lunedì 31 gennaio 2011

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    Il dolore di Rebora di Pigi Colognesi, lunedì 31 gennaio 2011, il sussidiario.net
2)    Se gli interessi particolari fanno dimenticare il bene comune di Pio XII, 31-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
3)    CULTURA - DOSTOEVSKIJ/ Il suo Grande Inquisitore ci svela la nuova insidia del potere di Sergio Cristaldi, lunedì 31 gennaio 2011, il sussidiario.net
4)    31 Gennaio San Giovanni Bosco di http://www.pontifex.roma.it/
5)    Dall'India all'Indonesia non c'è pace per i cristiani di Anna Bono, 31-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
6)    Missionario in Etiopia guardando agli ortodossi di Massimo Introvigne, 31-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it


Il dolore di Rebora di Pigi Colognesi, lunedì 31 gennaio 2011, il sussidiario.net

L’epidemia di influenza è al suo acme. Al di là delle notizie sui giornali, ce ne rendiamo ben conto nella nostra vita quotidiana. C’è la riunione che salta perché uno dei partecipanti telefona con voce soffocata dicendo di essere costretto a letto; c’è il collega con cui era programmato un importante lavoro e che invece è dovuto restare a casa; c’è la donna delle pulizie che va su e giù dalle scale con continui e irrefrenabili colpi di tosse.

Io, per ora, ho preso solo un forte raffreddore. Sufficiente però nei suoi effetti - decine e decine di fazzoletti di carta consumati, il naso arrossato e dolorante, caldo improvviso seguito da brividi di freddo, difficoltà di concentrazione - a rammentarmi che il nostro corpo non è una macchina che funziona sempre alla perfezione, che può incepparsi, ammalarsi.

Mi sono tornati alla mente alcuni versi dei Canti dell’infermità di Clemente Rebora e sono andato a rileggere questa breve raccolta di poesie. Certamente non si può paragonare la lunga stagione di sofferenze che ha caratterizzato l’ultima parte della vita di Rebora, e che si sarebbe conclusa con la sua morte nel 1957, col piccolo disagio provocato da un raffreddore. Eppure, sebbene profondamente diversa in quantità, la qualità di quanto Rebora, allora sacerdote rosminiano inchiodato su un letto a Stresa, ha scritto è pertinente con ogni tipo di esperienza di dolore fisico.

«Sono qui infermo», scrive nel novembre del 1956; tutto il peso del ritmo del verso cade su quel «qui», che circostanzia concretamente la sofferenza e sembra bloccare ogni cosa nel suo doloroso orizzonte. «Inerte e informe giaccio con me stesso» scriveva l’anno prima; inerte perché il corpo non risponde come si vorrebbe e informe perché i pensieri stessi si confondono. E infatti in questa stessa poesia Rebora parla si sé come di una «salma».
La descrizione delle angustie che il malato è costretto ad attraversare è ricca di dettagli, che il verso reboriano, aspro e sintetico, trasforma in crudi colpi di luce, quasi rasoiate. «Per lo schianto, basta un niente». «E il corpo mi rifiuta ogni servizio». «Tutto ozio di tempo, orribil peso». Fino a giungere alla potentissima immagine contenuta in Notturno, scritto la vigilia di Natale del 1955: «Chiodo al muro, / in fisiche miserie io son confitto».

I Canti dell’infermità non sono però solo la constatazione e l’analisi di un fenomeno; sono anche la ricerca del suo senso. Come il pioppo dell’omonima poesia ha il tronco che «s’inabissa ov’è più vero», così «l’ansia del pensiero» di Rebora, malato e incapace di svolgere qualsiasi attività, «vibra», «spasima» nel desiderio di scoprire il significato di tutto questo soffrire.

È lo stesso desiderio che gli aveva fatto scrivere, ancora ateo, nel 1920: «Non aspetto nessuno», eppure «verrà d’improvviso», «verrà come ristoro», «verrà, forse già viene / il suo bisbiglio». È il desiderio che sul letto dell’infermità diventa questa stupenda preghiera: «L’umiliante decompormi vivo / sia l’indizio del Tuo vitale arrivo».
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Se gli interessi particolari fanno dimenticare il bene comune di Pio XII, 31-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Il sentimento profondo dei principi di un ordine politico e sociale, sano e conforme alle norme del diritto e della giustizia, è di particolare importanza in coloro che, in qualsiasi forma di regime democratico, hanno come rappresentanti del popolo, in tutto o in parte, il potere legislativo.

