Nella rassegna stampa di oggi:
1) L'Europa educata sessualmente di Riccardo Cascioli 11-01-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it
2) UN ITALIANO NUOVO RAPPRESENTANTE OSCE CONTRO LE PERSECUZIONI DEI CRISTIANI - Massimo Introvigne, sociologo delle religioni (ZENIT.org)
3) ALL'OSCE CONTRO L'INTOLLERANZA E LA DISCRIMINAZIONE ANTICRISTIANE di Massimo Introvigne (ZENIT.org)
4) IL DIBATTITO SULL' AUTORITA' DEL CONCILIO PASTORALE VATICANO II - di Piero Vassallo
5) C'è un problema al Cairo di Riccardo Cascioli 11-01-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it
6) Egitto, ucciso un cristiano Richiamato l'ambasciatore in Vaticano - 11-01-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it/
7) «La legge sulla blasfemia tradisce il Pakistan» - 11-01-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it
8) A questa città manca un vero padre di famiglia di Giorgio Gibertini 11-01-2011 da labussolaquotidiana.it http://d151157.e79.eundici.it/ita/articoli-a-quesa-citt-manca-un-vero-padre-di-famiglia-503.htm
9) EDITORIALE - Da Rimini a New York Lorenzo Albacete - mercoledì 12 gennaio 2011 - ilsussidiario.it
10) CRISTIANI/ Crisi diplomatica? No, il Papa tocca il nervo scoperto dell’Egitto Robi Ronza - mercoledì 12 gennaio 2011, ilsussidiario.it
11) SCUOLA/ Le parole di don Milani, il dono di una lezione imprevedibile Carlo Fedeli - mercoledì 12 gennaio 2011, ilsussidiario.it
12) Avvenire.it, 12 gennaio 2011 - LA FEDE NEL MIRINO - Intolleranza mortale di Luca Geronico
13) Avvenire.it, 12 gennaio 2011 - LO SCONTRO - In Nigeria 13 massacrati in un villaggio di Matteo Fraschini Koffi
14) Avvenire.it, 12 gennaio 2011 - La morte, l’indifferenza, la fede - La zona grigia di Alessandro D’Avenia
15) 12/01/2011 – LAOS - Celebravano il Natale: arrestati 11 cristiani laotiani, 3 restano in carcere Vientiane (AsiaNews/Agenzie)
16) IL CASO/ La nuova moda che offende il crocifisso - Monica Mondo, mercoledì 12 gennaio 2011, il sussidiario.net
L'Europa educata sessualmente di Riccardo Cascioli 11-01-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it
“Educazione sessuale minaccia fede” (Televideo Rai); “Educazione sessuale e civile è una minaccia per la religione” (La Repubblica.it); “L’educazione sessuale e civile minaccia per la fede” (La Stampa.it); “La libertà religiosa nella Ue minacciata dall’educazione sessuale” (Corriere.it). A scorrere i titoli dedicati (ieri dai principali media online italiani, e oggi dei quotidiani) al discorso del Papa al Corpo diplomatico, si potrebbe pensare che Benedetto XVI abbia convocato tutti gli ambasciatori presso la Santa Sede solo per fornire la propria versione sul come nascano i bambini.
Avendo letto attentamente il testo, come si evince dagli articoli di Andrea Tornielli e Massimo Introvigne già pubblicati, possiamo invece tranquillizzare il pubblico: il papa ha fatto un giro d’orizzonte sul mondo cercando di giudicare le singole realtà a partire dal criterio della libertà religiosa che egli considera fondamentale.
In questa prospettiva ha anche accennato alla questione dell’educazione sessuale, sempre in riferimento al tema della libertà religiosa. Vediamo dunque cosa ha detto esattamente il Papa:
“Proseguendo la mia riflessione, non posso passare sotto silenzio un’altra minaccia alla libertà religiosa delle famiglie in alcuni Paesi europei, là dove è imposta la partecipazione a corsi di educazione sessuale o civile che trasmettono concezioni della persona e della vita presunte neutre, ma che in realtà riflettono un’antropologia contraria alla fede e alla retta ragione”.
Tutto qui, verrebbe da dire, considerato che 4 righe sulle 180 totali sono poca cosa e non rappresentano certo il fulcro dell’intervento.
Ciò nonostante, non si tratta di parole casuali e meritano una spiegazione, perché ci sono almeno due questioni importanti legate a questo passaggio:
1. Intanto il riferimento alle famiglie, come titolari del diritto alla libertà religiosa. Anche nella Dichiarazione Universale dei Diritti umani, non è l’individuo ma la famiglia “la cellula fondamentale della società”, perché senza famiglia non c’è la persona. E la famiglia è un istituto che precede lo Stato sia cronologicamente sia ontologicamente. La tutela dei diritti e delle prerogative della famiglia è dunque una garanzia di libertà per tutti, antidoto a ogni statalismo e totalitarismo. Tra questi diritti della famiglia, c’è quello alla libertà religiosa incluso il diritto ad educare i figli secondo la propria concezione della vita. La libertà di educazione discende proprio da questo principio;
2. Cosa c’entra dunque l’educazione sessuale o civile? C’entra, perché in Europa - e non solo - si è ormai affermata una visione che vede necessario “espropriare” i genitori dalla funzione di educatori per promuovere un insegnamento dell’educazione sessuale nelle scuole fin dall’infanzia secondo una visione edonistica, che riduce la persona a puro istinto, oggetto di piacere e pulsioni sessuali. In Spagna, addirittura, il governo Zapatero sta promuovendo l’insegnamento dell’educazione civile – o civica – che è ancora più comprensivo e punta a una vera e propria educazione di Stato basata su valori laicisti.
Nei paesi scandinavi, in Olanda, in Francia, in Germania c’è già da molti anni l’insegnamento obbligatorio dell’educazione sessuale fin dai primi anni delle scuole elementari, ma c’è una continua, inarrestabile deriva verso quella che alcune associazioni di genitori hanno definito “pornografia infantile”. Iniziazione alla masturbazione e al corretto uso dei preservativi, nonché immagini esplicite di rapporti sessuali tra ragazzi, stanno diventando parte degli studi curriculari.
Inoltre una grande battaglia è attualmente in corso nel Regno Unito, dove il governo sta tentando di imporre una riforma della scuola che prevede l’obbligatorietà del corso di educazione sessuale che così viene descritto dal quotidiano “liberal” The Guardian: “Studio del corpo umano a 5 anni, pubertà e rapporti sessuali a 7 anni, contraccezione e aborto dagli 11 anni”. L’omosessualità è ovviamente parte del programma, che si vuole sia esteso anche alle scuole confessionali, con l’unica concessione che sarà possibile in questi casi insegnare anche ciò che le singole religioni dicono a proposito della sessualità. Inoltre gli adolescenti “dovranno” essere informati su dove rivolgersi in caso di necessità di aborto, senza il consenso dei genitori.
Nessuno spazio, insomma, per una vera educazione all’affettività che insegni il rispetto reciproco anche attraverso l’astinenza, ed ecco perché il papa parla di presunta neutralità mentre invece si impone un una concezione dell’uomo e dei rapporti affettivi che sono contrari non solo alla fede ma anche alla ragione. Nel Regno Unito, ad esempio, il pretesto per l’imposizione di questi corsi è il dramma delle gravidanze delle adolescenti, ma ormai ci sono evidenze che tale situazione sia stata aggravata da decenni di educazione sessuale nelle scuole.
Dicevamo che la questione va oltre l’Europa: in effetti l’Unesco (l’agenzia dell’ONU per la Cultura, l’Educazione e la Scienza) è da mesi al centro di una dura polemica per aver pubblicato lo scorso settembre delle Linee guida sull’educazione sessuale che consigliano l’insegnamento della masturbazione e del ricorso all’aborto fin dai 5 anni di età con programmi previsti addirittura per gli infanti all’asilo nido. “Non è mai abbastanza presto per iniziare a parlare ai bambini delle faccende sessuali”, si afferma nell’introduzione alle linee guida.
UN ITALIANO NUOVO RAPPRESENTANTE OSCE CONTRO LE PERSECUZIONI DEI CRISTIANI - Massimo Introvigne, sociologo delle religioni (ZENIT.org)
ROMA, lunedì, 10 gennaio 2011 (ZENIT.org).- In vista dell’inaugurazione del suo mandato, che avverrà all’Hofburg di Vienna (Austria) il 12 gennaio, il Ministro degli Esteri della Lituania, Audronius Azubalis, presidente di turno per l’anno 2011 dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), ha nominato l’italiano Massimo Introvigne “Rappresentante OSCE per la lotta contro il razzismo, la xenofobia e la discriminazione, con un’attenzione particolare alla discriminazione contro i cristiani e i membri di altre religioni”.
L’OSCE è la maggiore organizzazione internazionale nel campo della sicurezza e della promozione dei diritti umani.
I suoi 56 Paesi membri comprendono tutti quelli dell’Europa (compresa la Santa Sede, che è membro fondatore) e dell’Asia Centrale ex-sovietica, più gli Stati Uniti e il Canada, con una partnership speciale con altri Paesi del Mediterraneo (fra cui il Marocco e Israele) e dell’Asia (fra cui il Giappone e la Corea del Sud) e con l’Australia.
L’importanza crescente dell’OSCE è stata confermata dal vertice del dicembre 2010 ad Astana, in Kazakistan, al quale hanno partecipato numerosi Capi di Stato e di Governo e altre autorità, tra cui il Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato vaticano, il Segretario di Stato statunitense Hillary Clinton, il Primo Ministro russo Medvedev e quello italiano Berlusconi.
L’OSCE agisce attraverso Rappresentanti, che dipendono direttamente dal presidente di turno. Il mandato del Rappresentante per la lotta alla discriminazione comprende la vigilanza e le iniziative contro il razzismo, la xenofobia, e la discriminazione nei confronti dei cristiani e dei membri di tutte le religioni diverse dall’ebraismo e dall’islam (per queste due religioni nell’OSCE esistono infatti due ulteriori rappresentanti).
L’OSCE svolge da anni un importante ruolo di vigilanza nel settore dei diritti umani e della libertà religiosa. La presidenza lituana vuole sviluppare anche il momento culturale ed educativo di tale vigilanza attraverso convegni e iniziative in diversi Paesi.
Massimo Introvigne, sociologo delle religioni, è nato a Roma nel 1955 e vive e lavora a Torino. E' autore di sessanta volumi, molti dei quali dedicati al pluralismo e alla libertà religiosa.
È viceresponsabile nazionale di Alleanza Cattolica e direttore del Centro Studi sulle Nuove Religioni (CESNUR), e da anni è impegnato nella denuncia delle persecuzioni contro le minoranze religiose, soprattutto contro i cristiani.
