della famiglia reale yemenita e attivista per i diritti umani. L’organizzazione non governativa di cui è presidente, Sisters for Arabic forum for Human rights (Sorelle arabe per i diritti umani), ha subito ripetuti attacchi che hanno distrutto, più volte e quasi completamente, le stanze e il materiale dell’ufficio principale a Sana’a. Mentre Amal è riuscita, miracolosamente, a sfuggire ad un attentato mortale.
Gli incidenti al suo ufficio e alla sua persona si sono intensificati negli ultimi tempi?
Dal 17 di novembre del 2009, lavorare è diventato difficile se non impossibile. Tutto questo capita alla mia organizzazione, ma anche alle altre organizzazioni della Federazione internazionale per i diritti umani dello Yemen di cui Sisters of Arabic Forum è solo una costola. Tutto è iniziato con la battaglia per la salvaguardia dei diritti dei carcerati: donne e uomini, spesso sottoposti anche alla tortura nelle carceri yemenite.
Quando ha deciso di togliersi il velo e quando di sposare la causa della salvaguardia dei diritti delle donne nello Yemen?
Mi sono tolta il velo che ero poco più che una bambina. La mia famiglia mi aveva appena imposto di indossarlo e io scappai di casa e uscIi senza velo per le strade di Sana’à, per mostrare a tutti che non intendevo portarlo. Mi dava noia, in Yemen è molto caldo e a me con il velo sembra di non riuscire a respirare. Avevo uno zio, un uomo dalle idee moderne che aveva vissuto sempre al Cairo e in Europa, lui non voleva che io portassi il velo e così, grazie al suo aiuto, nessuno della mia famiglia mi ha più costretto ad indossarlo. Poi sono andata all’Università al Cairo, mi sono specializzata nella protezione dei diritti delle donne e, sempre al Cairo, mi sono sposata con un uomo arabo dalle idee liberali. Non mi sono mai più coperta la testa e insieme a lui ho iniziato la mia battaglia.
Adesso però lei è da anni vedova ed è tornata a vivere nello Yemen con due figli non ancora adulti. Qual è, a parte gli attentati ad un’attivista dei diritti umani, la vita quotidiana di madre yemenita senza velo?
Sinceramente non grossi problemi, ma qualche imbarazzo. Alcuni anni fa i miei figli, che ancora erano piccoli, mi hanno chiesto di non andarli più a prendere a scuola. Si sentivano a disagio con i loro compagni per il capo scoperto della loro madre e avevano paura che per la strada qualcuno potesse importunarmi. La violenza verbale contro le donne per la strada è il motivo principale per cui le yemenite accettano di uscire tutte imbacuccate dalla testa fino ai piedi. E’ un modo per le donne di difendere le loro famiglie, che verrebbero attaccate per un loro comportamento libero. Se una donna possiede una macchina, si può permettere un po’ di autonomia. Il fatto è che le donne yemenite sono poverissime, il Governo dovrebbe aiutarle aumentando la polizia per le strade o fornendo dei mezzi pubblici, dove possano viaggiare protette. Niente di tutto questo viene fatto dal nostro governo.
Però per la Costituzione della Repubblica Presidenziale yemenita le donne hanno diritto di votare, di intraprendere la professione di giudice, giornalista e il diritto allo studio è sancito stabilito anche per loro.
E’ vero, ma il numero delle donne che accede alle professioni e intraprende la vita politica è bassissimo. Gli emendamenti a cui è stato sottoposto nel corso degli anni l’art. 41 della Costituzione, che nel suo testo originario riconosceva a tutti i cittadini “uguali diritti e doveri senza discriminazioni basate su differenze di sesso, origine, lingua, professione, posizione sociale e fede religiosa”, spiega quanto sta avvenendo sotto la pressione di costumi patriarcali e gruppi estremisti religiosi. Oggi in Parlamento c’è una sola donna, anche se negli anni è aumentata la registrazione delle donne nelle liste per accedere al voto. Comunque, se ancora ci sono donne giornaliste, il 10%, di fatto le donne non possono più diventare giudici e chi era entrata in magistratura prima del 1990, oggi, ha possibilità di giudicare solo nella Corte di primo grado. La percentuale di alfabetizzazione è ancora molto bassa, solo il 28,5% contro il 69,5% degli uomini. Alcuni istituti professionali non accettano donne fra i loro studenti, anche se per legge nello Yemen l’istruzione, come sancisce la nostra Costituzione, è un diritto di tutti.
17/01/2011 – PAKISTAN - Lahore: donne cristiane aggredite e umiliate in pubblico con false accuse di blasfemia di Jibran Khan Lahore (AsiaNews)
Le vittime sono nascoste in un luogo sicuro nel timore di nuove violenze. Una folla di estremisti islamici le ha percosse e dileggiate. A scatenare le accuse una “controversia familiare” fra un parente delle due donne e la moglie, di fede musulmana. Sacerdote pakistano: Stato e religione devono essere separati, altrimenti sarà guerra civile.
Lahore (AsiaNews) – Sono nascoste in un luogo sicuro, nel timore di nuove rappresaglie, le due donne cristiane di Lahore vittime nei giorni scorsi di violenze e umiliazioni pubbliche. In seguito a false accuse di blasfemia, una folla inferocita le ha percosse e dileggiate. In realtà, a scatenare l’episodio pare siano stati contrasti fra una delle due donne e la moglie del fratello, di fede musulmana; al centro della controversia la religione secondo cui crescere ed educare la figlia della coppia mista. Mons. Rufin Anthony denuncia la crescente “intolleranza” della società pakistana, che deve risolvere “con la massima urgenza” un problema di natura “sociologico”.
