Nella rassegna stampa di oggi:
1) Il Papa ricorda che siamo una sola famiglia umana di Andrea Tornielli 17-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
2) Fraternità San Pio X e Santa Sede. Un libro attacca il Papa di Massimo Introvigne, da http://www.cesnur.org/
3) Il beato della presenza cattolica nella società di Marco Invernizzi 17-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
4) La crisi del Maghreb, un compito per l'Italia di Robi Ronza 17-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
5) EDUCAZIONE/ Chiosso: invece di "taroccare" il modello cinese, ispiriamoci alla realtà INT. Giorgio Chiosso lunedì 17 gennaio 2011 - ilsussidiario.net
6) Luterani, i punti fermi di Ratzinger di Massimo Introvigne 17-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
7) 17/01/2011 – IRAQ - Aggredito un medico cristiano a Mosul di Layla Yousif Rahema (AsiaNews)
8) 17/01/2011 – INDONESIA - Cristiani indonesiani contro Yudhoyono: non tutela la libertà religiosa di Mathias Hariyadi
Il Papa ricorda che siamo una sola famiglia umana di Andrea Tornielli 17-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
Siamo «una sola famiglia umana», una «sola famiglia di fratelli e sorelle in società che si fanno sempre più multietniche e interculturali, dove anche le persone di varie religioni sono spinte al dialogo, perché si possa trovare una serena e fruttuosa convivenza nel rispetto delle legittime differenze».
Lo ha detto ieri all’Angelus Benedetto XVI, in occasione della Giornata mondiale del migrante e del rifugiato. Il Papa, riflettendo sul crescente fenomeno delle migrazioni, ha pregato «affinché i cuori si aprano all’accoglienza cristiana e di operare perché crescano nel mondo la giustizia e la carità, colonne per la costruzione di una pace autentica e duratura», spiegando che proprio le parole di Gesù - «Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» - ci richiamano «a riconoscerci tutti come fratelli in Cristo».
Il Concilio Vaticano II, ha ricordato Ratzinger, afferma che «tutti i popoli costituiscono una sola comunità. Essi hanno una sola origine poiché Dio ha fatto abitare l’intero genere umano su tutta la faccia della terra; essi hanno anche un solo fine ultimo, Dio, del quale la provvidenza, la testimonianza di bontà e il disegno di salvezza si estendono a tutti».
Alla fine degli anni Trenta, quando l’ideologia razzista e antisemita del nazismo imperava in Europa (ma c’erano tracce di antisemitismo anche nelle cosiddette società libere e democratiche), Pio XI chiese a un gesuita americano di preparare una bozza di enciclica che si sarebbe dovuta intitolare Humani generis unitas e avrebbe dovuto riaffermare l’unità del genere umano. La morte di Papa Ratti sopraggiunse prima della sua pubblicazione.
L’idea centrale di quel testo, vale a dire l’esistenza di una sola famiglia umana, fu ripreso da Pio XII nella sua prima enciclica programmatica, Summi Pontificatus. Oggi l’ideologia nazista non c’è più (purtroppo l’antisemitismo esiste ancora), ma il mondo fatica a considerarsi «una sola famiglia umana», specie di fronte alle migrazioni, un fenomeno epocale difficilmente governabile. C’è chi emigra per motivi economici, chi per motivi politici, chi è in fuga da discriminazioni o vere persecuzioni.
«Tutti, dunque – ha ricordato Benedetto XVI – fanno parte di una sola famiglia, migranti e popolazioni locali che li accolgono, e tutti hanno lo stesso diritto ad usufruire dei beni della terra, la cui destinazione è universale, come insegna la dottrina sociale della Chiesa. Qui trovano fondamento la solidarietà e la condivisione».
Certo, Benedetto XVI, riaffermando il diritto ad emigrare che la Chiesa «riconosce ad ogni uomo, ha anche ricordato che gli Stati «hanno il diritto di regolare i flussi migratori e di difendere le proprie frontiere, sempre assicurando il rispetto dovuto alla dignità di ciascuna persona umana». E che gli immigrati, inoltre, «hanno il dovere di integrarsi nel Paese di accoglienza, rispettandone le leggi e l’identità nazionale».
«Si tratterà allora – ha concluso – di coniugare l’accoglienza che si deve a tutti gli esseri umani, specie se indigenti, con la valutazione delle condizioni indispensabili per una vita dignitosa e pacifica per gli abitanti originari e per quelli sopraggiunti». Equilibrio non sempre facile, come dimostra il recente appello del direttore della Caritas di Venezia, don Dino Pistolato, il quale ha dichiarato che «la situazione occupazionale è drammatica, non si possono aprire i flussi migratori a centomila persone in questo momento: sarebbe una scelta pericolosa. Bisogna imparare a guardare in faccia la realtà anche quando è brutta: accoglienza significa poter offrire lavoro, alloggi e dignità, non alimentare il panico mandando al massacro i nuovi arrivati e alimentando il razzismo».
Fingere che non esistano problemi di integrazione e un certo «buonismo», possono dunque finire per alimentare il razzismo, ha detto il sacerdote veneto. Come pure, non nascondiamocelo, può finire per alimentarlo anche l’uso di espressioni sprezzanti, la violenza verbale, certi stereotipi duri a morire, l’idea di essere noi in un fortino assediato da orde di nemici barbari.
Il richiamo del Papa sull’essere una «sola famiglia di fratelli e sorelle» è dunque un invito a non dimenticare mai, anche quando si prendono o si condividono scelte dolorose come la regolazione dei flussi migratori, questo sguardo di umanità, compassione, condivisione.
