sabato 22 gennaio 2011

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    DISCORSO DI BENEDETTO XVI AL PERSONALE DELLA QUESTURA DI ROMA
2)    Seguire la coscienza non è far ciò che si vuole di Massimo Introvigne 21-01-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it
3)    "Le istituzioni ritrovino radici spirituali e morali" - 21-01-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it/
4)    21/01/2011 - ISLAM – VATICANO - Al Azhar contro il Vaticano: le meschinità e la politica di Bernardo Cervellera
5)    21/01/2011 – PAKISTAN - Musulmano pakistano: Gli ulema mentono; nel Corano nulla giustifica la legge sulla blasfemia di Jibran Khan
6)    Radio Vaticana, notizia del 21/01/2011 - Stop della Cassazione alla nullità di un matrimonio sancita dalla Sacra Rota. Il commento del prof. Dalla Torre
7)    IL DIO DELLA FEDE E IL DIO DEI FILOSOFI - Il discorso di Benedetto XVI a Ratisbona in un convegno al Vicariato di Roma di Luca Marcolivio
8)    E Thomas Mann corteggiò il principe delle tenebre di Vito Punzi 22-01-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it
9)    Patì davvero sulla Croce, sotto Ponzio Pilato di Ruggero Sangalli 22-01-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it
10)                      Falkner, da anglicano a gesuita in Sudamerica di Liana Marabini 22-01-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it
11)                      Se Dio è onnipotente, l'uomo è libero di Giacomo Samek Lodovici 22-01-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it
12)                      22/01/2011 – VATICANO - Papa: sposarsi in chiesa è un diritto solo per chi crede nel matrimonio cristiano - L’importanza pastorale e canonica della preparazione alle nozze nelle parole rivolte da Benedetto XVI alla Rota Romana. Gli sposi debbono essere coscienti e volere un atto che, in definitiva, mira alla santità della vita. Ciò anche per evitare future nullità.
13)                      Bologna/Caffarra - Siete chiamati a servire la coscienza - DA BOLOGNA STEFANO ANDRINI, Avvenire, 22 gennaio 2011

DISCORSO DI BENEDETTO XVI AL PERSONALE DELLA QUESTURA DI ROMA

CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 21 gennaio 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato da Benedetto XVI nel ricevere in udienza i dirigenti, i funzionari, gli agenti e il personale civile della Polizia di Stato in servizio a Roma.

* * *
Illustre Signor Questore,
illustri Dirigenti e Funzionari,
cari Agenti e Personale civile della Polizia di Stato!
Sono veramente lieto di questo incontro con voi e vi do il benvenuto nella Casa di Pietro, questa volta non per servizio, ma per vederci, parlarci e salutarci in modo più familiare! Saluto in particolare il Signor Questore, ringraziandolo per le sue cortesi parole, come pure gli altri Dirigenti e il Cappellano. Un saluto cordiale ai vostri familiari, specialmente ai bambini!
Desidero anzitutto ringraziarvi per tutto il lavoro che svolgete a favore della città di Roma, di cui sono il Vescovo, perché la sua vita si svolga nell’ordine e nella sicurezza. Esprimo la mia riconoscenza anche per quell’impegno in più che spesso la mia attività richiede da voi! L’epoca in cui viviamo è percorsa da profondi cambiamenti. Anche Roma, che giustamente è chiamata "città eterna", è molto cambiata e si evolve; lo sperimentiamo ogni giorno e voi ne siete testimoni privilegiati. Questi mutamenti generano talvolta un senso di insicurezza, dovuto in primo luogo alla precarietà sociale ed economica, acuita però anche da un certo indebolimento della percezione dei principi etici su cui si fonda il diritto e degli atteggiamenti morali personali, che a quegli ordinamenti sempre danno forza.
Il nostro mondo, con tutte le sue nuove speranze e possibilità, è attraversato, al tempo stesso, dall’impressione che il consenso morale venga meno e che, di conseguenza, le strutture alla base della convivenza non riescano più a funzionare in modo pieno. Si affaccia pertanto in molti la tentazione di pensare che le forze mobilitate per la difesa della società civile siano alla fine destinate all’insuccesso. Di fronte a questa tentazione, noi, in modo particolare, che siamo cristiani, abbiamo la responsabilità di ritrovare una nuova risolutezza nel professare la fede e nel compiere il bene, per continuare con coraggio ad essere vicini agli uomini nelle loro gioie e sofferenze, nelle ore felici come in quelle buie dell’esistenza terrena.
Ai nostri giorni, grande importanza è data alla dimensione soggettiva dell’esistenza. Ciò, da una parte, è un bene, perché permette di porre l’uomo e la sua dignità al centro della considerazione sia nel pensiero che nell’azione storica. Non si deve mai dimenticare, però, che l’uomo trova la sua dignità profondissima nello sguardo amorevole di Dio, nel riferimento a Lui. L’attenzione alla dimensione soggettiva è anche un bene quando si mette in evidenza il valore della coscienza umana. Ma qui troviamo un grave rischio, perché nel pensiero moderno si è sviluppata una visione riduttiva della coscienza, secondo la quale non vi sono riferimenti oggettivi nel determinare ciò che vale e ciò che è vero, ma è il singolo individuo, con le sue intuizioni e le sue esperienze, ad essere il metro di misura; ognuno, quindi, possiede la propria verità, la propria morale. La conseguenza più evidente è che la religione e la morale tendono ad essere confinate nell’ambito del soggetto, del privato: la fede con i suoi valori e i suoi comportamenti, cioè, non avrebbe più diritto ad un posto nella vita pubblica e civile. Pertanto, se, da una parte, nella società si dà grande importanza al pluralismo e alla tolleranza, dall’altra, la religione tende ad essere progressivamente emarginata e considerata senza rilevanza e, in un certo senso, estranea al mondo civile, quasi si dovesse limitare la sua influenza sulla vita dell’uomo.
Al contrario, per noi cristiani, il vero significato della "coscienza" è la capacità dell’uomo di riconoscere la verità, e, prima ancora, la possibilità di sentirne il richiamo, di cercarla e di trovarla. Alla verità e al bene occorre che l’uomo sappia aprirsi, per poterli accogliere in modo libero e consapevole. La persona umana, del resto, è espressione di un disegno di amore e di verità: Dio l’ha "progettata", per così dire, con la sua interiorità, con la sua coscienza, affinché essa possa trarne gli orientamenti per custodire e coltivare se stessa e la società umana.
Le nuove sfide che si affacciano all’orizzonte esigono che Dio e uomo tornino ad incontrarsi, che la società e le Istituzioni pubbliche ritrovino la loro "anima", le loro radici spirituali e morali, per dare nuova consistenza ai valori etici e giuridici di riferimento e quindi all’azione pratica. La fede cristiana e la Chiesa non cessano mai di offrire il proprio contributo alla promozione del bene comune e di un progresso autenticamente umano. Lo stesso servizio religioso e di assistenza spirituale che, in forza delle vigenti disposizioni normative, Stato e Chiesa si impegnano a fornire anche al personale della Polizia di Stato, testimonia la perenne fecondità di questo incontro.
La singolare vocazione della città di Roma richiede oggi a voi, che siete pubblici ufficiali, di offrire un buon esempio di positiva e proficua interazione fra sana laicità e fede cristiana. L’efficacia del vostro servizio, infatti, è il frutto della combinazione tra la professionalità e la qualità umana, tra l’aggiornamento dei mezzi e dei sistemi di sicurezza e il bagaglio di doti umane quali la pazienza, la perseveranza nel bene, il sacrificio e la disponibilità all’ascolto. Tutto questo, ben armonizzato, va a favore dei cittadini, specialmente delle persone in difficoltà. Sappiate sempre considerare l’uomo come il fine, perché tutti possano vivere in maniera autenticamente umana. Come Vescovo di questa città, vorrei invitarvi a leggere e meditare la Parola di Dio, per trovare in essa la fonte e il criterio di ispirazione per la vostra azione.
Cari amici! quando siete in servizio per le strade di Roma, o nei vostri uffici, pensate che il vostro Vescovo, il Papa, prega per voi, che vi vuole bene! Vi ringrazio per la vostra visita, e vi affido tutti alla protezione di Maria Santissima e dell’Arcangelo San Michele, vostro protettore celeste, mentre imparto di cuore su di voi e sul vostro impegno una speciale Benedizione Apostolica.
[© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana]


Seguire la coscienza non è far ciò che si vuole di Massimo Introvigne 21-01-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it

Mentre qualche buontempone ha già scritto che il Papa, nel suo discorso al personale della Questura di Roma del 21 gennaio, ha voluto dire la sua sulle feste bunga bunga, chi presta vera attenzione al Magistero è chiamato a riflettere su un’altissima lezione di Benedetto XVI a proposito del fondamento etico della convivenza civile. Il Papa, indipendentemente dalla nazionalità delle persone che incontra nelle udienze, si rivolge del resto al mondo intero e i suoi discorsi sono quasi immediatamente tradotti e pubblicati in molteplici lingue. Solo l’inguaribile provincialismo italiano può pensare che il Papa prepari i suoi discorsi con un occhio a Lele Mora o a Ruby Rubacuori.

L’«indebolimento della percezione dei principi etici su cui si fonda il diritto e degli atteggiamenti morali personali, che a quegli ordinamenti sempre danno forza» è certo un problema che tocca anche l’Italia – se si vuole, anche i più recenti avvenimenti – ma che il Papa riferisce a un ambito ben più vasto e generale, «il nostro mondo».