Introvigne succede a un altro italiano, l’europarlamentare Mario Mauro, e la sua candidatura è stata sostenuta anche dalla diplomazia della Santa Sede, coordinata dal sottosegretario per i Rapporti con gli Stati, monsignor Ettore Balestrero.
ALL'OSCE CONTRO L'INTOLLERANZA E LA DISCRIMINAZIONE ANTICRISTIANE di Massimo Introvigne (ZENIT.org)
ROMA, martedì, 11 gennaio 2011 (ZENIT.org).- Mentre mi accingo ad assumere questa settimana le funzioni di Rappresentante dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) «per la lotta contro il razzismo, la xenofobia e la discriminazione con un'attenzione particolare alla discriminazione contro i cristiani e i membri di altre religioni», sono molto grato al Papa per avere indicato nel suo discorso del 10 gennaio 2011 al Corpo Diplomatico anche alle organizzazioni internazionali – tra cui dunque l’OSCE, definita nel recente rapporto annuale dell’Aiuto alla Chiesa che Soffre sulla libertà religiosa come l’organizzazione più importante al mondo dopo le Nazioni Unite nel campo dei diritti umani – un’agenda precisa. Nei limiti delle mie possibilità e capacità, e del necessario coordinamento con gli altri organi e Rappresentanti dell’OSCE, cercherò di fare mia questa agenda.
Il Papa ha indicato cinque rischi per la libertà religiosa. Il primo riguarda un possibile equivoco su che cosa la libertà religiosa esattamente sia. Richiamando il suo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2011, il Papa allude a discussioni che esistono anche all’interno della Chiesa Cattolica sulla corretta interpretazione della dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae del Concilio Ecumenico Vaticano II, ripetutamente richiamata anche nel discorso del 10 gennaio. Se n’è avuto un esempio nelle reazioni all’annuncio del nuovo incontro di Assisi. La libertà religiosa è stata spesso confusa con il relativismo, cioè con la tesi che non esista una verità religiosa e che la scelta di una religione o di un’altra sia più o meno indifferente. Mentre, come Benedetto XVI ha richiamato nell’enciclica Caritas in veritate al n. 55, «la libertà religiosa non significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte le religioni siano uguali».
Si tratta di una questione soltanto teorica? No di certo. In effetti, il timore che la libertà di religione porti con sé un relativismo e una sottovalutazione del ruolo delle religioni tipici dell’Occidente moderno è la prima ragione per cui Paesi con una forte identità religiosa islamica, indù o buddhista resistono all’applicazione delle convenzioni internazionali in materia di libertà religiosa. Essi temono che accettare la libertà religiosa significhi necessariamente cedere al relativismo e all’indifferentismo tipici di una certa cultura occidentale moderna. Vanno convinti che non è così, e che libertà religiosa e denuncia di quella che il Papa chiama dittatura del relativismo possono e devono coesistere, come illustra appunto il Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2011.
Il secondo rischio è quello del tentativo dell’islam ultra-fondamentalista di porre fine all’esistenza bimillenaria di comunità cristiane nel Vicino Oriente, ricorrendo anche al terrorismo. In alcuni Paesi il tentativo di una pulizia etnica che elimini definitivamente i cristiani è ormai del tutto evidente. I governi, è vero, prendono le distanze dagli ultra-fondamentalisti, e sarebbe sbagliato confondere l’islam ultra-fondamentalista con l’islam in genere. Ma il tempo delle parole non seguite dai fatti è scaduto. Occorrono, afferma, il Papa, «misure efficaci per la protezione delle minoranze religiose».
Né si tratta solo di un problema di polizia, la cui azione in Paesi come l’Egitto è peraltro molto importante e deve compiere un salto di qualità se vuole raggiungere risultati non fittizi. Si tratta anche delle leggi, che in molti Paesi a maggioranza islamica riducono la libertà religiosa alla sola libertà di culto. I cristiani – non ovunque – possono liberamente celebrare i loro riti chiusi in chiesa, ma dalle chiese e dalle sacrestie non possono uscire per annunciare il Vangelo. Se poi qualcuno si converte dall’islam al cristianesimo, è punito dalle leggi contro l’apostasia e – dove queste leggi sono state abrogate su pressione occidentale – da norme contro la blasfemia, che spesso sono solo leggi contro le conversioni mascherate. Il Papa ricorda «che la libertà religiosa non è pienamente applicata là dove è garantita solamente la libertà di culto, per di più con delle limitazioni». In modo molto esplicito, afferma pure che «tra le norme che ledono il diritto delle persone alla libertà religiosa, una menzione particolare dev’essere fatta della legge contro la blasfemia in Pakistan: incoraggio di nuovo le Autorità di quel Paese a compiere gli sforzi necessari per abrogarla, tanto più che è evidente che essa serve da pretesto per provocare ingiustizie e violenze contro le minoranze religiose».
Il terzo rischio – spesso poco conosciuto o sottovalutato – è costituito dalle aggressioni nei confronti dei cristiani da parte di «fondamentalisti» indù o buddhisti, che identificano l’identità nazionale dei loro Paesi con un’identità religiosa, difesa in modi talora violenti contro il cristianesimo. Sono quelle che il Papa chiama «situazioni preoccupanti, talvolta con atti di violenza, [che] possono essere menzionate nel Sud e nel Sud-Est del continente asiatico, in Paesi che hanno peraltro una tradizione di rapporti sociali pacifici. Il peso particolare di una determinata religione in una nazione non dovrebbe mai implicare che i cittadini appartenenti ad un’altra confessione siano discriminati nella vita sociale o, peggio ancora, che sia tollerata la violenza contro di essi».
Il quarto rischio è costituito dal fatto che, anche se molti vorrebbero dimenticarlo, ci sono ancora regimi comunisti. «In diversi Paesi – afferma il Papa con evidenti allusioni a questi regimi – la Costituzione riconosce una certa libertà religiosa, ma, di fatto, la vita delle comunità religiose è resa difficile e talvolta anche precaria (cfr Conc. Vat. II, Dich. Dignitatis humanae, 15), perché l’ordinamento giuridico o sociale si ispira a sistemi filosofici e politici che postulano uno stretto controllo, per non dire un monopolio, dello Stato sulla società». Il pensiero del Papa, così, «si volge di nuovo verso la comunità cattolica della Cina continentale e i suoi Pastori, che vivono un momento di difficoltà e di prova». Né si tratta dell’unico caso, se solo pensiamo per esempio al dramma ampiamente dimenticato dei cristiani nella Corea del Nord.
Il quinto rischio è rappresentato da quella che il Papa nel discorso alla Curia Romana del 20 dicembre 2010, facendo sua un’espressione coniata dall’illustre giurista ebreo statunitense di origine sudafricana Joseph Weiler, ha chiamato la «cristianofobia» dell’Occidente. «Spostando il nostro sguardo dall’Oriente all’Occidente», ha detto il Papa, «ci troviamo di fronte ad altri tipi di minacce contro il pieno esercizio della libertà religiosa. Penso, in primo luogo, a Paesi nei quali si accorda una grande importanza al pluralismo e alla tolleranza, ma dove la religione subisce una crescente emarginazione. Si tende a considerare la religione, ogni religione, come un fattore senza importanza, estraneo alla società moderna o addirittura destabilizzante, e si cerca con diversi mezzi di impedirne ogni influenza nella vita sociale. Si arriva così a pretendere che i cristiani agiscano nell’esercizio della loro professione senza riferimento alle loro convinzioni religiose e morali, e persino in contraddizione con esse, come, per esempio, là dove sono in vigore leggi che limitano il diritto all’obiezione di coscienza degli operatori sanitari o di certi operatori del diritto», particolarmente in tema di «aborto».
«Un’altra manifestazione dell’emarginazione della religione e, in particolare, del cristianesimo – ha aggiunto il Papa – consiste nel bandire dalla vita pubblica feste e simboli religiosi, in nome del rispetto nei confronti di quanti appartengono ad altre religioni o di coloro che non credono. Agendo così, non soltanto si limita il diritto dei credenti all’espressione pubblica della loro fede, ma si tagliano anche radici culturali che alimentano l’identità profonda e la coesione sociale di numerose nazioni». Anche qui il Papa non si è limitato ai principi generali, ma ha fatto un preciso riferimento alla sentenza Lautsi della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che vorrebbe vietare l’esposizione del crocefisso nelle scuole italiane, lodando chi si batte perché siano rimossi gli infausti e ingiusti effetti di quella sentenza. «L’anno scorso – ha detto Benedetto XVI – alcuni Paesi europei si sono associati al ricorso del Governo italiano nella ben nota causa concernente l’esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici. Desidero esprimere la mia gratitudine alle Autorità di queste nazioni, come pure a tutti coloro che si sono impegnati in tal senso».
La «cristianofobia» si manifesta anche nelle minacce alla libertà di educazione e nell’avversione amministrativa alle scuole cattoliche. Né si può, ha detto il Papa, «passare sotto silenzio un’altra minaccia alla libertà religiosa delle famiglie in alcuni Paesi europei, là dove è imposta la partecipazione a corsi di educazione sessuale o civile che trasmettono concezioni della persona e della vita presunte neutre, ma che in realtà riflettono un’antropologia contraria alla fede e alla retta ragione».
Come neo-Rappresentante dell’OSCE, presto ascolto particolarmente al richiamo all’attività delle «Organizzazioni Internazionali intergovernative», presso le quali il Papa chiede di riaffermare «in primo luogo, la convinzione che non si può creare una sorta di scala nella gravità dell’intolleranza verso le religioni. Purtroppo, un tale atteggiamento è frequente, e sono precisamente gli atti discriminatori contro i cristiani che sono considerati meno gravi, meno degni di attenzione da parte dei governi e dell’opinione pubblica. Al tempo stesso, si deve pure rifiutare il contrasto pericoloso che alcuni vogliono instaurare tra il diritto alla libertà religiosa e gli altri diritti dell’uomo, dimenticando o negando così il ruolo centrale del rispetto della libertà religiosa nella difesa e protezione dell’alta dignità dell’uomo. Meno giustificabili ancora sono i tentativi di opporre al diritto alla libertà religiosa, dei pretesi nuovi diritti, attivamente promossi da certi settori della società e inseriti nelle legislazioni nazionali o nelle direttive internazionali, ma che non sono, in realtà, che l’espressione di desideri egoistici e non trovano il loro fondamento nell’autentica natura umana. Infine, occorre affermare che una proclamazione astratta della libertà religiosa non è sufficiente: questa norma fondamentale della vita sociale deve trovare applicazione e rispetto a tutti i livelli e in tutti i campi; altrimenti, malgrado giuste affermazioni di principio, si rischia di commettere profonde ingiustizie verso i cittadini che desiderano professare e praticare liberamente la loro fede».