Da una località segreta, John Chand – fratello e figlio delle vittime – conferma ad AsiaNews che le due parenti “hanno paura di diventare bersaglio degli estremisti” e si sono nascoste nel timore di essere uccise. La folla ha picchiato Saira Chand e la madre tanto da far perdere loro i sensi, poi alcune persone hanno preparato delle corone con vecchie scarpe e gliele hanno messe al collo; infine, dopo aver sporcato la loro faccia, le hanno caricate a dorso di due asini e fatte girare nel quartiere, situato nella zona est della città. Nel frattempo le vittime negavano con forza ogni accusa di blasfemia, toccandosi più volte i piedi nell’atto di chiedere pietà agli aguzzini.
Mian Muhammad Sameer, leader islamico locale, afferma di aver fatto “il massimo” per far confessare alle due donne il crimine di blasfemia. Sameer è membro della stessa organizzazione islamica alla quale appartiene Malik Mumtaz Qadri – l’assassino reo confesso del governatore del Punjab Salman Taseer – e aggiunge di essere “orgoglioso” della moglie: “ha picchiato Saira più di chiunque altro. Le sue mani – aggiunge – sono così gonfie, che non può cucinare e dal giorno dell’incidente mangio al ristorante”.
Secondo la ricostruzione di John Chand, alla base delle violenze vi sono i contrasti tra la moglie Amina Zaheer – una musulmana – e la sorella Saira Chand (di fede cristiana), acuiti negli ultimi tempi dopo che la coppia mista ha avuto una bambina. In origine il matrimonio fra John e Amina ha incontrato le resistenze del padre della ragazza, il musulmano Zaheer Malik; egli non avrebbe approvato l’unione, se prima il genero non si fosse convertito all’islam. Tuttavia, in tribunale i giovani sposi hanno stabilito che ciascuno avrebbe mantenuto la fede originaria.
La questione si è complicata alla nascita della figlia: John avrebbe voluto chiamarla Sonia ed educarla secondo la fede cristiana; la moglie e il suocero all’islam. L’accusa di blasfemia è emersa in seguito a una disputa fra Saira e Amina, che ha coinvolto pure la madre di Saira. Amina sarebbe uscita dalla casa della suocera accusando le due donne cristiane di aver diffamato il profeta Maometto; una accusa che ha scatenato l’intervento di un gruppo di estremisti della zona. Le due donne cristiane hanno trovato un rifugio sicuro grazie a Zameer Khan, un operatore di una Organizzazione non governativa che si è adoperato per salvare loro la vita. Egli nega che vi sia un caso di blasfemia, ma parla di “una controversia fra due donne”. Analogo il parere di Zulfiqar Hameed, dirigente della polizia di Lahore, il quale conferma si tratta di “controversia familiare” e Saira “è stata accusata ingiustamente”.
Interpellato da AsiaNews, mons. Rufin Anthony – vescovo di Islamabad-Rawalpindi – conferma che “la nostra società si fa sempre più violenta, intollerante e selvaggia”. Il prelato nega che il problema sia religioso o etnico, ma è “una questione sociologica che va affrontata con la massima urgenza”. P. Xavier Joseph aggiunge che “la realtà è peggiorata al punto che, la religione, è utilizzata per risolvere le controversie personali”. Egli aggiunge che “Stato e religione devono essere separati”, altrimenti scoppierà “una guerra civile e sarà la fine del Pakistan come lo conosciamo”.
IL CAMMINO NEOCATECUMENALE IN MISSIONE PER IL MONDO di Antonio Gaspari (ZENIT.org)
ROMA, lunedì, 17 gennaio 2011 (ZENIT.org).- L’approvazione del Direttorio Catechetico del Cammino Neocatecumenale da parte delle competenti autorità della Santa Sede è un atto storico che conferma la bontà della liturgia, della catechesi e delle opere della Fondazione di beni spirituali che conta circa un milione di aderenti.
Lo ha detto Kiko Arguello, fondatore del Cammino Neocatecumenale, nel corso di una conferenza che ha fatto seguito all’incontro con il Pontefice Benedetto XVI che si è svolta questo lunedì a Roma, nei pressi della Porta Angelica che introduce in Vaticano.
Il fondatore del Cammino, ha raccontato il lungo cammino personale e della Fondazione per arrivare a questo riconoscimento.
Kiko ha parlato delle tante difficoltà, dei pregiudizi di parroci e Vescovi, di accuse e strane storie diffuse da chi il Cammino non l’ha mai incontrato, ed ha raccontato della disponibilità, dell’aiuto e della premura con cui la Chiesa ed i Pontefici hanno aiutato il Cammino.
Il primo a sostenere il Cammino è stato Paolo VI. Papa Luciani lo volle nelle parrocchie di Venezia quando era ancora Patriarca. Giovanni Paolo II lo riconobbe “come un itinerario di formazione cattolica, valida per la società e i tempi odierni”. Benedetto XVI incontrò i neocatecumenali quando era ancora professore a Regensburg, e si adoperò per introdurli nella parrocchie della Germania.
Nonostante le accuse rivelatesi false, di dividere le comunità parrocchiali, di entrare in conflitto con la pastorale di alcuni parroci e Vescovi, il Cammino neocatecumenale è cresciuto in maniera incredibile riempiendo chiese e seminari, con famiglie numerose che sempre di più si offrono per portare la missione cattolica nel mondo.