E poiché il centro di gravità di una democrazia normalmente costituita risiede in questa rappresentanza popolare, da cui le correnti politiche s'irradiano in tutti i campi della vita pubblica — così per il bene come per il male —, la questione della elevatezza morale, della idoneità pratica, della capacità intellettuale dei deputati al Parlamento, è per ogni popolo in regime democratico una questione di vita o di morte, di prosperità o di decadenza, di risanamento o di perpetuo malessere.

Per compiere un'azione feconda, per conciliare la stima e la fiducia, qualsiasi corpo legislativo deve - come attestano indubitabili esperienze - raccogliere nel suo seno una eletta di uomini, spiritualmente eminenti e di fermo carattere, che si considerino come i rappresentanti dell'intero popolo e non già come i mandatari di una folla, ai cui particolari interessi spesso purtroppo sono sacrificati i veri bisogni e le vere esigenze del bene comune.

Una eletta di uomini, che non sia ristretta ad alcuna professione o condizione, bensì che sia l'immagine della molteplice vita di tutto il popolo. Una eletta di uomini di solida convinzione cristiana, di giudizio giusto e sicuro, di senso pratico ed equo, coerente con se stesso in tutte le circostanze; uomini di dottrina chiara e sana, di propositi saldi e rettilinei, uomini soprattutto capaci, in virtù dell'autorità che emana dalla loro pura coscienza e largamente s'irradia intorno ad essi, di essere guide e capi specialmente nei tempi in cui le incalzanti necessità sovreccitano la impressionabilità del popolo, e lo rendono più facile ad essere traviato e a smarrirsi; uomini che nei periodi di transizione, generalmente travagliati e lacerati dalle passioni, dalle divergenze delle opinioni e dalle opposizioni dei programmi, si sentono doppiamente in dovere di far circolare nelle vene del popolo e dello Stato, arse da mille febbri, l'antidoto spirituale delle vedute chiare, della bontà premurosa, della giustizia ugualmente favorevole a tutti, e la tendenza della volontà verso l'unione e la concordia nazionale in uno spirito di sincera fratellanza.

I popoli, il cui temperamento spirituale e morale è bastantemente sano e fecondo, trovano in se stessi e possono dare al mondo gli araldi e gli strumenti della democrazia, che vivono in quelle disposizioni e le sanno mettere realmente in atto. Dove invece mancano tali uomini, altri vengono ad occupare il loro posto, per far dell'attività politica l'arena della loro ambizione, una corsa ai guadagni per se stessi, per la loro casta o per la loro classe, mentre la caccia agl'interessi particolari fa perdere di vista e mette in pericolo il vero bene comune.

(Tratto dal Radiomessaggio natalizio del 24 dicembre 1944)


CULTURA - DOSTOEVSKIJ/ Il suo Grande Inquisitore ci svela la nuova insidia del potere di Sergio Cristaldi, lunedì 31 gennaio 2011, il sussidiario.net

Continua a far discutere la vertiginosa Leggenda del Grande Inquisitore, che Dostoevskij ha incastonato ne I fratelli Karamazov, suo ultimo romanzo, sua ultima sfida, senza umano rispetto, alla coscienza europea. Il drammatico faccia a faccia messo in scena dalla Leggenda - protagonisti assoluti il vecchio cardinale spagnolo costantemente a caccia di eretici e il Figlio di Dio tornato sulla terra e fatto arrestare proprio dal geloso e occhiuto ecclesiastico - non ha perso la sua forza d’impatto. Evidentemente, la posta in gioco di queste pagine è ancora attuale. In che termini, oggi, la si può definire? 

Non c’è dubbio che uno dei poli attorno a cui la Leggenda gravita sia il dono della libertà; impegnativo, enigmatico dono, tanto da apparire piuttosto un fardello. Non è meglio barattarlo con più tollerabili surrogati? Così ritiene, nella sua decrepita saggezza, il Grande Inquisitore. Quali esattamente siano, queste alternative che tentano le maggioranze ottuse e fiacche e appaiono a misura delle umane possibilità anche alle menti più sagaci, Dostoevskij lo segnala con chiarezza, e bisogna essere leali con le sue indicazioni, recepirle nella loro precisa fisionomia, per riuscire all’altezza del paragone con lui, qualunque cosa si pensi dell’analisi che propone.

Primo succedaneo, dunque, il benessere, ciò che l’episodio evangelico delle tentazioni di Cristo designa come “pane”, l’indiscutibile pane terreno. È questo lo slogan dei sediziosi, il motto destinato a campeggiare su tutte le bandiere eversive. “Passeranno i secoli”, annuncia il Grande Inquisitore dalla sua specola controriformistica, “e l’umanità proclamerà per bocca della sua sapienza e della sua scienza che non esiste il delitto, e quindi nemmeno il peccato, ma che ci sono soltanto degli affamati”. Riduzione del desiderio in nome di una pretesa sollecitudine; caricatura del bisogno e della stessa attenzione al bisogno, la quale nelle sue forme autentiche accorre al fianco delle necessità immediate destando al tempo stesso l’avvertimento di quelle più radicali, aperte verso l’infinitamente grande.