Il fatto che l’OSCE abbia istituito l’ufficio di un Rappresentante per la lotta alla discriminazione contro i cristiani, che si affianca a quelli dei due Rappresentanti per la lotta contro l’antisemitismo e contro l’islamofobia rappresenta un successo della diplomazia della Santa Sede e di quei governi, come l’attuale governo italiano, che l’hanno intelligentemente affiancata. Detto con tutta franchezza, la nomina di un cattolico italiano come il sottoscritto a questo ruolo di Rappresentante rappresenta un altro successo delle stesse diplomazie. Le difficoltà e le opposizioni, naturalmente, non mancheranno, e in tempi di crisi economica le risorse delle organizzazioni internazionali sono severamente limitate. L’agenda indicata dal Papa è però realistica e precisa. Dovrebbe apparire ragionevole non solo ai cattolici, ma a tutte le persone di buona volontà. Si tratta ora di realizzarla.
IL DIBATTITO SULL' AUTORITA' DEL CONCILIO PASTORALE VATICANO II - di Piero Vassallo
Paolo VI, quando il suo pontificato stava declinando nell'amara delusione, definì "fumo di satana" e "dissenso che è sembrato passare dall'autocritica all'autodistruzione", i risultati ottenuti dalla teologia progressista rumoreggiante e giubilante nel Concilio Vaticano II.
Nel 1985, il cardinale Joseph Ratzinger confermò i giudizi di papa Montini, rammentando che, dopo il Vaticano II, "ci si aspettava un balzo in avanti e ci si è invece trovati di fronte a un percorso progressivo di decadenza".
Di qui le due opposte interpretazioni o ermeneutiche del Vaticano II, che stanno dividendo i cattolici dell'età postmoderna.
L'ermeneutica della continuità, formulata da Benedetto XVI, riafferma le indeclinabili verità della tradizione cattolica, legge il Vaticano II nella loro luce e raccoglie la sfida lanciata dal relativismo, mediocre succedaneo del defunto pensiero moderno.
L'avventizia ermeneutica della discontinuità, elucubrata dal professore bolognese Giuseppe Alberigo e adottata dagli irriducibili eredi di Jacques Maritain e Giuseppe Dossetti, nel Vaticano II contempla un evento epocale: l'abbassamento della fede cattolica a opinione felicemente menomata e servilmente appiattita sul passato del pensiero moderno.
L'irriducibilità delle due scuole di pensiero manifesta le ragioni della restaurazione timidamente avanzante fra gli ostacoli elevati dai teologi progressisti e perciò nutre la speranza dei cattolici incapaci di rinunciare alla loro identità.
L'indirizzo perdente dell'ermeneutica eventuale si manifesta, peraltro, nelle anacronistiche escandescenze dei cattocomunisti, radunati in un'esangue aggregazione di nostalgici salmodianti intorno ai relitti della rivoluzione sovietica.
Nel pregevole ed esauriente saggio "Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta", edito in questi giorni dalla torinese Lindau, Roberto De Mattei chiarisce le ragioni del contendere e risale alle cause lontane della divisione in atto nella Chiesa cattolica.
Per prima cosa l'autorevole pensatore tradizionalista dimostra che l'ermeneutica della continuità ammette l'esistenza dell'effimero e dell'insicuro fra le righe dei testi del concilio pastorale Vaticano II.
La liceità di tale ammissione è confermata da monsignor Brunero Gherardini, caposcuola dei continuisti, il quale sostiene l'autorità della ininterrotta tradizione e pertanto conclude che "le dottrine del Vaticano II non riconducibili a precedenti definizioni, non sono né infallibili né irreformabili".
Dal suo canto l'autorevole padre Giovanni Cavalcoli o. p., nel sito "www.riscossacristiana.it", dichiara che "è lecito avanzare riserve e anche critiche a certi aspetti del Concilio, ossia a quelli che mostrano eccessiva indulgenza nei confronti degli errori moderni".
La scuola di Bologna, invece, sostiene che l'ermeneutica della discontinuità non è fondata nei documenti ma trae alimento dalla mitologia intorno all'evento conciliare, inteso come causa di definitiva rottura con la tradizione cattolica.
Scrive De Mattei: "Per questa scuola il Vaticano II, al di là dei documenti che esso ha prodotto, è stato innanzi tutto un evento storico che, in quanto tale, ha significato un'innegabile discontinuità con il passato ... ha aperto, in ultima analisi, un'epoca nuova".
L'ermeneutica della continuità, dunque, ha fondamento nella lettura dei testi alla luce della verità cattolica.
L'ermeneutica della discontinuità, al contrario, dipende dalla convinzione (di trasparente fonte modernistica e storicistica) che la dottrina cattolica debba conformarsi ai magnifici pensieri del mondo moderno.
Se non che il malinconico tramonto e la metamorfosi nichilista delle ideologie privano della qualunque giustificazione la meraviglia un tempo pulsante nel pensiero dei cattolici modernisti.
Oggi il pregiudizio di Raïssa Maritain a favore dell'Unione sovietica ha il suono di una barzelletta surreale.
Lo storicismo degli ermeneuti eventuali si rovescia pertanto in umilianti paradossi antistorici.
Opportunamente De Mattei rammenta che negli anni dell'incubazione progressista (1920-140) "la neoscolastica mancò di una teologia della storia e rinunciò alla lotta contro l'avversario, rifugiandosi in una torre d'avorio intellettuale".
La debolezza della filosofia della storia fu la breccia che consentì l'attraversamento dell'errore progressista - il fumo di satana - nella cultura cattolica.
L'assenza di una filosofia della storia permise la circolazione di giudizi sul comunismo che umiliavano la verità, censurando le notizie sul gulag e nascondendo la feroce persecuzione anticristiana in atto nell'Unione sovietica.
L'ingiustificato e talora ridicolo irenismo, vibrante e trionfante nelle sedute del Concilio Vaticano II e nelle sedi degli intrallazzi paralleli (ad esempio l'avventurosa iniziativa di Tisserant, che concesse il silenzio sul comunismo in cambio dell'invio a Roma di alcuni agenti del kgb travestiti da vescovi ortodossi) aveva origine dall'incapacità di vedere l'azione della divina provvidenza nella storia, cioè il destino fallimentare delle rivolte della follia umana contro la verità divina.
Nessuno desidera la cieca censura dei documenti del Vaticano II. Ma il qualunque sguardo non offuscato dal pregiudizio vede l'urgenza di demolire le ridicole costruzioni elevate per celebrare un evento dai risvolti ora ridicoli ora drammatici.
C'è un problema al Cairo di Riccardo Cascioli 11-01-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it
C’è un problema al Cairo. E’ questo il fatto principale dietro al richiamo in patria dell’ambasciatore egiziano presso la Santa Sede, la signora Aly Hamada Mekhemar,per consultazioni sulla questione delle presunte interferenze vaticane sulla strage dei copti. La pretestuosità del caso è evidente: non solo il Papa non ha rivolto nei giorni scorsi alcuna accusa al governo egiziano, ma lunedì nel discorso al Corpo diplomatico, tutto centrato sulla libertà religiosa, ha evitato accuratamente di calcare la mano sulla situazione dell’Egitto. Del resto, in questi 11 giorni trascorsi dalla strage di Alessandria, mai il governo egiziano si è lamentato delle parole del Papa. E prima di ripartire da Roma, l’ambasciatore egiziano ha incontrato il “ministro degli Esteri” vaticano, mons. Dominique Mamberti, al termine del quale la Santa Sede ha emesso un comunicato che smorza ostentatamente i toni, lasciando intendere che la Santa Sede non ritiene questa mossa diplomatica un atto ostile e, men che meno, l’apertura di una crisi.
Il problema dunque non sta a Roma, ma al Cairo. Di cosa si tratti è facile intuirlo: l’Egitto è nel pieno di una fase di transizione del potere. Il presidente Mubarak sta cercando di “pilotare” la propria successione spingendo per il figlio Gamal, ma le resistenze dell’apparato politico e militare che lo sostiene sono forti. E mentre al vertice si combattono lotte intestine, i fondamentalisti islamici fanno sentire tutta la propria pressione. La strage di Alessandria è in questo caso un segnale allarmante, per una serie di motivi.
Anzitutto si tratta di un salto impressionante di qualità nella violenza contro i cristiani che si lega ad altri fatti analoghi che stanno accadendo in Iraq e Nigeria, cosa che fa pensare a una regia sovranazionale: non a caso al Qaeda aveva minacciato azioni contro i copti pochi giorni prima dell’attentato. Non è un segreto che il primo obiettivo dei gruppi fondamentalisti siano i regimi laici o moderati dei paesi musulmani, e l’Egitto è certamente, con l’Arabia Saudita, il paese arabo strategicamente più importante del Medio Oriente.
In secondo luogo, il fallimento dei servizi di sicurezza: dall’assassinio del presidente Sadat (1981) in poi il governo egiziano ha dedicato tutte le proprie energie nel cercare di sconfiggere e tenere a bada i radicali islamici, radunati soprattutto intorno al movimenti dei Fratelli Musulmani, e in larga parte c’era finora riuscito anche se ad elevati costi sociali ed economici. Ora il rischio è che un prolungato periodo di instabilità politica possa incidere sull’efficacia dei servizi di sicurezza e far diventare così l’Egitto una polveriera.
Infine, lo stato di pericolo in cui si trovano i copti sta rischiando di favorire l’alleanza tra gli stessi copti e i Fratelli Musulmani che, non a caso, sono stati pronti a portare la loro solidarietà ai cristiani subito dopo l’attentato di Alessandria. Un’avvisaglia se ne è avuta nelle manifestazioni senza precedenti dei cristiani al Cairo, che hanno preso di mira anche il Gran sceicco dell’Università al Azhar, Ahmed al-Tayeb, un “moderato” reo – per i copti – di essere vicino al presidente Mubarak. Al-Tayeb, non a caso, è stato l’unico in questi giorni a parlare di interferenze del Vaticano negli affari dell’Egitto. I cristiani accusano il governo di non garantire la loro sicurezza e potrebbero perciò saldarsi – loro malgrado – con i Fratelli Musulmani che “sparano” sul governo dalla direzione opposta. Peraltro una paradossale alleanza politica del genere non sarebbe una novità nello scenario mediorientale: è già avvenuta, almeno in parte, in Libano tra gli uomini del generale cristiano Aoun e gli hezbollah filo-iraniani.
