giovedì 20 gennaio 2011

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    BENEDETTO XVI: IL CAMMINO VERSO L’UNITÀ ABITA NELLA PREGHIERA - Nella Catechesi per l'Udienza generale del mercoledì
2)    IL DIRITTO E I DIRITTI UMANI - Nasce la rubrica “Osservatorio Giuridico” di Rafael Navarro-Valls
3)    Dio è morto, ma era un sosia di Antonio Giuliano 19-01-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it
4)    A colloquio con don Giuseppe Costa - Con la profondità di Romano Guardini (©L'Osservatore Romano - 20 gennaio 2011)
5)    Si lavora a un documento su primato e sinodalità - Il dialogo teologico fra cattolici e ortodossi di Andrea Palmieri - Pontificio Consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani (©L'Osservatore Romano - 20 gennaio 2011)
6)    Cuba divora i suoi figli - Di Francesco Agnoli - 19/01/2011 - Movimento Europeo Difesa Vita - Dissidenti perseguitati, turismo sessuale, aborto di massa. Gli orrori del regime castrista
7)    La bellezza salverà l'Italia di Luca Doninelli - giovedì 20 gennaio 2011 – il sussidiario.net
8)    Mons. Dal Covolo: non è cattolico odiare gli ebrei di Marco Respinti 20-01-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it
9)    Ragazze, genitori e questione morale di Riccardo Cascioli 19-01-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it

BENEDETTO XVI: IL CAMMINO VERSO L’UNITÀ ABITA NELLA PREGHIERA - Nella Catechesi per l'Udienza generale del mercoledì

ROMA, mercoledì, 19 gennaio 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo dell'intervento pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI durante l'Udienza generale svoltasi nell’Aula Paolo VI.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa ha incentrato la sua meditazione sulla Settimana di preghiera per l’Unità dei Cristiani, che si celebra in questi giorni sul tema "Uniti nell’insegnamento degli apostoli, nella comunione, nello spezzare il pane e nella preghiera" (Atti 2,42).


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Cari fratelli e sorelle,
stiamo celebrando la Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, nella quale tutti i credenti in Cristo sono invitati ad unirsi in preghiera per testimoniare il profondo legame che esiste tra loro e per invocare il dono della piena comunione. È provvidenziale il fatto che, nel cammino per costruire l’unità, venga posta al centro la preghiera: questo ci ricorda, ancora una volta, che l’unità non può essere semplice prodotto dell’operare umano; essa è anzitutto un dono di Dio, che comporta una crescita nella comunione con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Il Concilio Vaticano II dice: "Queste preghiere in comune sono senza dubbio un mezzo molto efficace per impetrare la grazia dell'unità e costituiscono una manifestazione autentica dei vincoli con i quali i cattolici rimangono uniti con i fratelli separati: «Poiché dove sono due o tre adunati nel nome mio [dice il Signore], ci sono io in mezzo a loro» (Mt 18,20)." (Decr. Unitatis Redintegratio, 8). Il cammino verso l’unità visibile tra tutti i cristiani abita nella preghiera, perché fondamentalmente l’unità non la "costruiamo" noi, ma la "costruisce" Dio, viene da Lui, dal Mistero trinitario, dall’unità del Padre con il Figlio nel dialogo d’amore che è lo Spirito Santo e il nostro impegno ecumenico deve aprirsi all’azione divina, deve farsi invocazione quotidiana dell’aiuto di Dio. La Chiesa è sua e non nostra.
Il tema scelto quest’anno per la Settimana di Preghiera fa riferimento all’esperienza della prima comunità cristiana di Gerusalemme, così come è descritta dagli Atti degli Apostoli; abbiamo sentito il testo: "Erano assidui nell'ascoltare l'insegnamento degli apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere" (At 2,42). Dobbiamo considerare che già al momento della Pentecoste lo Spirito Santo discende su persone di diversa lingua e cultura: ciò sta a significare che la Chiesa abbraccia sin dagli inizi gente di diversa provenienza e, tuttavia, proprio a partire da tali differenze, lo Spirito crea un unico corpo. La Pentecoste come inizio della Chiesa segna l’allargamento dell’Alleanza di Dio a tutte le creature, a tutti i popoli e a tutti i tempi, perché l’intera creazione cammini verso il suo vero obiettivo: essere luogo di unità e di amore.
Nel brano citato degli Atti degli Apostoli, quattro caratteristiche definiscono la prima comunità cristiana di Gerusalemme come luogo di unità e di amore e san Luca non vuol solo descrivere una cosa del passato. Ci offre questo come modello, come norma della Chiesa presente, perché queste quattro caratteristiche devono sempre costituire la vita della Chiesa. Prima caratteristica, essere unita e ferma nell’ascolto dell’insegnamento degli Apostoli, poi nella comunione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere. Come ho detto, questi quattro elementi sono ancora oggi i pilastri della vita di ogni comunità cristiana e costituiscono anche l’unico solido fondamento sul quale progredire nella ricerca dell’unità visibile della Chiesa.
Anzitutto abbiamo l’ascolto dell’insegnamento degli Apostoli, ovvero l’ascolto della testimonianza che essi rendono alla missione, alla vita, alla morte e risurrezione del Signore. È ciò che Paolo chiama semplicemente il "Vangelo". I primi cristiani ricevevano il Vangelo dalla bocca degli Apostoli, erano uniti dal suo ascolto e dalla sua proclamazione, poiché il vangelo, come afferma S. Paolo, "è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede" (Rm 1,16). Ancora oggi, la comunità dei credenti riconosce nel riferimento all’insegnamento degli Apostoli la norma della propria fede: ogni sforzo per la costruzione dell’unità tra tutti i cristiani passa pertanto attraverso l’approfondimento della fedeltà al depositum fidei trasmessoci dagli Apostoli. Fermezza nella fede è il fondamento della nostra comunione, è il fondamento dell’unità cristiana.
Il secondo elemento è la comunione fraterna. Al tempo della prima comunità cristiana, come pure ai nostri giorni, questa è l’espressione più tangibile, soprattutto per il mondo esterno, dell’unità tra i discepoli del Signore. Leggiamo negli Atti degli Apostoli che i primi cristiani tenevano ogni cosa in comune e chi aveva proprietà e sostanze le vendeva per farne parte ai bisognosi (cfr At 2,44-45). Questa condivisione delle proprie sostanze ha trovato, nella storia della Chiesa, modalità sempre nuove di espressione. Una di queste, peculiare, è quella dei rapporti di fraternità e di amicizia costruiti tra cristiani di diverse confessioni. La storia del movimento ecumenico è segnata da difficoltà e incertezze, ma è anche una storia di fraternità, di cooperazione e di condivisione umana e spirituale, che ha mutato in misura significativa le relazioni tra i credenti nel Signore Gesù: tutti siamo impegnati a continuare su questa strada. Secondo elemento, quindi, la comunione, che innanzitutto è comunione con Dio tramite la fede; ma la comunione con Dio crea la comunione tra di noi e si esprime necessariamente in quella comunione concreta della quale parlano gli Atti degli Apostoli, cioè la condivisione. Nessuno nella comunità cristiana deve avere fame, deve essere povero: questo è un obbligo fondamentale. La comunione con Dio, realizzata come comunione fraterna, si esprime, in concreto, nell’impegno sociale, nella carità cristiana, nella giustizia.
Terzo elemento: nella vita della prima comunità di Gerusalemme essenziale era il momento della frazione del pane, in cui il Signore stesso si rende presente con l’unico sacrificio della Croce nel suo donarsi completamente per la vita dei suoi amici: "Questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi … questo è il calice del mio Sangue … versato per voi". "La Chiesa vive dell'Eucaristia. Questa verità non esprime soltanto un'esperienza quotidiana di fede, ma racchiude in sintesi il nucleo del mistero della Chiesa" (Giovanni Paolo II, Enc. Ecclesia de Eucharistia, 1). La comunione al sacrificio di Cristo è il culmine della nostra unione con Dio e rappresenta pertanto anche la pienezza dell’unità dei discepoli di Cristo, la piena comunione. Durante questa settimana di preghiera per l’unità è particolarmente vivo il rammarico per l’impossibilità di condividere la stessa mensa eucaristica, segno che siamo ancora lontani dalla realizzazione di quell’unità per cui Cristo ha pregato. Tale dolorosa esperienza, che conferisce anche una dimensione penitenziale alla nostra preghiera, deve diventare motivo di un impegno ancora più generoso da parte di tutti affinché, rimossi gli ostacoli alla piena comunione, giunga quel giorno in cui sarà possibile riunirsi intorno alla mensa del Signore, spezzare insieme il pane eucaristico e bere allo stesso calice.
Infine, la preghiera - o come dice san Luca le preghiere - è la quarta caratteristica della Chiesa primitiva di Gerusalemme descritta nel libro degli Atti degli Apostoli. La preghiera è da sempre l’atteggiamento costante dei discepoli di Cristo, ciò che accompagna la loro vita quotidiana in obbedienza alla volontà di Dio, come ci attestano anche le parole dell’apostolo Paolo, che scrive ai Tessalonicesi nella sua prima lettera: "State sempre lieti, pregate incessantemente, in ogni cosa rendete grazie: questa infatti è la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi" (1Ts 5, 16-18; cfr. Ef 6,18). La preghiera cristiana, partecipazione alla preghiera di Gesù, è per eccellenza esperienza filiale, come ci attestano le parole del Padre Nostro, preghiera della famiglia - il "noi" dei figli di Dio, dei fratelli e sorelle - che parla al Padre comune. Porsi in atteggiamento di preghiera significa pertanto anche aprirsi alla fraternità. Solo nel "noi" possiamo dire Padre Nostro. Apriamoci dunque alla fraternità, che deriva dall’essere figli dell’unico Padre celeste, ed essere disposti al perdono e alla riconciliazione.
Cari Fratelli e Sorelle, come discepoli del Signore abbiamo una comune responsabilità verso il mondo, dobbiamo rendere un servizio comune: come la prima comunità cristiana di Gerusalemme, partendo da ciò che già condividiamo, dobbiamo offrire una forte testimonianza, fondata spiritualmente e sostenuta dalla ragione, dell’unico Dio che si è rivelato e ci parla in Cristo, per essere portatori di un messaggio che orienti e illumini il cammino dell’uomo del nostro tempo, spesso privo di chiari e validi punti di riferimento. E’ importante, allora, crescere ogni giorno nell’amore reciproco, impegnandosi a superare quelle barriere che ancora esistono tra i cristiani; sentire che esiste una vera unità interiore tra tutti coloro che seguono il Signore; collaborare il più possibile, lavorando assieme sulle questioni ancora aperte; e soprattutto essere consapevoli che in questo itinerario il Signore deve assisterci, deve aiutarci ancora molto, perché senza di Lui, da soli, senza il "rimanere in Lui" non possiamo fare nulla (cfr Gv 15,5).
Cari amici, è ancora una volta nella preghiera che ci troviamo riuniti - particolarmente in questa settimana - insieme a tutti coloro che confessano la loro fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio: perseveriamo nella preghiera, siamo uomini della preghiera, implorando da Dio il dono dell’unità, affinché si compia per il mondo intero il suo disegno di salvezza e di riconciliazione. Grazie.