Ma l’infinito non è la prospettiva dei rivoluzionari, i quali si preoccuperanno esclusivamente, senza peraltro riuscirvi, di ridistribuire i beni della terra; e non è nemmeno l’orizzonte del Grande Inquisitore, ancor più scettico sulla natura umana e persuaso che all’indomani delle rivoluzioni fallite scoccherà di nuovo la sua ora. Saranno i suoi eredi a prendersi carico con successo delle necessità degli uomini; i quali, da parte loro, diverranno docili e remissivi pur di essere rifocillati. È così che si serve e si governa il genere umano, saziando la sua fame. A patto, beninteso, di sedare anche l’inquietudine della sua coscienza. Il Grande Inquisitore, infatti, è consapevole che la sola offerta del pane sarebbe insufficiente: anche nei deboli e negli inetti la coscienza sopravvive. Occorre, allora, lusingarla.

A questo valgono “saldi principi morali”, in grado di “acquietare la coscienza umana una volta per sempre”: una ripresa, dopo Cristo, della “salda legge antica”, dalla quale Cristo si era allontanato. Si sta profilando abbastanza chiaramente, a questo punto, la fisionomia del personaggio dostoevskiano: se egli vuole tranquillizzare le moltitudini, e non c’è dubbio che sia questo il suo obiettivo, si ripromette di farlo attraverso un sistema di sicurezze materiali rinsaldato da una tavola di valori e di norme, con esclusione di ogni rischio, intrapresa, creatività, di ogni avventuroso azzardo d’amore. Sistema talmente perfetto che nessuno avrebbe più bisogno di essere buono, secondo l’efficace formula del poeta T.S. Eliot; e tutti, aggiungiamo, sarebbero unicamente preoccupati della propria correttezza.

Ma la correttezza, come ogni regolare meccanismo, ha bisogno di inserirsi entro un meccanismo più ampio, entro un vasto ingranaggio perfettamente solidale, dove ogni pezzo, mentre svolge in maniera esatta la sua predestinata funzione, sia assecondato dagli altri pezzi, in un’inappuntabile esecuzione collettiva del programma generale. Matura così l’ultimo tocco del gigantesco progetto: l’Inquisitore ha in serbo l’annuncio di un’utopia ecumenica, di una “unione mondiale e universale” che instaurerà fino agli estremi confini della terra “il regno della pace e della felicità”, senza attriti, conflitti, esclusioni, “in un formicaio indiscutibilmente comune e concorde”. Superfluo postillare che in una simile uniformità non sarà consentito a chicchessia rivendicare il proprio volto, andare controcorrente.

Quale significato conserva per noi la Leggenda, che risale, col romanzo in cui è inserita, allo scorcio finale dell’Ottocento, dove erano in incubazione le convulsioni poi esplose nel secolo successivo? Forse sarebbe più giusto chiedersi se l’invenzione di Dostoevskij acquisti significati ulteriori nel momento in cui ci raggiunge. Raffigurando il Grande Inquisitore, il romanziere russo polemizzava certo coi gesuiti; al tempo stesso, come risulta anche dal suo epistolario, prendeva di mira il socialismo (conferendogli, a detta di Henri de Lubac, una venatura positivistica, tanto che il protagonista della Leggenda e i suoi accoliti finiscono per somigliare ai servitori dell’Umanità vagheggiati da Augusto Comte).

Ma il senso di un testo non è interamente dispiegato in origine, cresce nel rapporto con situazioni inedite, con lettori appartenenti a nuovi contesti; e non è arbitrario scorgere nella Leggenda una potenziale anticipazione dell’odierna riluttanza all’iniziativa e alla scommessa, una profezia in germe della nostra aspirazione a trattenere una cornice di garanzie, non importa se a scapito del desiderio, censurato e ridimensionato. In luogo della responsabilità personale, il ricorso a reti protettive; al posto dell’amore e della sua inventività, il binario delle regole. E nessuno venga a scuoterci, le nostre guide stabiliscano piuttosto le precise condizioni in grado di assicurare, se coscienziosamente ottemperate, il mantenimento dello status quo. Basterà che ciascuno, nel proprio ambito, le rispetti, in solidale concordia con gli altri. Con tutti. Con l’universalità degli uomini di un mondo omologato, dove vigono dappertutto le stesse, ben riconoscibili, procedure. Se questa interpretazione della Leggenda è plausibile, Dostoevskij si rivela, ancora oggi, altamente nutritivo.