I cristiani non dovrebbero mai dimenticare che credono in un Dio fatto Uomo e divenuto emigrante, che ha conosciuto, da bambino, il dramma dell’esilio.
Fraternità San Pio X e Santa Sede. Un libro attacca il Papa di Massimo Introvigne, da http://www.cesnur.org/
Come è noto, sono in corso da mesi conversazioni fra la Santa Sede e la Fraternità Sacerdotale San Pio X, fondata da monsignor Marcel Lefebvre (1905-1991), allo scopo di esplorare le condizioni teologiche e canoniche di una riconciliazione, dopo la remissione delle scomuniche da parte di Benedetto XVI ai quattro vescovi consacrati senza autorizzazione di Roma nel 1988, un gesto — come il Papa ha spiegato molte volte — che inizia e non conclude il dialogo, dal momento che i problemi dottrinali rimangono non risolti.
Si afferma spesso che il successo di queste conversazioni è pregiudicato da azioni di disturbo di cattolici che, a diverso titolo, non vedono con favore il rientro della Fraternità Sacerdotale San Pio X nella piena comunione con Roma. Può darsi che in questi sospetti ci sia anche qualche cosa di vero.
Dobbiamo chiederci però se qualche volta a mettere a rischio il buon esito del dialogo non sia la stessa Fraternità San Pio X. Nelle ultime settimane da questa sponda sono infatti venute critiche durissime a Benedetto XVI e alla sua proposta di leggere il Concilio Vaticano II secondo una "ermeneutica della riforma nella continuità" rispetto al Magistero precedente della Chiesa.
Non mi riferisco tanto alle reazioni all'annuncio di un nuovo incontro interreligioso ad Assisi, per molti versi prevedibili, anche se l'immagine evocata nell'omelia del superiore della Fraternità mons. Bernard Fellay il 9 gennaio 2011 a Parigi, di "diavoli in volo su Assisi", seguita dalla domanda retorica "È questa la continuità?", non è proprio un esempio di linguaggio moderato.
Sembra più grave la pubblicazione, a fine 2010, di un libro di un altro dei vescovi cui è stata rimessa la scomunica, mons. Bernard Tissier de Mallerais, dal titolo "L'étrange Théologie de Benoît XVI. Herméneutique de continuité ou rupture?" ("La strana teologia di Benedetto XVI. Ermeneutica di continuità o rottura?", Le Sel de la Terre, Avrillé 2010), opera che si presenta come una critica completa del Magistero del Papa e in particolare della sua ermeneutica del Vaticano II.
Una nota degli editori (p. 7) apre dando già il tono dell'opera: "La teologia di Benedetto XVI si allontana in modo impressionante dalla teologia cattolica. È la causa principale della crisi attuale nella Chiesa".
Il volume intende ricostruire il pensiero del teologo Joseph Ratzinger e di Benedetto XVI — tra i due, insiste l'autore, c'è davvero continuità e non rottura — come fondato su una filosofia personalista e sulla pretesa d'importare nella teologia la filosofia moderna, in particolare quella di lingua tedesca, dal kantismo alla nozione heideggeriana dell'essere, così diversa da quella classica, passando per la fenomenologia. Così facendo, secondo mons. Tissier de Mallerais, Ratzinger/Benedetto XVI s'illude di cristianizzare la filosofia moderna come il Medioevo aveva cristianizzato il pensiero greco. Ma, a differenza di quest'ultimo, la filosofia moderna secondo l'autore è intrinsecamente anticristiana, e non ne può nascere nulla di buono.
Se ci si mette su questa strada, insiste il volume, non si propone una versione cristiana della filosofia moderna, ma si riducono le nozioni fondamentali della fede cristiana a una loro versione diluita e depotenziata sulla base di questa stessa filosofia. Il risultato finale ha poco in comune con l'autentica fede cristiana e arriva nientemeno che a "una negazione peggiore di quella di [Martin] Lutero [1483-1546]" (p. 73) della dottrina cattolica. Infatti un confronto tra Ratzinger/Benedetto XVI e Lutero porta alla domanda: "quale dei due è cristiano?" (p. 75), e la risposta suggerita è che il padre del protestantesimo salva almeno una nozione della Redenzione cristiana, mentre con l'attuale Pontefice, interpretando in modo riduttivo la Redenzione sulla base del soggettivismo e del personalismo della filosofia moderna, si rischia di scivolare fuori del cristianesimo.
Problema per problema, i giudizi sono tutti ugualmente radicali. Anche quando nei testi del Papa è conservato il linguaggio cristiano, il significato sarebbe sempre deformato dal personalismo e dal soggettivismo, i quali conducono a un umanitarismo di cui l'autore denuncia le assonanze e le derivazioni massoniche. Leggiamo così: "Il diritto conciliare alla libertà religiosa è una mancanza di fede. Sostenendo questo diritto, Benedetto XVI manca di fede" (p. 96). "Ecco [...] un Papa che si disinteressa della realtà dell'Incarnazione, che pratica l''epochè' sulla materialità della Redenzione e che nega la regalità a Nostro Signore Gesù Cristo" (p. 97). "Benedetto XVI,nella sua enciclica 'Spe salvi' [...] non capisce più la bella definizione che san Paolo dà della fede" (pp. 100-101).