I neocatecumenali sono presenti in 1320 diocesi di 110 Paesi nei cinque continenti, con 20.000 comunità attive in seimila parrocchie. Solo a Roma il Cammino è presente in 100 parrocchie e 500 comunità. A Madrid sono presenti, invece, in 85 parrocchie e 300 comunità.
Inoltre nell’incontro avuto con il Pontefice Benedetto XVI nella Basilica di S. Pietro, il 10 gennaio 2009, in occasione dei 40 anni dalla nascita della prima comunità neocatecumenale a Roma nella Parrocchia di N. Signora del SS.mo Sacramento e dei Santi Martiri Canadesi, Kiko presentò al Santo Padre le prime 14 comunità di Roma disposte a lasciare la loro parrocchia, dove avevano concluso l’itinerario neocatecumenale, per andare in missione, su invito dei parroci, in zone periferiche difficili: quartieri spesso umanamente degradati, con molta violenza, droga, famiglie distrutte, immigrati di recente, dove la Chiesa fa fatica ad incidere e ad aiutare le persone.
L’efficacia e la forza della catechesi del Cammino è dimostrata anche dalla apertura di 78 seminari diocesani missionari “Redemptoris Mater”, di cui 37 in Europa, 26 in America, 7 in Asia, 6 in Africa, e 2 in Australia.
Dal 1990, anno delle prime ordinazioni, ad oggi, i presbiteri ordinati nei vari seminari “Redemptoris Mater” sono oltre 1600 e vi sono circa 2000 giovani che si stanno preparando per gli Ordini Sacri.
A conferma di una profonda vocazione missionaria, dal 1985 il Cammino invia famiglie numerose nei luoghi dove la fede sta scemando o non è mai arrivata.
Nel 1985 Kiko, Carmen e padre Mario presentarono a Giovanni Paolo II un progetto per rievangelizzare il Nord Europa con l’invio di famiglie missionarie, accompagnate da presbiteri. Nel 1986 il Papa inviò le prime tre famiglie: una nel nord della Finlandia, una nel quartiere a luci rosse di Amburgo e la terza a Strasburgo.
Oggi il numero delle famiglie del Cammino in missione per la nuova evangelizzazione in 78 paesi, sono oltre 800, con 3.097 figli, di cui 389 in Europa, 189 in America, 113 in Asia, 56 in Australia, 46 in Africa e 15 nel Medio Oriente.
Si tratta di famiglie che, attraverso l’annuncio del Vangelo e un itinerario di iniziazione cristiana di diversi anni, sono state ricostruite, hanno riscoperto il dono della comunione, e per questo si sono aperte alla vita, e che per gratitudine a Dio ed alla Chiesa si offrono per andare dove un Vescovo veda il bisogno della testimonianza di una famiglia cristiana.
Per comprender l’efficacia del Cammino, Kiko ha raccontato la sua esperienza di vita, quando ateo, comunista estremista, con la testa piena di pregiudizi contro la Chiesa ed il cristianesimo, era giunto ad un punto che voleva suicidarsi.
Poi tre anni passati vicini ai più poveri tra i poveri nella baraccopoli di Palomeres Altas a Madrid gli permisero di trovare la fede e iniziare il Cammino neocatecumenale.
La domanda a cui dobbiamo rispondere tutti, anche Vescovi e Cardinale, ha detto Kiko, è “che cosa significa essere cristiani oggi?”.
E non si tratta di rispondere con filosofie o citazioni di libri, ma con la convinzione profonda che il cristianesimo è la religione dell’amore.
“Amatevi come io vi ho amato”, ha detto Gesù, e solo il suo grandissimo amore ci dà la forza per superare le sofferenze e la morte.
“La fede in Gesù Cristo ci dà la vita eterna – ha sottolineato Kiko – e possiamo riconquistare coloro che hanno lasciato la Chiesa o che non l’hanno mai conosciuta solo con la bellezza dell’amore che caratterizza le nostre comunità”.
IL DEMONIO VISTO DA SANTA VERONICA GIULIANI di Don Marcello Stanzione da http://www.pontifex.roma.it
Era entrata giovanissima nel monastero delle Clarisse Cappuccine di Città di Castello, dove umilmente accettò di svolgere tutte le mansioni previste dall’appartenenza ad una comunità religiosa: cuoca, dispensiera, infermiera, maestra delle novizie e da ultimo badessa. Una donna mistica che avvertì sempre un particolare legame con Gesù Redentore e specificamente con le sofferenze connesse alla sua Passione. Questo fatto la portò sovente ad avere rapporti con il demonio che si divertì a torturarla, ora gettandola dalle scale, ora picchiandola duramente, dopo aver assunto le sembianze proprie della Maestra delle novizie. In conseguenza di eventi tanto inconsueti, Gesù scelse di dimostrarle una speciale vicinanza, un vincolo d’amore ineffabile, rendendola soggetto privilegiato di “contemplazione mistica”. Nello stesso periodo, Cristo stesso trasferì sul suo capo la propria corona di spine, la cui impronta comparve realmente sulla testa e sulla fronte della donna, e tempo dopo, fatta avere a Santa Veronica una visione della Vergine, che parlava con lui pregandolo di agire perché la dolce sposa fosse partecipe della Crocifissione, fece comparire sulle mani, sui piedi e sul costato della sua serva, le sacre Stigmate. Un momento di intensità mistica che la Santa descrive così: “ Io vidi uscire dalle sue Santissime Piaghe cinque raggi risplendenti, e tutti vennero alla volta mia…
In quattro vi erano i chiodi, e in una vi era la lancia, come d’oro, tutta infuocata, e mi passò il cuore da banda a banda”. Una donna fisicamente gracile che seppe portare i cicli e sopportare le sofferenze alle quali, per amore, era sottoposto il suo corpo. La vita di una mistica come Veronica Giuliani non era molto facile e poiché i suoi superiori sospettavano che tutti quei fenomeni fossero riconducibili all’ostentazione e macchinazione diabolica, segregarono Veronica fuori dalla comunità sospendendo per lei la Santa Comunione. Le sofferenze fisiche unite a quelle morali contribuirono a rendere più eroica la virtù di Veronica che annotò di getto, senza trascriverle, le confidenze del redentore. Ventidue libri di splendido diario, scritti per obbedienza al suo confessore, intitolato “Tesoro nascosto” la Santa stigmatizzata ci ha fatto conoscere le sue gioie e i suoi dolori, lasciandoci una miniera di teologia mistica, che rappresenta una delle opere più belle della letteratura mistica italiana.