Con le accuse alla Santa Sede, lo stesso al-Tayeb prima, e il presidente Mubarak ora cercano quindi di mandare messaggi soprattutto all’interno per dare un segnale di forza e affidabilità a quei settori che simpatizzano per l’intransigenza dei Fratelli Musulmani. Ma è anche il segnale che la situazione al Cairo è davvero difficile e l’unica strada possibile è procedere con la massima celerità a superare questo periodo di transizione.
Egitto, ucciso un cristiano Richiamato l'ambasciatore in Vaticano - 11-01-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it/
Un copto ucciso in una sparatoria tutta da chiarire mentre il governo egiziano ha richiamato al Cairo il proprio ambasciatore presso la Santa Sede, per chiarimenti sulle presunte interferenze del Papa (vedi l’editoriale). E’ la cronaca delle ultime ore, che ha riportato l’attenzione sulla difficile situazione in Egitto.
Vediamo anzitutto il nuovo fatto di sangue. Secondo le informazioni fornite dal ministero dell’Interno un poliziotto non in servizio è salito nella città centrale di Samalut sul treno partito da Assiut e diretto al Cairo, e ha fatto immediatamente fuoco su alcuni viaggiatori, uccidendo un uomo di 71 anni e ferendo cinque donne, tra cui la moglie della vittima. Tutte le persone colpite sono cristiane, sempre secondo il ministero dell’Interno. Lo sparatore, Amer Ashour Abdel-Zaher, è immediatamente fuggito ma la polizia è risalita a lui e lo ha arrestato quando era già tornato a casa. I motivi dell’omicidio non sono chiari e la polizia ha subito interrogato l’assassino, ma finora nulla si è saputo sui motivi.
Non si sa dunque se la morte del cristiano sia casuale – non sapendo l’assassino chi fosse su quel treno – oppure una ulteriore provocazione contro la comunità cristiana egiziana a pochi giorni dalla strage nella chiesa di Alessandria che il 1° gennaio ha provocato 23 morti. Certo è che proprio la vicinanza tra i due eventi rischia comunque di scatenare reazioni. Il timore delle autorità è che si sia in presenza di un vero e proprio piano per destabilizzare l’Egitto, in concomitanza con la travagliata successione al presidente Mubarak, ormai molto anziano (83 anni) e con gravi problemi di salute. In ogni caso sono assai probabili altre reazioni di protesta dei cristiani che già all’indomani della strage di Capodanno avevano manifestato ad Alessandria e al Cairo.
Sul fronte diplomatico invece il governo egiziano ha richiamato l'ambasciatore presso la Santa Sede per consultazioni. Una decisione, ha spiegato in un comunicato il portavoce del ministero degli Esteri Hossam Zaki, presa «sullo sfondo delle nuove dichiarazioni del Vaticano concernenti gli affari interni egiziani». «Queste dichiarazioni - ha affermato il portavoce - sono considerate dall'Egitto come un'ingerenza inaccettabile nei suoi affari interni».
Che non si tratti però di una crisi diplomatica lo dimostra il fatto che lo stesso ambasciatore egiziano, signora signora Lamya Aly Hamada Mekhamar, prima di partire per il Cairo ha voluto incontrare il “ministro degli Esteri” vaticano, monsignor Dominique Mamberti, per spiegare l’iniziativa. Al termine dell’incontro la Sala stampa vaticana ha diffuso un comunicato che smorza notevolmente i toni: la Santa Sede – vi si legge - «condivide pienamente» la preoccupazione del governo egiziano di «evitare l'escalation dello scontro e delle tensioni per motivazioni religiose». La Santa Sede – ha detto mons. Mamberti al diplomatico egiziano - partecipa «all'emozione del popolo egiziano, colpito dall'attentato di Alessandria».
«La legge sulla blasfemia tradisce il Pakistan» - 11-01-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it
Pubblichiamo la traduzione della conferenza stampa tenuta dal Governatore del Punjab, Salman Taseer, il 20 novembre 2010, nella prigione distrettuale di Sheikhupura, al fianco di Asia Bibi, la donna cristiana condannata per blasfemia. Il Governatore è stato poi ucciso il 4 gennaio scorso a causa del suo impegno per Asia Bibi e contro la Legge sulla Blasfemia. E' un documento eccezionale perché questa conferenza stampa ha segnato la condanna a morte di Taseer.
Il video si apre con l’ingresso della prigione distrettuale di Sheikhupura.
Quindi si vede Asia Bibi velata, al fianco del Governatore del Punjub, Salman Taseer, accompagnato dalla moglie, dalla figlia e dall’ufficiale di polizia. Sono inoltre presenti giornalisti della TV statale e delle TV private, nonché delle testate giornalistiche nazionali.
Mentre Asia Bibi appone la propria impronta digitale, il Governatore spiega ufficialmente che in tal modo Asia sta firmando la sua richiesta di grazia al Presidente della Repubblica.
A questo punto il Governatore Taseer inizia il suo discorso:
“Vorrei cominciare in nome di Allah misericordioso e clemente.
Sono venuto qui per incontrare Asia Bibi. Lei sta in prigione da un anno e mezzo. La sua condanna, secondo me, è molto dura e crudele. Lei ha fatto un appello scritto al Presidente della Repubblica del Pakistan, Sig. Asif Ali Zardari, affinché la sua condanna possa essere perdonata. Se Allah vuole, il Presidente, considerando il caso umano, la perdonerà.
Vorrei anche aggiungere che il Pakistan di Quad-e-Azam Muhammad Ali Jinnah (Padre della Patria pakistano, ndr) non aveva una simile legge e neanche poteva esserci una condanna così crudele. La nostra religione protegge le minoranze. Il fondatore del Pakistan, Muhammad Ali Jinnah, aveva aggiunto la striscia bianca nella bandiera del Pakistan che rappresentava le minoranze ed era a favore della loro protezione. Per questo la sua condanna (di Asia Bibi, ndr) secondo me è contro l’umanità.
Io, in qualità del Governatore del Punjab, sono responsabile del Punjab costituzionalmente. Quest’appello mi è stato consegnato. Io porterò quest’appello al Presidente della Repubblica del Pakistan e, se Allah vuole, la condanna sarà cancellata attraverso la grazia.
In questo Paese il 99% dei cittadini è musulmano e non è possibile che qualcuno insulti il Profeta - qui tutti siamo musulmani - e sono sicuro, avendo studiato bene il suo caso, che non è stato fatto niente di simile. Lei è una povera donna cristiana in condizioni disgraziate. Lei non aveva nemmeno la difesa legale, non aveva la possibilità economica di difendersi.
Dunque, condannare una minoranza così povera e impotente è mettere in ridicolo il pensiero del fondatore e la Costituzione della Nazione.
Per questo lei ha fatto l’appello e, se Allah vuole, sicuramente otterrà la grazia. Secondo l’articolo 45 della Costituzione del Pakistan il Presidente della Repubblica ha pieno diritto di perdonare chiunque. Io penso che lei (Asia Bibi, ndr) potrà essere liberata dalla punizione che è stata annunciata”.
A una domanda sul conflitto religioso il Governatore risponde:
“Non dovrebbe diventare un conflitto religioso. Qui si tratta dell’umanità e vogliamo discutere sul piano umanitario, e vogliamo rimanere solo su questo piano senza entrare nella discussione religiosa. E, come ho detto, vogliamo promuovere il Pakistan secondo la concezione del Fondatore della Nazione Quad-e-Azam Muhammad Ali Jinnah, per farlo diventare una nazione aperta nel pensiero e desiderosa del progresso. Noi siamo eredi di Quad-e-Azam Muhammad Ali Jinnah, del martire Zulfiqar Ali Bhutto, della martire Benazir Bhutto, e vogliamo vedere un Pakistan dal pensiero aperto e progressista”.
Alla domanda se il sistema giudiziario pakistano prende delle decisioni sbagliate, il Governatore risponde:
“Guardi! Non voglio discutere sulle decisioni del sistema giudiziario. Questa è una decisione di un giudice. La convinzione del giudice rimarrà, ma noi (con la grazia, ndr) cancelleremo la punizione. Non voglio interferire nel lavoro del sistema giudiziario. Io farò perdonare la sua condanna per amore dell’umanità”.
Alla domanda se il Governatore si schiera con Asia Bibi a causa della richiesta fatta dai pachistani o perché vi è stata una protesta mondiale, lui risponde:
“Guardi che non sono venuto qui per la visibilità internazionale, ma perché già seguivo questo caso da prima. Noi lavoriamo affinché la Corte possa decidere di salvare persone bisognose come lei. Ciò che noi vogliamo fare è secondo il diritto del Presidente della Repubblica del Pakistan e non vogliamo entrare nelle procedure giudiziarie”.
Un giornalista puntualizza che il Governatore ha appena detto che Asia Bibi ha chiesto la grazia per il perdono, mentre ora sta affermando che è già stata perdonata; il Governatore interrompe e chiarisce:
“Non ho detto che ho perdonato. Ho detto che lei, Asia Bibi, si è appellata al Presidente della Repubblica. Io sono Governatore secondo la Costituzione del Pakistan e porterò questo appello al Presidente e loro (la polizia, ndr) lo manderanno all’Home Department secondo la legge. Dopo che l’appello di Asia Bibi arriverà al Presidente della Repubblica, allora il Presidente la perdonerà. Questo è quello che ho detto. Io non posso perdonare nessuno. Tante grazie!”
(Traduzione: Mobeen Shahid, Pontificia Università Lateranense, per Umanitaria Padana Onlus)
A questa città manca un vero padre di famiglia di Giorgio Gibertini 11-01-2011 da labussolaquotidiana.it http://d151157.e79.eundici.it/ita/articoli-a-quesa-citt-manca-un-vero-padre-di-famiglia-503.htm
Non leggerà mai i giornali di oggi il piccolo Devid Berghi, morto di freddo e povertà nel cuore di Bologna proprio il giorno prima dell’Epifania, la festa dei bambini, e quindi non potrà percepire il dolore che la sua storia ha provocato a tutta la nazione, un dolore pari solo all’indignazione ed alla rabbia dell’impotenza che si prova in questi momenti. Forse i suoi genitori avranno letto le prime pagine e gli articoli di oggi che raccontano nel dettaglio che cosa è successo. Proviamo anche noi a orientare la nostra Bussola e quindi crearci un percorso di speranza nei resoconti giornalistici di questa vicenda.
Quasi tutti i maggiori quotidiani affiancano, a un articolo di cronaca, anche uno di commento. Così il Corriere della Sera con Francesco Alberti che prima ricostruisce i fatti e così descrive i due genitori di Devid: «Non dei veri e propri senzatetto, ma gente allo sbando. Senza una prospettiva. E con troppi figli» per un giudizio che diventa ancora più duro in un articolo successivo «Claudia ha 35 anni e ha preso la vita dalla parte sbagliata. Poco lavoro. Pochissimi soldi. Tanta strada. Una girandola di residenze, alcune delle quali fasulle. E di uomini: cinque figli da 3 padri diversi».