Già i modernisti si servivano della filosofia moderna. Ma, dal momento che quest'ultima rispetto all'epoca della crisi modernista ha continuato la sua corsa diventando ancora più radicalmente lontana dal cristianesimo, quello del Papa sarebbe "un supermodernismo scettico. Per concludere, dirò che siamo di fronte oggi a un modernismo rinnovato, perfezionato" (p. 103).
L'ermeneutica della riforma nella continuità di Benedetto XVI riferita al Vaticano II si risolve, secondo l'autore, in un tentativo di mascherare la dipendenza dei testi fondamentali del Concilio, su alcuni dei quali del resto il teologo Ratzinger ha avuto una diretta influenza, dalla filosofia moderna. Come tale l'ermeneutica proposta da Benedetto XVI non è un programma ma un "anti-programma", che nega tutta la tradizione cattolica. E "gli avvocati di questo anti-programma disincarnano, de-crocifiggono e scoronano Gesù Cristo con più brio di [Immanuel] Kant [1724-1804] e [Alfred] Loisy [1857-1940]" (p. 104). Insomma, "la mancanza di fede di cui soffre Benedetto XVI si spiega [...] con la sua ermeneutica" (p. 106).
Di questo processo secondo mons. Tissier de Mallerais fa le spese soprattutto la nozione di Redenzione, che una teologia infeudata alla filosofia moderna, con il suo ottimismo personalista, non è più capace di concepire nel suo riferimento costitutivo alle esigenze della giustizia divina provocata dal peccato degli uomini, ma può soltanto ridurre a manifestazione della misericordia, in cui Cristo viene piuttosto a confermare e a celebrare una grandezza e dignità della persona umana fondate su premesse filosofiche moderne affatto estranee al cristianesimo.
Rispetto al teologo Ratzinger, "alla fine Benedetto XVI non segna nessun pentimento, continua a non arrivare ad accettare il mistero della Redenzione" (p. 110). Né potrebbe essere un punto d'incontro il "Catechismo della Chiesa Cattolica" del 1992, in cui al contrario si esprime la teologia dell'allora cardinale Ratzinger, così che "la giustizia divina e le sue esigenze sono uccise dal 'Catechismo'"(p. 167).
Il testo, un autentico "tour de force", dichiara fin dal suo inizio la natura di "pamphlet" (p. 11) e l'appartenenza al "genere polemico" (ibid.). Come tutti i "pamphlet" è costruito con il metodo delle citazioni selettive. Queste mostrano certamente che il Magistero cattolico recente, dal Concilio a Benedetto XVI, ha voluto prendere in esame le domande e le istanze poste dalla cultura e dalla filosofia moderne. Ma da questo non discende affatto che il Magistero abbia mutuato da filosofie contemporanee lontane dal cristianesimo anche le risposte, né sul punto il testo, al di là del notevole vigore polemico, convince.
Alla fine, il libro non è tanto interessante per quanto afferma di Benedetto XVI ma per quanto rivela della mentalità di chi lo ha scritto e di chi lo diffonde. Infatti, quanto al tema dei rapporti fra la Fraternità Sacerdotale San Pio X e la Santa Sede, forse il libro aiuta a comprendere che il problema non riguarda solo la liturgia, o solo qualche estremista presente nella Fraternità. Suoi esponenti di primissimo piano proclamano, per iscritto, un rifiuto totale di Benedetto XVI e del suo Magistero. Il cammino del dialogo, che pure continua, sembra irto di difficoltà.
Il beato della presenza cattolica nella società di Marco Invernizzi 17-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
Moderatamente conosciuto e stimato, molto meno studiato, il venerabile Giuseppe Toniolo verrà beatificato quest’anno, dopo che Benedetto XVI, venerdì scorso, ha riconosciuto un miracolo attribuito alla sua intercessione.
L’evento induce alla speranza per diversi motivi. Intanto, ovviamente, perché avremo un beato in più da venerare, in cammino verso la canonizzazione, quando la Chiesa impegna definitivamente la propria infallibilità nell’indicare come esempio e modello ai fedeli la vita di un cattolico.
Ma il motivo di speranza riguarda anche il tempo di Toniolo e quello che ha rappresentato nella storia del movimento cattolico. Di lui si conosce poco. I venti volumi della sua opera sono stati pubblicati fra il 1947 e il 1953, poi quasi più nulla, fino a due testi pubblicati nel corso degli ultimi anni dalla Fondazione di Verona che porta il suo nome. Lo ha studiato, fra i pochi, l’attuale arcivescovo di Assisi, mons. Domenico Sorrentino, che ha pubblicato una sua biografia nel 1987, per le edizioni Paoline.
Toniolo era nato a Treviso nel 1845 e dal 1879 insegnava economia politica all’università di Pisa, dove sarà docente fino al 1917, un anno prima della morte. Normalmente il suo nome viene associato alla prima democrazia cristiana, ma senza un minimo di spiegazioni si rischierebbe soltanto di fare confusione.
Intanto la prima democrazia cristiana, quella di don Romolo Murri (1870-1944), è finita male, cadendo nell’eresia e nella rottura con la Chiesa. Toniolo faceva parte di quell’ambiente di militanti del movimento cattolico di quell’epoca che, all’interno dell’Opera dei congressi, venivano definiti cattolici sociali. Questi, fra i quali il suo grande amico Stanislao Medolago Albani (1851-1921), avevano compreso il grande cambiamento in atto nella società in seguito alla rivoluzione industriale e volevano, come vorrà l’enciclica Rerum novarum, che lo Stato intervenisse nella vita pubblica per affrontare e tentare di disinnescare la drammatica “questione operaia”. In questo senso si distinguevano dagli intransigenti veneti contrari a ogni cambiamento, e volevano offrire una prospettiva d’azione ai giovani della democrazia cristiana.