Ineguagliabile imitatrice di Cristo, riprodusse nel contempo la serena figura di San Francesco, e come il “Poverello” riportò episodi della propria vita, sentimenti, sensazioni in una sorta di nuovi Fioretti. Di lei si sarebbe persa ogni traccia, se dando ascolto al proprio confessore, non avesse narrato quanto man mano andava accadendole in un minuzioso diario composto da ben dieci volumi. Alla sua morte i medici incaricati di esaminare il cuore, trovarono le immagini di una croce, di una corona di spine e di un calice.
Oltre tutto l’autopsia rivelò la presenza di una curvatura della spalla destra: sembrava avesse appunto imbracciato una croce. Una Santa dai distacchi netti, dai dolori atroci, una monaca dalla vita austera, votata all’espiazione, che il Signore ha preso sul serio con le prove a cui la sottopose, anche spesso attraverso le grettezze e i limiti umani della sua comunità di appartenenza. Una carismatica che passa attraverso distacchi, numerose prove fisiche e morali, con la gioia della sposa del Cantico dei Cantici, baciata dallo Sposo, cui si è lasciata assimilare perfino nelle stigmate. Una Santa non macerata dal dolore ma fiorita nell’amore, capace di vivere e donare a tutti la gioia del Risorto. Da lei l’invito a fare della vita un’offerta di riparazione e i espiazione perenne, per salvare in Cristo anche l’insalvabile.
Riguardo all’opera del demonio nella vita della santa c’è da osservare che oggi c’è molta incredulità in merito all’esistenza del demonio, degli spiriti maligni e dell’inferno. Tra credenti si arriva a negare l’eternità dell’inferno, oppure lo si considera vuoto, oppure si nega che esistano pene e sofferenze concrete, con la scusa che Dio è misericordioso. Le esperienze della Santa sono una potente conferma della dottrina e dell’insegnamento di sempre della Chiesa. Il Diario è pieno delle sue lotte con i demoni e delle sue visite e descrizioni dell’inferno. I Demoni le strappavano di mano brocche e altri utensili, rovesciavano acqua bollente su di lei in cucina; le strappavano la penna, rovesciavano l’inchiostro, mentre scriveva il Diario.
Non aveva quasi mai una notte tranquilla: le apparivano in gran numero, in forme orribili, minacciose, oscene, urlavano, bestemmiavano, buttavano fuori odori infetti, gettavano nella sua scodella capelli, ragni, topi morti, la buttavano nel fuoco, la lanciavano contro i muri, le tiravano pietre e le davano delle botte. Le altre suore udivano, certe volte vedevano e la Santa doveva anche incoraggiarle. Tante volte dovevano correre di notte alla sua cella. L’attaccavano, di solito quando compiva il suo ufficio di vittima mediatrice e redentrice, quando pregava e si mortificava per la conversione dei peccatori: “smetti” le urlavano, “smetti subito”. Un giorno le troncarono un piede. Portata al confessionale, guarì istantaneamente quando il confessore le impose di chiedere a Dio la guarigione. L’inferno lo vede quasi tutti i giorni, accompagnata dai suoi Angeli Custodi in modo visibile e dalla Madonna in modo invisibile. Una ragione bassa, nera, fetida, piena di urla animalesche e di lampi sinistri.
Poi vide una montagna piena di aspidi e basilischi che non potevano liberarsi. I suoi Angeli Custodi le dissero che quello era l’inferno superiore, cioè l’inferno benigno. Allora la montagna si spalancò e nei suoi fianchi c’era una moltitudine di anime e di demoni intrecciati con catene di fuoco. I demoni tormentavano le anime dannate. Nel fondo dell’abisso c’era un trono mostruoso. Al centro una sedia formata dai capi dell’abisso. Satana vi stava seduta sopra in tutto il suo indescrivibile orrore. Satana vedeva tutti i dannati e questi vedevano Satana: la visione di Satana costituisce il tormento dell’inferno, così come, invece, la visione di Dio costituisce la delizia del paradiso. Gli Angeli dissero, come pure Gesù in altre visioni, che questi supplizi sono per tutta l’eternità.