Merita una lettura e un approfondimento particolare il commento di Isabella Bossi Fedigrotti dal titolo Il Piccolo rimasto solo per una colpa collettiva: «Le storie non sono sempre quelle che sembrano, sono più complesse, non tutte nere né tutte bianche, difficili da classificare in un modo o nell’altro. L’episodio del neonato spirato la settimana scorsa in piazza Maggiore a Bologna era subito stato "timbrato" come una morte per gelo, incuria e degrado, mentre in realtà sembra più semplicemente — e forse più drammaticamente — una vicenda di nuova povertà. Non barboni né clochard sono, infatti, i suoi genitori, ma soltanto disoccupati o sotto-occupati, frequentatori delle mense pubbliche, conosciuti sia dalla Caritas che dai Servizi sociali, e seguiti, anche, sebbene, evidentemente, non abbastanza. (…) Tuttavia, bisogna anche riconoscere che i suoi genitori, proprio perché volevano continuare a tutti i costi a fare i genitori, hanno sempre rifiutato ricoveri in strutture varie per sé e per i loro bambini, dichiarando di abitare presso parenti, forse, però, inesistenti: più di tutto temevano, infatti, che, dopo i due maggiori, venissero loro tolti altri figli dei cinque che avevano, che amavano e amano. (…) Una sconfitta grande per tutti è la sua morte, avvenuta non per malattia, non per virus o per freddo eccezionale e neppure per colpevole trascuratezza, bensì, semplicemente, per povertà; una sconfitta che fa sentire inadeguati, incapaci di provvedere alla protezione di un bambino piccolissimo, pur nell’abbondanza di una città che forse ancora adesso si fregia del soprannome "la grassa"».
Lasciamo il giornale di via Solferino per andare su la Repubblica da cui apprendiamo, e solo in questo giornale nel pezzo di Luigi Spezia che «grazie all’impegno del primario di Pediatria, il professor Mario Lima, la mamma e il padre hanno firmato il consenso ad affidare volontariamente i figli sopravvissuti ad una struttura pubblica» mentre nella dettagliata ricostruzione dei fatti a opera di Michele Smargiassi, appare un altro aspetto angosciante, ovvero si dice che il 29 dicembre la famiglia è notata nei pressi della Sala Borsa, vengono chiamati gli assistenti sociali e «Rapporto dei medesimi: “Sembra una famiglia felice».
Sul Il Fatto Quotidiano è Maurizio Chierici a commentare l’accaduto: «Due già finiti in una casa protetta, questi li volevano per loro, amore incosciente dalle tasche vuote: fra le luci dello shopping David è volato via».
Maria Giovanna Maglie su Libero sposta il tiro del commento sulla troppa attenzione che viene data, a Bologna come in tutta Italia, ai figli degli immigrati e meno ai figli nostri, riportando il pensiero del consigliere della Lega Manes Bernardini: «le nostre istituzioni dovrebbero al più presto ripensare e correggere i meccanismi fin qui adottati per garantire ai bisognosi certe forme di assistenza. Come Lega Nord puntiamo da sempre il dito contro l’attuale sistema di assegnazione delle case popolari e di erogazione di altri servizi sociali che vedono i cittadini bolognesi sempre in fondo alla coda di coloro che chiedono aiuto».
il Giornale di Milano affida dapprima a Giordano Bruno Guerri e poi a Cristiano Gatti due commenti duri e capaci di fare breccia. Dapprima è Guerri: «A due genitori, o si decide di togliere tutti i bambini, perché non li si ritiene in grado di provve¬dere alla loro vita, o glieli si lascia tutti, aiutandoli». E ancora in bella evidenza la dura presa di posizione (riportata da tutti i quotidiani, compresa La Stampa) del direttore della Caritas Diocesana: «È il fallimento di quelle strutture assistenziali che oggi dicono "rifiutavano ogni aiuto". Se dei poveracci - con in braccio due neonati e un infante ridotti allo stremo - rifiutano ogni aiuto, non è come quando qualcuno risponde "Un caffè? No, grazie": l’aiuto deve consistere nel convincerli che non ne possono fare a meno, non nell’abbozzare con un "Prego"».
Per il direttore della Caritas diocesana di Bologna, Paolo Mengoli, la morte del neonato è il segno di una carenza dei servizi sociali e di lacune non piccole. «A questa città manca un vero padre di famiglia. I servizi, - ha dichiarato ancora Mengoli – dovrebbero avere la possibilità di valutare le situazioni, senza rimandarle alle calende greche [...] e la responsabilità non so di chi sia, ma c’è un’organizzazione che non funziona».
Le parole di Mengoli trovano ampio spazio ed approfondimento sul quotidiano Avvenire con una intervista allo stesso dove ritorna la paura dei genitori (riportata da quasi tutti i quotidiani) a rivolgersi ai servizi sociali per timore venissero loro tolti anche questi due figli (ci sarebbe molto da meditare su questo fatto).
Sempre su Avvenire è l’inviato Stefano Andrini a parla del piccolo Angelo morto in una città intera con gli occhi chiusi.
L’Unità ci sorprende dando voce, in una intervista, a Stefano Zamagni (economista, uno dei collaboratori alla stesura della enciclica Caritas in veritate) della quale riportiamo questa risposte che entrano a gamba tesa nella polemica riportata da tutti i giornali sul fatto che, pare, i genitori abbiamo rifiutato gli aiuti. «Provi lei a voler dare da mangiare ad un anoressico. La malattia in questi casi è il rifiuto, lo sanno tutti. Come si fa a dire: siccome rifiutano l’aiuto, li lasciamo al loro destino? Queste persone in grande difficoltà hanno perso l’autostima e non vogliono aiuti perché non vogliono sentirsi ulteriormente umiliati. Quindi, se li si vuole aiutare, occorre adottare una strategia tale da indurre la domanda di aiuto».
Durissimo e pieno di rabbia anche il commento di Cristiano Gatti, ancora su il Giornale, in un articolo che vale la pena leggere per intero, il quale, dopo aver proposto per Devid i funerali di Stato, offre prima una feroce critica del sistema di assistenza italiano e del gioco al fuggire dalle proprie responsabilità e poi la conclusione di speranza che facciamo nostra: «"È una sconfitta per la città, un'incredibile vergogna". Non lo dicono Bondi e Cicchitto, ma Raffaele Donini, segretario provinciale del Pd. Le parole suonano come tragico epitaffio terreno sul destino ingiusto di Devid. Ma per lui suonano molto più consolanti le parole pronunciate duemila anni fa: "Gli ultimi saranno i primi". Se così è, il piccolo sta sicuramente godendosi la più comoda delle suite celesti, là dove esiste giustizia».
EDITORIALE - Da Rimini a New York Lorenzo Albacete - mercoledì 12 gennaio 2011 - ilsussidiario.it
Qualche anno fa accompagnai Peter Beinart, allora direttore di The New Republic, al Meeting per l’Amicizia fra i Popoli a Rimini, l’evento che trae ispirazione dal carisma di Mons. Luigi Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione. The New Republic era, ed è tuttora, il giornale del progressismo intelligente negli Stati Uniti e, come suo direttore, in un certo senso Peter era la voce del pensiero progressista americano.
Tornati negli Stati Uniti, gli chiesi di scrivere le sue impressioni sul Meeting da pubblicare su Traces. Peter scrisse un pezzo in cui concludeva che qualcosa di simile era impossibile negli Stati Uniti, a causa degli scontri culturali in atto nel nostro Paese. Ciò che lo aveva colpito nel Meeting era l’unione di tre dimensioni che in America sono considerate incompatibili.
Prima di tutto, il Meeting era una chiara e aperta espressione di fede, in particolare di quella cattolica. Negli Stati Uniti, secondo Beinart, una simile proclamazione della fede viene associata a “revival” evangelici e carismatici, o a movimenti politici come la Christian Coalition, la Moral Majority e altri, impegnati nel salvataggio dell’identità cristiana del Paese.
Il Meeting di Rimini, invece, mostrava una fede che non era in guerra con nessuno. Anzi, a livello intellettuale e accademico, il Meeting gli ricordava un convegno di studiosi appassionati di analisi letteraria, decostruzione ed ermeneutica. In questo contesto, la fede cattolica si mostrava del tutto non timorosa di fronte alla modernità e alla post-modernità. Negli Stati Uniti, data la versione protestante del cristianesimo, era impossibile ritrovarsi in modo così affiatato.
Infine, l’atmosfera del Meeting gli ricordava quella festosa, a misura delle famiglie, dei parchi a tema, tipo Disney World in Florida. Peter concludeva che se si fosse riusciti a fare qualcosa di simile negli Stati Uniti, questo sarebbe stato veramente un contributo notevole alla cultura americana. Il “se” di Peter è diventato un fatto: si chiama “New York Encounter” e inizierà venerdì prossimo, 14 gennaio.
Il New York Encounter, per approccio e contenuti, è realmente diverso da ogni altro evento culturale negli Stati Uniti e va oltre tutte le divisioni culturali che minacciano il futuro della nostra società, evitando anche quella ricerca di un “terreno comune” che mantiene e nutre il relativismo che ci paralizza.
Lo scopo dei dibattiti, delle mostre, dei concerti e delle rappresentazioni teatrali è di costruire nuove amicizie, di imparare e di celebrare la bellezza della vita. Tutti gli eventi sono gratuiti e aperti al pubblico, eccetto la rappresentazione teatrale (quest’anno sarà L’Annuncio a Maria, di Paul Claudel, il sabato sera).
Venerdì, il discorso di apertura sarà tenuto dal presidente della Catholic University of America, sul tema “Educazione e libertà nell’America contemporanea”. Seguirà un concerto del complesso jazz di una scuola cattolica di Brooklyn. Sabato parlerà la figlia del Dottor Jerome Lejeune, il genetista francese appassionato difensore del diritto alla vita. L’attuale crisi economica verrà discussa in una tavola rotonda di esperti sabato pomeriggio, mentre nella serata avrà luogo la rappresentazione del dramma di Claudel.
Domenica pomeriggio, il libro di Mons. Giussani Il senso religioso verrà presentato da Don Julián Carrón, suo successore alla guida di Comunione e Liberazione, e verrà commentato dal Cardinale Sean O’Malley, Arcivescovo di Boston. Seguirà poi un incontro sul tema scienza e fede tra un premio Nobel in Fisica, un professore di biologia alla Brown University e il sottoscritto. Sabato sera vi sarà anche una presentazione per immagini e voci del cuore di New York City, e l’Encounter terminerà domenica con una tavola rotonda su Giacomo Leopardi.