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]

Cari fratelli e sorelle,
rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto i rappresentanti dell’Arciconfraternita della Misericordia di Firenze, qui convenuti con l’Arcivescovo Mons. Giuseppe Betori, e li esorto ad essere sempre più segno di carità, specialmente verso i poveri e i sofferenti.
Saluto i membri dell’Associazione "Figli in paradiso: ali tra cielo e terra", di Galatone, diffusa in alcune Regioni d’Italia. Voi, genitori, colpiti profondamente dalla morte, spesso tragica, dei vostri figli, non lasciatevi vincere dalla disperazione o dall’abbattimento, ma trasformate la vostra sofferenza in speranza, come Maria ai piedi della Croce. Desidero raccomandare soprattutto a voi, giovani: nell’esuberanza dei vostri anni giovanili, non mancate di calcolare i rischi e agite in ogni momento con prudenza e senso di responsabilità, specialmente quando siete alla guida di un autoveicolo, a tutela della vostra vita e di quella altrui. Desidero, inoltre, incoraggiare i sacerdoti, che accompagnano spiritualmente le famiglie colpite dal lutto per la perdita di uno o più figli, affinché proseguano generosamente in questo importante servizio. Infine, assicuro una speciale preghiera di suffragio per i vostri figli e per tutti i giovani che hanno perso la vita. Sentite accanto a voi la loro spirituale presenza: essi, come voi dite, sono "ali tra cielo e terra".
Saluto ora i giovani, i malati, e gli sposi novelli. Cari amici, vi invito a pregare per l’unità dei cristiani. Tutti voi che, con giovanile freschezza, o con sofferta donazione, o con lieto amore sponsale vi impegnate ad amare il Signore nel quotidiano adempimento del vostro dovere, contribuite all’edificazione della Chiesa e alla sua opera evangelizzatrice. Pregate, dunque, perché tutti i cristiani accolgano la chiamata del Signore all’unità della fede nell’unica sua Chiesa.
[© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana]


IL DIRITTO E I DIRITTI UMANI - Nasce la rubrica “Osservatorio Giuridico” di Rafael Navarro-Valls

MADRID, mercoledì, 19 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Offriamo a partire da oggi una nuova rubrica quindicinale sulle questioni relative al rapporto tra i diritti umani e l’antropologia e la fede cristiane, diretta dallo spagnolo Rafael Navarro-Valls, docente della Facoltà di diritto dell’Università Complutense di Madrid e segretario generale della Real Academia de Jurisprudencia y Legislación spagnola.

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di Rafael Navarro-Valls


La spirale di legittime rivendicazioni a cui punta la moderna nozione di diritto soggettivo finisce nell’utopia se non trova nello stesso diritto il canale per la sua promozione e difesa. Da tempo i giuristi hanno avvertito che le incertezze sul diritto oggettivo si ripercuotono sui diritti soggettivi, creando una notevole insicurezza sociale.

Pensiamo al diritto penale nella Chiesa. Benedetto XVI, nel suo ultimo libro con Peter Seewald, denuncia la mancanza di efficacia del diritto canonico, a partire dagli anni '60, che ha portato all’idea che l’applicazione del diritto “trasgrediva la carità”. Questo vuoto giuridico ha contribuito, tra le altre cose negative, a che gli abusatori sessuali nella Chiesa operassero a piacimento. Una piccola tirata d’orecchie, forse una nuova assegnazione pastorale… e il nemico continua a stare dentro casa. Mentre si irrigidivano le leggi penali e civili nella Chiesa, uno sbiadito diritto sanzionatorio creava una lacuna giuridica di tale entità da aver soppiantato la certezza legale. La conseguenza è stato il saccheggio devastante dei diritti umani, tra cui quello del rispetto della dignità della persona umana.

Sono state appena pubblicate tre lettere che dimostrano come il Prefetto per la Dottrina della fede, il cardinale Ratzinger, aveva dato impulso, sin dalla promulgazione del vigente Codice del 1983, ad una sua revisione, connessa con le gravi mancanze morali commesse da membri del clero e per le quali sarebbe richiesta l’espulsione dallo stato clericale. È stato dunque l’attuale Pontefice che ha postulato vigorosamente il processo di riforma della disciplina penale.