La Santa nota che il cuscino di Satana è formato da Giuda ed altre anime disperate. Quelle anime furono dignitari della Chiesa e prelati religiosi. Di fronte alla realtà vista, la Santa afferma che ciò che raccontano i predicatori non è niente! Nell’Inferno vide cadere una pioggia di anime. I n altre esperienze, descrive i sette livelli dell’inferno, con le loro rispettive categorie di dannati. Vide un posto più orribile per i religiosi che avevano disprezzato le loro sante regole e un altro per i sacerdoti che non erano stati fedeli all’insegnamento della Chiesa e che per questo sono stati causa di rovina di tante anime.
In un luogo appartato vide anche dei dannati in anima e corpo: erano quelli che avevano venduto la loro anima al demonio con patto volontario. Se questo non basta nulla basterà a quelli di cui parla il detto: “Non c’è più cieco di colui che non vuol vedere”.
18 Gennaio Santa Margherita d’Ungheria di Emanuele da http://www.pontifex.roma.it
Margherita nasce nel castello di Turoc nel 1242 da Bela IV re d’Ungheria e dalla regina Maria, di origini bizantine. Nel 1252 fu condotta nel monastero delle domenicane sull’isola delle lepri, sul Danubio, presso Buda. Nel 1254 fa la professione religiosa e prende il velo nel 1261. Pregava intensamente, soprattutto riflettendo sulla Passione di Cristo e l’Eucaristia; non aveva grande cultura ma amava molto le Sacre Scritture. Aveva uno smisurato amore per la povertà, questo, unito alla vita ascetica la portò ad avvicinarsi a Dio, tanto da meritarsi il dono delle visioni. Questo dono le consentì di diventare la più grande mistica d’Ungheria. Muore giovanissima il 18 Gennaio del 1270, nel suo monastero presso l’isola delle lepri. La sua tomba divenne fin da subito meta di pellegrinaggi e mentre avvenne uno dei miracoli attribuitole,erano presenti circa tremila fedeli. Un anno dopo la sua morte, Stefano V re d’Ungheria,chiese al Papa Gregorio X di avviare un’inchiesta sulla santità della sorella. Cominciò il processo di beatificazione, che continuò sotto Papa Innocenzo V nel 1276. Nel frattempo Margherita,in patria era già venerata come Santa. Essendo spariti, però tutti i documenti riguardo il processo di beatificazione, non si parla più della beatificazione di Margherita fino al 1729, quando durante una ricognizione delle reliquie vengono ritrovati alcuni documenti riguardanti il suo processo.
Nel XIX secolo la venerazione della Santa si allargò a molte diocesi e ordini, la canonizzazione fu effettuata da Papa Pio XII solo nel 1943. Una curiosità è data dal processo a Giovanna d’Arco nel 1425, quando la Santa francese disse che le voci angeliche che la sostenevano erano dell’Arcangelo Michele, di Caterina da Siena e Margherita d’Ungheria. [Fonte Santiebeati.it]
MEETING NEW YORK/ La Messa col Vescovo cileno: sentirsi a casa nel cuore della Grande Mela – Redazione - lunedì 17 gennaio 2011 – il sussidiario.net
New York City, Sunday morning, domenica mattina. A due passi dal Madison Square Garden, a distanza di un colpo d’occhio dall’Empire State Building, nel freddo e nel ghiaccio che attanagliano la città da settimane, si celebra una Messa. Niente di speciale, detto cosi. New York è una metropoli di tradizione cattolica e di chiese ce ne sono (quasi) ad ogni angolo. Niente di speciale se non si trattasse della Messa del New York Encounter, quell’esplosione di bellezza (fatta di tutto quel che può esistere in una vita vera) che sta agitandosi questo weekend nel cuore della Grande Mela.
Sul palco, ancora tutto vestito della scenografia dell’Annuncio a Maria presentato sabato sera (una casa – cosa c’e’ di più accogliente di una casa?), una combinazione unica: un Vescovo da Santiago del Cile, una dozzina di sacerdoti provenienti da vari stati Usa e paesi, un coro Gospel. Il Vescovo è Sua Eccellenza Fernando Chomali, Ausiliare di Santiago del Cile. I sacerdoti sono amici di Comunione e Liberazione. Il coro, quello della Parrocchia di San Carlo Borromeo, Harlem. Tutti qui per il New York Encounter. Non in una chiesa. Siamo all’Hammerstein Ballroom, teatro prestigioso e storico.
La “casa” è li, sull’immenso palco, l’altare al centro, i sacerdoti sulla destra ed il coro a sinistra.
Almeno un migliaio di persone sono convenute per questa celebrazione, pronte a trascorrere l’intera giornata visitando le mostre, assistendo all’affollato programma di conferenze, mangiando qualcosa nella caffetteria allestita da basso o prendendo uno snack al “Lavazza Coffe Shop”.
S.E. Chomali guarda con curiosità e ammirazione questa strana cosa che sta succedendo, ed offre – cosi ci dice – l’unico vero dono che ha da darci: far sì che il pane e il vino diventino corpo e sangue di Nostro Signore. A queste parole alcuni tra le fila del coro di Harlem rispondono con un appassionato “Amen!”, cosi come fanno – e sanno fare – solo loro. Le parole del Vescovo sono semplici e vibranti, tutte centrate sulla testimonianza della fede portata al mondo. Proprio come il nostro New York Encounter.
E il coro? Il coro ....”spacca”! E’ quantomeno curioso vedere come coloro che assistono alla Messa rispondono al trasporto con cui gli amici di Harlem “pregano cantando”. Pregano con la voce, con il loro muoversi ritmico, con il battito delle mani. Dapprima, chi non c’e’ abituato, resta un momento perplesso, ma ci vuol poco a cedere di schianto al vigore trascinante di questo modo di esprimere la fede. Venticinque donne di colore nei loro gowns (quegli abiti che tutti i Gospel singers usano ....come nei film) bianchi, neri e argento, di ogni età e razza, tutte le possibili variazioni di colore che la carnagione umana (scura) può avere, dal profondo nero al nero pallido, voci esili e gentili da rubarti l’anima o vocioni da spaccarti il cuore...