Ma il segreto della Leggenda sta in un punto ulteriore, che poi è quello che la regge interamente. Il sotterraneo lavorio del romanziere a scapito del suo protagonista, la smentita dell’Inquisitore verboso attraverso la stessa enormità delle sue parole, non comporta appena un’implicita rivendicazione della libertà rispetto alla legge. Si tratterebbe di una controproposta ancora astratta; e tutto sommato insostenibile. Dostoevskij è su un’altra lunghezza d’onda, non per caso pone il Grande Inquisitore al cospetto di un altro personaggio, sempre silenzioso, ma non per questo inattivo. Le sue rauche frasi, non dimentichiamolo, il cardinale di Spagna le pronuncia di fronte a Cristo, divenuto suo prigioniero. Non è certo un elemento del testo dal quale si possa prescindere, fino a trascrivere le battute dostoevskiane in chiave esclusivamente secolare, quasi fossero un preludio alle filosofie novecentesche dell’arbitrio (quando invece prevengono il riflusso dell’arbitrio nella sudditanza al regime politico, violento o morbido che sia), o comunque si prestassero a una qualsiasi ricodifica di stampo naturalistico.

Il fatto è che la libertà dispone di una vera chance solo di fronte al Figlio di Dio, che l’ha abilitata rompendo i sigilli di una legge incombente. O meglio, la libertà è nella Leggenda il necessario margine di gioco in cui si muove l’affezione, che è calamitata non da un ideale, o da una nostalgia, o da un progetto, ma da un’irrecusabile presenza; questo, per lo scrittore, è assunto non negoziabile, e la nostra interpretazione è tenuta a prenderne atto. “Tu”, esclama lo spietato ma lucidissimo prete, rivolgendosi all’insolito interlocutore, “volesti il libero amore dell’uomo, perché ti seguisse liberamente, attratto e conquistato da Te. In luogo di seguire la salda legge antica, l’uomo doveva per l’avvenire decidere da sé liberamente, che cosa fosse bene e che cosa fosse male, avendo dinanzi come guida la sola Tua immagine”. Si sottragga all’affermazione l’ultimo segmento (è stato già fatto), ed essa non solo muterà natura, ma non riuscirà a reggersi; come l’Inquisitore stesso aveva sagacemente previsto, col suo annuncio dell’inevitabile schiavitù dopo la pretesa dell’anarchia; come la storia ha quindi provveduto a confermare, lungo i suoi ben noti percorsi novecenteschi. Ciò che l’Inquisitore non aveva messo in preventivo è la reazione dell’accusato all’implacabile requisitoria: “Il Prigioniero l’ha sempre ascoltato (...). Ma tutt’a un tratto si avvicina al vecchio in silenzio e lo bacia piano sulle esangui labbra novantenni. Ed ecco tutta la Sua risposta”.

All’indomani del XX secolo e dei suoi totalitarismi, ci muoviamo entro paesaggi meno terrificanti; anche se abbiamo ragione a temere le forme blande e insinuanti che il potere adesso assume. Il metro con cui misurare il potere è peraltro la sua disponibilità a rispettare e favorire la libera mossa del soggetto. Sempre che questa mossa ci sia. Non è detto, insomma, che la vera insidia venga dal di fuori, e non piuttosto dalla nostra riluttanza a scegliere e a giocarci, dall’inconfessata tentazione di riposare in alvei predefiniti e sicuri, al riparo da brusche novità e spiazzanti sorprese, magari grazie a uno Stato in veste di tutore benevolo, che senza farlo pesare indirizzi e sorvegli i passi, promettendo in cambio di coprire tutti gli incerti, di ammortizzare anche gli infortuni più temibili.

Ecco: Dostoevskij costituisce un formidabile antidoto contro ogni statolatria. Non per questo combacia con un puro liberalismo sciolto da ogni riferimento assoluto; semmai ritrova le radici da cui l’idea della libertà, in Europa, si è storicamente sviluppata. 


O meglio, la libertà è nella Leggenda il necessario margine di gioco in cui si muove l’affezione, che è calamitata non da un ideale, o da una nostalgia, o da un progetto, ma da un’irrecusabile presenza; questo, per lo scrittore, è assunto non negoziabile, e la nostra interpretazione è tenuta a prenderne atto. “Tu”, esclama lo spietato ma lucidissimo prete, rivolgendosi all’insolito interlocutore, “volesti il libero amore dell’uomo, perché ti seguisse liberamente, attratto e conquistato da Te. In luogo di seguire la salda legge antica, l’uomo doveva per l’avvenire decidere da sé liberamente, che cosa fosse bene e che cosa fosse male, avendo dinanzi come guida la sola Tua immagine”.