Parallelamente, nello scorso dicembre è stata annunciata una riforma del libro VI del codice di diritto canonico (“Delle sanzioni nella Chiesa”) orientata al rafforzamento e alla maggiore celerità nell’applicazione delle pene ai chierici che abbiamo commesso i delitti più gravi, tra cui gli abusi sessuali sui minori. Nel rendere pubblica la notizia, da parte dello stesso Pontificio Consiglio per i testi legislativi, si è nuovamente denunciato un “diffuso antigiuridicismo” non in grado di “coniugare le esigenze della carità pastorale con quelle della giustizia e del buon governo”. Effettivamente, riconoscere – come ha da poco fatto l’Arcivescovo di Dublino – che “lo scandalo” degli abusi sessuali “ha aperto gli occhi alla Chiesa” di fronte a questo “orrore”, significa non semplicemente “acclamare al Cielo”, ma riconoscere l’inadeguatezza del rimedio legale. In particolare, in quelle zone – Stati Uniti e Olanda – dove il clima “antigiuridico” era maggiore.

Il diritto è certamente un semplice e modesto strumento tra molti, per dare impulso ai diritti umani, anche nella Chiesa. La sua inefficacia, tuttavia, lascia inalterato il grande apparato posto alla sua tutela.


Dio è morto, ma era un sosia di Antonio Giuliano 19-01-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it

«Non c’è da dispiacersi del Dio che è stato dichiarato morto dal pensiero moderno. Perché quello è un Dio falso». Olivier Rey, filosofo dell’Università Sorbona di Parigi, conosce bene l’odierna secolarizzazione. Già un suo illustre connazionale, lo scrittore Charles Péguy all’inizio del Novecento aveva affermato: «Per la prima volta avete visto sorgere un mondo dopo Gesù, senza Gesù. Voi siete i primi dei moderni». Tanto più che Rey sorride amaro: «Noi siamo già la seconda, terza generazione…». Ma secondo l’intellettuale francese il rifiuto di Dio da parte della cultura moderna va inquadrato da un’altra prospettiva. Come dirà anche stasera all’Università Cattolica di Milano (alle 21 Aula Magna) nel primo degli incontri promossi dal Centro Culturale di Milano su “Il desiderio e l’uomo contemporaneo. Confronti” dialogando con Stefano Alberto, docente di introduzione di teologia alla Cattolica.

Professor Rey siamo davvero in presenza di società in cui la perdita del gusto di vivere è data dal “calo di desiderio” come dice il Censis?
«In realtà oggi si desidera anche troppo. Ma ci sono desideri e desideri. Quelli di cui le persone sono piene non soddisfano realmente. Molti desideri sono finalizzati all’ “avere” come se l’accumulazione di un certo numero di cose costituisse l’essere. C’è un’espressione abbastanza triste dei giovani a proposito dell’ “avere” un compagno o una compagna: il consumismo ha finito per inquinare anche le relazioni orientandole sull’avere e non sull’essere».

C’è rapporto tra questo modo di desiderare e un mondo secolarizzato?
«Certamente sì. Da diversi secoli in Europa c’è la tentazione di pensare che il primo fondamentale rapporto delle persone sia quello con la natura. E solo in un secondo momento il rapporto con gli altri. Un libro che simbolizza bene questo tipo di processo è Robinson Crusoe del XVIII secolo. Ma ciò che ci costituisce sono le relazioni con gli altri e questo è il fondamento di tutta l’antropologia cristiana: la persona non esiste indipendentemente e prima dei rapporti che ha con gli altri. Gesù nel Vangelo fa riferimento sempre al rapporto col prossimo. Questo pensiero è stato contraddetto in epoca moderna dalle ideologie del contratto sociale che parlano sempre di un individuo autonomo precostituito, che soltanto dopo entra in contatto con gli altri».

L’esclusione di Dio dallo spazio pubblico ha compromesso anche i rapporti sociali? 
«Sì, perché Dio è inscindibile da noi. Anzi se possiamo definirci come “noi” lo dobbiamo al fatto che abbiamo tutti lo stesso Padre, come insegna la preghiera del "Padre Nostro": non a caso nel greco delle Scritture significa sia “padre di noi” che “padre del noi”. Ma a ben guardare è evidente perfino nel motto della Repubblica Francese “liberté egalité fraternité”: la parola fraternità dice che tutti gli esseri umani sono fratelli e dunque senza dirlo esplicitamente rinvia a un Padre comune. E così nella Dichiarazione dei diritti universali dell’uomo quando si parla di famiglia umana, c’è un implicito riferimento a un Padre. Anche se il pensiero moderno ha negato quest’evidenza… ».

Quali sono le ragioni di questa ostilità?
«Si è sviluppata una falsa immagine del Cristianesimo per cui il Padre è stato opposto al Figlio, fino a farsi un’immagine del Padre come un Dio completamente lontano, impassibile, indifferente alle sofferenze umane. E un Figlio che al contrario ha sposato fino in fondo il dolore dell’uomo. Il Dio che è stato rigettato in Europa nella storia contemporanea è allora un "falso" Dio. E anche il Figlio, il Cristo, ha perso la sua natura divina per essere solamente un uomo particolarmente buono. Ma nel Vangelo di Giovanni, Gesù dice diverse volte: “Chi ha visto me ha visto il Padre”».

È stato il Novecento a espellere Dio?
«No. Già nel XVII secolo Pascal aveva notato che i filosofi del suo tempo non parlavano del Dio della Bibbia. È in questo momento che entra sulla scena un Dio che non è più una presenza vissuta, ma un argomento dentro un ragionamento. Quando ci si è accorti che si poteva ragionare senza quest’argomento, allora Dio è stato scartato. Nietzsche ha constatato che Dio è morto ma non è stato lui a ucciderlo. Il pensiero filosofico contemporaneo ha finito per teorizzare Dio come una costruzione umana, individuale o collettiva: è la tesi di Marx e Freud, i due pensatori che hanno più influito sul Novecento».

In che modo l’uomo di oggi potrebbe essere attratto dal “vero” Dio?
«Penso che dipenda molto da ciò che viene detto e fatto nelle comunità che vivono nello spirito del vero Dio. Il vero Dio non è un Dio che si dimostra. È sempre e solo un Dio da testimoniare».


A colloquio con don Giuseppe Costa - Con la profondità di Romano Guardini (©L'Osservatore Romano - 20 gennaio 2011)

Il successo di "Licht der Welt" rivela molte cose
di Silvia Guidi
Due mesi fa, il 20 novembre, le anticipazioni di Licht der Welt facevano il giro del mondo. "Tanti lettori, anche molti non cristiani, hanno sentito il bisogno di ringraziare, dopo aver finito di leggere il libro" spiega a "L'Osservatore Romano" don Giuseppe Costa, direttore della Libreria Editrice Vaticana, interrogandosi sulle ragioni del successo del libro intervista di Peter Seewald al Papa un successo non solo quantitativo - con cifre reali davvero considerevoli:  due edizioni e una ristampa in meno di due mesi, quattordici accordi con altrettante case editrici e trattative in corso per pubblicare le traduzioni in altre undici lingue - ma anche qualitativo, nella capacità di raggiungere e affascinare il lettore con un tono semplice, diretto e colloquiale. Che non rinuncia però a essere audacemente anticonformista nel senso pieno del termine e non viene a patti con lo Zeitgeist (lo "spirito del tempo"); "che cosa vuol dire infatti essere al passo con i tempi - scriveva provocatoriamente qualche giorno fa lo scrittore napoletano Ruggero Guarini - se non essere, sic et simpliciter, dei perfetti conformisti? Nella Russia staliniana voleva dire approvare i gulag, nella Germania nazista i lager; se un uomo è abitato da un desiderio vero, ha in sé qualcosa che tende sempre a resistere o a contrapporsi allo spirito del tempo".

I risultati delle vendite del libro sono sorprendenti, ma non c'è il tempo per fermarsi a fare bilanci; a breve è prevista l'uscita della seconda parte del Gesù di Nazaret. A che punto è il lavoro?

Ho appena spedito stamattina il testo ai vari editori, l'obiettivo è presentarlo nel marzo prossimo; finora, nei rapporti con gli altri editori, sono stati conclusi venti accordi, e altri cinque sono in fieri.

Il testo di Licht der Welt è nato dalla sbobinatura di venti ore di conversazione; Peter Seewald ha posto al Papa domande su ogni  aspetto della vita, con che criterio è stato selezionato e ordinato il materiale?