Non vi riuscirono però, perché i democratici cristiani entrarono in rotta con la Santa Sede e scelsero la strada dell’abbandono. In sostanza Toniolo voleva che l’azione dei cattolici trasformasse in senso cristiano (la grande “controrivoluzione cattolica” dirà a Genova nel 1892 nella relazione al Congresso degli studiosi cattolici di scienze sociali) la società liberale della seconda metà dell’Ottocento, ammalata dall’epoca della Rivoluzione del 1789, favorendo una maggiore diffusione del potere attraverso una più ampia partecipazione popolare.
In questo senso antistatalista usava il termine democrazia: egli avrà sempre come modello la società medioevale, impostata sui Comuni e sul rispetto e la valorizzazione dei corpi intermedi, proprio per impedire un’ingerenza dello Stato che al professore pisano sembrava già allora assai invasiva e pericolosa. Egli era obbediente all’insegnamento di papa Leone XIII e divenne un sostenitore convinto dell’enciclica Rerum novarum (1891), cioè del modo non socialista pensato dal Magistero della Chiesa per affrontare la questione operaia.
Toniolo era certamente un grande intellettuale. La sua proposta era strategica, riguardava i fondamenti della vita pubblica e spaziava dall’economia alla storia, alla filosofia. Come aveva provato il beato Antonio Rosmini circa 50 anni prima, anche Toniolo aveva in mente un progetto globale di riforma della società, che partiva dai problemi del momento ma andava ben oltre. Erano le ideologie che si erano affermate negli ultimi secoli, dal Rinascimento alla Riforma, al liberalismo delle rivoluzioni nazionali dell’800, che costituivano un problema. Esse tentavano di sfruttare i problemi esasperati anche dalla diffusione degli errori di cui loro stesse si erano rese responsabili per offrire soluzioni peggiori del male che intendevano curare: questa era l’ottica socialista, alla quale Toniolo fu sempre contrario.
Tuttavia non era soltanto un intellettuale. Fonderà l’Unione cattolica per gli studi sociali con la Rivista internazionale di studi sociali, mentre nel 1907, a Pistoia, inaugurerà la prima settimana sociale dei cattolici italiani e darà un contributo decisivo alla fondazione dell’Unione delle donne cattoliche d’Italia.
Sarà un dirigente dell’Opera dei Congressi sotto il pontificato di Leone XIII (1878-1903) e contribuirà a ridisegnare le nuove caratteristiche del movimento cattolico durante il pontificato di san Pio X (1903-1914), il quale lo volle alla guida dell’Unione popolare fra i cattolici d’Italia.
Sposato con Maria Schiratti di Pieve di Soligo, la cittadina trevigiana dove è sepolto, padre di sette figli, Toniolo ci ha lasciato un grande esempio di uomo semplice, legato alla famiglia, intento alla preghiera quotidiana, che non trascurò mai. Proprio nella sua cittadina di adozione si è verificato il miracolo che è stato riconosciuto e gli ha permesso la beatificazione.
La crisi del Maghreb, un compito per l'Italia di Robi Ronza 17-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
Già da diversi giorni le città algerine e tunisine erano sconvolte da manifestazioni popolari di protesta contro il rincaro di generi di prima necessità come pane, farina e olio. Ma mentre in Algeria, dove l’ordine costituito è più forte, per il momento il governo tiene, in Tunisia la crisi ha dato il colpo finale a un regime già da tempo in declino.
In attesa di conoscere gli sviluppi è il caso di guardare all’orizzonte complessivo del Maghreb entro cui questa crisi si inscrive. La prima cosa da osservare è che la Tunisia, l’Algeria e anche il Marocco sono dei nostri vicini di casa, più vicini a noi, e tanto più alla Sicilia e alla Sardegna, della maggior parte degli altri Stati membri dell’Unione Europea. L’Algeria è uno dei nostri principali fornitori di idrocarburi tramite oleodotti e gasdotti che prima di procedere sul fondo del mare attraversano il territorio della Tunisia, dove peraltro ha sede un numero assai consistente di aziende e di stabilimenti italiani.
La distanza che è minima dal punto di vista geografico è però enorme dal punto di vista della ricchezza. Al nostro reddito pro capite pari a quasi 32 mila dollari annui fanno in riscontro i 3825 dollari dell’Algeria e i circa 3.400 della Tunisia. Mentre poi da noi il grosso della popolazione è adulta o anziana, in questi Paesi i giovani sono in maggioranza (nel caso dell’Algeria si calcola siano circa il 70 per cento); e si tratta di persone per lo più disoccupate. Anche grazie ai pittoreschi comportamenti del colonnello Gheddafi in Italia si parla molto della Libia. Questa però ha solo circa 5 milioni e mezzo di abitanti, enormi risorse petrolifere in rapporto alla popolazione e un reddito pro capite di quasi 9.400 dollari. Con un reddito pari a meno della metà di quello libico l’Algeria ha 34 milioni e mezzo di abitanti e la Tunisia oltre 10 milioni.