Si sottragga all’affermazione l’ultimo segmento (è stato già fatto), ed essa non solo muterà natura, ma non riuscirà a reggersi; come l’Inquisitore stesso aveva sagacemente previsto, col suo annuncio dell’inevitabile schiavitù dopo la pretesa dell’anarchia; come la storia ha quindi provveduto a confermare, lungo i suoi ben noti percorsi novecenteschi. Ciò che l’Inquisitore non aveva messo in preventivo è la reazione dell’accusato all’implacabile requisitoria: “Il Prigioniero l’ha sempre ascoltato […]. Ma tutt’a un tratto si avvicina al vecchio in silenzio e lo bacia piano sulle esangui labbra novantenni. Ed ecco tutta la Sua risposta”.

All’indomani del XX secolo e dei suoi totalitarismi, ci muoviamo entro paesaggi meno terrificanti; anche se abbiamo ragione a temere le forme blande e insinuanti che il potere adesso assume. Il metro con cui misurare il potere è peraltro la sua disponibilità a rispettare e favorire la libera mossa del soggetto. Sempre che questa mossa ci sia. Non è detto, insomma, che la vera insidia venga dal di fuori, e non piuttosto dalla nostra riluttanza a scegliere e a giocarci, dall’inconfessata tentazione di riposare in alvei predefiniti e sicuri, al riparo da brusche novità e spiazzanti sorprese, magari grazie a uno Stato in veste di tutore benevolo, che senza farlo pesare indirizzi e sorvegli i passi, promettendo in cambio di coprire tutti gli incerti, di ammortizzare anche gli infortuni più temibili.

Ecco: Dostoevskij costituisce un formidabile antidoto contro ogni statolatria. Non per questo combacia con un puro liberalismo sciolto da ogni riferimento assoluto; semmai ritrova le radici da cui l’idea della libertà, in Europa, si è storicamente sviluppata.
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31 Gennaio San Giovanni Bosco di http://www.pontifex.roma.it/

Castelnuovo d’Asti, 16 Agosto 1815- Torino, 31 Gennaio 1888. San Giovanni Bosco è indubbiamente il Santo piemontese più noto di tutti i tempi e su scala mondiale, anche il più famoso Santo temporaneo. In tutto il mondo è fiorito il suo frutto più importante, la Famiglia Salesiana; la congregazione religiosa di recente fondazione più diffusa nei cinque continenti. Giovanni nasce il 16 Agosto 1865 a Castelnuovo d’Asti, oggi Castelnuovo Don Bosco. Cresce in una modesta famiglia, il padre Francesco e la madre, serva di Dio Margherita Occhiena, allevano i figli alla fede e al Vangelo. A soli nove anni, Giovanni ebbe un sogno che gli rivelò la sua futura missione volta all’educazione dei più giovani, fondò in quegli anni la “società dell’allegria”, basata sulla guerra al peccato. Entrò nel seminario teologico di Chieri e ricevette l’ordinazione presbiterale nel 1841; cominciò, dunque il triennio di teologia morale sempre nella stessa scuola, tra i suoi insegnanti vi era San Giuseppe Cafasso, suo compaesano. In quegli anni si forma in Giovanni l’idea della futura famiglia Salesiana, basandosi anche sull’attuale situazione sociale torinese, che vedeva masse di cittadini trasferirsi in città dalle campagne, formando grandi sacche di emarginati ed indigenti. Giovanni intuì che proprio quei ragazzi meno fortunati sarebbero stati il suo futuro, ragazzi che crescevano tra mille difficoltà, quali l’analfabetismo, la disoccupazione, il degrado morale e la mancata assistenza religiosa. Erano i tempi confusi in cui l’era preindustriale stava sostituendo una società agricola, Giovanni intuì che l’oratorio potesse essere un’adeguata risposta alla situazione e l’8 Dicembre 1841 iniziò a radunare i ragazzi presso il convitto di San Francesco a Torino, intitolando il primo oratorio a San Francesco di Sales.

Quattro anni più tardi trasferì la struttura presso Casa Pinardi, dalla quale si sviluppò la grandiosa opera odierna di Valdocco. Nel 1847 Don Bosco aprì l’oratorio di San Luigi, presso la stazione torinese di Porta Nuova. Nel 1852 l’arcivescovo di Torino, monsignor Luigi Fransoni lo nominò responsabile dell’ordine degli oratori, affidandogli anche quello dell’Angelo custode. Don Bosco, articolò gli oratori organizzandoli quali luoghi di aggregazione, ricreazione, evangelizzazione,catechesi e promozione sociale; istituendo delle scuole professionali che avviavano i ragazzi al mondo del lavoro. Giovanni, faceva dell’amore verso i ragazzi il suo metodo d’ insegnamento, favorendo il lato gioviale della gioventù e coniando il suo celebre motto “State allegri, ma non fate peccato”.