Le domande del libro non sono un centinaio, come avevamo deciso in un primo momento, ma il doppio; la lettura scorre rapida e non c'è stato bisogno di accorciare molto il testo. Come è stato detto spesso durante le presentazioni che si sono svolte in Italia, è un libro in cui non colpiscono solo le risposte del Papa ma le domande che lui stesso pone al Signore. Il "cosa potrei dire?" avanzato in occasione della prima benedizione da successore di Pietro ma anche gli interrogativi sulla realtà odierna:  "Come venire a capo di un mondo in cui il progresso diviene un pericolo?"; così come domande sulla Chiesa e su se stesso.

Lo stile stesso delle risposte suggerisce un cambiamento di metodo alla nostra epoca che fonda tutto sull'autonomia, l'"autostima", l'"autodeterminazione"; concepire se stessi come rapporto con Dio è forse il vero leitmotiv del libro

Le pagine più belle, a mio parere, sono proprio le risposte in cui il Papa ci rivela il suo rapporto personale con Dio, con la pacatezza e la profondità di un Romano Guardini, ma il libro non trascura temi importanti dell'attualità, come il rapporto tra l'uomo e il creato, o la situazione attuale della Chiesa. E quando vengono messi in risalto i problemi è sempre in vista di una ulteriore crescita. Insomma, è la critica di un credente che ha a cuore il bene dei suoi fratelli uomini; anche quando si condanna qualcosa è sempre per la vita del peccatore, questo è un aspetto che si può cogliere molto bene all'interno del testo.

La forma del libro-intervista ha sicuramento favorito la diffusione del volume e un accostamento più familiare a temi "alti" altrimenti sentiti come poco accessibili all'uomo della strada.

Anche le vendite in questo senso fanno capire molte cose:  tra gli acquirenti ci sono tanti figli che hanno regalato il libro ai genitori, e viceversa, molte persone lo hanno acquistato in più copie per regalarlo a parenti e amici. In questo volume emerge  il  volto  umano di un pontefice  di  cui spesso si sottolinea la riservatezza;  a  questa  si   affianca la straordinaria  libertà  di  Benedetto XVI, che non si tira indietro davanti a nessuna domanda. Licht der Welt viene apprezzato perché nella sua ampia prospettiva tocca vari aspetti della vita del cristiano, fino a diventare un vero e proprio itinerario spirituale; è questo che lo rende un libro al di fuori delle stagioni e ne farà un longseller. E l'immediatezza del linguaggio nelle risposte traspare anche dalla traduzione italiana.

L'attenzione della stampa non è mancata, ma non sempre è stata gradita.

Gli annunci e le anteprime sono stati utili perché hanno contribuito ad attirare l'attenzione dell'opinione pubblica sul libro; poi alcuni, come sempre succede, hanno voluto enfatizzare una parte minima dell'intero messaggio del volume. Ma questo molti lettori l'hanno capito, tanto è vero che Licht der Welt è presto stato apprezzato nella sua interezza. Dopo le numerosissime recensioni, i programmi televisivi e radiofonici, i dibattiti, continuiamo ad avere richieste di presentazioni in tutta Italia.

Come è stato recepito Licht der Welt dai non cristiani?

Tendenzialmente molto bene; mi ha colpito particolarmente la lettera di ringraziamento di uno scrittore ebreo di Milano, commosso dalla chiarezza e dalla semplicità delle risposte del Papa.


Si lavora a un documento su primato e sinodalità - Il dialogo teologico fra cattolici e ortodossi di Andrea Palmieri - Pontificio Consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani (©L'Osservatore Romano - 20 gennaio 2011)