Al di là degli sviluppi della crisi politica che in Tunisia ha portato alla caduta di Ben Alì, e augurandosi beninteso che non siano catastrofici, c’è comunque un problema del quale il nostro Paese deve farsi carico: il Maghreb non è di per sé una bomba a orologeria, ma potrebbe diventarlo se le sue masse oggi giovanili giungeranno all’età adulta senza speranze di un dignitoso futuro. Essendo la seconda economia manifatturiera d’Europa, l’Italia potrebbe e dovrebbe investire ampiamente in questi Paesi per aiutarli a trasformarsi, con comune profitto, in fornitori di manufatti per quei mercati dell’emisfero Sud, innanzitutto l’Africa sub-sahariana, che non possono reggere i nostri prezzi e non sempre hanno davvero bisogno della nostra qualità.
EDUCAZIONE/ Chiosso: invece di "taroccare" il modello cinese, ispiriamoci alla realtà INT. Giorgio Chiosso lunedì 17 gennaio 2011 - ilsussidiario.net
Educare significa introdurre alla realtà Diffondi il Link a questo articolo APPROFONDISCI EDUCAZIONE/ Quei figli sbranati dall’ideologia della "madre tigre", di L. Ballerini SCUOLA/ I nostri ragazzi sono più vittime della realtà o del mondo virtuale?, di L. Ballerini
«La vera alternativa non è tra rigore e permissivismo, ma tra un’educazione che introduca alla realtà e una che al contrario è ideologica. L’ideologia può assumere molte forme, per esempio un genitore che pretende che suo figlio abbia il talento calcistico di Cassano, invece di tenere conto delle sue qualità e quindi del suo vero bene». E’ la posizione di Giorgio Chiosso, ordinario di Storia dell’educazione dell’Università di Torino, sul saggio «Il grido di battaglia di una mamma tigre» pubblicato dalla professoressa di Diritto della Yale University, Amy Chua. Di origini cinesi, Chua contrappone l’educazione rigida di tipo orientale, che insegna ai bambini a non mollare mai, a quella occidentale, dove al contrario tutto è consentito. Nel suo saggio Chua ha rivelato che il decalogo da lei stessa imposto alle figlie prevede le seguenti regole: «Non è permesso passare un pomeriggio a giocare con gli amichetti, partecipare ai pigiama party, partecipare alle recite scolastiche, guardare la televisione, giocare con il computer, avere dei brutti voti a scuola».
Professor Chiosso, quali sono i pregi e i difetti dei due metodi educativi, quello cinese e quello occidentale?
Innanzitutto, ritengo che non si debba cercare di imitare una forma di educazione proveniente da realtà molto diverse dalla nostra. Se vogliamo avanzare riserve su un certo modello formativo permissivista, non abbiamo bisogno di copiare la Cina. Basta ispirarci al sano e buon modello che ci viene dalla nostra tradizione, secondo cui l’educazione è sempre il confronto tra una persona e la realtà. La realtà non è permissiva. La realtà ha regole, norme, vincoli con i quali dobbiamo fare i conti. Quanto più noi introduciamo precocemente i ragazzi a confrontarsi con la realtà, tanto più creiamo delle personalità adulte capaci di non arrendersi anche di fronte alle situazioni spiacevoli. Se invece li inganniamo fingendo che non ci siano problemi, i ragazzi sentiranno lo scarto tra l’infinità dei desideri dei loro genitori e l’impossibilità di realizzarli.
E per lei che cos’è l’introduzione alla realtà?
Per introduzione alla realtà intendo la cosa più semplice del mondo: la vita come si presenta tutti i giorni. Don Giussani aggiungeva un aggettivo, diceva «realtà totale».
E’ possibile leggervi un invito a superare la parzialità di un’educazione ideologica?
Sono totalmente d’accordo. La realtà infatti è il migliore disintossicante dall’ideologia. Nell’educazione, il più grave errore è un atteggiamento intellettualistico, quello cioè che porta a disegnare una realtà immaginaria, perfetta, di un mondo che non esiste e a sfuggire al confronto con le cose concrete. Un po’ come quei genitori, che immaginano che i loro bambini debbano diventare dei grandi giocatori di calcio, come Cassano, e costruiscono l’educazione su questo sogno che nel 99% dei casi non si basa su dei dati oggettivi, ma su una lettura ideologica del figlio. Naturalmente l’ideologia trova applicazione soprattutto nella politica. Ma c’è un uso banale, immediato dell’ideologia che è l’educazione vista secondo i sogni o le costruzioni immaginarie dei genitori.
Ma fino a che punto il rigore nell’educazione è un bene?
Il rigore fine a se stesso è una sciocchezza, non c’è nessun motivo per elevarlo a regola suprema dell’educazione. Spesso a scuola c’è l’idea che gli insegnanti più bravi siano quelli più severi, ma io non la penso così. Il rigore va sempre commisurato ai vincoli con cui ci dobbiamo confrontare. Quando camminiamo in alta montagna, il rigore di guardare bene dove mettiamo i piedi è la garanzia della nostra salvezza. In altre situazioni possiamo camminare in maniera più libera e rilassata. Il rigore quindi è una componente dell’educazione, ma quella principale è la cura per i figli, l’attenzione emotivo che abbiamo per loro.
La «mamma tigre» cinese elogia il valore del risultato da raggiungere a costo di ogni sacrificio. Che cosa ne pensa?