Nel 1863 a Mirabello, nella diocesi di Casale Monferrato, fondò un collegio, ritenendolo un valido metodo d’insegnamento. Dopo il Concilio Vaticano I, Giovanni si sentì coinvolto dalla sensibilità missionaria propugnata dal concilio stesso e sostenuto dal beato Papa Pio IX, nel 1875 inviò i suoi primi missionari in America latina, con il principale compito di apostolato presso gli immigrati italiani. Ma ben presto, i missionari convertirono anche numerosi indio, battezzando anche il Venerabile Zeffirino Namuncurà, figlio dell’ultimo capo indio araucano. Don Bosco, con grande arguzia, capì che la stampa sarebbe stato un grande strumento per la divulgazione culturale cristiana. Scrisse testi tra i quali “Storia d’Italia”, “Il sistema metrico decimale” e la collana “Letture cattoliche”. Uno dei più importanti figli spirituali di Don Bosco, fu il giovane San Domenico Savio. Per dare continuità e stabilità ai suoi progetti, fondò a Torino la società di San Francesco di Sales (detti Salesiani) e nel 1872 con Santa Maria Domenica Mazzarello, fondò le figlie di Maria Ausiliatrice. Nonostante la sua battaglia in favore dei più poveri, la stampa laicista dell’epoca le rimase sempre avversa, anche dopo la sua morte; questo perché la sua forte personalità non permetteva a nessuno di esserle indifferente.

Anche in ambito ecclesiastico, ebbe molte divergenze con alcuni vescovi piemontesi, mentre Papa Pio IX lo sostenne sempre senza riserve. Giovanni Bosco morì a Torino il 31 Gennaio 1888, la sua salma fu posta nell’istituto salesiano di Valsalice; successivamente fu trasferita nella basilica di Maria Ausiliatrice da lui fatta edificare. Pio XI, suo grande ammiratore, lo beatificò il 2 Giugno 1929 e lo canonizzò il 1° Aprile 1934. La città di Torino ha onorato il santo, dedicandogli una strada, un ospedale e una scuola. Nel 1988 Giovanni Paolo II, visitando i luoghi donboschiani, lo nominò Padre e Maestro della Gioventù. Negli anni 90 del XX secolo, la famiglia salesiana, ricordando l’amore verso la madre di Giovanni, intraprese la causa di beatificazione di mamma Margherita. La famiglia Salesiana fino ad oggi comprende: 5 Santi, 51 Beati, 8 Venerabili e 88 Servi di Dio. PREGHIERA A SAN GIOVANNI BOSCO O San Giovanni Bosco, padre e maestro della gioventù, che tanto lavorasti per la salvezza delle anime, sii nostra guida nel cercare il bene delle anime nostre e la salvezza del prossimo; aiutaci a vincere le passioni e il rispetto umano; insegnaci ad amare Gesù Sacramentato, Maria Ausiliatrice e il Papa; e implora da Dio per noi una buona morte, affinché possiamo raggiungerti in Paradiso. Amen. [Fonte Santiebeati.it]


Dall'India all'Indonesia non c'è pace per i cristiani di Anna Bono, 31-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

In Indonesia la buona notizia sarebbe che i cristiani di Bogor, West Java, costretti a Natale a rinunciare alle funzioni religiose non disponendo di un locale per svolgerle, hanno infine ottenuto l’autorizzazione della Corte suprema a utilizzare l’edificio la cui costruzione è stata sospesa nel 2008 su pressione della Bogor Islamic Community Association. Ma gli estremisti islamici, che li accusano di conversioni forzate, si sono opposti alla sentenza e, con il favore dell’amministrazione locale poco propensa a perseguire i casi di intolleranza religiosa, stanno facendo circolare un appello a tutti i musulmani affinché la domenica convergano sulla chiesa e impediscano la celebrazione della messa.

In Cina decine di milioni di cristiani praticano la fede di nascosto, in piccoli gruppi chiamati chiese domestiche, per evitare di essere perseguitati. Il 18 gennaio Wang Yi, il leader di una di queste chiese, è stato arrestato insieme a tre altri fedeli mentre all’aeroporto di Chedgu, stato di Sichuan, attendeva di partire per Hong Kong dove avrebbe partecipato a un convegno di cristiani evangelici. Rilasciato alcune ore dopo, ha tentato di raggiungere l’aeroporto, ma è stato ancora una volta fermato dagli agenti di polizia e riportato nella caserma in cui era già stato detenuto.