Il dialogo teologico, condotto dalla Commissione mista internazionale tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa nel suo insieme, ha conosciuto qualche difficoltà, ma, grazie alla ferma volontà di proseguire nella ricerca del superamento degli ostacoli ancora esistenti, espressa da tutti i suoi membri, non si è arrestato.
La Commissione, che è composta da due rappresentanti di ognuna delle quattordici Chiese ortodosse autocefale (Patriarcato ecumenico, Patriarcati di Alessandria, Antiochia, Gerusalemme, Mosca, Serbia, Romania, Bulgaria, Georgia, Chiese di Cipro, Grecia, Polonia, Albania e delle Terre di Cechia e di Slovacchia) e da altrettanti rappresentanti della Chiesa cattolica, si è incontrata a Vienna dal 20 al 27 settembre 2010, sotto la presidenza dell'allora arcivescovo Kurt Koch, presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani, e del metropolita di Pergamo, Ioannis (Zizioulas), del Patriarcato ecumenico. La riunione di Vienna è stata la xii sessione plenaria della Commissione, la cui istituzione fu ufficialmente annunciata con la Dichiarazione comune sottoscritta dal Patriarca ecumenico Dimitrios i e da Giovanni Paolo II al termine della visita di quest'ultimo al Fanar il 30 novembre 1979. L'ospitalità offerta dall'arcidiocesi di Vienna è stata generosa, e preziosa si è dimostrata anche la collaborazione della Fondazione Pro-Oriente.
La sessione plenaria di Vienna è stata dedicata allo studio, già avviato nella precedente sessione di Cipro (2009), della questione del ruolo del vescovo di Roma nella comunione della Chiesa nel primo millennio, sulla base di un testo elaborato dal Comitato misto di coordinamento nel 2008. Con questo testo - che, con una metodologia prevalentemente di tipo storico, prendeva in considerazione gli elementi storici più rilevanti - si intendeva proseguire la riflessione sul tema del primato nella Chiesa universale, inaugurata con la sessione plenaria di Ravenna (2007). In quella sede, infatti, la Commissione aveva approvato e pubblicato un documento dal titolo Le conseguenze ecclesiologiche e canoniche della natura sacramentale della Chiesa:  comunione ecclesiale, conciliarità e autorità, nel quale cattolici e ortodossi affermavano insieme, per la prima volta, la necessità di un primato al livello di Chiesa universale e concordavano che questo primato spettava alla sede di Roma e al suo vescovo, mentre riconoscevano ancora aperta la questione relativa alla modalità di esercizio del primato, ai fondamenti scritturistici e alle interpretazioni storiche.
Basandosi sulle importanti affermazioni del documento di Ravenna, la Commissione aveva elaborato un progetto di lavoro, secondo il quale l'attenzione si sarebbe concentrata sul primo millennio quando i cristiani di Oriente e Occidente erano uniti.
Durante la riunione di Vienna, la Commissione ha proseguito l'analisi attenta e accurata dei fatti storici e delle testimonianze relative al tema in oggetto. La ricerca di un'interpretazione condivisa di tali dati si è rivelata un'operazione molto complessa, che ha richiesto studio approfondito e dialogo paziente. Malgrado l'impegno profuso, non è stato possibile trovare un accordo per la pubblicazione di un documento comune. Alcuni membri hanno espresso la loro perplessità dinanzi alla possibilità di approvazione di un testo di carattere essenzialmente storico da parte di una Commissione teologica. Essi, come teologi e pastori, non si sentivano sufficientemente competenti per esprimere giudizi su questioni storiche assai complesse sulle quali spesso non vi è unanimità nemmeno tra specialisti della materia. Altri membri, invece, hanno sottolineato che, per restare fedeli al mandato contenuto nel documento di Ravenna, occorreva prendere in esame non solo il ruolo del vescovo di Roma, ma anche quello dei concili.
Dopo una lunga discussione, la delegazione cattolica ha accettato di considerare il testo in esame come uno strumento di lavoro che potrà risultare utile nelle prossime tappe del dialogo quando si affronterà il tema del primato da una prospettiva maggiormente teologica. Allo stesso tempo, si è deciso di comune accordo di dare vita a una sotto-commissione mista che cominci a studiare gli aspetti teologici ed ecclesiologici del primato in relazione alla sinodalità e che dovrà successivamente sottoporre il proprio lavoro al Comitato misto di coordinamento in vista della redazione di un nuovo documento.
Nei mesi successivi, i due presidenti della Commissione mista, il cardinale Koch e il metropolita Ioannis, hanno avuto modo di concordare alcuni aspetti pratici concernenti la nuova sotto-commissione mista, come, ad esempio, il numero dei membri, il metodo di lavoro, le date. Alla luce del sostanziale accordo raggiunto su ciascuno di questi punti, si può prevedere che la suddetta sotto-commissione porterà a termine il suo compito in un tempo ragionevolmente breve.
In questa prospettiva, il risultato della sessione plenaria di Vienna non può essere considerato una battuta di arresto. La scelta di proseguire il dialogo adottando una prospettiva più teologica rappresenta una possibilità per riflettere con maggiore profondità sul tema del primato. Inoltre, il grande lavoro svolto per lo studio e l'interpretazione comune delle fonti del primo millennio relative al ruolo del vescovo di Roma sarà prezioso per l'elaborazione di un documento teologico su primato e sinodalità.
Il lavoro della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico si svolge nel quadro di relazioni ecclesiali tra cattolici e ortodossi caratterizzate, nel corso dell'anno appena trascorso, da un clima positivo. Tra i numerosi esempi che si potrebbero citare, vanno ricordati almeno due eventi di particolare rilevanza:  le Giornate di spiritualità ortodossa russa in Vaticano, che si sono svolte il 17 e 18 maggio, con la presenza a Roma del metropolita Hilarion, presidente del Dipartimento per le relazioni ecclesiastiche esterne del Patriarcato di Mosca, durante le quali il Patriarca Kyrill ha voluto  offrire  un  concerto a Benedetto XVI in occasione del quinto anniversario della sua elezione al soglio pontificio; l'incontro di Benedetto XVI con l'arcivescovo di Nea Giustiniana e tutta Cipro, Chrysostomos, e i membri del sinodo della Chiesa ortodossa di Cipro, durante il viaggio apostolico del Santo Padre nell'isola, dal 4 al 6 giugno, il primo di Benedetto XVI in una nazione a maggioranza ortodossa. Ricordando il viaggio a Cipro nell'allocuzione alla Curia romana, il 20 dicembre 2010, il Papa ha significativamente affermato:  "Rimane indimenticabile l'ospitalità della Chiesa ortodossa che abbiamo potuto sperimentare con grande gratitudine. Anche se la piena comunione non ci è ancora donata, abbiamo tuttavia constatato con gioia che la forma basilare della Chiesa antica ci unisce profondamente gli uni con gli altri:  il ministero sacramentale dei Vescovi come portatore della tradizione apostolica, la lettura della Scrittura secondo l'ermeneutica della Regula fidei, la comprensione della Scrittura nell'unità multiforme incentrata su Cristo sviluppatasi grazie all'ispirazione di Dio e, infine, la fede nella centralità dell'Eucaristia nella vita della Chiesa".
Le buone relazioni tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa hanno favorito anche incontri e dialoghi a livello locale. Si pensi, solo per fare un esempio, al ii Forum cattolico-ortodosso sul tema "Rapporti Chiesa-Stato:  prospettive teologiche e storiche", promosso dalle Conferenze episcopali cattoliche d'Europa e da rappresentanti delle Chiese ortodosse presenti in Europa e svoltosi nell'ottobre scorso nell'isola di Rodi, grazie alla generosa ospitalità del Patriarcato ecumenico. Il lavori del Forum hanno contribuito a far prendere coscienza delle convergenze già esistenti su questioni sociali ed etiche di importanza cruciale per il presente e il futuro dell'Europa e dell'umanità e dell'importanza di un impegno comune per rivitalizzare il patrimonio dei valori cristiani, applicandoli alle esigenze e ai bisogni attuali della società europea. Basandosi sulla grande vicinanza delle rispettive dottrine morali e sociali è sin da ora possibile, ed è fortemente auspicabile, che cattolici e ortodossi intraprendano insieme progetti concreti di collaborazione per il sostegno dei valori di ispirazione cristiana che costituiscono la matrice della civiltà e della cultura europee.
La ricerca della piena comunione tra le due Chiese, che è lo scopo ultimo al quale il dialogo teologico è finalizzato, in questi ultimi tempi ha trovato un nuovo stimolo nella consapevolezza comune di dover affrontare insieme le urgenti sfide poste dall'odierna società secolarizzata, a volte ostile al messaggio cristiano. Nel messaggio rivolto al Patriarca ecumenico, Bartolomeo, in occasione della festa di sant'Andrea, lo scorso 30 novembre, Benedetto XVI ha affermato:  "In un mondo segnato da una crescente interdipendenza e solidarietà, siamo chiamati a proclamare con rinnovata convinzione la verità del Vangelo e a presentare il Signore Risorto come la risposta alle più profonde domande e aspirazioni spirituali degli uomini e delle donne di oggi. Per poter riuscire in questo grande compito, dobbiamo continuare a progredire sul cammino verso la piena comunione, mostrando di avere già unito i nostri sforzi per una comune testimonianza al Vangelo di fronte agli uomini del nostro tempo". Con questa convinzione, la Chiesa cattolica prosegue, in dialogo con la Chiesa ortodossa, il suo impegno per la restaurazione della piena unità visibile fra tutti i credenti in Cristo.


Cuba divora i suoi figli - Di Francesco Agnoli - 19/01/2011 - Movimento Europeo Difesa Vita - Dissidenti perseguitati, turismo sessuale, aborto di massa. Gli orrori del regime castrista

Nel febbraio dello scorso anno Orlando Zapata, dissidente cubano, ostile al regime dittatoriale di Castro, è morto in ospedale, dopo 85 giorni di sciopero della fame. Zapata era un ex muratore di Santiago di Cuba, e aveva solo 42 anni.

La sua morte, così spettacolare, ha destato per qualche tempo l’interesse dei giornali e dell’opinione pubblica per una delle dittature comuniste ancora vive nel XXI secolo. La protesta tramite scioperi della fame, sino alla morte, è una consuetudine degli oppositori cubani, sin dal principio del regime, come dimostra, tra le altre, la vicenda di Pedro Luis Boitel.

Costui, già nemico di Batista, era anche un oppositore di Fidel Castro, e fece l’errore di candidarsi alla presidenza della Federazione studentesca universitaria. Arrestato di lì a poco, venne condannato a dieci anni di prigione, durante i quali in più occasioni fece degli scioperi della fame per protestare contro il feroce trattamento subito.

 Il 3 aprile 1972 Boitel iniziò l’ennesimo sciopero: al quarantanovesimo giorno cadde in uno “stato di semicoma”: morì dopo altri quattro giorni, senza cure e senza che alla madre fosse neppure permesso di vedere il corpo del figlio. Il fatto è che a Cuba non solo è estremamente facile finire nella galere-gulag di Castro, ma è altresì terribile rimanervi. In più occasioni infatti sono stati denunciati l’uso dell’elettrochoc, di cani da guardia lanciati contro i prigionieri, la privazione del sonno e la rottura del ritmo del sonno come modalità per sfiancare i detenuti e portarli, non di rado, alla pazzia…

Le celle cubane godono di soprannomi inquietanti. Tostadoras (tostapane), per il caldo insopportabile che vi regna; ratoneras (buchi per topi), quelle piccolissime e sotterranee; gavetas (gabbie), quelle piccole e strette come delle gabbie…

A marcirvi dentro, per anni e anni, magari in mezzo agli escrementi, senza acqua né assistenza medica, gli oppositori, religiosi e politici, a cui è negato persino il titolo di uomini: vengono infatti definiti, dal regime, gusanos cioè vermi.

Dal 1959 a oggi, secondo Pascal Fontaine, collaboratore del “Libro nero del comunismo”, circa centomila cubani “hanno sperimentato i campi di lavoro” e “sono state fucilate dalle quindicimila alle diciassettemila persone”. In verità queste cifre sembrano prudenziali, visto che i cubani che sono riusciti a scappare all’estero, evitando la morte, frequente, nelle acque dello stretto della Florida, parlano di cifre anche quattro volte superiori.