L'abitudine allo sforzo è un aspetto fondamentale di qualunque educazione. L’uomo se può evita gli sforzi, ma la vita ci pone di fronte alla necessità di compierli. Ma d’altra parte non sono d’accordo sul fatto che dobbiamo compiere ogni sforzo per raggiungere gli obiettivi che ci siamo prefissati. Intanto bisogna vedere chi stabilisce questi obiettivi, e inoltre se adulto li individua in rapporto ai suoi desideri o al bene del figlio. E’ un punto molto delicato. Per esempio, se noi poniamo ai figli degli obiettivi eccessivamente complessi, alzando sempre di più l’asticella, possiamo anche creare frustrazione, delusione, indurre una bassa stima di sé. Va quindi tenuto conto della giusta dimensione del bambino dentro la realtà nella quale si pone.
E in che modo un adulto può riuscire a privilegiare il bene del figlio rispetto a un’idea che si è fatto lui?
Quando un giornalista chiese alla psicopedagogista francese Francoise Doltò perché suo figlio, invece di seguire la strada della madre, facesse il cantante di cabaret, lei rispose: «I nostri figli non ci appartengono». Mi sembra una frase bellissima, perché l’attività del genitore è gratuita per eccellenza. Noi facciamo tutto per i figli, ma i figli hanno diritto alla loro libertà, a staccare il cordone ombelicale da noi. Proprio per questo, il momento educativo più alto è quello della totale gratuità, dove la relazione con l’adulto è veramente generatrice del bene. Il vero educatore è quello che lavora per il bene dell’altro, senza avere necessariamente alcun ritorno. Il figlio può anche ritorcersi contro il padre, o fare cose diverse da quelle che desidererebbero il genitore, eppure è sempre suo figlio.
Per Chua occorre sacrificare il tempo libero dei bambini. Condivide?
No, il tempo libero ha un ruolo insostituibile, perché consente di attivare delle modalità educative che sono diverse dal tempo dello studio. L’inventore del tempo libero educativo è stato San Filippo Neri, che è stato poi imitato da una lunga storia di santi a partire da don Bosco. Il tempo libero trascorso con i figli del resto è fondamentale, perché consente di esercitare delle attività utili alla crescita, ma più piacevoli, in uno spirito più disteso. Stabilendo una «complicità» che diversamente non sarebbe possibile. Quello che conta non è però la durata, ma l’intensità del tempo libero: è diverso per esempio se lo si trascorre davanti a tv e computer, o se lo si dedica a stabilire delle relazioni significative, più profonde e intense.
C’è il rischio di rinunciare a educare per paura di compromettere la libertà altrui?
Sì, ma la libertà è un processo che si costruisce, si diventa liberi, non si nasce liberi. Tanto è vero che il bambino piccolo, se non c’è qualcuno che se ne occupa, non riesce nemmeno a sopravvivere. La libertà è la capacità di scegliere, quindi i genitori con i giudizi che esprimono, l’esempio che danno, anche nel silenzio riescono a orientare i figli. Quindi ci deve essere il dovere di costruire la libertà, non la paura di negarla con il proprio intervento nei confronti del figlio.
Il saggio della «mamma tigre» nasce anche dalla situazione degli immigrati di seconda generazione. Quali sono i rischi che l’accompagnano?
Queste famiglie si trovano in difficoltà notevoli, hanno degli stili di vita diversi da quelli della società in cui vivono i figli. E’ possibile creare un doppio canale, ma è un problema di mediazione non facile, certe consuetudini o problemi di abbigliamento sono di non facile composizione. Il fatto di riuscirci o meno dipende anche dalla scuola, che può essere più o meno aperta alle famiglie immigrate e di conseguenza anche a quelle italiane.
(Pietro Vernizzi)
Luterani, i punti fermi di Ratzinger di Massimo Introvigne 17-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
Dal 18 al 25 gennaio avrà luogo la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Benedetto XVI ne ha parlato sia all’Angelus di domenica 16 gennaio – dopo avere ricordato che in tale data è caduta la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato –, sia in un incontro di sabato 15 gennaio con una delegazione ecumenica giunta dalla Finlandia per celebrare la festa di sant’Enrico di Uppsala, che nel XII secolo dall’Inghilterra e dalla Svezia portò il cristianesimo nelle terre finniche.
Sant’Enrico di Uppsala morì martire, ucciso nel 1156 da un contadino pagano cui la tradizione dà il nome di Lalli. La memoria di sant’Enrico non è, già di per sé, neutrale. A partire dal XIX secolo esiste in Finlandia una corrente che considera la predicazione del cristianesimo una violenza fatta alle tradizioni nordiche e pagane di quelle terre, e celebra l’assassino del santo, Lalli – una figura mitica forse neppure mai esistita – come un eroe nazionale.
Dietro queste polemiche si scorge l’ombra del relativismo antropologico, con i suoi pregiudizi ancora oggi vivaci secondo cui portare il Vangelo a popolazioni non cristiane sarebbe una forma di «etnocidio» e di violazione della loro identità. Celebrando sant’Enrico il Papa – e insieme i cristiani protestanti finlandesi – riaffermano che far conoscere la buona novella del Vangelo a chi la ignora non è mai un male, ma è un grande bene.
L’incontro con la delegazione finlandese richiama l’analoga visita al Papa, il 16 dicembre 2010, del presidente e del segretario della Federazione Luterana Mondiale e la visita di Benedetto XVI al tempio luterano di Roma il 14 marzo 2010. Si rimane colpiti di come nei discorsi dei tre incontri romani con i luterani, fino all’ultimo del 15 gennaio 2011, il Papa sia tornato sempre sullo stesso tema: la dottrina della giustificazione.