Brutte notizie giungono anche dall’Iran dove, a partire dal giorno di Natale, sono stati arrestati 70 fedeli, anch’essi membri di chiese domestiche, sottoposti poi a violenti interrogatori e a intimidazioni. L’agenzia di stampa AsiaNews riporta le dichiarazioni del governatore di Teheran, Morteza Tamadon, che il 14 gennaio annunciava imminenti, nuovi arresti: “i ‘missionari’ – così Tamadon chiama i cristiani – sono dei parassiti e hanno creato un movimento deviato e corrotto con l’appoggio della Gran Bretagna in nome del cristianesimo, ma il loro complotto è fallito”.

In India, come è noto, le violenze degli estremisti indù contro i cristiani sono incessanti. Le autorità degli stati in cui si concentrano le aggressioni sono a dir poco restii a perseguire i responsabili. È il caso dello stato di Orissa dal quale negli ultimi anni più di 50.000 cristiani sono fuggiti, impauriti dai diffusi sentimenti anticristiani e dall’impunità di solito garantita agli aggressori. Un esempio del clima di insicurezza in cui i fedeli sono costretti a vivere è l’arresto di due giovani cristiani, vittime di un ladro indù, avvenuto il 10 gennaio nel villaggio di Bodimunda. Il ladro, dopo aver strappato a uno dei due una medaglia d’oro raffigurante la Croce, ha iniziato a gridare accusando i ragazzi di aver tentato di convertirlo. La polizia accorsa ha arrestato senza indugio i giovani cristiani, fidandosi della versione dei fatti data dal ladro.

In Pakistan sono due donne cristiane di Lahore le ultime vittime dell’intolleranza religiosa. In seguito a false accuse di blasfemia mosse loro da alcuni parenti, il 16 gennaio sono state aggredite, percosse e umiliate da una folla di estremisti islamici che le hanno imbrattate, caricate su degli asini e portate in giro per le strade del loro quartiere. Da allora vivono nascoste in una località segreta. La causa scatenante della violenza è un contrasto familiare sull’educazione religiosa della figlia del fratello cristiano di una delle due donne, sposato a una musulmana.

Proprio in Pakistan, a Karachi, le donne del movimento Jamat-e-Islami hanno organizzato il 29 gennaio una marcia a sostegno della legge sulla blasfemia e il giorno successivo i fondamentalisti islamici hanno indetto una manifestazione nazionale, sempre in difesa della cosiddetta ‘legge nera’, minacciando altre iniziative nel caso venga condonata la pena capitale ad Asia Bibi, la donna cristiana in carcere da settimane e condannata a morte per blasfemia per la quale il mondo occidentale si è mobilitato chiedendone la grazia.

Il 24 gennaio nelle Filippine si è verificato l’episodio di violenza anticristiana più grave, come già riportato diffusamente da La Bussola Quotidiana. Il giornalista cattolico Gerry Ortega, noto per le sue campagne in difesa dei diritti umani combattute insieme a missionari ed esponenti delle comunità cristiane, è stato assassinato a Puerto Princesa, nell’isola di Parawan. Ultimamente si stava dedicando alla causa delle tribù indigene dell’isola la cui sopravvivenza è minacciata da progetti di sfruttamento minerario sconsiderati.


Missionario in Etiopia guardando agli ortodossi di Massimo Introvigne, 31-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Nella settimana in cui, con il Messaggio per la Giornata Mondiale Missionaria di cui La Bussola Quotidiana ha pubblicato un commento, ha ricordato come nell’epoca della nuova evangelizzazione in Occidente non sia venuta meno la necessità della missione ad gentes, il Papa ha tratto occasione dall’incontro con la comunità del Pontificio Collegio Etiopico per ricordare la figura di un grande missionario italiano, san Giustino de Jacobis (1800-1860). Molto attento agli anniversari, Benedetto XVI non ha potuto per i numerosi impegni partecipare alle celebrazioni per il 150° anniversario della morte di san Giustino nel 2010, ma «ripara» ora ritornando su quel «significativo anniversario».

San Giustino, «degno figlio di san Vincenzo de’ Paoli [1581-1660]», dopo essere stato provinciale della Congregazione della Missione a Lecce e a Napoli, fu – come ricorda il Papa – «inviato a trentotto anni dall’allora Prefetto di Propaganda Fide, il Cardinale [Giacomo Filippo] Franzoni [più spesso scritto Fransoni, 1775-1856], come missionario in Etiopia». Il santo «lavorò prima ad Adua e poi a Guala», e fu consacrato vescovo da un altro illustre missionario, il futuro cardinale servo di Dio Guglielmo Massaia O.F.M. Cap. (1809-1889).