Guardo la faccia del Vescovo ...in Cile certamente non si fa cosi ....guardo le facce dei nostri Gospel singers mentre il Vescovo parla ...neanche ad Harlem si parla cosi ...guardo il volto dei mille presenti ....nelle loro parrocchie non si fa né cosi né in altro modo... ci sono anche tante religiose e religiosi che certamente non hanno mai partecipato a niente del genere, ma non possono fare a meno di battere le mani in piena letizia e – perché no – con le lacrime agli occhi… Ma questo è il New York Encounter, questo incredibile melting pot dentro il melting pot che già New York è di per sé.
In fondo non c’è niente da inventare. Basta osservare con curiosità e desiderio le mille forme in cui il cuore di tutti cerca di esprimere quell’insopprimibile bisogno di felicità che anima ogni nostro gesto.
Il NY Encounter non è altro che questo: accade che per strada, lungo il cammino della vita, si trovino un Vescovo Cileno, un Gospel Choir e mille persone che vogliono vivere qualcosa. E molto di più.
(Riro Maniscalco)
© Riproduzione riservata.
La bellezza dell'incontro di Riro Maniscalco - martedì 18 gennaio 2011 – il sussidiario.net
Ieri, tra una conferenza e l'altra, mi sono ritrovato a scambiare due parole con un imprenditore che - curioso - era venuto a trovarci al Manhattan Center, prestigiosa location nel cuore di NY City scelta quest'anno come sede del New York Encounter.
Pieno di stupore e ammirazione, totalmente sorpreso dalla bellezza dell'evento, dalla partecipazione di pubblico, dall'impegno degli oltre 120 volontari, mi prende sottobraccio e mi fa: «Sono anni che sostengo iniziative benefiche, incontri ed eventi per raccogliere fondi per tante cause buone e giuste, ma non ho mai visto niente del genere. La cosa più grossa in cui mi sono coinvolto non vale neanche un decimo di quel che avete fatto voi. E non è solo questione di numeri, è questione della bellezza e ricchezza di quel che offrite con le vostre mostre, conferenze, spettacoli, e soprattutto di quello che comunicate. Voi non avete idea di quel che avete fatto».
Beh, in verità quell'idea ce l'abbiamo, che poi un'idea non è, ma un amore. Un amore per tutto. Un amore infinito per l'Infinito. Questo mi è venuto in mente durante questo 2011 New York Encounter, quando circa milleduecento persone hanno partecipato alla presentazione del libro di don Giussani, Il Senso Religioso, con don Julian Carron e il Cardinale Sean Patrik O’Malley, vescovo di Boston. O’Malley attraverso alcuni esempi della propria storia personale, ha introdotto il tema del senso religioso, inteso come quel complesso di domande e di esigenze ultime contenuto nel cuore di ogni uomo.
Tali domande, ha continuato Carron, emergono potentemente nell’impatto che l’Io ha con il reale, come tanti poeti hanno testimoniato con le loro opere. La ragione dell’uomo, dunque, può dirsi pienamente tale solo quando è capace di comprendere la realtà secondo la totalità dei suoi fattori, quando cioè riconosce che essa è segno di qualcosa d’altro. Ma chi può rispondere al bisogno dell’uomo, al suo desiderio di compimento? La sfida di Carron è chiara: solo Cristo è la risposta al cuore dell’uomo, tanto è vero che Egli esalta concretizzando il nostro senso religioso.
Ancora poi avevo negli occhi e nel cuore (e anche nelle orecchie), mentre mi parlava, quello "spettacolo" incredibile della sera precedente sul palco dell'Hammerstein Ballroom, un susseguirsi di band di "subway and street musicians", musicisti che trascorrono buona parte della giornata a suonare per le strade o nelle stazioni della metropolitana.
E mentre mi si affollavano in mente tutti questi pensieri, sul Blackberry mi arrivano tre messaggi di fila dal Gospel Choir che aveva cantato per noi la Domenica mattina e da musicisti "di strada". Tutti e tre questi brevi messaggi di ringraziamento si concludono con le stesse parole: "We'll never forget it", non ce ne dimenticheremo mai. Le stesse parole che ho sentito ripetermi da tutti i volontari che venivano a salutarmi prima di lasciarci. Gente che non si era mai vista, con storie e percorsi umani diversissimi...
Ma cos'è che ci fa dire "non ce ne dimenticheremo mai"? Noi sappiamo da dove viene il New York Encounter e sappiamo dove va e dove ci accompagna: è proprio quell'Infinito tanto caro a Leopardi, quel bisogno di bene e di bellezza che anima ogni nostro passo.
Tutte le parole possono suonare retoriche e quando questo accade è facile liberarsene. Ma come per quell'imprenditore e per quei musicisti, cosi come per quei volontari e le migliaia che hanno affollato l'Encounter, quando quelle stesse parole diventano "fatto" allora non solo non vogliamo liberarcene, vogliamo "ricordare". "We'll never forget".
È questa la grandezza del New York Encounter: l'Infinito domina la scena, l'Infinito ha una "casa", un luogo.