Benedetto XVI dà molta importanza a un testo che, quando era prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha contribuito a redigere: la Dichiarazione congiunta della Chiesa Cattolica e della Federazione Luterana Mondiale sulla dottrina della giustificazione, firmata ad Augusta il 31 ottobre 1999. In questa Dichiarazione si riconosce che non era senza fondamento la domanda posta da Martin Lutero (1483-1546) a un mondo orgoglioso, caratterizzato dal clima del Rinascimento in cui l’uomo si affermava, secondo un’espressione di Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494), «plasmatore e scultore di se stesso».
È Dio che salva l’uomo o l’uomo si forgia e si salva da solo? La ragione può salvare senza la fede? Nella Dichiarazione di Augusta – che ricorda certe formulazioni proposte nel dialogo fra i rappresentanti cattolici e il più diretto collaboratore di Lutero, Filippo Melantone (1497-1560), un dialogo che non si concluse soprattutto per l’intervento politico dei principi tedeschi, i quali ormai avevano deciso di rompere definitivamente con Roma – luterani e cattolici concordano sul fatto che «l’uomo dipende interamente per la sua salvezza dalla grazia salvifica di Dio» (Dichiarazione congiunta, n. 19).
Pertanto, «quando i cattolici affermano che l’uomo, predisponendosi alla giustificazione e alla sua accettazione, “coopera” con il suo assenso all’azione giustificante di Dio, essi considerano tale personale assenso non come un’azione derivante dalle forze proprie dell’uomo, ma come un effetto della grazia» (ibid., n. 20). Per quanto fondamentale sia l’armonia tra fede e ragione, se si deve rispondere alla domanda se sia la fede o la ragione a salvarci la risposta non è oggetto di dubbi: è la fede che salva.
Tuttavia, l’affermazione della fede come primaria rispetto alla ragione diventa nel pensiero maturo di Lutero, e in un certo mondo protestante, celebrazione di una fede separata dalla ragione, cioè fideismo. Anche se volessimo prescindere dalle frasi più dure e polemiche di Lutero, più frequenti negli ultimi anni della sua vita – come quelle in cui invitava a considerare la ragione «la più grande prostituta del diavolo» – non è periferica, ma centrale nel suo pensiero una svolta per cui, come il Papa ha detto nel suo discorso di Ratisbona nel 2006, «la metafisica appare come un presupposto derivante da altra fonte [rispetto a quella biblica, alla sola Scriptura], da cui occorre liberare la fede per farla tornare ad essere totalmente se stessa».
Nelle parole stesse di Lutero, «la ragione è direttamente opposta alla fede; perciò si deve abbandonarla; nei credenti essa dev’essere uccisa e sepolta»; «deve essere affogata nel battesimo». Nello sforzo esasperato luterano di purificazione, la fede divorzia dalla ragione e dalla filosofia greca, così che Benedetto XVI nel discorso di Ratisbona vede nella Riforma la prima ondata della «deellenizzazione», della rottura fra fede cristiana e ragione greca.
E questo divorzio è pericoloso, perché la fede separata dalla ragione conduce al fondamentalismo: in questo senso, come scrive uno dei maggiori sociologi protestanti contemporanei, Jean-Paul Willaime, «il protestantesimo è un fondamentalismo». Vi è dunque nella Dichiarazione congiunta sulla giustificazione quello che il Papa chiama «un passo avanti» nel consenso sul primato della fede. Ma rimane il dissenso con i luterani sulla svalutazione della ragione da parte di Lutero, e sul rischio che con l’acqua sporca del razionalismo il riformatore tedesco abbia buttato via anche il bambino del buon uso di ragione, con conseguenze molto gravi su tutta la cultura europea successiva.
La costante rivendicazione – non in un solo discorso – della Dichiarazione congiunta del 1999 che, per così dire, Benedetto XVI «indossa» e fa sua è molto significativa. Infatti questa dichiarazione è criticata sia «da destra» da chi la ritiene troppo conciliante con i luterani – proprio nel 2010 il superiore della Fraternità Sacerdotale San Pio X fondata da mons. Marcel Lefebvre (1905-1991), mons. Bernard Fellay, ha ripubblicato suoi scritti su questo testo in un libro al vetriolo, L’hérésie justifiée («L’eresia giustificata», Le Sel de la Terre, Avrillé 2010), chiamando in causa direttamente il Pontefice – sia «da sinistra», da chi come Hans Küng pensa e scrive che il Papa si sarebbe incontrato con un mondo luterano conservatore sulla base di un’interpretazione tradizionale e letteralista del peccato originale, che sarebbe «superata».
Certamente la Dichiarazione congiunta ha bisogno di essere ben compresa e interpretata. In questa prospettiva, ricevendo i luterani finlandesi il 15 gennaio, il Papa ha richiamato anche un altro documento più recente, che definisce un «risultato degno di attenzione». Si tratta del testo del 2010 La giustificazione nella vita della Chiesa prodotto dal Gruppo di dialogo cattolico-luterano nordico in Finlandia e in Svezia.
Più lungo della Dichiarazione di Augusta (134 pagine), questo documento approfondisce sia il consenso sia il dissenso, e mostra come le divergenze sul rapporto tra fede e ragione abbiano conseguenze anche per l’ecclesiologia e per il ruolo dei vescovi e del Papa. Alla delegazione finlandese Benedetto XVI ha detto che «nella teologia e nella fede tutto è collegato e quindi una più profonda comprensione comune della giustificazione ci aiuterà anche a comprendere meglio insieme la natura della Chiesa e […] il ministero episcopale».