L’intero mondo moderno, afferma il Papa, «è attraversato […]dall’impressione che il consenso morale venga meno e che, di conseguenza, le strutture alla base della convivenza non riescano più a funzionare in modo pieno. Si affaccia pertanto in molti la tentazione di pensare che le forze mobilitate per la difesa della società civile siano alla fine destinate all’insuccesso».

Alla radice di questa crisi c’è il soggettivismo morale, il primato assoluto della «dimensione soggettiva dell’esistenza». La cosiddetta scoperta moderna del soggetto non è di per sé negativa, anzi «da una parte, è un bene». Diventa un male quando il ripiegamento sul soggetto esclude l’apertura a Dio, che è invece il fondamento del valore della persona.

In secondo luogo, la modernità ha messo «in evidenza il valore della coscienza umana. Ma qui troviamo un grave rischio, perché nel pensiero moderno si è sviluppata una visione riduttiva della coscienza, secondo la quale non vi sono riferimenti oggettivi nel determinare ciò che vale e ciò che è vero, ma è il singolo individuo, con le sue intuizioni e le sue esperienze, ad essere il metro di misura; ognuno, quindi, possiede la propria verità, la propria morale». Il Papa ha trattato più volte questo tema a proposito degli equivoci diffusi rispetto al tema della coscienza nel pensiero del beato John Henry Newman (1801-1890).

La modernità intende il richiamo alla coscienza come il diritto per ciascuno di fare quello che gli pare, senza «riferimenti oggettivi». La stessa confusione riguarda la libertà, confusa con il libero arbitrio. Mentre il libero arbitrio è la possibilità di scegliere fra il bene e il male, la libertà è la capacità di aderire al bene: altrimenti Dio, che non può fare il male, paradossalmente non sarebbe libero. Così la coscienza retta è la docilità all’ascolto della verità e la capacità di fare propria la norma oggettiva, agli antipodi della moderna dittatura del relativismo. «Il vero significato della “coscienza” – insegna il Papa – è la capacità dell’uomo di riconoscere la verità, e, prima ancora, la possibilità di sentirne il richiamo, di cercarla e di trovarla».

Se si sbaglia nozione della coscienza, continua il Papa, «la conseguenza più evidente è che la religione e la morale tendono ad essere confinate nell’ambito del soggetto, del privato: la fede con i suoi valori e i suoi comportamenti, cioè, non avrebbe più diritto ad un posto nella vita pubblica e civile». Ne nasce il più tipico e grave paradosso della modernità: «da una parte, nella società si dà grande importanza al pluralismo e alla tolleranza, dall’altra, la religione tende ad essere progressivamente emarginata e considerata senza rilevanza e, in un certo senso, estranea al mondo civile, quasi si dovesse limitare la sua influenza sulla vita dell’uomo». Mentre si esalta la tolleranza, si manifesta ovunque una grave intolleranza contro i cristiani e contro il loro pieno diritto d’intervenire, appunto come cristiani, nella vita pubblica e politica.

Che fare allora? Si tratta di tornare alla vera nozione di coscienza, e all’apertura costitutiva della persona umana verso Dio, per ricostruire un mondo dove «Dio e l’uomo tornino a incontrarsi», dove ragione e fede collaborino in una «positiva e proficua interazione fra sana laicità e fede cristiana». Certo, anche l’immoralità individuale è il prodotto di una nozione immatura o deviata della coscienza e della libertà. Ma le conseguenze più gravi di questo errore moderno, insegna il Papa, si manifestano quando la presenza cristiana è «progressivamente emarginata» dalla vita del «mondo civile». Questo è il dramma della dittatura del relativismo, e di questo i cattolici preoccupati della cosa pubblica dovrebbero anzitutto preoccuparsi.


"Le istituzioni ritrovino radici spirituali e morali" - 21-01-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it/

«Nel pensiero moderno si è sviluppata una visione riduttiva della coscienza» e così a determinare ciò che è vero e buono è «il singolo individuo» senza «riferimenti oggettivi». Lo ha detto il Papa durante l’udienza concessa ai dirigenti e al personale della Questura di Roma. Benedetto XVI ha auspicato che «la società e le istituzioni pubbliche ritrovino la loro “anima”, le loro radici spirituali e morali, per dare nuova consistenza ai valori etici e giuridici di riferimento e quindi all’azione pratica».

«Il nostro mondo - ha detto Ratzinger - con tutte le sue nuove speranze e possibilità, è attraversato, al tempo stesso, dall’impressione che il consenso morale venga meno e che, di conseguenza, le strutture alla base della convivenza non riescano più a funzionare in modo pieno». «Ai nostri giorni, - ha detto il Pontefice parlando del rapporto tra società, istituzioni ed etica - grande importanza è data alla dimensione soggettiva dell’esistenza. Ciò, da una parte, è un bene, perché‚ permette di porre l'uomo e la sua dignità al centro della considerazione sia nel pensiero che nell'azione storica. Non si deve mai dimenticare, però, che l’uomo trova la sua dignità profondissima nello sguardo amorevole di Dio, nel riferimento a Lui. L’attenzione alla dimensione soggettiva è anche un bene quando si mette in evidenza il valore della coscienza umana».

«Ma qui - ha aggiunto Ratzinger - troviamo un grave rischio, perché nel pensiero moderno si è sviluppata una visione riduttiva della coscienza, secondo la quale non vi sono riferimenti oggettivi nel determinare ciò che vale e ciò che è vero, ma è il singolo individuo, con le sue intuizioni e le sue esperienze, ad essere il metro di misura; ognuno, quindi, possiede la propria verità, la propria morale».

«La conseguenza più evidente – ha spiegato ancora Benedetto XVI - è che la religione e la morale tendono ad essere confinate nell’ambito del soggetto, del privato: la fede con i suoi valori e i suoi comportamenti, cioè, non ha più diritto ad un posto nella vita pubblica e civile. Pertanto, se, da una parte, nella società si dà grande importanza al pluralismo e alla tolleranza, dall’altra, la religione tende ad essere progressivamente emarginata e considerata senza rilevanza e, in un certo senso, estranea al mondo civile, quasi si dovesse limitare la sua influenza sulla vita dell’uomo».


21/01/2011 - ISLAM – VATICANO - Al Azhar contro il Vaticano: le meschinità e la politica di Bernardo Cervellera

Dietro la decisione di congelare il dialogo con la Santa Sede vi è il rifiuto che nella delegazione vaticana vi sia un esperto dell’islam di nazionalità giordana, membro del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso. Ma vi sono anche convenienze politiche. Al-Azahr ha condannato il suicidio del tunisino che ha scatenato la rivolta popolare e la caduta di Ben Alì.


Roma (AsiaNews) - La decisione di congelare il dialogo con il Vaticano da parte dell’università islamica di Al-Azhar, sembra a molti un fulmine a ciel sereno, che rischia di provocare uno scontro fra i cristiani e i musulmani nel mondo. Il dialogo – sempre amichevole – fra la Santa Sede e questo organismo di punta del mondo sunnita, durava infatti dagli anni ’90. Al suo andamento positivo ha senz’altro contribuito la personalità dell’imam del tempo, Muhammad Sayyed Tantawi, morto lo scorso 10 marzo 2010. Dal 19 marzo dello stesso anno, il successore è l’imam Mohamed Ahmed al-Tayyeb (v. foto). Proprio lui, lo scorso 1° gennaio, ha criticato Benedetto XVI per aver espresso solidarietà con i cristiani copti, accusandolo di “intromettersi” negli affari interni dell’Egitto.

In realtà le tensioni con Al-Azhar datano da prima di gennaio. In prossimità di un incontro che avrebbe dovuto tenersi in queste settimane, l’università islamica aveva chiesto che dalla delegazione vaticana venisse espulsa una persona: p. Khaled Akasheh, giordano, esperto di islam, membro del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, che ha curato finora i rapporti con l’università islamica.

Mons. Akasheh è fra le persone più qualificate nel dialogo con l’Islam. Egli ha partecipato al Forum cattolico-islamico del 2008, seguito alla famosa Lettera dei 138 saggi musulmani al papa, e impegnato nel dialogo con le organizzazioni culturali e islamiche di Teheran.

Il Vaticano ha fatto notare che negli accordi previ per il dialogo è scritto che ogni delegazione ha diritto a scegliere con libertà i suoi membri. Ma Al-Azhar ha insistito che se non veniva cancellato quel nome, avrebbe interrotto il dialogo.

Le frizioni – e le minacce di congelare il rapporto – hanno perciò radici più lontane. Il motivo per cui Al-Azhar non vuole il p. Akasheh non è chiaro. E’ probabile che essi non vogliano nessuno che capisca l’arabo, che sia arabo, che capisca l’islam (mons. Akasheh conosce in profondità il Corano), per essere liberi, per non sentirsi giudicati (o presi in castagna).

Le critiche al papa, i suoi interventi di solidarietà alla comunità copta giudicati come “interferenza negli affari interni” dell’Egitto, appaiono quindi solo strumentali, un modo di coprire con alte motivazioni, motivazioni più meschine.