 La morte di Zapata, cui si accennava, ha portato a conoscenza del grande pubblico l’esistenza di altri dissidenti che coraggiosamente affrontano il regime con incredibile coraggio e speranza. Tra questi il celebre Guillermo Farinas, psicologo e giornalista che lo scorso 23 febbraio aveva cominciato un lunghissimo sciopero della fame che lo ha ridotto alla condizione di uno spettro, ormai solo pelle e ossa. Farinas ha interrotto proprio in questi giorni la sua protesta grazie alle trattative tra chiesa cattolica e regime, che hanno portato alla liberazione di 52 prigionieri politici.

Ma se queste notizie sono più o meno note, molto meno conosciuto è il fatto che uno dei motivi che hanno spinto diversi cubani a dare la propria vita per combattere il regime – oltre alla mancanza di libertà, politica ed economica –, è la dissoluzione morale del paese promossa dal regime di Castro.

Già in un messaggio ai presidenti statunitense e centroamericani in occasione del vertice di Costa Rica, del 7 maggio 1997, i dirigenti degli esuli cubani descrivevano il dramma della loro isola anche sottolineando l’“enorme tragedia di un’isola carcere comunista con i più elevati indici di suicidi e di aborti dell’emisfero e con una prostituzione, anche infantile, che ha trasformato Cuba in un vergognoso ‘paradiso sessuale’ per turisti senza scrupoli” (Cristianità, n.265-266, 1997).

Quando Castro andò al potere, infatti, dichiarò in più occasioni un concetto che anche i bolscevichi russi avevano espresso chiaramente sin dalle origini: il comunismo realizzerà il bene dei lavoratori e dei proletari, e la nuova condizione sociale ed economica eliminerà anche la piaga della prostituzione. Quanto all’aborto, si proclamò che la sua legalizzazione avrebbe sconfitto prima l’aborto clandestino e poi l’aborto stesso.

Le cose, a Cuba come nell’Unione Sovietica, non sono andate propriamente così. Per tanti anni Cuba è stato uno dei paradisi per pedofili del mondo, in cui giungevano persone da vari paesi, sapendo di trovare giovani donne ed anche bambine, disposte a tutto, per qualche soldo.

Con il regime che non solo chiudeva gli occhi, ma in molti casi favoriva lo squallido commercio del turismo sessuale, pur sempre portatore di ricchezza. Chiaramente, insieme alla prostituzione e alla pedofilia, nell’isola si è diffusa terribilmente la piaga dell’aborto: secondo alcune fonti tra il 1968 e il 1996 si sono registrati 5,6 milioni di nati vivi e si sono effettuati 2,3 milioni di aborti.

Un dato sicuro, di cui semmai si può dubitare che sia per difetto, sono i centomila aborti annui che si compiono in questo paese, con solo undici milioni di abitanti! Una cifra che colloca Cuba ai primissimi posti al mondo per ricorso all’interruzione violenta di gravidanza, nonostante nel paese vi sia un altissimo ricorso alla contraccezione (ne fanno uso circa il 72 per cento delle donne) e persino alla sterilizzazione, secondo gli insegnamenti del Cenesex (Centro nazionale di educazione sessuale di Cuba), oggi diretto da Mariela Castro Espìn, figlia di Raul.

 Ai centomila aborti legali di Cuba, vanno poi aggiunti quelli forzati, a scopo di “ricerca” e di “cura”. La radicale Mirella Parachini ricorda infatti che a Cuba, secondo la testimonianza di molti medici locali, tessuti fetali e neuronali vengono procurati a scopo di ricerca o di cura, a scapito di piccole e innocenti vite umane.

Dopo aver richiamato la testimonianza della dottoressa cubana Hilda Molina, secondo la quale a Cuba la medicina rigenerativa vive di “sostanza nera fetale” procurata anche nei modi più delittuosi, per fornire a malati stranieri cure presunte, che fruttano però soldi verissimi allo stato, la Parachini scrive: “Altri due dottori che avevano lavorato al Ciren (Centro Internacional de Restauración Neurológica de Cuba) sono scappati da Cuba e dall’esilio hanno denunciato come a quei malati di Parkinson, per lo più stranieri, che pagavano in dollari, venivano praticati questi innesti di materiale fetale (con esiti tutti da dimostrare, ndr). Il dottor Antonio Guedes racconta che quando il centro ne aveva necessità urgente, in qualche centro ginecologico venivano ingannate delle donne in gravidanza, veniva loro detto che il figlio che aspettavano aveva gravi malformazioni, e veniva offerta la strada dell’aborto. Il tessuto era così procurato facilmente. Il dottor Julian Alvarez ha scritto un libro, “Artigiani della vita”. Spiega come a Cuba “attualmente si realizzano centomila aborti ogni anno. Il Ciren si trova di conseguenza a ottenere, con relativa facilità, il tessuto embrionale per il suo impiego in questi trattamenti”. Alvarez specifica che le donne danno il loro consenso sia per l’aborto che per la cessione del materiale biologico alla medicina, ma poi aggiunge un dettaglio non rassicurante: “tutti quelli che conoscono da dentro la vita di Cuba, sanno che le ‘pazienti’ non possono decidere nulla in merito. Molti degli aborti o ‘interruzioni’ si fanno in accordo con le necessità del Ciren” (http://salute.aduc.it/staminali/articolo/cuba+ricerca+democrazia+binomio+inscindibile_8359.php; per la Molina vedi Repubblica 13/8/1995: “Per assicurare al governo preziosa valuta estera, una dottoressa cubana sarebbe stata costretta a eseguire trapianti di tessuto cerebrale di feto, ottenuto da aborti appena fatti, su ricchi pazienti stranieri affetti dal morbo di Parkinson. Lo ha scritto ieri il quotidiano britannico Independent in una corrispondenza dall’America latina basata sulle confessioni della dottoressa Hilda Molina, la quale ha personalmente eseguito i trapianti, che fruttavano al governo fino a ventimila dollari ciascuno”).

Ancora oggi tra gli oppositori in carcere dei fratelli Castro, spiccano le figure di Eduardo Dìaz Fleitas, vicepresidente del movimento clandestino “5 agosto”, colpevole di aver protestato contro l’aborto forzato nel paese, e soprattutto quella del medico cattolico Oscar Elìas Biscet.

Biscet è nato all’Avana, nel 1961. Nel 1985 si è laureato in medicina, per poi creare, nel 1997, la fondazione Lawton per i diritti umani: tra questi egli pone, al primo posto, il diritto alla vita. Nello stesso anno 1997 il dottor Biscet ha effettuato uno studio per documentare le tecniche di aborto utilizzate nell’ospedale Hijas de Galicia. Lo studio, che espone rivelazioni raccapriccianti su infanticidi, aborti forzati e sull’uso del Rivanol come abortivo utilizzato sino alla XXV-XXVI settimana, è intitolato: “Rivanol. Un metodo per distruggere la vita”.

In questo lavoro sono enumerati i metodi abortivi comuni utilizzati nel sistema sanitario cubano e si denuncia che nel caso di fallimento del Rivanol, cioè in un’alta percentuale di casi, il bambino viene ucciso per soffocamento, per emorragia, tagliando il cordone ombelicale, o lasciandolo morire senza assistenza. Inoltre Biscet elenca statistiche preoccupanti su quanto siano numerosi gli aborti su bambine molto piccole, probabilmente vittime del turismo sessuale e della promiscuità ormai diffusa.

Le conseguenze della battaglia pro life di Biscet non tardano ad arrivare: nel febbraio 1998 viene ufficialmente espulso del Sistema sanitario nazionale. Ma Biscet continua a portare avanti la sua battaglia in difesa della vita tramite manifestazioni davanti agli ospedali e scioperi della fame, alternando libertà e carcere. Amnesty International e Freedom Now ricordano che Biscet è stato arrestato il 3 novembre 1999 e rilasciato il 31 ottobre 2002 con l’accusa, fasulla, di “insulti ai simboli della patria”, “pubblico disordine” e “incitamento a commettere crimine”.

