martedì 25 gennaio 2011

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    Papa: anche Facebook è una grande opportunità di Massimo Introvigne 24-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
2)    Lo sgomento del Paese e la responsabilità educativa di Angelo Bagnasco* - 24-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
3)    24/01/2011 – VATICANO - Bagnasco: minacce alla libertà religiosa anche in occidente, per l’aggressività laicista
4)    SENSO RELIGIOSO/ Farouq: io, musulmano, seguo la "rivoluzione" del cuore di don Giussani - INT. Wael Farouq - martedì 25 gennaio 2011 – il sussidiario.net
5)    Verginità e sacrificio: due termini che nell'ottica cristiana assumono un significato fondamentale di Giulia Tanel - 25/01/2011 - Religione – da http://www.libertaepersona.org
6)    Conversione di san Paolo, la storia conferma di Ruggero Sangalli, 25-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
7)    Russia, sui kamikaze girano troppi falsi miti di Massimo Introvigne, 24-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
8)    Avvenire.it, 25 gennaio 2011 - CHIESA IN CAMMINO - Bagnasco: «L’ora della saggezza e della virtù» di Mimmo Muolo
9)    25/01/2011 – VATICANO - Papa: tanti ancora non conoscono Cristo o lo hanno “dimenticato” - Nel messaggio per la Giornata missionaria mondiale Benedetto XVI sottolinea l’attualità dell’“andate e annunciate” di Gesù, in un mondo nel quale molti ancora non conoscono il Vangelo mentre globalizzazione e relativismo fanno crescere il numero di coloro che vivono come se Dio non esistesse. Chi si dedica all’evangelizzazione si preoccupa anche del miglioramento delle condizioni di vita delle persone.
10)                      SENSO DA RIDARE, LOGICHE DA CAMBIARE - AL CUORE DEL PROBLEMA di MARCO TARQUINIO, Avvenire, 25 gennaio 2011

Papa: anche Facebook è una grande opportunità di Massimo Introvigne 24-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Il 24 gennaio Benedetto XVI ha reso pubblico il suo Messaggio per la XLV Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, tutto dedicato a Internet e in particolare al fenomeno dei social network, un mondo - quest'ultimo - dominato da Facebook con i suoi oltre cinquecento milioni di utenti. Il Papa s'ispira qui ai messaggi per le giornate delle comunicazioni sociali del suo predecessore, il venerabile Giovanni Paolo II (1929-2005), che già aveva lasciato un vero corpus di dottrina sociale della Chiesa su Internet, ma aggiunge un tocco personale dove si riconosce il suo costante Magistero sull'identità e sulla verità, insieme all'attenta lettura di quanto la sociologia contemporanea ha prodotto in tema di interazione virtuale.

Proprio da questa letteratura il Papa mutua «la convinzione che, come la rivoluzione industriale produsse un profondo cambiamento nella società attraverso le novità introdotte nel ciclo produttivo e nella vita dei lavoratori, così oggi la profonda trasformazione in atto nel campo delle comunicazioni guida il flusso di grandi mutamenti culturali e sociali. Le nuove tecnologie non stanno cambiando solo il modo di comunicare, ma la comunicazione in se stessa, per cui si può affermare che si è di fronte ad una vasta trasformazione culturale. Con tale modo di diffondere informazioni e conoscenze, sta nascendo un nuovo modo di apprendere e di pensare, con inedite opportunità di stabilire relazioni e di costruire comunione».

Di questa grande trasformazione la Chiesa non propone né un rifiuto né un giudizio aprioristicamente negativo. Senza mancare di mettere in luce difficoltà e rischi, il Pontefice chiede ai cristiani di partecipare alla grande avventura di Internet e in particolare dei social network: «Vorrei invitare, comunque, i cristiani ad unirsi con fiducia e con consapevole e responsabile creatività nella rete di rapporti che l’era digitale ha reso possibile. Non semplicemente per soddisfare il desiderio di essere presenti, ma perché questa rete è parte integrante della vita umana». Le nuove tecnologie «prospettano traguardi fino a qualche tempo fa impensabili» e, se «usate saggiamente, possono contribuire a soddisfare il desiderio di senso, di verità e di unità che rimane l’aspirazione più profonda dell’essere umano».

Benedetto XVI riprende, ancora, dalla sociologia la tesi che nel mondo digitale l'idea che l'informazione sia il frutto di una interazione e di una costruzione sociale acquista dimensioni fino a ieri impensabili: quello che con la stampa ma anche con la televisione era ancora possibile, «la chiara distinzione tra il produttore e il consumatore dell’informazione viene relativizzata e la comunicazione vorrebbe essere non solo uno scambio di dati, ma sempre più anche condivisione».

Questa novità ha anche caratteristiche «positive», ma per altri versi «si scontra con alcuni limiti tipici della comunicazione digitale: la parzialità dell’interazione, la tendenza a comunicare solo alcune parti del proprio mondo interiore, il rischio di cadere in una sorta di costruzione dell’immagine di sé, che può indulgere all’autocompiacimento».