C’è però un altro elemento da considerare: il legame fra Al-Azhar e il suo tradizionale sostegno al potere politico egiziano. Hosni Mubarak, è un leader islamico moderato, desideroso di far avanzare il Paese verso la laicità – una richiesta fatta anche dai cristiani copti, discriminati di continuo a livello legislativo e sociale. A questo scopo, Mubarak procede da tempo all’emarginazione dal quadro politico degli integralisti, soprattutto dei Fratelli musulmani. Nel tentativo di determinare a suo favore le prossime elezioni presidenziali, Mubarak cerca di non scontentare il mondo musulmano. Le critiche al Vaticano hanno questo scopo: prendersela con il papa cristiano e occidentale, accarezzando le frustrazioni dei musulmani verso l’occidente (cosiddetto) cristiano. Al-Azhar si è accodata a questa strumentalizzazione.

Quanto peserà questa presa di posizione? E’ possibile che il resto del mondo musulmano segua la linea della “Splendente” università sunnita? A nostro parere non è probabile. Al Azhar, finanziata quasi in toto dall’Arabia saudita, è rappresentante di un islam molto tradizionale ed è visto da molte istituzioni islamiche come “troppo polverosa” e inattuale. Mentre in Tunisia e nel mondo arabo si lotta e si soffre per il futuro delle società medio-orientali, confrontandosi con i problemi legati ai diritti umani, alla democrazia, al dispotismo, all’economia e alla povertà, Al-Azhar ha preferito dire la sua solo precisando che l’islam è contrario al suicidio, condannando in qualche modo tutti quegli sventurati che si sono dati fuoco per la disperazione causata dalla povertà e dall’ingiustizia. Eppure, proprio il sacrificio di queste persone ha alimentato la rivolta che ha portato alla caduta di Ben Alì e sta scuotendo il Medio oriente.


21/01/2011 – PAKISTAN - Musulmano pakistano: Gli ulema mentono; nel Corano nulla giustifica la legge sulla blasfemia di Jibran Khan

Javed Ahmad Ghamidi, grande studioso islamico, accusa i radicali: “Questi ulema stanno semplicemente mentendo alla gente”. Padre Joseph Habib sottolinea la stretta alleanza fra militari ed estremisti religiosi; finché c’è la legge sulla blasfemia “il Pakistan è intrappolato in un ciclo sempre più ampio di violenza”.


Lahore (AsiaNews) – Javed Ahmad Ghamidi, studioso islamico pakistano intervistato da AsiaNews afferma che i consigli islamici “stanno mentendo alla gente”. Sulla scia dell’uccisione di Salman Taseer, governatore del Punjab, avverte che la mancanza di un’iniziativa per modificare la controversa legge sulla blasfemia servirà solo a rafforzare gli estremisti religiosi e i loro seguaci violenti. 

“Le leggi sulla blasfemia - continua Ghamidi, popolare predicatore televisivo - non hanno nessuna giustificazione nell’islam. Questi ulema stanno semplicemente mentendo alla gente. Ma sono diventati più forti, perché hanno il potere della piazza con sé, e le forze liberali sono deboli e divise. Se continua così, questo potrà risultare nella distruzione del Pakistan”.

Ghamidi, 59 anni, è l’unico studioso musulmano a opporsi pubblicamente alla legge sulla blasfemia dopo l’uccisione di Taseer , difensore di Asia Bibi, il 4 gennaio. (04/01/2011 Assassinato il governatore del Punjab. Aveva chiesto la grazia per Asia Bibi). Parla ad AsiaNews, con grave rischio personale, dalla Malaysia, dove si è trasferito l’anno scorso, dopo che la polizia ha sventato un attentato con esplosivo alla sua casa di Lahore. “E’ diventato impossibile vivere là”  confessa.

Un suo alleato, Farooq Khan, è stato ucciso dai talebani nella città di Mardan, nel nord-ovest del Paese. Le difficoltà di questo studioso mettono in evidenza come lo spazio per il dibattito in Pakistan si stia restringendo. Le voci liberali sono state marginalizzate, e molti temono di esprimersi. Sherry Rehman, la parlamentare che ha proposto modifiche alla legge sulla blasfemia è stata accusata essa stessa di blasfemia, e dopo la morte di Taseer vive chiusa in casa, a Karachi, dopo aver ricevuto minacce di morte, pronunciate anche in pubblico da religiosi.

“Ghamidi è la voce della ragione in una confusione di rumori irrazionali”, ha detto Ayaz Amir, politico di opposizione e editorialista, ricordando che lo studioso afferma che “niente nell’islam giustifica questa legge”. Ghamidi appare spesso nei programmi televisivi, anche se vive fuori del Pakistan, e spesso sconfigge nei dibattiti i religiosi estremisti grazie alla sua conoscenza del Corano. Ma non vuole essere definito “liberale”. “Non sono né laico, né islamico, sono un musulmano e un democratico”, afferma.

Per padre Joseph Habib “il problema centrale è l’alleanza fra i militari e gli estremisti islamici, utilizzati per combattere in Kashmir e in Afghanistan. Sono alleati stretti. La legge sulla blasfemia ha evidenziato delle crepe dolorose nella società pakistana. Finché questa legge sarà in vigore, il Pakistan rimarrà intrappolato in un ciclo sempre più ampio di violenza, dolore e frantumazione sociale”. 


Radio Vaticana, notizia del 21/01/2011 - Stop della Cassazione alla nullità di un matrimonio sancita dalla Sacra Rota. Il commento del prof. Dalla Torre

Fa discutere in Italia una sentenza della Corte di Cassazione che ha accolto il ricorso di una signora invalidando la nullità del suo matrimonio, sancita dal Tribunale della Sacra Rota. A chiedere la nullità era stato il marito sostenendo che le nozze, celebrate nel 1972, erano viziate giacché la consorte gli aveva taciuto di non volere figli. La sentenza della Suprema corte italiana ha stabilito che non si possono annullare matrimoni di lunga durata, come in questo caso, adducendo riserve mentali o vizi del consenso. Una sentenza che avrà delle ricadute significative. E’ quanto sottolinea il giurista Giuseppe Dalla Torre, presidente del Tribunale Vaticano, intervistato da Alessandro Gisotti:

R. – Certamente è importante perché esiste una differenza sostanziale tra il matrimonio civile e il matrimonio canonico. In caso di invalidità, il primo può essere impugnato davanti al giudice civile solo in tempi strettissimi, mentre nel caso del matrimonio canonico l’impugnazione può sempre avvenire fino alla fine naturale del matrimonio, con la morte di uno dei coniugi. Quindi, è evidente che questa sentenza potenzialmente viene a incidere su un numero notevole di sentenze ecclesiastiche da delibare in Italia.

D. – Come si pone questa sentenza rispetto alle norme concordatarie a riguardo? Si è detto che questa sentenza in pratica contesta un automatismo che invece prima era presente …

R. - Non c’è dubbio che il modello civilistico di matrimonio si sia allontanato, nel corso dei tempi, dal modello canonistico e proprio la differente disciplina giuridica che da questo deriva giustifica un Concordato, cioè giustifica la norma che prevede che le sentenze ecclesiastiche a determinate condizioni possano essere rese esecutive in Italia. Se i modelli e le discipline fossero assolutamente uguali questa norma non sarebbe necessaria e in base al diritto internazionale privato le sentenze ecclesiastiche, così come le sentenze di qualsiasi Stato straniero, potrebbero trovare automatica esecuzione: ma non la hanno. Questo significa che il Concordato impone un favore per la delibazione delle sentenze ecclesiastiche, non un ostacolo.

D. – Certo è che il Papa negli ultimi anni ha richiamato a un maggior rigore nelle cause di nullità …

R. – Io credo che questo sia importante. Certo, le cause di nullità del matrimonio così come, d’altra parte, in sede civile le cause di divorzio, sono però l’indicatore di una crisi profonda dell’istituto nell’ambito della società attuale.

D. - Al di là del caso specifico, è diffusa la sensazione che spesso oggi si arrivi a contrarre il matrimonio senza sufficiente consapevolezza del vincolo sponsale, dell’importanza di questo passo. Dunque, ci vorrebbe anche un maggiore discernimento?

R. – Non c’è dubbio. La secolarizzazione ha portato ad un allontanamento forte dell’idea che la gente comune ha del matrimonio rispetto a quello che è il modello che la Chiesa propone: il modello del matrimonio come Sacramento, del matrimonio indissolubile, del matrimonio aperto alla procreazione della vita, del matrimonio fedele. Di qui naturalmente nasce l’importanza dei corsi prematrimoniali che vengono fatti apposta per indicare che cosa? Ciò che si vuole: chi chiede, si presume che chieda quello che la Chiesa ritiene come matrimonio. Qui mi pare che occorra lavorare molto. (bf)


IL DIO DELLA FEDE E IL DIO DEI FILOSOFI - Il discorso di Benedetto XVI a Ratisbona in un convegno al Vicariato di Roma di Luca Marcolivio