Nel 2003 Biscet è stato nuovamente condannato, questa volta a 25 anni di prigione: oggi è in condizioni terrificanti. Secondo Human rights first, Biscet, “difensore dei diritti umani”, soffre di “gastriti croniche e ipertensione”, e ciononostante è confinato in celle solitarie o con “violenti criminali”. Inoltre è privato per lunghi periodi della possibilità di comunicare, di ricevere visite o medicazioni. La sua cella è senza finestre, senza bagno, umida, sporca, infestata dai vermi e senz’acqua.

Quello che però non si capisce bene, leggendo buona parte dei comunicati di Human rights first, come del resto quelli di Amnesty International, sono due cose: che il diritto umano primario per cui Biscet si batte è quello alla vita (“No a la pena de muerte, no al aborto”); e che nella sua lotta questo eroe sconosciuto è sostenuto dalla fede e dalla preghiera. Paradossalmente sono verità, almeno la prima, che neppure il regime vuole far conoscere, visto che Biscet è in galera, ufficialmente, per motivi politici.

Molto più espliciti i siti cubani, di esuli o di suoi amici ed estimatori, che dicono apertamente che Biscet e la sua fondazione combattono per la libertà dei prigionieri e di tutti, e “contra del aborto, eutanasia y el fusilamiento”, “derechos fundamentales para la sociedad y el individuo”. Inizia infatti così un appello del dottore cubano ai suoi colleghi medici, il cui unico fine dovrebbe essere “promuovere la salute e preservare la vita”: noi siamo in difesa della famiglia, “la cellula fondamentale della società. La famiglia che è oggi in crisi per un sistema che promuove e stimola la mentalità antinatalista con metodi che offendono la dignità umana. Ci riferiamo all’aborto, crimine abominevole”, violenza contro la persona umana.

E finisce: “Diciamo no alla pena di morte per aborto, eutanasia o fucilazione… Abbasso l’aborto, abbasso la pena di morte, viva il diritto alla vita”. © - FOGLIO QUOTIDIANO di Francesco Agnoli


La bellezza salverà l'Italia di Luca Doninelli - giovedì 20 gennaio 2011 – il sussidiario.net

In questi giorni siamo stati messi tutti di fronte a casi - di cui il “caso Ruby” è senza dubbio il più spettacolare, almeno per noi italiani - nei quali la tentazione forte è stata quella di giudicare (ognuno di noi avrà certamente il suo giudizio sull’argomento) secondo un criterio ultimamente astratto. C’è chi ha invocato principi morali intangibili; chi ha messo l’accento sul discredito che vicende come questa gettano, a ragione o a torto, sul nostro paese; ma c’è anche chi ha visto nel nostro presidente una specie di martire o di benefattore. Si potrebbe dire che una specie di “fronte etico” si sia contrapposto a un costume godereccio ed estetizzante che porterebbe l’Italia alla rovina.

Forse sarebbe meglio per tutti se partissimo, nei nostri giudizi, da noi stessi, compiendo un’operazione che non compiamo molto spesso: quella di prestare attenzione alle nostre esigenze reali, alle nostre domande, a quello di cui, come persone e come cittadini giustamente preoccupati di offrire dell’Italia un’immagine migliore (che è quella che meritiamo) abbiamo realmente bisogno.
Io sono un cittadino fiducioso, e penso che se la fiducia vien meno possiamo andarcene tutti a casa, altro che 150 anni dell’Italia unita. Ho dunque fiducia nella giustizia italiana e penso che chi la amministra sappia che il suo compito è innanzitutto quello di accertare i fatti e di valutarne secondo giustizia (e non solo secondo legalità) la reale gravità.

La mia preoccupazione riguarda piuttosto il nostro paese, il futuro che ci aspetta, rispetto al quale la colpevolezza o innocenza di Berlusconi è solo un dettaglio.
A cosa ci porterebbe un moralismo senza bellezza? Dove mai potremmo andare, noi italiani, il giorno in cui calasse su di noi una cappa di legalismo senza giustizia, cioè senza la consapevolezza dello scarto che esiste tra la giustizia, che è un mistero, e le leggi, che sono il nostro modo precario e perfettibile di interpretarla? Noi, che abbiamo costruito questo splendido e drammatico paese sulla risorsa che più ci appartiene, ossia la capacità di generare bellezza, novità di vita, solidarietà anche nelle situazioni più difficili?

La bellezza è qualcosa di più. E se dall’altra parte, sul banco degli accusatori, siede una generazione di moralisti che possono avere ragione su tutti i punti ma questo non impedirebbe loro di produrre un’Italia tetra e senza slanci, senza amore e senza quella spregiudicatezza di cui abbiamo bisogno come dell’aria.
La questione vera si chiama: Bellezza. E’ questo il punto decisivo. La più bella definizione della bellezza che io abbia mai incontrato è di San Tommaso d’Aquino, ed è anche la più semplice: “Chiamiamo bello ciò che, visto, piace.”

Occorrono perciò, affinché ci sia la bellezza, due cose.
Una è il piacere. E’ necessario che la realtà susciti in noi una vera attrattiva, che nasce a sua volta da una domanda, da un interrogativo. Se la realtà non suscita in noi nessuna domanda non ci sarà piacere vero, ma solo la sua caricatura estetizzante e superficiale, una consumazione delle cose che lascia soli e delusi.

L’altra cosa necessaria è quella che S. Tommaso chiama il “vedere”, la “visione”. Ne parla Dante in tutta la sua opera. La donna amata dà per li occhi una dolcezza al core/ che ‘ntender no la può chi no la prova. La bellezza vera è un’esperienza alla quale è estraneo il possesso. Non perché possedere qualcosa sia sbagliato (è meglio avere una Ferrari che stare solo a guardarla) ma perché l’esperienza del bello ci rivela la realtà come qualcosa che radicalmente non ci appartiene. Il senso ultimo di tutte le cose è mistero.

La bellezza sta nel frammezzo tra la passione dell’uomo che investe la realtà con la sua voglia di conoscerla e dominarla e la consapevolezza che essa è mistero, e perciò non può essere veramente “nostra”. Attraverso il bello noi scorgiamo la presenza della Mano che fa le cose, e ne proviamo un giusto timore.
Questo vale per l’arte e la poesia come per la matematica: ho sentito grandi matematici raccontare l’esperienza straordinaria della bellezza che si rivela in certi momenti del loro lavoro, quando l’intero (di un teorema, di un modello, di una teoria) si rivela come quando, durante una gita in montagna, usciti dal fitto del bosco d’un tratto il paesaggio si spalanca, e noi vediamo le cime, le vallate, i paesi, le aquile che volano, in alto.

Non voglio darmi al lirismo. Voglio solo dire che questa esperienza è il cemento che ha prodotto, nella libertà talora pacifica e talora irrequieta e perfino tragica, questa cosa eccezionale che chiamiamo Italia. Ed è questo il punto senza il quale interrogarci sul futuro del paese sarebbe solo un triste elenco di tutti i campi nei quali verremo inevitabilmente superati da altri popoli più intraprendenti e più vogliosi di riscatto di quanto lo siamo noi.