I social network - dunque  soprattutto Facebook - sono una parte importante del modo in cui i giovani, in particolare, organizzano il loro tempo e le loro giornate. «I giovani - spiega il Papa - stanno vivendo questo cambiamento della comunicazione, con tutte le ansie, le contraddizioni e la creatività proprie di coloro che si aprono con entusiasmo e curiosità alle nuove esperienze della vita. Il coinvolgimento sempre maggiore nella pubblica arena digitale, quella creata dai cosiddetti social network, conduce a stabilire nuove forme di relazione interpersonale, influisce sulla percezione di sé e pone quindi, inevitabilmente, la questione non solo della correttezza del proprio agire, ma anche dell’autenticità del proprio essere. La presenza in questi spazi virtuali può essere il segno di una ricerca autentica di incontro personale con l’altro se si fa attenzione ad evitarne i pericoli, quali il rifugiarsi in una sorta di mondo parallelo, o l’eccessiva esposizione al mondo virtuale. Nella ricerca di condivisione, di "amicizie", ci si trova di fronte alla sfida dell’essere autentici, fedeli a se stessi, senza cedere all’illusione di costruire artificialmente il proprio "profilo" pubblico».

Sempre con una singolare consonanza rispetto alla migliore sociologia di Internet e dei social network, Benedetto XVI mette in luce il rischio che a essere socialmente costruita non sia più solo l'informazione ma la stessa identità del soggetto. Come in certi film alla moda, il giovane soprattutto rischia di essere catturato da un mondo virtuale da cui poi non riuscirà più a uscire, e di scambiare il proprio profilo su Facebook, dove sincerità e invenzione spesso si mescolano, con la realtà.

L'uso dei social network, insiste il Papa, «è una grande opportunità, ma comporta anche una maggiore attenzione e una presa di coscienza rispetto ai possibili rischi. Chi è il mio "prossimo" in questo nuovo mondo? Esiste il pericolo di essere meno presenti verso chi incontriamo nella nostra vita quotidiana ordinaria? Esiste il rischio di essere più distratti, perché la nostra attenzione è frammentata e assorta in un mondo "differente" rispetto a quello in cui viviamo? Abbiamo tempo di riflettere criticamente sulle nostre scelte e di alimentare rapporti umani che siano veramente profondi e duraturi? E’ importante ricordare sempre che il contatto virtuale non può e non deve sostituire il contatto umano diretto con le persone a tutti i livelli della nostra vita». Sono due rischi già notati dal venerabile Giovanni Paolo II: passare troppo tempo davanti a un computer, trascurando gli amici e i familiari della vita reale, e lasciare contatti anche interessanti con nuovi amici in un perenne stato virtuale, quasi si avesse paura d'incontrarli faccia a faccia.

Passare dall'incontro virtuale all'incontro reale, usare Facebook come prima occasione di conoscenza che andrà poi dove possibile verificata di persona, è anche per così dire il segreto di un uso efficace del social network come strumento di apostolato cattolico.
Ma, perché questo sia possibile, è necessario che pure su Facebook il cattolico, anche giovane, si faccia subito riconoscere per uno stile diverso rispetto a una certa volgarità e superficialità oggi alla moda.

«Del resto - scrive il Papa - le dinamiche proprie dei social network mostrano che nel mondo digitale, trasmettere informazioni significa sempre più spesso immetterle in una rete sociale, dove la conoscenza viene condivisa [...]. Quando le persone si scambiano informazioni, stanno già condividendo se stesse, la loro visione del mondo, le loro speranze, i loro ideali. Ne consegue che esiste uno stile cristiano di presenza anche nel mondo digitale: esso si concretizza in una forma di comunicazione onesta ed aperta, responsabile e rispettosa dell’altro. Comunicare il Vangelo attraverso i nuovi media significa non solo inserire contenuti dichiaratamente religiosi sulle piattaforme dei diversi mezzi, ma anche testimoniare con coerenza, nel proprio profilo digitale e nel modo di comunicare, scelte, preferenze, giudizi che siano profondamente coerenti con il Vangelo, anche quando di esso non si parla in forma esplicita. Del resto, anche nel mondo digitale non vi può essere annuncio di un messaggio senza una coerente testimonianza da parte di chi annuncia. Nei nuovi contesti e con le nuove forme di espressione, il cristiano è ancora una volta chiamato ad offrire una risposta a chiunque domandi ragione della speranza che è in lui (cfr 1Pt 3,15)».

Si a Facebook, dunque, ma con buon senso quanto all'impiego del tempo e a viso aperto, da cattolici, a costo magari di «sfidare alcune delle logiche tipiche del web. Anzitutto dobbiamo essere consapevoli che la verità che cerchiamo di condividere non trae il suo valore dalla sua "popolarità" o dalla quantità di attenzione che riceve. Dobbiamo farla conoscere nella sua integrità, piuttosto che cercare di renderla accettabile, magari "annacquandola". Deve diventare alimento quotidiano e non attrazione di un momento. La verità del Vangelo non è qualcosa che possa essere oggetto di consumo, o di fruizione superficiale, ma è un dono che chiede una libera risposta. Essa, pur proclamata nello spazio virtuale della rete, esige sempre di incarnarsi nel mondo reale e in rapporto ai volti concreti dei fratelli e delle sorelle con cui condividiamo la vita quotidiana. Per questo rimangono sempre fondamentali le relazioni umane dirette nella trasmissione della fede!».