ROMA, venerdì, 21 gennaio 2011 (ZENIT.org).- Si è tenuto giovedì sera, al Vicariato di Roma, il primo dei tre incontri del ciclo I grandi discorsi di Benedetto XVI. L’inaugurazione ha avuto come oggetto La questione di Dio oggi: il Dio della fede e il dio dei filosofi, con riferimento al discorso del Santo Padre all’Università di Ratisbona del 12 settembre 2006.
Il convegno, aperto da monsignor Lorenzo Leuzzi, direttore della Pastorale Universitaria di Roma, e concluso dal cardinale vicario Agostino Vallini, ha avuto come moderatore Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte Costituzionale.
In qualità di relatori sono intervenuti monsignor Enrico Dal Covolo, rettore della Pontificia Università Lateranense, Francesco D’Agostino, professore ordinario di filosofia del diritto all’Università di Roma – Tor Vergata, e Giorgio Israel, docente di storia della matematica all’Università “La Sapienza” di Roma.
Il celebre discorso di Ratisbona, secondo monsignor Dal Covolo, è “ormai entrato nella storia della teologia”. Rimasta nota per una disquisizione sui rapporti tra Cristianesimo e Islam, in realtà, la prolusione del papa ebbe ad oggetto “la questione globale su Dio, e più in particolare il rapporto fra la ragione (violata, in ogni caso, dal ricorso alla violenza) e la religione, con speciale riferimento alla cultura contemporanea”, ha puntualizzato il presule.
Monsignor Dal Covolo ha poi focalizzato la propria attenzione sulla questione religiosa tra pagani e cristiani. In questo ambito la dialettica, è tra la vera religio - quella cristiana - e le religiones menzognere dei pagani. Queste ultime vengono smascherate da Tertulliano, primo teologo latino, secondo il quale l’inesistenza degli déi pagani rende inammissibile qualunque forma di religione a essi ispirata.
Se da un lato la fede cristiana è fondata sul logos, i culti pagani sono pura consuetudo, la cui consistenza viene messa in discussione dalla novità assoluta dell’Avvenimento cristiano.
“Di fatto per quanto la critica filosofica ne avesse ormai smantellato la credibilità, i pagani vi restavano abbarbicati per consuetudine, nel timore che l’abbandono della religione tradizionale dovesse coincidere con il caos delle istituzioni civili”, ha osservato monsignor Dal Covolo.
Dal canto loro i cristiani hanno cambiato l’essenza stessa della religio, in precedenza concepita come “una predisposizione soggettiva, uno scrupoloso rispetto verso le istituzioni, piuttosto che un insieme di credenze oggettive”.
Citando Introduzione al cristianesimo (1968) di Joseph Ratiznger, Dal Covolo ha ricordato che “il paradosso della filosofia antica consiste, dal punto di vista della storia delle religioni, nel fatto che essa, con il proprio pensiero ha distrutto il mito”.
Mentre “la religio tradizionale non batteva le vie del logos ma si ostinava su quelle del mito”, è ancora Tertulliano a ricordarci che “Cristo ha affermato di essere la Verità, non la consuetudine”.
Avendo il cristianesimo “coniugato la questione di Dio con la verità dell’essere”, ha aggiunto il presule, “per i cristiani non esiste alcuna possibilità di opposizione tra la ragione e la fede”.
La relazione di Francesco D’Agostino ha avuto invece ad oggetto l’ethos della scienza. A Ratisbona, Benedetto XVI aveva sottolineato che “l’ethos della scientificità” è “volontà di obbedienza alla verità”.
Per quale motivo, allora, il pensiero contemporaneo dominante insiste a negare la compatibilità tra ragione e fede (in particolare cristiana)? Per rispondere a tali interrogativi è bene, in primo luogo, fare luce sulle due diverse modalità di intendere l’ethos della scienza.
Il primo modo - quello secondo D’Agostino “più banale” quanto “più diffuso e condiviso” – ritiene che “il primo dovere etico degli scienziati sia quello di attenersi rigorosamente ai dati che provengono dall’esperienza”. Sebbene, per tanti motivi, la tentazione di alterare o manipolare la realtà da parte dello scienziato, sia sempre alta, tale assunto “non appare particolarmente controverso”.
Benedetto XVI, tuttavia, va oltre questo schema e mette in guardia dai pericoli del riduttivismo, ovvero l’inclinazione a “ridurre l’orizzonte della verità al solo ambito che ciascuno scienziato è in grado di controllare epistemologicamente”.
In quest’ottica, gli scienziati riduzionisti sostengono che “la verità in sé non esiste se non al di fuori delle pratiche conoscitive e manipolatorie che la scienza può elaborare e porre in essere”, quindi di fatto escludono qualunque ethos dall’ambito scientifico.
Il riduttivismo, quindi, compie un errore non tanto scientifico quanto gnoseologico, poiché ritiene che “non esiste altra verità se non quella che si può far coincidere con i risultati ai quali il calcolo scientifico può pervenire”, ha osservato D’Agostino.
“La ragione infatti – ha proseguito il filosofo e bioeticista - nella ricca complessità di tutte le dimensioni, ha un respiro ben più ampio e ben più profondo di quello che caratterizza la ragione che governa il lavoro nei laboratori degli scienziati”.
Lo scienziato deve dunque avere il “coraggio di aprirsi all’ampiezza della ragione” e rinunciare a qualunque “superbia epistemologica”, per far trionfare l’obbedienza alla verità che è in definitiva il vero fondamento dell’“ethos della scientificità”.
La terza relazione, illustrata da Giorgio Israel, ha messo in luce come l’armonia tra fede e ragione nasca dal superamento di una separazione assoluta tra Creatore e creato (che pure ha una sua radice monoteista) e quindi tra volontà divina e intelligenza umana.
Le polemiche sorte nel mondo musulmano, a seguito del discorso del Papa a Ratisbona, sono quindi figlie del “trascendentalismo assoluto” che connota l’islam, rispetto a cui, tuttavia, spicca l’eccezione rappresentata da Averroé, secondo il quale “nulla prova la saggezza divina meglio dell’ordine del cosmo”.
“È proprio nella condanna mai revocata di Averroé – ha osservato Israel – che risiede la rottura nella storia dell’islam con la fondazione della scienza moderna, la sua autoesclusione dagli sviluppi della modernità, cui pure l’islam aveva contribuito in modo tanto decisivo proprio con la trasmissione della cultura greca”.
In ambito giudaico-cristiano, al contrario, nonostante le difficoltà patite da Copernico, Galileo, Newton, Spinoza o Cartesio nel farsi comprendere dalle istituzioni religiose, non è mai stata messa in discussione “l’idea della coerenza tra fede e ragione”, né questi contrasti “hanno arrestato il cammino della scienza e della filosofia”.
Anche in epoca moderna vi è chi, come Edmund Husserl, ha indicato Dio come oggetto di filosofia razionale “in quanto fonte teleologica di qualsiasi ragione nel mondo, del ‘senso’ del mondo”. Altrettanto razionali sono, sempre secondo Husserl, dilemmi teoretici o morali come il “problema dell’immortalità” o il “problema della libertà”.
Anche Israel ha preso le distanze dal riduzionismo positivistico che, per usare parole del Papa a Ratisbona, è la fonte diretta della “limitazione autodecretata della ragione”.
Antidoto a tale concezione è una “razionalità ampia” che suggerisce la ricerca di “un’idea dell’oggettività più ampia di quella suggerita da quei canoni, entro i quali non c’è spazio per l’idea di Dio”, ha poi concluso Israel.
Il ciclo di incontri su I grandi discorsi di Benedetto XVI proseguirà giovedì prossimo, 27 gennaio, con l’analisi del Discorso al Collège des Bernandins di Parigi ed avrà ad oggetto La cultura europea: origine e prospettive. Interverranno: monsignor Sergio Lanza, Assistente Ecclesiastico Generale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore; Giuseppe Dalla Torre, Rettore dell’Università LUMSA; Alessandro Ferrara, professore ordinario di filosofia politica all’Università di Roma – Tor Vergata.


Noi abbiamo Santoro, gli USA hanno Santorum di Marco Respinti 22-01-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it

È davvero troppo presto per pronosticare chi sfiderà Barack Obama nelle elezioni presidenziali del 6 novembre 2012. Alcuni nomi però già si fanno, nomi resi eccellenti (quindi è facile) dai due anni “di fuoco” che hanno preparato il gran successo ottenuto dal Partito Repubblicano alla Camera federale nelle elezioni di medio termine del 2 novembre. Né quel risultato rotondamente democratico, che ha fortemente azzoppato il partito ora al governo, viene scalfito dalla strumentalizzazione di fatti successivi, tanto criminali quanto indipendenti dalla vita politica vera del Paese. Ma se dovesse entrare davvero nell’agone anche Rick Santorum (se ne parla con insistenza, ne ha parlato persino The Washington Post) allora se ne vedrebbero sul serio delle belle.

Santorum è infatti un cattolico ben noto per le prese di posizione a difesa dei “princìpi non negoziabili” (vita, famiglia, libertà di educazione) e per l’impegno politico ispirato alla dottrina sociale della Chiesa. Per il mondo pro-life è un vero e proprio eroe, il suo antiabortismo è scopertamente tetragono, a suo tempo fece di tutto per salvare la vita a Terri Schindler Schiavo e la sua contrarietà ai cosiddetti “matrimoni” omosessuali è da sempre intransigente. Che per le scuole auspichi il superamento della logora mentalità darwinista a favore del “progetto intelligente” non è un mistero per nessuno e che non sia un fautore della linea morbida riguardo alla lotta al terrorismo internazionale pure.

Da fiero avversario della cosiddetta “riforma” sanitaria di Obama (di cui contesta i reali benefici, la mentalità statalista e certe provvisioni che finiscono per favorire l’aborto e l'eutanasia) è del resto perfettamente conscio della necessità di garantire assistenza delle fasce sociali più deboli. Più “sussidarista” che “welfarista”, a molti la sua linea politica ricorda l’idea del vecchio “conservatorismo compassionevole” che in Texas il pensatore Marvin Olasky aveva elaborato per la presidenza di George W. Bush jr. e che riverbera a chiare lettere nel suo libro-manifesto, It Takes a Family: Conservatism and the Common Good (ISI Books, Wilmington [Delaware] 2005).