Non è esattamente Rimini, ma è l’inizio di una risposta alla provocazione di Beinart. Come minimo, speriamo di accendere una candela di speranza in un'America che sta cercando di dare un senso alla tragica sparatoria in Arizona.
CRISTIANI/ Crisi diplomatica? No, il Papa tocca il nervo scoperto dell’Egitto Robi Ronza - mercoledì 12 gennaio 2011, ilsussidiario.it
Per farsi un’idea di che cosa siano le “inaccettabili ingerenze” a motivo delle quali l’Egitto ha richiamato in patria per consultazioni il proprio ambasciatore presso la Santa Sede vale la pena di andare a leggere il passaggio “incriminato” del discorso del Papa al Corpo Diplomatico (peraltro accessibile a chiunque nella sua interezza collegandosi al sito internet della Santa Sede medesima). Come nel messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2011, così anche in questo discorso Benedetto XVI ha messo a tema la questione della libertà religiosa.
In tale contesto, venendo a parlare delle comunità cristiane del Vicino e del Medio Oriente “così provate a causa della loro adesione a Cristo e alla Chiesa”, ha detto: “Sì, guardando verso l’Oriente, gli attentati che hanno seminato morte, dolore e smarrimento tra i cristiani dell’Iraq, al punto di spingerli a lasciare la terra dove i loro padri hanno vissuto lungo i secoli, ci hanno profondamente addolorato. Rinnovo alle autorità di quel Paese e ai capi religiosi musulmani il mio preoccupato appello ad operare affinché i loro concittadini cristiani possano vivere in sicurezza e continuare il loro contributo alla società di cui sono membri a pieno titolo. Anche in Egitto, ad Alessandria, il terrorismo ha colpito brutalmente dei fedeli in preghiera in una chiesa. Questa successione di attacchi è un segno ulteriore dell’urgente necessità per i Governi della Regione di adottare, malgrado le difficoltà e le minacce, misure efficaci per la protezione delle minoranze religiose”.
Come chiunque può vedere, l’appello di Benedetto XVI era non solo più che ragionevole ma anche espresso con grande attenzione per l’ipersensibilità dell’Egitto. Basti dire che mentre il governo iracheno viene citato apertis verbis non si fa invece il nome né dell’Egitto né del suo governo. Si parla genericamente dei “Governi della Regione” dando anche atto delle difficoltà e delle minacce con cui si devono confrontare. Ciononostante, pretendendo che questa fosse un’“inaccettabile ingerenza” nei suoi affari interni ieri l’Egitto ha richiamato in patria “per consultazioni” il proprio ambasciatore presso la Santa Sede, signora Lamia Aly Hamada Mekhemar.
Nelle ore successive, mentre peraltro giungeva la notizia dell’assassinio in Egitto di un altro cristiano, ucciso a freddo a colpi di pistola su un treno, l’entità dello strappo è stata un po’ attenuata. Prima di partire per il Cairo infatti la signora Lamia Aly è stata ricevuta dal Segretario per i Rapporti con gli Stati, mons. Dominique Mamberti dal quale - dice un comunicato della Sala stampa vaticana - ella ha potuto avere informazioni ed “elementi utili per riferire adeguatamente sui recenti interventi del Santo Padre, in particolare sulla libertà religiosa e sulla protezione dei cristiani in Medio Oriente”. Mons. Mamberti le ha anche assicurato che la Santa Sede condivide la preoccupazione del governo egiziano di “evitare l’escalation dello scontro e delle tensioni per motivazioni religiose”, e apprezza gli sforzi che esso fa in tale direzione.
Prima di passare al commento ho preferito citare con ampiezza questi documenti, anche a costo di sembrare un po’ noioso, perché sono utili per aiutare chiunque a comprendere non solo la forma ma anche la sostanziale complessità della situazione. Fermo restando il valore di incontri e di momenti profetici di dialogo con musulmani aperti e sensibili ai diritti della persona e al mistero dell’avventura umana, nel concreto della nostra epoca le cose stanno come è stato magistralmente descritto da Samir Khalil Samir nella sua intervista appena apparsa sul sussidiario. Sorprendente figura di gesuita egiziano copto-cattolico, il poliglotta e coltissimo Samir Khalil Samir per scienza, ma prima ancora per esperienza, è un conoscitore straordinariamente esperto e profondo del problema della condizione dei cristiani nel mondo arabo e più in generale del problema del rapporto cristianesimo-islam e cristiani-musulmani.
In quell’intervista egli delinea il possibile itinerario intellettuale e umano dello sblocco dell’islam dal vicolo cieco nel quale ha finito di cacciarsi nel secolo appena trascorso: una situazione che gli impedisce di reggere il confronto con la modernità. A causa di ciò il mondo musulmano è oggi pieno di frustrazioni e di rancori che sono il brodo di coltura di uno smarrimento facilmente incline alla violenza. Stando così le cose, c’è spesso un dovere immediato di legittima difesa, ma in prospettiva occorre impegnarsi innanzitutto in un confronto di idee e di esperienze che pacificamente stimolino per così dire la sua auto-riforma. A questo però non serve, e anzi è di scandalo, il relativismo e il nichilismo della cultura di massa occidentale. Occorre in primo luogo la fraterna ma ferma testimonianza dei cristiani, ma sarà un cammino ancora lungo e purtroppo molto probabilmente non immune da lacrime e da sangue: operare per la pace e per la comprensione infatti è un lavoro magari gratificante ma di certo abbastanza pericoloso.
SCUOLA/ Le parole di don Milani, il dono di una lezione imprevedibile Carlo Fedeli - mercoledì 12 gennaio 2011, ilsussidiario.it
Il dibattito sulla “crisi del desiderio”, aperto dall’intervento di don Julián Carrón all’assemblea annuale della Compagnia delle Opere, e rilanciato pochi giorni più tardi dalla pubblicazione del Rapporto Censis, mi ha spinto a riflettere sulla situazione attuale dell’insegnamento a scuola e in università, un po’ per l’esperienza diretta che ne ho, un po’ per l’incidenza obiettiva che questa crisi ha sul modo in cui alunni e insegnanti vivono la porzione di tempo della loro vita quotidiana bene o male occupata dalla scuola (a cominciare dall’ora di lezione, che è il centro attorno al quale gravitano tutti gli altri momenti o fattori dell’esperienza scolastica).
In questa riflessione mi ha accompagnato una pagina forse poco nota di don Milani (ben più conosciuto per la Scuola di Barbiana e Lettera a una professoressa), che racconta la sua prima avventura come maestro, al tempo del servizio come cappellano a Calenzano, allora piccolo comune tra Sesto Fiorentino e Prato.
Giunto nella parrocchia di San Donato (è l’ottobre del 1947), don Lorenzo, sacerdote da pochi mesi e al primo vero incarico pastorale, si accorge subito dell’enorme ignoranza civile e religiosa della popolazione. Provocato da ciò, dapprima si dedica a svolgere un’opera d’incontro e di conoscenza dei parrocchiani, a favore dei quali modifica tra l’altro l’impianto della catechesi, scegliendo di svolgerla a partire dalla narrazione storica della vita di Gesù e delle vicende di Israele e della Chiesa, piuttosto che esponendo le verità cristiane come sistema dottrinale.
Poi, dopo aver constatato in vario modo l’intralcio all’evangelizzazione rappresentato dall’ignoranza, e il fatto che l’avvicinamento dei giovani alla Chiesa attraverso le occasioni del tempo libero - come il calcio, il ping pong e il circolo ricreativo parrocchiale - non produceva frutti duraturi, egli propone a quegli stessi giovani, nel 1949, la frequenza di una vera e propria “scuola serale popolare”, mediante la quale conquistare finalmente un’istruzione, e così una vera possibilità di riscatto e di promozione sociale (di “inclusione” e di “cittadinanza attiva”, diremmo oggi).
Impossibile, oltre che insensato, tentare di riassumere in poche righe la ricchezza della pagina di don Milani, redatta (è un motivo ulteriore di bellezza) ricorrendo all’artificio letterario di fingere che a rispondere alla domanda su che cosa si facesse nella scuola di San Donato, posta da un periodico, fosse proprio uno degli alunni che la frequentarono realmente. Meglio leggerla per intero. Da parte mia, vorrei suggerire due o tre piste di riflessione, che mi sembra offrano un qualche contributo di approfondimento sul tema della “crisi del desiderio”.
La prima pista è rappresentata dall’intensità delle ore di lezione. Don Lorenzo, con l’aiuto anche di un maestro elementare, le teneva ogni sera della settimana, da lunedì a giovedì, a partire dalle 20.30, a persone che avevano alle spalle (e davanti a sé, l’indomani) giornate durissime, con sveglia alle cinque del mattino, per essere alle otto sul posto di lavoro, e che rientravano a Calenzano poco prima del ritrovo in canonica per la scuola.
Il più delle volte, questa intensità comportava che si sforasse l’orario previsto, senza che gli argomenti in programma fossero svolti completamente. Anzi: molte volte accadeva perfino che il giovane cappellano “divagasse” (almeno ciò sembrava ai giovani e alle loro famiglie), seguendo la sua passione per l’etimologia delle parole, e omettendo così di trattare argomenti a prima vista ben più utili - come le cognizioni matematiche o tecniche che avrebbero permesso di superare con maggiore facilità i concorsi d’assunzione.
Qui comincia la seconda pista di riflessione. Ripensando all’esperienza compiuta, chi scrive ricorda che il fatto che l’ora di lezione fosse un avvenimento vivo e, in buona parte, imprevedibile, produceva molti effetti. Il primo e più fecondo di tutti consisteva in una metodica “ridefinizione” dell’orizzonte e dell’ampiezza della coscienza di sé e delle cose, tanto nel maestro quanto (soprattutto) negli alunni. Nel dialogo con don Lorenzo, infatti, questi avevano modo di sperimentare un’acquisizione del sapere che non restava chiusa o ripiegata in sé, come possesso meramente egoista o borghese, ma alimentava un’apertura senza sosta dell’intelligenza e del cuore a tutte le conoscenze e gli incontri che la scuola, nel suo svolgersi lungo la settimana (non solo le lezioni, più o meno convenzionali, ma anche le conferenze di approfondimento, che si tenevano il venerdì ed erano di norma seguite da accese discussioni), offriva.