Il vero ecumenismo – da non confondersi con il relativismo di ogni ordine e grado – non nasconde le divergenze, ma neppure ne fa occasione per interrompere il dialogo.
17/01/2011 – IRAQ - Aggredito un medico cristiano a Mosul di Layla Yousif Rahema (AsiaNews)
La vittima è uno dei cardiologi più famosi della regione. Un gruppo armato gli ha sparato a bruciapelo e l’uomo è gravemente ferito. Denuncia dell’occidente: non potete fare nulla per i cristiani perché non avete più radici cristiane e siete indifferenti alla religione.
Baghdad (AsiaNews) – Ancora un’aggressione mirata contro i cristiani d’Iraq. Il 15 gennaio pomeriggio, un gruppo di criminali non identificato è entrato nell’ospedale Al Rabi'e, una clinica privata, nel quartiere al Sukar a Mosul e hanno sparato a freddo contro un medico cristiano che lavorava lì. L’arma da fuoco aveva il silenziatore e il dottore fortunatamente è stato è stato solo gravemente ferito.
Nuyia Youssif Nuyia è un cardiologo specialista, il più conosciuto dalla regione; era il medico privato del defunto mons. Faraj Rahho e di tanti preti e religiosi e religiose. Era medico militare e professore alla Facoltà di medicina dell’università di Mosul. Nuyia è sposato, con 4 figli. Chi lo conosce racconta che Nyuia è un caldeo cattolico, molto attaccato alla sua fede e alla sua Chiesa.
I responsabili dell’accaduto per ora rimangono ignoti. Intanto, dalla comunità cristiana in Iraq arriva un’altra denuncia verso l’indifferenza occidentale alla causa, nonostante la strage di copti del 31 dicembre ad Alessandria d’Egitto o quello alla cattedrale di Baghdad: “L'occidente non può fare niente per i cristiani perché l'occidente nega le sue radici cristiane ed è indifferente a tutte le religioni. E un’altra cosa che l'occidente non capisce è che per questi Paesi musulmani ‘democrazia’ vuole dire ‘caos’”.
Intanto a Copenaghen, in Danimarca, nel fine settimana si sono riuniti a porte chiuse leader religiosi cristiani e musulmani d’Iraq, di cui i nomi sono top secret per motivi di sicurezza, per tentare di smorzare la violenza settaria che ha sconvolto la comunità cristiana. Ma più attesa ancora c’è per l’annuncio di un incontro simile a Najaf nel Sud dell’Iraq.
17/01/2011 – INDONESIA - Cristiani indonesiani contro Yudhoyono: non tutela la libertà religiosa di Mathias Hariyadi
Il presidente e l’esecutivo dimenticano i valori fondamentali dell’individuo per soddisfare “giochi politici” e mantenere il potere. I cristiani chiedono libertà di praticare la fede e di edificare chiese. Nel 2010 crescita esponenziale di violenze e attacchi contro i fedeli.
Jakarta (AsiaNews) – Il presidente Susilo Bambang Yudhoyono e l’intera classe dirigente indonesiana attraversano una crisi di “coscienza”, prestano attenzione “ai giochi politici” dimenticando i “valori fondamentali dell’individuo”, fra i quali “la libertà religiosa”. È quanto afferma ad AsiaNews Theophilus Bela, presidente di Jakarta Christian Communication Forum e segretario generale di Indonesian Committee on Religion and Peace. L’allarme lanciato dal leader cristiano trova conferma nell’aumento dei casi di violenze interconfessionali: “Nel 2009 – spiega – sono stati una decina i casi di attacchi contro fedeli o luoghi di culto, ma nel 2010 il numero è schizzato a 45 episodi”.
Il presidente Yudhoyono ha chiesto con urgenza un incontro a porte chiuse con i leader religiosi, per stemperare le polemiche attorno al suo operato e a quello dell’intero esecutivo. La scorsa settimana nove capi del movimento interconfessionale hanno puntato il dito contro le autorità, incolpandole di non aver mantenuto molte promesse, fra le quali una piena applicazione della “libertà di religione”.
In particolare, nel 2010 si è registrata una crescita esponenziale nei casi di attacchi contro i cristiani: le violenze hanno interessato chiese, ospedali o edifici cattolici nel West Java, Jakarta, Central Java e Solo; a questi si aggiungono dozzine di episodi di aggressioni e devastazioni compiute da fondamentalisti islamici contro chiese protestanti, nell’indifferenza del governo indonesiano.
Interpellato da AsiaNews, Theophilus Bela rivendica il diritto di evangelizzare e la libertà di pensiero per tutti gli indonesiani, compresi i cristiani. Egli aggiunge che i leader religiosi “non possono rimanere in silenzio” se vedono qualcosa di sbagliato all’interno della società. Vi è inoltre una colpevole “lentezza” da parte delle autorità nel reprimere i casi di violenze da parte dei gruppi estremisti islamici. E per i cristiani, conclude, restano due i punti cruciali da risolvere: la libertà di praticare la fede secondo i riti tradizionali e la possibilità di costruire chiese.
Fra i casi di violazione alla libertà religiosa, il leader del Comitato indonesiano su Religione e pace ricorda quanto è successo durante le recenti festività natalizie nella parrocchia di San Giovanni Battista a Parung, nel distretto di Bogor: estremisti locali hanno impedito a 3mila fedeli cattolici di celebrare la messa in una chiesa, confinandoli in un parcheggio pubblico.