Nelle primarie del 2008 Santorum si schierò con il candidato presidenziale Repubblicano, mormone, Mitt Romney (un altro in quota per le presidenziali future), avversò John McCain per il suo cerchiobottismo e molto apprezzò la candidata alla vicepresidenza federale di quest’ultimo, Sarah Palin. Oggi collabora con il canale televisivo conservatore FoxNews, ogni venerdì commenta la politica via radio ospite di William J. Bennett (ex ministro dell'Educazione di Ronald W. Reagan e boss dell'anti-droga ai tempi di George W.H. Bush padre) nel programma Morning in America (trasmesso da diverse emittenti di tutto il Paese), scrive regolarmente per il quotidiano The Philaldelphia Inquirer e ha stabilito un rapporto organico con il think tank di Washington Ethics and Public Policy Center, quello che s’impernia sull’elaborazione culturale di George Weigel, biografo di due Papi.

Insomma, Santorum ha capito bene che in politica l'immagine conta così come però conta pure la sostanza, la gente non è mica sciocca. Santorum ha cioè compreso (sembra banale, ma molti, troppi, non lo hanno ancora fatto) che l'elettorato occorre sempre incontrarlo, talora persino corteggiarlo, per certo costantemente calarsi nelle questioni che più gli stanno a cuore o lo preoccupano, la differenza tra un politico buono e uno cattivo restando l'alternativa fra demagogia e sollecitudine per il bene comune. Ha capito, Santorum negli USA, quel che da noi ha capito bene per esempio un Santoro, supremo tribuno della plebe dell'era berlusconianamente dominata dalla politica dell'immagine.

Da poco è uscito anche in Italia uno spaccato importante di quel che Santorum si porta dietro sempre, persino in politica. È il libro di sua moglie Karen, Lettere nell’attesa. Storia del mio bambino Gabriel (Marietti, Genova-Milano 2010), benedetto da una prefazione-preghiera di Madre Teresa di Calcutta che ai Santorum fu teneramente legata. È la storia lacerante dell’ottavo nato in famiglia, un piccolino che, venuto al mondo prematuro, è vissuto fuori dal grembo materno per sole due ore, giusto il tempo d’ispirare ai genitori ideali di lotta e di governo a difesa della sacralità della vita umana.

Rick Santorum ripete che non ha ancora deciso se candidarsi alla Casa Bianca, dice che ci sta pensando, ribadisce che deciderà definitivamente nelle prossime settimane. Ma intanto sono mesi che percorre il Paese in lungo e in largo per sondare il terreno, incontrare pezzi da novanta e attivisti, calcolare il budget. L'America's Foundation Political Action Committee, il suo braccio operativo scruta le maree, cerca alleati e per il momento agisce per interposta persona, ovvero aiuta e appoggia uomini e donne impegnati sulla scena politica in questa o in quella azione legislativa o campagna elettorale. E così il pressing di molti ambienti si sta facendo forte.

È un ex, Santorum, un ex senatore, ma la gente lo ama. La sua sarebbe insomma una rentrée in grande stile. Nelle elezioni di medio termine del 2006, un anno terribile per i Repubblicani, perse il seggio al Senato federale che deteneva in Pennsylvania. Sembra però che oggi nessuno ricordi più quel passo falso. E lui sembra crederci. Ipotizziamo l’impossibile. Immaginiamoci se un giorno al vertice del Paese più potente del mondo dovesse esserci un tipo così…


E Thomas Mann corteggiò il principe delle tenebre di Vito Punzi 22-01-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it

Dello scrittore tedesco Thomas Mann (1875-1955, premio Nobel per la letteratura nel 1929) si è soliti ricordare anzitutto il suo primo romanzo, I Buddenbrook, per la qualità dell’affresco attraverso il quale riuscì, ad appena ventisei anni, a descrivere l’ascesa e la decadenza di una ricca famiglia di commercianti, ma anche per il grande successo e la notorietà che ne ottenne.

Il nome di Mann è tornato ora a far discutere per una nuova traduzione di un suo successivo romanzo, Der Zauberberg, pubblicato nel 1924 e uscito una prima volta in Italia nel 1932 (traduzione di Bice Giachetti-Sorteni) e successivamente nel 1965 (traduzione di Ervinio Pocar), in entrambe i casi con il titolo La montagna incantata. Ora, con l’occasione della nuova traduzione, si è deciso di cambiare il titolo, che è diventato La montagna magica (a cura e con introduzione di Luca Crescenzi e un saggio di Michael Neumann, traduzione di Renata Colorni, Mondadori, Milano 2010). Una scelta coraggiosa che tuttavia non può non suscitare qualche perplessità.

Del fatto che questa nuova edizione sia una grande impresa editoriale nessuno può dubitare. E del resto, senza nulla togliere alla versione storica di Pocar, dopo l’edizione critica, cosiddetta “francofortese”, voluta dall’editore tedesco Fischer nel 2002, essa in qualche modo s’imponeva. La montagna da incantata è diventata magica, come sostiene la Colorni nella sua nota, anche per allineare la traduzione a quella di altre parole composte (“flauto magico” per Zauberflöte, “lanterna magica” per Zauberlanterne e così via). Pur riconoscendo l’importanza di attribuire, così facendo, un valore “attivo” alla montagna, qualche dubbio sulla scelta fatta s’impone, e proprio in virtù dell’ambiguità del termine zauber.

Tra coloro che ne hanno scritto nei giorni passati, il solo Andrea Casalegno ha ricordato che la montagna manniana «più che incantata è "incantatrice”», dunque «a voler essere precisi, dovremmo definirla "stregata"». La stessa Colorni lo ammette, perché, riconosce, essa può suscitare incanto, «ma anche sortilegio e maleficio» e del resto «nel corso della narrazione assistiamo ad una vera e propria iniziazione», quella che Mann fa sperimentare a Hans Castorp, il personaggio principale del romanzo, con l’accrescimento e il potenziamento alchemico prodotto da «ermetica magia» (così la definisce lo stesso autore). Alla fine anche Casalegno ha reso plauso alla scelta della Colorni, perché «la magia può essere bianca o nera, buona o cattiva», dunque «magica è aggettivo aperto alla libera interpretazione del lettore». Ed è proprio questo che non convince: l’interpretazione neutra, attraverso la stessa scelta del titolo, di una storia che dalla prima all’ultima pagina narra di una progressiva “salita” agli inferi e la cui conclusione è segnata da quell’«orribile danza» e da quella «voluttà smaniosa e maligna» che è la Prima guerra mondiale, sui cui campi intrisi di sangue si compirà il sacrificio di Castorp.

Proviamo a presentare il romanzo per quello che è: La montagna magica racconta la caduta del suo eroe in una sfera satanica, al cui influsso egli infine s’abbandona. Lo stesso Mann, del resto, nell'agosto 1914, quando era appena al primo capitolo, scriveva all’editore Samuel Fischer a proposito del «contrasto tra le tendenze civili e demoniache presenti nell'uomo», indicandolo come il problema da cui si sentiva dominato interamente e da tempo. Il mondo in cui viene introdotto Hans Castorp è il mondo del diavolo, e questo il narratore lo lascia intendere, seppur discretamente, fin dall'inizio. Basta seguire il «giovane uomo come tanti» mentre fa una capatina in montagna. Lì il primo ad accoglierlo nel nuovo regno è un uomo in livrea: il portiere del Sanatorio Internazionale "Berghof". Questi possiede una piccola qualità, ma decisiva: «zoppica vistosamente». Il lettore che non sapesse che lo zoppicare è un tradizionale attributo del diavolo viene edotto da Settembrini, che definisce il portiere «diavolo zoppicante».

La prima persona che Hans incontra è dunque una figura diabolica. Tutt’altro che secondarie sono poi le invocazioni e i modi dire riferiti al diavolo, poiché ciò che appare come semplice interloquire mira in realtà a ciò che vi è di più intimo nel romanzo. Tutte le figure risultano poste sotto una doppia luce: Settembrini viene chiamato «Satana», poiché tiene di fronte a Castorp un discorso sul suo maestro Giosue Carducci e sul suo Inno a Satana, e del suo avversario, Naphta, lo stesso Settembrini dice essere «assistito alle spalle» dal diavolo.

Al centro del romanzo, nel capitolo Neve, quando interiormente le «terre basse» gli sono già diventate estranee, Castorp intraprende un'escursione solitaria, incappando così in una tempesta di neve. Prossimo alla morte per congelamento, ha una visione, grazie alla quale vede anzitutto una scena idilliaca di vita di spiaggia. La scena poi cambia e con il cuore pesante e con un oscuro presagio entra in un tempio e vede una scena orribile: «Due donne grigie, seminude con i capelli scarmigliati, i seni pendenti da streghe […] dilaniavano un bimbo piccolo sopra un bacile […] in un silenzio selvaggio». Hans vorrebbe fuggire, ma non può, finché non si risveglia dal sogno e giunge alla conclusione di non voler concedere alla morte alcun potere sui suoi pensieri. L'intento però scompare subito dopo il ritorno di Castorp nel sanatorio.