Il testo offre alcuni esempi particolarmente suggestivi e un’espressione felicemente riassuntiva (“una parola da nulla diventava un mondo”) della “grazia” specifica dell’ora di lezione con don Milani, quand’essa si attuava come esperienza viva di conoscenza delle cose e di reciproca educazione. Esso offre anche un’indicazione altrettanto incisiva del cambiamento che ciò era in grado di suscitare negli studenti, e che toccava il suo vertice nel prevalere dell’interesse per la prima pagina dei giornali rispetto a ogni altra (compresa quella sportiva!) e in quella “roba da pazzi” che era il “voler bene a delle parole”.
La terza pista è suggerita dalla perentoria affermazione secondo cui né la Chiesa, né lo Stato possono garantire che i loro maestri (e i loro preti, nel primo caso) vogliano veramente bene agli alunni. Questa è materia sulla quale Benito Ferrini, alias don Lorenzo dice a chiare lettere che non valgono le argomentazioni di principio (il possesso dei requisiti formali, come l’abilitazione, l’immissione in ruolo, ecc.; la presunta superiorità dell’istituzione laica su quella religiosa; e via di seguito), quanto piuttosto quelle di fatto: fra quei due enti, entrambi “impotenti”, sottolinea il cappellano, “s’andrà” da quello che la scuola “ce la farà meglio”.
Ora, che cosa c’entra questa pagina di don Milani con il problema della “crisi del desiderio”? A mio giudizio molto, se pensiamo per un attimo alla risposta (“Niente”) che tanti alunni o studenti (soprattutto delle scuole superiori) danno spesso, rincasando, alla domanda dei genitori su che cosa è accaduto a scuola. Oppure se riflettiamo sulla piattezza e l’indifferenza che sembrano farla da padrone in molte ore di lezione, nelle quali può capitare di far di tutto, tranne che di seguire e di appassionarsi a ciò che sta effettivamente accadendo (e ciò non solo da parte degli studenti, ma anche degli insegnanti). Ancora, se ci chiediamo quale posto i ragazzi, gli adolescenti e i giovani di oggi assegnino liberamente, al di là degli obblighi imposti dai curricoli, nell’economia delle loro giornate e della loro giovinezza, alla lettura, allo studio, al gusto della ricerca. E infine, se rivolgiamo al mondo adulto questo stesso interrogativo.
Chi legge con animo aperto la pagina di don Milani forse si chiederà da dove venga e da quale passione umana e cristiana nasca l’intensità del “far scuola” che essa testimonia. Se è un docente, spero che il racconto di queste ore di lezione, così poco “canoniche”, possa valere anche come provocazione a rivedere criticamente il proprio modo d’insegnare. Se è uno studente delle superiori, o universitario, mi auguro che abbia la possibilità di cercare, incontrare e seguire maestri così, se necessario anche con un po’ di lotta con l’inerzia ludica o, più prosaicamente, utilitarista dei compagni, e con il funzionalismo politically correct dominante fra i docenti. Se, infine, è un intellettuale, un giornalista, un uomo politico, o anche un sacerdote ancora convinto che “scuola libera” significhi “scuola dei ricchi”, spero voglia lasciarsi provocare da don Milani a dismettere gli occhiali dell’ideologia più o meno statalista, tutt’oggi circolante, per guardare in faccia senza pregiudizi la libertà d’educazione e il pluralismo scolastico.
In ogni caso, comunque, spero che concordi con ciò che don Lorenzo scriveva in Esperienze pastorali: “È tanto difficile che uno cerchi Dio se non ha sete di conoscenza. Quando con la scuola avremo risvegliato nei nostri giovani operai e contadini quella sete sopra ogni altra sete o passione umana, portarli poi a porsi il problema religioso sarà un giochetto. Saranno simili a noi, potranno vibrare di tutto ciò che fa vibrare noi. Tutto il problema si riduce qui, perché non si può dare che quello che si ha. Ma quando si ha, il dare viene da sé, senza neanche cercarlo, purché non si perda tempo. Purché si avvicini la gente su un livello da uomo, cioè a dir poco un livello di parole e non di gioco. E non una parola qualsiasi di conversazione banale, di quelle che non impegna nulla di chi la dice e non serve a nulla in chi l’ascolta. Una parola come riempitivo di tempo, ma parola scuola, parola che arricchisce”.
Avvenire.it, 12 gennaio 2011 - LA FEDE NEL MIRINO - Intolleranza mortale di Luca Geronico
Una sparatoria a bordo del treno che partito da Assiut solca l’iEgitto in direzione del Cairo. Una sventagliata di colpi nello scompartimento in sosta alla stazione di Samalut, cittadina a maggioranza copta, e l’intero Egitto è di nuovo paralizzato dal terrore.
Un sottufficiale della polizia ha colpito a tradimento nella cittadina a maggioranza copta: Fathi Massad Qattas, cristiano di 71 anni la vittima, altri cinque i feriti, quattro cristiani e un musulmano. Fra di loro anche la moglie dell’uomo subito deceduto per le ferite. Nessun movente palese, nessun indizio concreto o rivendicazione, per un gesto che, a soli 11 giorni dalla strage di Capodanno ad Alessandria, riporta l’Egitto nell’incubo di una possibile offensiva fondamentalista contro la comunità cristiana. Il killer, un musulmano identificato come Amer Ashur Abdel-Zaher Hassan, ha tentato di fuggire ma è stato arrestato e subito messo sotto interrogatorio. Qualche fonte locale ha ipotizzato di «un regolamento di conti», forse una lite fra famiglie. Le autorità si sono limitate a parlare di «sparatoria casuale» e il governatore di Minya ha smentito un movente confessionale. L’episodio, di cui è stato informato anche il patriarca copto Shenouda III, sembra vanificare gli appelli del presidente Mubarak all’unità nazionale. Rafforzate immediatamente le misure di sicurezza attorno ai luoghi di culto dei copti, ma l’episodio è un calcio alla speranza del governo del Cairo di ritornare subito alla normalità. Giorni difficili in cui l’esecutivo lavora pure a esorcizzare il rischio che da Tunisia e Algeria si propaghi una rivolta per il pane.
Una tragica sera in un pomeriggio già increspato da nuove tensioni internazionali. Poche ore prima il governo del Cairo aveva richiamato la sua ambasciatrice presso la Santa Sede, Lamia Aly Hamada Mekhemar. Consultazioni, ha spiegato il ministero degli Esteri, necessarie dopo le «nuove dichiarazioni del Vaticano concernenti gli affari interni egiziani». Dichiarazioni, ha affermato un portavoce, considerate dall’Egitto «un’ingerenza inaccettabile nei suoi affari interni». Dopo l’attentato terroristico di Capodanno ad Alessandria d’Egitto il ministro degli Esteri, Ahmed Abul Gheit, aveva inviato una lettera al suo omologo vaticano con la quale smentiva «parecchi punti tra le dichiarazioni emesse dal Vaticano».
Affermazioni che riguardano la «posizione dei copti in Egitto e la relazione fra musulmani e copti». Una presa di posizione condivisa dall’imam di Al Azhar, Ahmed al-Tayyeb, che ha ribadito ieri la sua contrarietà a ingerenze esterne negli affari dei Paesi arabi musulmani «sotto qualsiasi pretesto».
In serata una nota del Vaticano riferiva di un colloquio fra l’ambasciatore egiziano e l’arcivescovo Dominique Mamberti. Nell’incontro il segretario per i rapporti con gli Stati ha sottolineato la partecipazione della Santa Sede all’emozione dell’intero popolo egiziano, colpito dall’attentato di Alessandria. La Santa Sede, condivide pienamente la preoccupazione del Governo di «evitare l’escalation dello scontro e delle tensioni per motivazioni religiose», ed apprezza gli sforzi che esso fa in tale direzione. Lunedì, nel discorso al corpo diplomatico, Benedetto XVI aveva ricordato i recenti attentati in Medio Oriente contro le comunità cristiane: un segno per benedetto XVI «dell’urgente necessità per i governi della regione di adottare, malgrado le difficoltà e le minacce, misure efficaci per la protezione delle minoranze religiose».
Avvenire.it, 12 gennaio 2011 - LO SCONTRO - In Nigeria 13 massacrati in un villaggio di Matteo Fraschini Koffi
Aumentano la paura e la tensione a Jos, capitale dello Stato nigeriano di Plateau, ormai diventata una città fantasma. I negozi sono chiusi, le strade vuote, e le banche, come le scuole e i mercati, hanno smesso di operare.
Una serie di violenti massacri ha insanguinato questa zona nelle ultime settimane, da anni martoriata dai conflitti tra musulmani e cristiani. Scontri che dilatano a dismisura le lista dei morti e seminano il terrore nella regione al centro della Nigeria. Proprio ieri sono state uccise tredici persone in un villaggio abitato prevalentemente da cristiani. «Mi hanno informato che tredici persone sono state uccise in un attacco all’alba», ha detto un responsabile della polizia dello Stato di Plateau. E ha aggiunto: «Abbiamo quindi mandato alcuni poliziotti incaricati di verificare l’informazione». L’attacco da parte di bande armate è avvenuto nel villaggio di Kuru Wareng, vicino a Jos. «Gli assalitori sono andati casa per casa – ha raccontato alla stampa Simon Mwadkon, ufficiale del governo locale –. La situazione è molto tesa, ma per fortuna le forze di sicurezza sono arrivate sul posto». Quest’ultimo caso di violenze è probabilmente la risposta ai morti di venerdì scorso, uccisi in un brutale attacco. Un pulmino – che trasportava un gruppo di musulmani di ritorno da un matrimonio – è stato fermato da una banda di giovani – che, secondo alcune testimonianze – sarebbero stati cristiani. I corpi degli otto passeggeri sono stati trovati senza vita il giorno dopo per le strade di Jos.
La capitale di Plateau si trova nella volatile area che separa il Sud, a predominanza cristiano, dal Nord, popolato soprattutto da musulmani. Le dimostrazioni avvenute negli ultimi giorni per le strade di vari quartieri, hanno costretto le forze di sicurezza ad adoperare misure strettissime per controllare al meglio la situazione. Durante il fine settimana, sono stati circa 19 i morti nella regione. È un periodo particolarmente difficile per la Nigeria, già nel mezzo delle elezioni primarie in alcuni Stati, e sempre più vicina al voto presidenziale di aprile. Oltre allo Stato di Plateau, l’unico in cui risiede circa lo stesso numero di cristiani e musulmani, anche lo Stato di Bauchi, a maggioranza musulmano, è stato segnato da violenze interreligiose negli ultimi anni. Sono più di 15mila i morti per via di tali scontri da quando, nel 1999, in Nigeria la dittatura militare è stata sostituita da un governo civile. Le autorità si sono accordate per eleggere a turno, per ogni mandato, un presidente musulmano e un vice-presidente cristiano, e viceversa.