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Mons. Dal Covolo: non è cattolico odiare gli ebrei di Marco Respinti 20-01-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it

«Si, purtroppo. Per spiacevole che sia il dirlo, esistono forme di antisemitismo diffuse tra i cristiani, anche fra i cattolici». Ad affermarlo, con il timore che impone la gravità del fatto e il tremore che richiede la necessità di non scandalizzare in maniera del tutto gratuita, ma pure con serena fermezza, è il vescovo Enrico Dal Covolo, rettore della Pontifica Università Lateranense, protagonista, assieme al rabbino capo di Roma, Riccardo di Segni, della giornata di dialogo ebraico-cristiana svoltasi nella Capitale il 17 gennaio.
Intende dire le manifestazioni d’intolleranza che anche nel corso della storia alcune frange del popolo cattolico hanno manifestato nei confronti degli ebrei, così mostrando di comportarsi in modo non cattolico e quindi richiedendo quella “purificazione della memoria” che è l’imitazione sempre maggiore di Cristo da parte dei cristiani?
Ovvio, ma non solo. Esiste cioè un problema storico, ma la questione non è confinata al solo passato. Vive pure oggi. Non si tratta di elaborazioni dottrinali rotonde o d’impianti ideologici perfettamente sviluppati. Più che altro sono segni, disseminati qua e là, che parlano del persistere, e magari anche del risorgere, di atteggiamenti palesemente e oggettivamente antisemiti fra i cristiani. Nella sensibilità di qualche comunità queste derive trovano qualche spazio.
Molto dipende peraltro da un fatto basilare: il mancato riconoscimento, da parte di queste “sensibilità” e di certi membri di alcune di queste “comunità”, dei gravissimi torti subito dagli ebrei così come delle indicibili sofferenze inflitte loro come a pochi altri. È insomma una certa leggerezza nel trattare l’argomento che innesca pericolosi riduzionismi forieri di atteggiamenti intemperanti e imperdonabili. Per questo le giornate di dialogo ebraico-cristiano come quella svoltasi lunedì scorso sono assai utile per entrambe le parti.

Però è una bella contraddizione quella dell’ “antisemitismo cristiano”…
E infatti non si può essere le due cose. Chi è cattolico davvero non può essere davvero antisemita.

Cioè l’antisemita sedicente cattolico si pone automaticamente fuori dalla Chiesa Cattolica, da solo?...
Sì. Guardi, io uso spesso e volentieri la frase “fratelli maggiori” quando parlo, anche in pubblico, con gli ebrei e degli ebrei. L’ho fatto anche lunedì davanti al rabbino Di Segni: non so quanto lui abbia gradito quella espressione, ma ciò non mi distoglie dall’usarla. Sono convinto della sua importanza, è una espressione eloquente, vera. Per i cristiani gli ebrei quello sono.

Come si può uscire però concretamente dall’equivoco innescato dall’ossimoro “antisemitismo cristiano”?
Confrontandosi, conoscendosi per quel che davvero si è, oltre i facili pregiudizi stereotipati con cui si crede di sapere sempre già tutto. Da entrambe le parti. Bisogna poi avere il coraggio d’intervenire nelle zone di chiaroscuro con prese di posizione ferme, decisi e non compromissorie.
Detto questo, voglio però sottolineare che la situazione fra ebrei e cristiani è lungi dall’essere quel quadro irenistico che a molti torna semplice dipingere. Esistono infatti difficoltà, e notevoli. Non bisogna ignorarle. Ma proprio per questo occorre avere il coraggio e la costanza di proseguire nel dialogo autentico. Noi cristiani sappiamo bene che l’Antico Testamento trova compimento nel Nuovo Testamento. Coloro che dicono che il primo è sufficiente, sbagliano. Se ciò viene poi affermato in ambito cristiano e cattolico, configura una vera e propria eresia. Non si devono fare sconti indebiti, mai. Noi cristiani abbiamo il dovere e il diritto di testimoniare la pienezza della verità che è Cristo incarnato, morto e risorto per tutti, così come Egli è annunciato nel Nuovo Testamento. Niente di meno. Ma pure niente di più. Il cosiddetto “antisemitismo cristiano” si debella in questo modo.

La sua riflessione si concentra in modo particolare sui Dieci Comandamenti…
Certo. Sono i Dieci Comandamenti la base vera di ogni confronto e dialogo con gli ebrei. Sono infatti vincolanti e cogenti per entrambi, ebrei e cristiani, e dunque costituiscono la piattaforma più solida da cui partire. Noi cristiani sappiamo qual è la pienezza del Decalogo, Cristo, e l’annunciamo. Con gli ebrei abbiamo allora molto in comune e su quel molto di comune operiamo. Questo spirito costruttivo, che pure non nega nulla della identità cristiana, è lo strumento principe per sconfiggere ogni tentazione antisemita che allignasse dentro la comunità cristiana.


Ragazze, genitori e questione morale di Riccardo Cascioli 19-01-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it

«Magari fossi io la prescelta di Silvio», dicono diverse delle ventenni - o poco più - abituali frequentatrici delle cene di Arcore. «Magari fosse lei», dice il papà di una miss indicata come possibile fidanzata di Berlusconi. Si rimane di sasso a leggere interviste e dichiarazioni di questi giorni. Ragazze che aspirano a diventare «la preferita» in un presunto o sognato harem, genitori contenti che la loro figlia invece di un lavoro onesto faccia la escort di alto bordo.
Sembra proprio la conferma di una scenetta dell’edizione di Zelig di qualche tempo fa, quella della famiglia Lo Cicero, quando si vedevano i genitori di una ragazza che la osteggiavano perché voleva studiare, frequentare l’università, invece di fare i concorsi da velina e frequentare i potenti disposta a tutto. La realtà supera la fantasia.

Se vogliamo è ben più sconvolgente che leggere i verbali sulle notti di Arcore. Perché purtroppo lo squallore che regna in certi ambienti è noto a chiunque non abbia gli occhi accecati dall’ideologia: già nel dopoguerra ci sono stati clamorosi casi di cronaca che hanno aperto squarci sugli eccessi – a base di sesso, droga, alcol - di politici, finanzieri, industriali. E che sono venuti alla luce solo perché ci è scappato il morto. E altri ancora – scandali, scandaletti, pettegolezzi - sono seguiti periodicamente. Forse che la “dolce vita” tanto celebrata si riduceva a fare le passeggiate in Via Veneto nelle ore notturne? Un film di Carlo Lizzani – “Roma bene” con Nino Manfredi e Virna Lisi – già nel 1971 raccontava cosa accadeva dietro la facciata di certi rispettabili salotti (“so’ più ‘ncrociate delle vacche da latte”, commentava una guardia di scorta aspettando la fine di una delle feste che anche allora si consumavano). E oggi basterebbe dare un’occhiata al sito di Dagospia per avere almeno un’idea di cosa sia “normale” a certi livelli. E non ci sono schieramenti politici che tengano (il caso Marrazzo non è così lontano ed è solo la punta dell'iceberg), né – purtroppo – è una garanzia l’aver consacrato la propria vita a Cristo, come ha ricordato più volte con dolore Benedetto XVI.

Lo squallore non comincia con Berlusconi né è confinato nella zona di Arcore. Ciò che probabilmente è nuovo, o perlomeno più recente, è il fatto che questo squallore è evidentemente molto diffuso nella società, se un padre non solo non prova neanche un pizzico di vergogna per le discutibili frequentazioni della figlia, ma addirittura la istiga; se l’ideale di migliaia di adolescenti è fare la velina, la letterina e via di questo passo, spinte addirittura dalle madri. Di giovani bellone che aspirano a incastrare vecchi potenti e danarosi ce ne sono sempre state, ma oggi sta diventando un fenomeno di massa.

E cosa dire di chi usa di queste povertà morali solo per ragioni di partito? Per eliminare gli avversari politici? Non è forse squallore anche questo? Da parte poi di politici e giornali che da decenni inneggiano alla sessualità sganciata da ogni responsabilità, lottano per la dissoluzione della famiglia, promuovono ogni genere di perversione in nome della libertà, salvo poi ergersi a moralizzatori ogni volta che conviene loro.

Guardiamo le cose come sono: viviamo in una società corrotta, in cui il successo e il potere sono i criteri dominanti. E questa mentalità finisce per diffondersi, per contagiarci sempre di più, mostrando quanto sia drammatica l’emergenza educativa sulla quale già da tempo la Chiesa richiama la nostra attenzione.

Ciò non diminuisce la responsabilità personale, a maggior ragione di chi ricopre cariche di rappresentanza, che dovrebbe mantenere un decoro adeguato, ma ci rende coscienti che tutti abbiamo bisogno di Qualcosa o Qualcuno che ci liberi dal male in cui sguazziamo. Già questo sarebbe un inizio per affrontare la vera questione morale.