Secondo la critica, il sogno terrificante attingerebbe a Le Baccanti di Euripide e a La nascita della tragedia di Friedrich Nietzsche. Nel sogno il dionisiaco sarebbe contrapposto all'apollineo. Ma davvero si spiega così il lugubre rituale? La scena sembrerebbe isolata e davvero mal legata con il resto del romanzo; in realtà proprio il fatto che Castorp sia stato testimone di una messa nera rende la scena intimamente inserita nella storia. Ma per Crescenzi, ossessivamente teso a dimostrare le ascendenze freudiane de La montagna magica, il sogno del banchetto di sangue è «in verità, un sogno erotico».

Dopo la notte d'amore trascorsa con Claudia Chauchat, l’essere androgino, Castorp non potrà più lasciare la zona demoniaca. Il demoniaco d'ora in poi non si nasconde più nei modi di dire, piuttosto viene portato apertamente alla superficie della storia e Castorp inizia a partecipare a sedute spiritistiche. Subito dopo l’ultima, nella quale appare il nipote Joachim, nel frattempo morto, seduto su di una sedia con le gambe accavallate, il "demonio" inizia a essere chiamato per nome e non resterà ancora a lungo nascosto il fatto che sia lui il signore dei personaggi sopra citati. «Did you ever see the devil with a night-cap on?» è il nome dello sciocco gioco di società con cui s’intrattengono gli ospiti inglesi del luogo di cura. Ben più che un gioco, esso è il signum del potere sotto il cui influsso il “Berghof” è definitivamente caduto.

Il grande ebetismo regna, si sviluppa, diventando infine grande irritabilità, finché Naphta si suicida sparandosi un colpo in testa. Castorp sembrerebbe essere liberato da quel potere malvagio in virtù del tuono della catastrofe storica che si va imponendo (il risveglio da quel lungo sogno che è stato il romanzo fino a questo momento, secondo Crescenzi). È scoppiata la guerra mondiale e Castorp è stato arruolato e arranca sui campi insanguinati delle Fiandre. Mann può finalmente chiudere la parentesi aperta con il portiere del “Berghof”: mentre una granata scoppia davanti al suo eroe, «come il diavolo stesso nella profondità del terreno», ora anche Castorp «avanza zoppicando». «Il diavolo stesso, personificato», ha scritto il critico Michael Maar, citato da Crescenzi per altri contributi, ma non per questo, «spara nell'inferno che si spalanca alla fine del gigantesco romanzo». Dunque, montagna magica o stregata?


Patì davvero sulla Croce, sotto Ponzio Pilato di Ruggero Sangalli 22-01-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it

Il messaggio del Santo Padre per la giornata del malato, memoria della Beata Vergine di Lourdes, esordisce con un significativo: «Dalle sue piaghe siamo stati guariti», che rinvia a un passo di San Pietro (1Pt 2,24), ma anche d'Isaia (Is 53,5), dettagliata profezia che con il Salmo 22 fu scritta molti secoli prima della crocifissione di Gesù.

Il nostro rincorrere l’attendibilità storica dei Vangeli impone qualche approfondimento, domandando fin d’ora perdono di qualche inevitabile crudezza descrittiva, necessaria a rimarcare l’assoluta sensatezza e scientificità del dato evangelico, fotografato dalla Sindone, come afferma Benedetto XVI. Quel 14 nisan, parasceve, Gesù assomma le piaghe che sono «la sorgente da cui sgorga la vita eterna [...]. Il Sacro Cuore è Cristo crocifisso, con il costato aperto dalla lancia dal quale scaturiscono sangue ed acqua (Gv 19,34)». Con le ferite fisiche di Gesù contempliamo quelle morali di Maria, profetizzate da Simeone 33 anni prima nel giorno della presentazione di Gesù al tempio (Lc 2,35).

Ecco dunque tutti i traumi: le corde che lo legarono (Gv 18,12); le percosse (Gv 18,22); i colpi di flagello (Gv 19,1); le spine messe sul copricapo da re (Gv 19,2), i fori dei chiodi; la lancia che trapassa il costato (Gv 19,34), visto da chi era là (Gv 19,35). Si aggiungono altri colpi presi durante il processo e la detenzione (Mc 14,65; Lc 22,63; Mt 26,67; Mt 27,30); le ferite della croce; le abrasioni da caduta di cui sappiamo dalla tradizione e dalla Sindone.

Tanto sangue induce a ricordare che la scoperta dei gruppi sanguigni risale al 1901 a opera dell’immunologo austriaco Karl Landsteiner che osservò l'agglutinazione durante trasfusioni di sangue, scoprendola il risultato di una reazione tra proteine (antigeni) sulla superficie dei globuli rossi di una persona e gli anticorpi specifici (agglutinine) nel plasma dell'altro individuo. Landsteiner dimostrò l'esistenza di due antigeni, A e B, che determinano il gruppo sanguigno di un essere umano. La distribuzione di questi gruppi varia per area geografica: in Italia il gruppo sanguigno AB è il più raro: ce l’ha circa il 7% della popolazione. La media europea è più bassa (attorno al 5%). Si noti che le reliquie più importanti del sangue versato da Gesù (la Sindone di Torino, il Sudario di Oviedo e la tunica di Argenteuil) si sono rivelate macchiate di sangue umano sempre del gruppo AB.

Nell’ipotesi di un plurimo “falso medioevale”, cara a certi fans del radiocarbonio (che attribuisce a queste tre reliquie datazioni differenti di alcuni secoli tra loro), i presunti falsari, agendo ognuno all’insaputa dell’altro, avrebbero imbroccato una probabilità, ricavabile dal calcolo combinatorio, pari a 1 su 2700 di usare sempre sangue AB. In aggiunta, un’altra reliquia del sangue di Gesù (per la fede le specie eucaristiche sono vero corpo e sangue di Cristo), a Lanciano, è ancora di sangue AB: la probabilità di imbroccare un “falso coerente” scende a 1 su 38000. Per gli scettici è meglio credere ad una stessa sacca di sangue nel congelatore, usata ogni tre/quattro secoli per produrre una reliquia...

C’è chi pensa che il corpo di Gesù non sia stato lavato dopo la deposizione dalla croce. In realtà ciò che possiamo vedere nella Sindone è scientificamente spiegabile solo presumendo un lavaggio del corpo martoriato del crocifisso. Il sangue colato dalle ferite dovute ai traumi subiti nella notte, nel mattino e nella crocifissione a mezzogiorno del 14 nisan, sarebbe comunque coagulato, rendendo poco nitido e dettagliato l’insieme delle lacerazioni perfettamente visibili sul telo sindonico, rigorosamente coerenti con i maltrattamenti riportati nei quattro vangeli, malgrado le ore trascorse tra uno e l’altro.

In effetti il lavaggio fu frettoloso, a motivo dell’imminenza del sabato; lo testimonia il terriccio trovato presente sulla Sindone in corrispondenza delle ferite alle ginocchia.

Gesù fu sepolto entro le tre ore dalla sua morte: la rimozione dei coaguli ha determinato una fuoriuscita di liquido ematico dalle ferite, tali da riprodurre esattamente e senza aloni ogni singolo taglio e abrasione, differente per vascolarizzazione, dimensione e profondità. Gesù ancora vivo sulla croce era letteralmente una maschera di sangue, indistinta, in parte coagulata ed in parte ancora fluida, pur in un progressivo shock ipovolemico. L’uomo sindonico, che mostra i segni del rigor mortis, ha macchiato il lino sia del sangue uscito da un individuo ancora vivo, sia del liquido ematico tipico delle primissime ore dopo il decesso. Anche in questo particolare le visioni di Caterina Emmerick, che dice del lavaggio del corpo di Gesù  dopo la deposizione, sono sensate.

Nei primi secoli del cristianesimo non si hanno rappresentazioni pittoriche dirette di Gesù, ma piuttosto simboli  ed immagini allegoriche, come il pesce (ichthys, è acronimo in greco delle parole Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore). Col tempo compaiono immagini dipinte di Gesù, sia in una versione da giovinetto (quasi sempre nelle sembianze di un pastore, fino al III secolo), sia da adulto e in tal caso sempre barbuto: catacombe S. Callisto a Roma, II-III sec., di Commodilla nel IV sec. e in S. Pudenziana a Roma un mosaico del V sec.

La scarsità odierna di immagini è data anche dall’eresia iconoclasta che imperversò per più di 100 anni a partire dalla fine del VII secolo e che proibiva la raffigurazione di Cristo, in quanto Dio (proprio mentre si diffondeva l’islam). Si salvarono opere ben nascoste o protette, come i mosaici di S. Apollinare o di S. Vitale a Ravenna, o il Cristo su legno del monastero di S. Caterina del Sinai, del VI secolo.

Una stranissima costante di queste icone è il “ciuffetto” in cima alla fronte: un dettaglio non scontato, visibile anche sul volto oggi a Manoppello [nella foto], probabilmente l’immagine acheropita documentata a Roma nel VIII secolo, pervenutavi per ripararla dalle distruzioni in atto a Bisanzio. Il particolare ricorda molto la ferita a forma di epsilon rovesciata che è presente sulla Sindone, che sarebbe non un rivolo di sangue ma una ciocca di capelli insanguinata, che ci rimanda all’incoronazione di spine. Tutte le immagini di Gesù, delle catacombe e dei mosaici, su legno nel monastero di S. Caterina e via via tutte le successive, somigliano tra loro e ricalcano sia il volto di Manoppello che l’uomo della Sindone; questo accade in tutti i filoni raffigurativi in Europa, nord Africa, area greca e slava ortodossa: data una persona vera e delle sue reliquie, c’è un identikit che “detta legge” da sempre.