Perché è proprio l'Infinito l'unico possibile terreno comune dove tutti si possono incontrare, dove tutti possono sentirsi a casa, offrire i frutti del proprio lavoro e godere di quelli altrui.
Così stamattina salutando tutti, cosi come ieri a quell'imprenditore e a quei musicisti, alla domanda "ma cos'e' questo New York Encounter?" ho risposto che il New York Encounter è il luogo dell'Infinito.
Qualcuno mi ha guardato un po' stupito, qualcuno sarà rimasto un po' perplesso, ma nessuno si dimenticherà mai quello che abbiamo vissuto.
L'Infinito.
© Riproduzione riservata.
La riabilitazione dei valori tradizionali - di Gianfranco Amato - 17/01/2011 - Cultura e società – da http://www.libertaepersona.org
Ma guarda un po’ chi si rivedono: i vecchi e tanto deprecati valori tradizionali.
A rispolverarli in Gran Bretagna, questa volta, non è stato il solito parroco anglicano di campagna un po’ bigotto, né il raffinato esponente del movimento tradizionalista anglocattolico Forward in Faith, o l’occhiuto preside baciapile di una piccola scuola cattolica, ma nientemeno che il noto psicologo scozzese Professor Tommy MacKay. E non si tratta davvero di un quisque de populo.
MacKay non è soltanto un insigne cattedratico, un profondo esploratore dell’animo umano, un luminare di livello nazionale, un’autorità in tema di psicologia nelle aule giudiziarie, ma è stato anche ex presidente della British Psychology Society, ed un prestigioso e ascoltato consulente dei governi di Sua Maestà britannica. A lui si deve, tra l’altro, la redazione delle Scotland’s educational psychology guidelines, le linee guida dell’educazione psicologica della Scozia, e tra i vari meriti che può vantare c’è anche quello di essere stato personalmente lodato dall’ex premier laburista Gordon Brown, suo convinto estimatore, che gli ha addirittura riconosciuto la veste di eroe, dedicandogli un capitolo nel suo libro Britain’s Everyday Heroes. MacKay è stato un guru della psicologia moderna apprezzato da liberal e progressisti. Per questo ha fatto un certo scalpore la sua uscita sui valori tradizionali, e non poteva, ovviamente, passare inosservata. Chiamato a pronunciarsi sui dati relativi alla violenza dei giovani verso gli adulti, il professor MacKay ha scioccato l’opinione pubblica, resuscitando proprio concetti ed ideali considerati ormai definitivamente archiviati dalla storia, nella visione relativista e politically correct della società post-moderna.
Quei dati, a onor del vero, mostrano un quadro impressionante. Nel 2009 sono state 1.572 le denuncie sulle violenze domestiche perpetrate da minorenni nei confronti degli adulti, il 17 per cento in più rispetto all’anno precedente ed il triplo rispetto alle cifre degli ultimi dieci anni. Nelle scuole, invece, sono state registrate decine di migliaia di atti di violenza degli studenti nei confronti di insegnanti e compagni di scuola. Per essere più precisi, sono state circa 17.000, nelle scuole elementari, le sospensioni di alunni fino ad undici anni di età, mentre hanno superato le 63.000 nelle scuole superiori. Il fenomeno non ha risparmiato neppure i più piccoli. Secondo i dati ufficiali forniti dal Ministero dell’Educazione, infatti, sono stati 1.240 i casi di sospensione, nel biennio 2008-2009, che hanno coinvolto alunni di quattro anni.
Di fronte ad una così preoccupante situazione, lo psicologo professore della Strathclyde University non ha esitato a parlare della necessità sociale di concetti come «rispetto», «autorità», «sacrificio», «onore», «patriottismo», e persino «valori religiosi».
«Negli ultimi anni», questa l’analisi di Tommy MacKay, «c’è stata una sostanziale perdita del rispetto per i genitori, per le autorità scolastiche, e per i valori trasmessi dalla Chiesa». Perciò, secondo l’insigne psicologo, «i genitori hanno il dovere di fornire i fondamenti di quei valori tradizionali, instillando nei propri figli il senso del rispetto per la loro autorità, e del rispetto per gli altri».
In questa perdita del senso di autorità, MacKay intravvede una responsabilità anche a carico dei genitori degli studenti: «Nelle passate generazioni, il padre e la madre se la prendevano con il proprio figlio, quando questi aveva problemi a scuola. Oggi se la prendono con gli insegnanti».
I genitori che si comportano in quel modo, in realtà, sono i primi a non possedere il senso dell’autorità e del rispetto delle istituzioni, e non hanno, quindi, nulla da trasmettere ai propri figli. Il punto è che nel vuoto intergenerazionale di ideali, può crescere soltanto l’erba velenosa della violenza.
Particolarmente interessante è anche l’analisi che MacKay fa delle divise scolastiche, sostenendo l’utilità del loro obbligo non solo perche «esse eliminano tra gli studenti ogni forma di stupida competizione basata sulle griffe di moda», ma soprattutto perche «rappresentano un segno di appartenenza ad un’esperienza più grande e più importante del proprio “io”, e della propria personale “self-expression”». Le divise, secondo lo psicologo scozzese, rappresentano, infatti, l’istituzione scolastica, la sua autorità ed i suoi valori, piuttosto che il particolare del singolo individuo.