«Le persone di Jos sono divise tra le etnie Hausa e Fulani, a predominanza musulmana, che sostengono l’opposizione, e i Berom, cristiani a favore del Partito democratico del popolo (Pdp) al potere – confermano gli analisti – . Data la continua crisi interreligiosa, si prevedono ancora forti tensioni nel Paese più popolato dell’Africa». Con la morte del presidente del nord Umaru Yar’Adua, avvenuta l’anno scorso, il Paese si è trasformato in una pentola a pressione, pronta ad esplodere.
L’ex vice-presidente Goodluck Jonathan, ora a capo del Paese, proviene dal Sud cristiano, e la sua candidatura per le prossime elezioni ha già destato diverse proteste da parte dei musulmani del Nord. Verso la fine dell’anno scorso, i leader religiosi di entrambe le fazioni hanno accusato i politici di fomentare violenza a seconda delle etnia e della religione a cui appartengono, provocando la morte di centinaia di civili.
Avvenire.it, 12 gennaio 2011 - La morte, l’indifferenza, la fede - La zona grigia di Alessandro D’Avenia
Un uomo per la strada vede una ragazzina che trema, ha solo un vestito leggero, niente da mangiare. Si arrabbia con Dio: «Perché lo permetti? Perché non fai qualcosa?». Dio tace.
Fatti di cronaca come quello del bimbo morto a Bologna mi inducono alla stessa reazione. Sono i fatti che appartengono alla zona grigia dell’esistenza, che fanno dubitare della bontà della creazione e del creatore. Creatore forse, ma Padre?
Di fronte a questa zona d’ombra però si apre per me lo spazio della compassione, del dolore di fronte al dolore altrui: è mio o no? Quando vedo una mendicante che trema in ginocchio al centro del marciapiede, quel dolore mi interpella.
Posso reagire come Ivan Karamazov che, nella sofferenza degli innocenti, scorge un segno dell’assenza di Dio e se ne serve per la sua ribellione contro il redentore. In fondo però la compassione di Ivan verso il dolore innocente è la scusa, la teoria progettata da un cuore incapace di amare con i fatti. Egli ama quel dolore non per alleviarne la sofferenza, ma per sé stesso. Senza quel dolore assurdo, non potrebbe starsene chiuso a casa nel suo cinismo con tanto di certificato medico. Egli ama il dolore altrui, per mettere a tacere la sua coscienza e Dio ed ergersi a giudice. Il mondo è male: cosa posso mai fare io?
Posso non reagire. Facendo finta di non vedere o non vedendo proprio, se non un ostacolo da superare: l’ennesimo mendicante a intralciare la mia strada di uomo fortunato. Perché qualcuno non risolve? Non pago forse le tasse? Un liceale al quale era stato proposto di donare il sangue ha risposto: "Quanto mi pagate?". La logica del dono è fuori moda: cosa c’entro io con il dolore altrui?
Oppure posso fare come Rilke che s’imbatte in una donna che chiede l’elemosina. L’amico che lo accompagna le dà uno spicciolo, il poeta tira dritto, ma più avanti compra una rosa e di ritorno solleva la donna e gliela regala: va oltre il bisogno materiale, coglie la persona nella sua interezza e agisce "personalmente" restituendo dignità alla donna, che almeno quel giorno smise di mendicare.
Quando la zona grigia mi aggredisce, trovo in me questi personaggi.
Ma ho pace solo quando provo a fare come il poeta, quando il gesto affronta il bisogno, ma non si ferma lì, offrendo una soluzione che va oltre; quando sono io a mettermi in gioco, con il mio essere e non solo con il mio avere.
Mi tornano in mente quelle parole di Cristo, che danno ragione della zona grigia, in una logica tanto sorprendente quanto concreta che solo il Dio incarnato raggiunge, l’uomo più uomo degli uomini. Non mi nasconde la zona grigia, ma me ne rivela il senso e la possibilità di illuminarla, coinvolgendomi. Agli ipocriti che criticano lo spreco di un unguento prezioso per lui, invece di darne il prezzo ai poveri, risponde: "i poveri li avete sempre con voi, me, invece, non sempre mi avete". Questa frase smaschera tutti: cinici, indifferenti o ipocriti compratori della propria pace più che cercatori di quella altrui.
La zona grigia c’è e resta, ma è affidata a noi la capacità di diminuirne l’area, illuminandola con la luce del dono personale, faticoso e possibile solo a patto di avere quella luce: se Dio è amore, chi è in lui può realmente donare sé stesso. La storia citata all’inizio si conclude qualche ora dopo, nella notte, quando a quell’uomo che si era adirato con Lui per la povera bambina infreddolita Dio risponde: "Certo che ho fatto qualcosa. Ho fatto te". Per questo: io c’entro con la morte del bimbo bolognese, con il disagio della sua famiglia. Per questo io resto libero e Dio è ancora Padre.
12/01/2011 – LAOS - Celebravano il Natale: arrestati 11 cristiani laotiani, 3 restano in carcere Vientiane (AsiaNews/Agenzie)
Il fermo è avvenuto il 4 gennaio, durante una preghiera – autorizzata dalle autorità – per celebrare la nascita di Gesù. Ad oggi tre leader cristiani sono in galera con l’accusa di aver “organizzato un incontro segreto”. Famiglie costrette a firmare documenti di “rinuncia alla fede”.
Vientiane (AsiaNews/Agenzie) – Sono ancora in galera tre leader cristiani, arrestati dalla polizia laotiana durante un raid lo scorso 4 gennaio. Lo riferisce il gruppo attivista Human Rights Watch for Lao Religious Freedom (Hrwlrf), secondo cui l’accusa è aver “organizzato un incontro segreto”. In realtà i fedeli si erano riuniti per pregare e avevano ottenuto i permessi necessari dalle autorità di governo. In un primo tempo le forze dell’ordine avevano prelevato 11 persone, ma otto di loro sono state rilasciate nei giorni successivi al fermo.
Fonti di Hrwlrf confermano che i tre leader protestanti – il pastore Wanna, Chanlai e Kan – devono rispondere di “reato politico”. Essi sono originari del distretto di Hinboun, nella provincia di Khammouan (Laos centrale) e sono figure di primo piano delle chiese domestiche di Khammouan.
L'arresto del 4 gennaio è avvenuto nella casa di preghiera di Wanna in occasione delle celebrazioni legate al Natale. Nel mese di dicembre, egli aveva informato i funzionari che avrebbe tenuto una veglia per il 5 gennaio. Per la Lao Evangelical Church – associazione cristiana legata al partito comunista – le celebrazioni ufficiali legate al Natale vanno dal 5 dicembre al prossimo 15 gennaio. La sera del 4 gennaio un gruppo di agenti ha fatto irruzione nella casa di Wanna e arrestato per “incontro segreto” gli 11 presenti che, in quel momento, stavano consumando il pasto serale.
Gli arresti avventi nei giorni scorsi sono solo l’ultimo episodio di una serie di violazioni alla libertà religiosa nella provincia laotiana di Khammouan. Nel maggio scorso il pastore Wanna e altri cristiani avevano subito imprigionamenti, pressioni e minacce di morte; il rilascio è avvenuto solo in seguito alla firma di un documento in cui “rinunciavano alla loro fede”. Le famiglie che frequentavano la casa di preghiera hanno dovuto trascorrere giorni di “ri-educazione” e subire l’accusa di “collusione con il nemico” (gli Stati Uniti).
IL CASO/ La nuova moda che offende il crocifisso - Monica Mondo, mercoledì 12 gennaio 2011, il sussidiario.net
All’annuale edizione di Pitti Immagine Uomo, aperta ieri a Firenze, tale Alessandro Cantarelli (“chi era costui?”), presidente di un’azienda omonima di moda, ha trasformato il suo stand in una cappella, con panche, altare, chierichetti e un quadro raffigurante Cristo in croce. Sì, ma vestito alla moda, e un po’ sciamannato, senza corona di spine e segni di percosse e colpi di lancia, naturalmente: camicia sbottonata, fazzoletto nel taschino.
Un bodyguard da discoteca, uno abituato allo struscio a Portofino, e chissà se ha le Tod’s ai piedi. “Devoti allo stile”, lo slogan prescelto, “uno stile ben rappresentato da un personaggio trascendentale”, spiega serafico l’esteta. Si dirà, e allora? Tante proteste, ufficiali e non, perché l’Unione Europea chiede di togliere il crocifisso dalle scuole, e ci si indigna perché un artista della moda lo usa come manichino per la sua collezione?
Il Cristo come uno di noi, la sua sofferenza semmai come emblema dei drammi dell’uomo di oggi, da ostentare, anziché occultare nei luoghi di culto. Par di sentirli, i soloni della critica e della sociologia, interpretare in chiave postmoderna lo scandalo della croce. Ipocriti. La verità è un’altra: la croce è irrisa, umiliata e offesa.
Niente di nuovo, si cominciò con quel bel sedere che pubblicizzava un paio di jeans, “chi mi ama mi segua”. Abbiamo visto cantanti legarsi a una croce sul palcoscenico, scultori d’arte povera crocifiggere ranocchi, siamo abituati alle bestemmie nei salotti della politica e dei talk show. Eppure, in quella Firenze che da 800 anni espone in Santa Maria Novella il crocifisso di Giotto; in questi giorni, in cui gli intelligenti ascoltano pensosi le parole del Papa, che sferza ancora una volta l’insipienza culturale, l’autodistruzione di un’Europa immemore dei segni che l’hanno formata, la boutade di sto Cantarelli è qualcosa di più che una provocazione. È un’offesa.
Abbiamo visto tanti Crocifissi, e tante Madonne vestite, soprattutto nel nostro Meridione, per celebrare le feste, per le processioni solenni. Con snobismo abbiamo forse sorriso, toccati dal’effetto kitsch. Ma si tratta di trine, velluti ricamati dalle nostre nonne, snocciolando rosari; sono vesti tramandate per generazioni, conservate con cura, addobbi preziosi per onorare, attraverso le statue, i volti cari del Figlio, della Madre, dei Santi.
Che faranno gli intellettuali progressisti fiorentini, i notabili riformisti che guidano la città, invocheranno la libertà dell’artista? E i tanto decantati diritti che l’Occidente ha insegnato al mondo, in primis il rispetto e la libertà per la religione? Provino in una prossima collezione a evocare l’Islam, rischino un’accusa di blasfemia, ci vuol più coraggio.
Davvero, cara Fallaci, ci manchi. Tu che credente non eri, ti sentivi figlia di 2000 anni di storia, di arte, di scienza, orgogliosa e rabbiosa a un tempo, per troppi cristiani tiepidi, per un Occidente che, perdute le sue radici, si consegna al nulla.