Contempliamo le piaghe del mistero della Croce, sorgente di sapienza e sfida alla scienza.


Falkner, da anglicano a gesuita in Sudamerica di Liana Marabini 22-01-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it

L’uomo steso sull’angusto letto nella cabina a prua, non ha nemmeno la forza di aprire gli occhi. È molto malato. Ascolta il cigolio delle assi di legno con le quali è costruita l’imbarcazione e il movimento delle onde lo infastidisce. Un sorriso gli affiora sulle labbra, al pensiero che lui viaggia su quella nave come medico di bordo. Un posto che il cappellano della nave, che è anche suo caro amico, Padre Raymond, gli aveva ottenuto. Un medico malato, che ironia!

La nave si chiama Assiento e trasporta schiavi dalla Guinea verso Buenos Aires. Siamo nel 1731. L’uomo steso in cabina è Thomas Falkner, nato nel 1707 a Manchester, dove ha anche studiato, diventando un ottimo farmacista e medico. È di salute cagionevole e un viaggio sul mare, andata e ritorno, fa parte del trattamento che si è prescritto da solo. L’area salmastra dovrebbe aiutarlo a rafforzare i polmoni.
Ma non sembra che il viaggio gli faccia l’effetto sperato. Arrivato a Buenos Aires è talmente malato, che il capitano dell’Assiento decide di lasciarlo a terra. Padre Raymond lo accompagna al Collegio Gesuita e lo lascia in buone mani: il suo amico, Padre Mahoney, è il rettore del Collegio.

Le giornate passate nel Collegio sono uno dei più bei periodi della vita di Thomas. Le preghiere, lo studio, la luce che filtra attraverso le lunghe finestre della biblioteca, le conversazioni stimolanti con questi preti fuori dal comune per cultura ed erudizione, lo affascinano e lo fanno aggrapparsi alla vita.
Guarisce e il primo pensiero che ha, lui, anglicano, è di diventare cattolico. I gesuiti lo accompagnano nel processo di conversione e nel 1732, il 15 maggio, lo integrano nella Compagnia di Gesù. Dopo qualche mese, viene ordinato prete cattolico nella diocesi della Provincia del Paraguay.

Viene inviato come missionario nella lontana Patagonia, sul Rio Segundo, un territorio abitato dagli indiani Mapuche. Diventa subito una star fra gli indiani, grazie alle sue conoscenze non solo di medicina, ma anche di meccanica. Siamo nel 1740 e Falkner rimane per più di trent’anni come missionario fra gli indiani della Patagonia.

Negli anni passati in quella parte del mondo, Falkner ha fatto una serie di scoperte che sarebbero rimaste nella storia delle scienze. La più importante fu la scoperta dello scheletro di un grande armadillo, sulle rive del fiume Carcarañá. Molti anni più tardi, il fossile sarebbe stato identificato come proveniente da un glyptodon. Questo notevole avvenimento è successo ventisette anni prima che il dominicano Manuel Torres scoprisse il fossile di un megatherium sulle rive del fiume Luján el 1787, descritto e studiato nel 1796 da Georges Cuvier. Il fossile scoperto di Falkner ha il primato delle scoperte di fossili in Argentina.

Le esperienze vissute in Patagonia sono descritte in un'opera pubblicata a Hereford nel 1774, intitolata A Description of Patagonia and the adjoining parts of South America, with a grammar and a short vocabulary, and some particulars relating to Falkland's Islands. È un libro compilato da William Combe, sulla base dei manoscritti originali di Falkner. E' stato pubblicato in diverse lingue (inglese, spagnolo, tedesco e francese).

Dobbiamo ricordare anche il notevole talento di cartografo di Falkner, che ha disegnato un'accuratissima carta del America del Sud, dal Brasile alla Terra del Fuoco, che è poi stata pubblicata nel 1761 a Quito. Ha disegnato anche una carta del Paraguay nel 1757 e una del Tucuman nel 1759.

I gesuiti vengono, purtroppo, espulsi nel 1768 dal America del Sud. È il caro prezzo che pagano per la loro naturale carità, che li aveva spinti a cercare la salvezza degli indigeni. E così, Falkner ritorna in Inghilterra, dove il suo ordine lo incarica a diventare cappellano privato di famiglie nobili. Muore nel 1784.

Dopo la morte, i gesuiti spagnoli, che lo avevano conosciuto in America del Sud, hanno fatto molti sforzi per entrare in possesso dei suoi manoscritti inediti. Si trattava di molto materiale, che descriveva ricerche e scoperte notevoli, soprattutto in campo medico. Le ricerche di Falkner sulle medicine americane, sono pubblicate nel libro American distempers as cured by American drugs. Ha fatto anche molte ricerche, e bellissimi disegni, sull’anatomia, che sono stati invece raccolti da Padre Caballero S.J. nel Volumina duo de anatomia corporis humani.

In Argentina esiste il Lago Falkner, che è stato chiamato così, in omaggio a questo meraviglioso sacerdote-scienziato.

Padre Thomas Falkner S.J. è un brillante esempio di sacerdote innamorato della scienza, che ha lasciato un segno nella Storia. Anche lui dimostra con il suo lavoro, che non c'è contrasto tra fede e scienza. Che si può essere uomini di chiesa e anche esploratori.
Scopritori di cose create da Dio.?


Se Dio è onnipotente, l'uomo è libero di Giacomo Samek Lodovici 22-01-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it

In un passaggio molto significativo dell’omelia pronunciata il giorno dell’Epifania, Benedetto XVI ha affrontato un tema metafisico che ha una straordinaria valenza esistenziale: quello del rapporto di compatibilità/incompatibilità tra l’esistenza di Dio e la libertà umana.

Riflettendo a partire dalla figura di Erode, il Papa ha allargato il discorso a molti esseri umani che la pensano più o meno come il crudele re di Gerusalemme. Infatti, a Erode Dio appare come un rivale «anzi, un rivale particolarmente pericoloso, che vorrebbe privare gli uomini del loro spazio vitale, della loro autonomia, del loro potere; un rivale che indica la strada da percorrere nella vita e impedisce, così, di fare tutto ciò che si vuole». Certo, come ha aggiunto il Papa, «Erode è un personaggio che non ci è simpatico e che istintivamente giudichiamo in modo negativo per la sua brutalità. Ma dovremmo chiederci: forse c’è qualcosa di Erode anche in noi? Forse anche noi, a volte, vediamo Dio come una sorta di rivale?».

Ora, ci sono (almeno) due piani di disamina di tale questione, quello etico-antropologico e quello metafisico.

Dal punto di vista etico-antropologico, come ha detto il Papa, Dio «è l’Unico capace di offrirci la possibilità di vivere in pienezza, di provare la vera gioia». Il discorso sarebbe lungo e presenterebbe molte sfaccettature, ma si può perlomeno rilevare, sebbene solo per cenni, che le regole morali in prima battuta limitano effettivamente l’uomo, ma a lungo andare lo mantengono libero, perché – come colsero già alcuni filosofi greci, come Socrate, Platone ed Aristotele – chi è s-regolato diventa, beninteso progressivamente e non da subito, dipendente dai suoi istinti, schiavo delle sue pulsioni, ecc.

Quanto al punto di vista metafisico, su cui ci soffermiamo un po’ di più, il rapporto tra l’esistenza di Dio e la libertà dell’uomo può essere concepito, fondamentalmente, in tre modi.

Una concezione è appunto quella di Erode, che si radicalizza nella modernità ad opera del cosiddetto umanesimo ateo, che cancella Dio per salvaguardare la libertà umana, cioè afferma l’inesistenza di Dio affinché l’uomo possa essere veramente libero. Questa prospettiva annovera tra i suoi esponenti più significativi filosofi come, per esempio, Ludwig Feuerbach e Friedrich Nietzsche, il quale afferma: «Se vi fossero degli dei, come potrei sopportare di non essere Dio?». Il ragionamento di questa linea di pensiero è articolato (grossomodo) nel seguente sillogismo:

1.    se Dio esiste, Dio è onnipotente;
2.    se Dio è onnipotente, tutto ciò che è diverso da Dio non può essere libero;
3.    dunque, affinché l’uomo sia libero, Dio non deve esistere.

Un’altra concezione è quella di certe versioni di panteismo che, per salvaguardare sia la libertà umana sia l’esistenza di Dio, affermano la coincidenza dell’uomo con Dio. Il sillogismo è simile a quello precedente, perché le due premesse sono identiche, ma diverge nella conclusione:

1.    se Dio esiste, Dio è onnipotente;
2.    se Dio è onnipotente, tutto ciò che è diverso da Dio non può essere libero;
3.    dunque, affinché l’uomo sia libero, egli deve coincidere con Dio.
Per queste versioni di panteismo, così, l’unica possibile conciliazione tra l’esistenza nonché l’onnipotenza divina e la libertà umana risiede nell’identità tra Dio e l’uomo: Dio si attua in ciascun uomo.

Una terza concezione è quella della religione cristiana e della filosofia della creazione, magistralmente espressa in un passo del Diario di Sören Kierkegaard, dove il filosofo danese contesta la premessa 2., comune ad entrambi i precedenti sillogismi, mostrandone l’errore.