L’analisi si allarga, poi, ad una visione più ampia, quando MacKay afferma che «il declino sistematico dei valori tradizionali registratosi negli ultimi trent’anni è stato direttamente proporzionale all’aumento dei problemi nella società in generale, i cui effetti si sono drammaticamente evidenziati in ambiti particolari quali, ad esempio, quello scolastico e familiare». Da qui il suo ammonimento sul fatto che l’attuale società «sta perdendo i propri punti di ancoraggio», e la denuncia dell’esistenza di «una vera e propria bomba ad orologeria che rischia di far esplodere un comportamento psicopatologico di massa».
MacKay intravvede anche nella profonda crisi che attualmente vive l’attività di volontariato in Gran Bretagna, la pericolosa deriva individualista delle nuove generazioni, «che hanno definitivamente perduto il senso dell’impegno disinteressato e del sacrificio generoso per gli altri». Oggi, quello che sembra prevalere sempre più è il «cult of self» (il culto di sé), e la «celebrity culture», che appare ormai come l’orizzonte più ambito delle aspirazioni di milioni di persone. Una triste «corsa al ribasso» degli ideali umani.
Tra gli antidoti alla deriva individualista, Tommy MacKay sdogana persino il valore datato e alquanto demodé del «patriottismo», rivalutandolo come «un efficace fattore sociale positivo», perché capace di rappresentare «una nobile idea connessa ad una dimensione comunitaria ben più ampia della propria famiglia o della propria scuola».
La spietata analisi revisionista del professor MacKay ha inferto un colpo mortale alla psicologia educativa progressista nata dal sessantotto e dai suoi falsi miti, quella, tanto per intenderci, che propugnava un rapporto paritario tra genitori e figli, in cui entrambi dovevano trattarsi da amici e chiamarsi per nome, in cui non vi erano ruoli predefiniti, non esisteva il concetto di autorità, ed il dissenso era considerato una normale espressione comunicativa. Non è difficile, infatti, identificare l’attuale disastro proprio in quel fenomeno storico della fine degli anni ’60 che, insieme alla Riforma protestante e all’Illuminismo, ha tragicamente influito nella società occidentale. I dati allarmanti oggetto delle riflessioni di MacKay riguardano i nipotini della generazione del sessantotto, quella che teorizzava la contestazione di ogni forma di autorità (a cominciare da scuola e famiglia), che idolatrava la rivoluzione, che invocava la «fantasia al potere», lo slogan «vietato vietare», l’assemblearismo permanente, l’autogestione, la coscienza critica dei giovani, il mito del dissenso, la formula magica delle tre M (Marx, Mao, Marcuse), e che finiva per trovare nella via anarchica l’unico sbocco logico e l’unica vera proposta alternativa.
Non è un caso che la contestazione sessantottina dell’autorità abbia avuto come principali obiettivi la scuola e la famiglia, se si considera che la radice etimologica del termine autorità deriva dal verbo latino augere, che significa far crescere, a cui, tra l’altro, è riconducibile la parola autor, ossia colui che fa nascere, e la parola augustus, ovvero colui che fa crescere. Lo stesso valore semantico del termine autorità, quindi, contiene in sé l’elemento fondante della famiglia, in cui genitori sono autori dei figli in senso biologico (autor), e l’elemento fondante della scuola, in cui gli insegnanti sono coloro che aiutano a far crescere (augustus) in senso culturale le giovani generazioni.
In quella folle orgia dell’irrazionale che fu il sessantotto, la scuola non era più considerata come un luogo educativo e un’affascinante esperienza di crescita della personalità, ma, secondo la celebre definizione del filosofo marxista Louis Althusser, come il primo «apparato ideologico di stato», un’esecrabile forma di autoritarismo da abbattere. La famiglia, poi, grazie soprattutto al contributo dell’antipsichiatria inglese, era identificata come la sentina di tutti i mali, l’incubatrice di personalità autoritarie e conformistiche, la prima struttura sociale da contestare ed emancipare, attraverso il dissenso, la rivolta, la de-costruzione.
David Cooper, uno dei fondatori dell’antipsichiatria, nel suo celebre libro-manifesto dal titolo sintomatico di La morte della famiglia (1971), afferma che non vi è più bisogno di padri o di madri, ma «solo di “maternage” e “paternage”», ovvero di funzioni materne e paterne, che possono benissimo essere svolte da altri soggetti (fratelli, nonni, parenti, amici, ecc.) diversi dai genitori biologici.
Cooper ritiene pure che uno dei tabù di questo antiquato istituto sia costituito dalla «implicita proibizione di esperimentare la propria solitudine nel mondo», perché, infatti, attraverso la deviante gabbia sociale della famiglia l’individuo «viene costretto a vivere “agglutinativamente” incollato ad altre persone», «passivamente sottomesso all’invasione da parte degli altri familiari», e «privato della linfa vitale della propria solitudine». Da qui la necessità di una lucida strategia per «distruggere una reale, oggettiva situazione persecutoria nella quale ognuno di noi è intrappolato prima ancora di esistere».
Oggi si vedono i frutti avvelenati di quel delirio, e persino personalità del calibro di Tommy MacKay arrivano – se pur in ritardo – a rivalutare i già esecrabili valori tradizionali, oggetto della furia iconoclasta dei sessantottini.
Il potere distruttivo dell’ideologia è davvero capace di effetti devastanti, salvo poi mostrare, attraverso le macerie prodotte, il proprio fallimento, e far rimpiangere tutto ciò contro cui si era scagliato. Il fenomeno dell’autocritica, del riflusso, della revisione è sempre positivo, ma anche sempre tardivo, perché nel frattempo intere generazioni di uomini sono state mandate al macero. Spiritualmente parlando. Da Cultura Cattolica.it, 15 gennaio 2011