Ma mentre Massaia – di cui si è celebrato nel 2009 il secondo centenario della nascita, tra l’altro con importanti convegni storici – dedicò una parte significativa della sua missione ai non cristiani, san Giustino riprese soprattutto l’antico progetto di riportare alla comunione con Roma i cristiani ortodossi etiopi. Incaricato originariamente di una giurisdizione di rito latino, decise invece di adottare il rito etiope – una delle due varianti, insieme al rito copto, del rito alessandrino – costituendo così il primo nucleo della Chiesa Cattolica Etiope, «controparte» cattolica della Chiesa Ortodossa Etiopica, che oggi conta circa duecentomila fedeli.

San Giustino, ricorda il Papa, «pensò subito a formare preti etiopi, dando vita ad un seminario chiamato “Collegio dell’Immacolata”. Con il suo zelante ministero operò instancabilmente perché quella porzione di popolo di Dio ritrovasse il fervore originario della fede, seminata dal primo evangelizzatore san Frumenzio  [IV secolo]».

«Imparando la lingua locale – aggiunge il Papa – e favorendo la plurisecolare tradizione liturgica del rito proprio di quelle comunità, egli si adoperò anche per un’efficace opera ecumenica». Per la verità i rapporti con la Chiesa Ortodossa Etiopica, nonostante gli sforzi del santo, non furono facili; Benedetto XVI parla di «molte sofferenze e persecuzioni». Ed è significativo che il Pontefice, un giorno dopo avere incontrato la Commissione Mista Internazionale per il Dialogo Teologico tra la Chiesa Cattolica e le Chiese Orientali Ortodosse, rallegrandosi per i progressi ecumenici, celebri un santo che – senza trascurare il dialogo con gli Ortodossi – annunciò però sempre la verità della Chiesa Cattolica, accogliendo senza reticenze nella Chiesa di Roma quegli Ortodossi che desideravano entrarvi, mantenendo le loro plurisecolari peculiarità liturgiche.

Parlando a seminaristi, a proposito di san Giustino il Papa ricorda «la sua passione educativa, specialmente nella formazione dei sacerdoti», e l’esempio di santità sacerdotale. Benedetto XVI insiste molto sui santi, dedicando a parecchi di loro discorsi e catechesi. I santi sono infatti molto importanti per la nostra formazione. «Ce lo ricorda – spiega Benedetto XVI – il Concilio Vaticano II che, tra l’altro, afferma: “Nella vita di quelli che, sebbene partecipi della nostra natura umana, sono tuttavia più perfettamente trasformati nell’immagine di Cristo (cfr 2 Cor 3,18), Dio manifesta vivamente agli uomini la sua presenza ed il suo volto. In loro è Egli stesso che ci parla e ci mostra il contrassegno del suo Regno” (Cost. dog. Lumen gentium, 50)».

La santità sacerdotale, in questa prospettiva, ha un significato speciale. Infatti «Cristo, l’eterno Sacerdote della Nuova Alleanza, che con la speciale vocazione al ministero sacerdotale ha “conquistato” la nostra vita, non sopprime le qualità caratteristiche della persona; al contrario, le eleva, le nobilita e, facendole sue, le chiama a servire il suo mistero e la sua opera. Dio ha bisogno anche di ciascuno di noi “per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù” (Ef 2,7). Nonostante il carattere proprio della vocazione di ciascuno, non siamo separati tra di noi; siamo invece solidali, in comunione all’interno di un unico organismo spirituale. Siamo chiamati a formare il Cristo totale, un’unità ricapitolata nel Signore, vivificata dal suo Spirito per diventare il suo “pleroma” e arricchire il cantico di lode che Egli innalza al Padre. Cristo è inseparabile dalla Chiesa che è il suo Corpo».

Anche i santi che sono stati sacerdoti, nella comunione dell’unica Chiesa fatta di presbiteri, di religiosi e di laici, parlano a tutti. «La santità – afferma infatti il Papa – si colloca quindi nel cuore stesso del mistero ecclesiale ed è la vocazione a cui tutti siamo chiamati. I Santi non sono un ornamento che riveste la Chiesa dall’esterno, ma sono come i fiori di un albero che rivelano la inesauribile vitalità della linfa che lo percorre. E’ bello contemplare così la Chiesa, in modo ascensionale verso la pienezza del Vir perfectus; in continua, faticosa, progressiva maturazione; dinamicamente sospinta verso il pieno compimento in Cristo».