Per Kierkegaard, infatti, «soltanto l’Onnipotente può rendere veramente liberi»: apparentemente – rileva Kierkegaard – questo sembra strano, perché l’onnipotenza di Dio dovrebbe comportare la dipendenza da Dio di tutto ciò che è altro da Dio. Ma soltanto l’Onnipotente è assolutamente perfetto e quindi non può guadagnare né acquisire nulla dal rapporto con ciò che è altro da sé; e proprio perché non può guadagnare nulla, può lasciargli la libertà. Di più, «soltanto l’Onnipotente può essere puro dono»: l’Onnipotente è colui che non ha bisogno di altro, quindi non istituisce nessun rapporto di dipendenza e dunque può lasciare libero l’uomo, senza farne un servo, senza realizzarsi nell’uomo, senza coincidere con lui, bensì creandolo distinto da sé ed amandolo, donandogli tutto quanto l’uomo ha di buono. È la soluzione della questione accennata anche da Benedetto XVI: «dobbiamo aprirci alla certezza che Dio è l’amore onnipotente che non toglie nulla».


22/01/2011 – VATICANO - Papa: sposarsi in chiesa è un diritto solo per chi crede nel matrimonio cristiano - L’importanza pastorale e canonica della preparazione alle nozze nelle parole rivolte da Benedetto XVI alla Rota Romana. Gli sposi debbono essere coscienti e volere un atto che, in definitiva, mira alla santità della vita. Ciò anche per evitare future nullità.

Città del Vaticano (AsiaNews) – Sposarsi in chiesa è un diritto solo se si crede nella “verità" del matrimonio, ossia di un atto per la realizzazione del “bene integrale, umano e cristiano, dei coniugi e dei loro futuri figli, volto in definitiva alla santità della loro vita”. Discende da qui l’importanza della preparazione al matrimonio cristiano, anche per evitarne la nullità, tema del discorso che Benedetto XVI ha rivolto oggi ai componenti del Tribunale della Rota Romana, ricevuti in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario.

“La dimensione canonica della preparazione al matrimonio - la prima costatazione del Papa - forse non è un elemento di immediata percezione” sia perché nella fase della preparazione essa occupa “un posto assai modesto, se non insignificante”, sia perché “è diffusa la mentalità secondo cui l'esame degli sposi, le pubblicazioni matrimoniali e gli altri mezzi opportuni per compiere le necessarie investigazioni prematrimoniali, tra i quali si collocano i corsi di preparazione al matrimonio, costituirebbero degli adempimenti di natura esclusivamente formale. Infatti, si ritiene spesso che, nell'ammettere le coppie al matrimonio, i pastori dovrebbero procedere con larghezza, essendo in gioco il diritto naturale delle persone a sposarsi”.

Il fatto, però, è che “non esiste un matrimonio della vita ed un altro del diritto: non vi è che un solo matrimonio, il quale è costitutivamente vincolo giuridico reale tra l'uomo e la donna, un vincolo su cui poggia l'autentica dinamica coniugale di vita e di amore. Il matrimonio celebrato dagli sposi, quello di cui si occupa la pastorale e quello messo a fuoco dalla dottrina canonica, sono una sola realtà naturale e salvifica, la cui ricchezza dà certamente luogo a una varietà di approcci, senza però che ne venga meno l'essenziale identità. L'aspetto giuridico è intrinsecamente legato all'essenza del matrimonio. Ciò si comprende alla luce di una nozione non positivistica del diritto, ma considerata nell'ottica della relazionalità secondo giustizia”.

Il “diritto” al matrimonio in chiesa, perciò “presuppone che si possa e si intenda celebrarlo davvero, dunque nella verità della sua essenza così come è insegnata dalla Chiesa. Nessuno può vantare il diritto a una cerimonia nuziale”, in quanto il diritto a sposarsi “si riferisce al diritto di celebrare un autentico matrimonio”. Il “diritto a sposarsi, quindi, verrebbe negato “laddove fosse evidente che non sussistono le premesse per il suo esercizio, se mancasse, cioè, palesemente la capacità richiesta per sposarsi, oppure la volontà si ponesse un obiettivo che è in contrasto con la realtà naturale del matrimonio”.

La preparazione al matrimonio è questione, quindi, che richiede “la massima cura pastorale” nella formazione degli sposi e nella “verifica delle loro convinzioni circa gli impegni irrinunciabili per la validità del sacramento del Matrimonio. Un serio discernimento a questo riguardo potrà evitare che impulsi emotivi o ragioni superficiali inducano i due giovani ad assumere responsabilità che non sapranno poi onorare”.

Con i vari mezzi a disposizione per una “accurata preparazione e verifica”, tra i quali “spicca l’esame prematrimoniale”,  “si può sviluppare un'efficace azione pastorale volta alla prevenzione delle nullità matrimoniali. Bisogna adoperarsi affinché si interrompa, nella misura del possibile, il circolo vizioso che spesso si verifica tra un'ammissione scontata al matrimonio, senza un’adeguata preparazione e un esame serio dei requisiti previsti per la sua celebrazione, e una dichiarazione giudiziaria talvolta altrettanto facile, ma di segno inverso, in cui lo stesso matrimonio viene considerato nullo solamente in base alla costatazione del suo fallimento. È vero che non tutti i motivi di un’eventuale dichiarazione di nullità possono essere individuati oppure manifestati nella preparazione al matrimonio, ma, parimenti, non sarebbe giusto ostacolare l'accesso alle nozze sulla base di presunzioni infondate, come quella di ritenere che, al giorno d'oggi, le persone sarebbero generalmente incapaci o avrebbero una volontà solo apparentemente matrimoniale”. Per questo, anche se il diritto canonico richiede una conoscenza specifica e particolare, tutti coloro che hanno un impegno pastorale debbono rendersi conto della loro responsabilità in questo settore.


Bologna/Caffarra - Siete chiamati a servire la coscienza - DA BOLOGNA STEFANO ANDRINI, Avvenire, 22 gennaio 2011

«La verità in quanto tale deve guidare, secondo John Henry Newman, tanto la condotta politica che quel­la privata. Il vostro è un servizio alla coscienza perché giudichi con ve­rità ». Lo ha detto l’arcivescovo di Bo­logna, il cardinale Carlo Caffarra, nella lectio magistralis che ha con­cluso ieri pomeriggio la festa regio­nale del patrono dei giornalisti, san Francesco di Sales, promossa dal­l’Ufficio regionale per le comunica­zioni sociali della Conferenza epi­scopale dell’Emilia Romagna all’I­stituto «Veritatis Splendor» di Bolo­gna.

«Non dovete essere produttori a qualunque costo del consenso di chi vi legge, vede, o ascolta – ha prose­guito il cardinale –. Non è la persua­sione il vostro compito primo, ma la convinzione. E la convinzione è il ri­sultato di una argo­mentazione razio­nale, semplice e cor­diale, mite e lumi­nosa ». Ma c’è di più. «Si può scrivere da­vanti alla piazza; si può scrivere davan­ti al potente di tur­no: Newman ci in­segna a scrivere e parlare davanti a ogni coscienza: al cospetto di Dio» ha ricordato. «Si può, inoltre, fare un uso strumentale della propria ra­gione, quando si parla o si scrive – ha aggiunto –. Uso strumentale signifi­ca che non intendo giudicare lo sco­po che mi prefiggo; mi preme solo trovare la modalità comunicativa per raggiungerlo. Un uso strumen­tale della ragione comporta non ra­ramente interloquire non con la co­scienza ma con le passioni e/o gli in­teressi dell’interlocutore». Certa­mente, ha osservato, «altri vi diran­no o anche voi sarete tentati di pen­sare che questa posizione non la si può tenere nell’agorà della comuni­cazione; che chi la tenesse alla fine scomparirebbe dalla scena».

La sociologa Chiara Giaccardi, poi, si è soffermata sul rapporto tra ana­logico e digitale. «Solo nella loro re­lazione si correggono e si potenzia­no a vicenda – ha affermato –. L’a­nalogico rappresenta l’apertura ol­tre ciò che è presente e visibile, la nostalgia dell’essere, il richiamo al­la concretezza, il radicamento nel reale; il digitale valorizza la dimen­sione potenziale della virtualità, co­me fascio di possibilità che non si realizzano automaticamente, ma so­lo con l’impegno e l’esercizio re­sponsabile della libertà».

Sul tema è intervenuto anche il ve­scovo ausiliare di Bologna, Ernesto Vecchi, delegato per le comunica­zioni sociali e autore del recente vo­lume

Antenna Crucis . «Guardando le cose con gli occhi di una sana in­telligenza integrata dalla fede – ha detto – le nuove tecnologie non so­no il segno postmoderno della tota­le autonomia dell’uomo da Dio, ma si inseriscono nel mandato che Dio ha dato all’uomo di 'coltivare e custodi­re la terra'. Sola­mente col prevalere del relativismo cul­turale lo sviluppo tecnologico può di­venire un 'potere i­deologico'. Il comu­nicatore cattolico deve allora conservare la logica del­l’analogia anche quando entra nel mondo digitale».

Da parte sua monsignor Domenico Pompili, direttore dell’Ufficio na­zionale per le comunicazioni socia­li della Cei ha sottolineato che il di­gitale è un nuovo contesto esisten­ziale. «Tocca corde dell’esistere u­mano che l’educazione non può tra­scurare. Protesi tecnologiche diven­tate parte di noi. Il cristiano non può starci a caso in questo contesto, ma deve esserci con la testimonianza. Sulla rete si rilevano grandi bisogni. C’è un bisogno di identità. Di co­munità, di un gruppo che condivi­da un significato. Bisogno infine di autorità. Per questo non possiamo guardare con superficialità questo mondo».