Alla fine, infatti, «la verità che è Cristo, in ultima analisi, è la risposta piena e autentica a quel desiderio umano di relazione, di comunione e di senso che emerge anche nella partecipazione massiccia ai vari social network». Mentre per certi poteri forti contemporanei Internet è un altro «strumento che riduce le persone a categorie, che cerca di manipolarle emotivamente o che permette a chi è potente di monopolizzare le opinioni altrui» i cattolici presenti sul Web «incoraggiano tutti a mantenere vive le eterne domande dell'uomo, che testimoniano il suo desiderio di trascendenza e la nostalgia per forme di vita autentica, degna di essere vissuta. È proprio questa tensione spirituale propriamente umana che sta dietro la nostra sete di verità e di comunione e che ci spinge a comunicare con integrità e onestà».

Un programma che cerchiamo di fare nostro anche per «La Bussola Quotidiana».


Lo sgomento del Paese e la responsabilità educativa di Angelo Bagnasco* - 24-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza epicopale italiana (Cei), ha aperto oggi pomeriggio il Consiglio permanente della Cei, in svolgimento ad Ancona, con una prolusione di cui pubblichiamo integralmente la parte dedicata allo scenario politico italiano.

Come ho già più volte auspicato, bisogna che il nostro Paese superi, in modo rapido e definitivo, la convulsa fase che vede miscelarsi in modo sempre più minaccioso la debolezza etica con la fibrillazione politica e istituzionale, per la quale i poteri non solo si guardano con diffidenza ma si tendono tranelli, in una logica conflittuale che perdura ormai da troppi anni.

Si moltiplicano notizie che riferiscono di comportamenti contrari al pubblico decoro e si esibiscono squarci – veri o presunti – di stili non compatibili con la sobrietà e la correttezza, mentre qualcuno si chiede a che cosa sia dovuta l’ingente mole di strumenti di indagine. In tale modo, passando da una situazione abnorme all’altra, è l’equilibrio generale che ne risente in maniera progressiva, nonché l’immagine generale del Paese.

La collettività, infatti, guarda sgomenta gli attori della scena pubblica, e respira un evidente disagio morale. La vita di una democrazia – sappiamo – si compone di delicati e necessari equilibri, poggia sulla capacità da parte di ciascuno di auto-limitarsi, di mantenersi cioè con sapienza entro i confini invalicabili delle proprie prerogative. «Muoversi secondo una prospettiva di responsabilità − ammoniva il Papa in occasione dell’ultima Settimana Sociale − comporta la disponibilità ad uscire dalla ricerca del proprio interesse esclusivo per perseguire insieme il bene del Paese» (Benedetto XVI, Messaggio alla 46a Settimana Sociale dei cattolici italiani, 12 ottobre 2010).

Come ho già avuto modo di dire, «chiunque accetta di assumere un mandato politico deve essere consapevole della misura e della sobrietà, della disciplina e dell’onore che esso comporta, come anche la nostra Costituzione ricorda (cfr art. 54)» (Prolusione al Consiglio Permanente, 21-24 settembre 2009, n. 8). Dalla situazione presente – comunque si chiariranno le cose – nessuno ricaverà realmente motivo per rallegrarsi, né per ritenersi vincitore. Troppi oggi – seppur ciascuno a modo suo – contribuiscono al turbamento generale, a una certa confusione, a un clima di reciproca delegittimazione.

E questo − facile a prevedersi − potrebbe lasciare nell’animo collettivo segni anche profondi, se non vere e proprie ferite. La comunità nazionale ha indubbiamente una propria robustezza e non si lascia facilmente incantare né distrarre dai propri compiti quotidiani. Tuttavia, è possibile che taluni sottili veleni si insinuino nelle psicologie come nelle relazioni, e in tal modo – Dio non voglia! – si affermino modelli mentali e di comportamento radicalmente faziosi.

Forse che questo non sarebbe un attentato grave alla coesione sociale? E quale futuro comune potrà risultare, se il terreno in cui il Paese vive rimanesse inquinato? È necessario fermarsi − tutti − in tempo, fare chiarezza in modo sollecito e pacato, e nelle sedi appropriate, dando ascolto alla voce del Paese che chiede di essere accompagnato con lungimiranza ed efficacia senza avventurismi, a cominciare dal fronte dell’etica della vita, della famiglia, della solidarietà e del lavoro.

Come Pastori che amano la comunità cristiana, e come cittadini di questo caro Paese, diciamo a tutti e a ciascuno di non cedere al pessimismo, ma di guardare avanti con fiducia. È questo l’atteggiamento interiore che permetterà di avere quello scatto di coscienza e di responsabilità necessario per camminare e costruire insieme. Così, non possiamo non porre mente particolare alle giovani generazioni e al dovere educativo che investe in primissimo luogo la famiglia, e irrinunciabilmente i genitori, sostenuti dai parenti, in particolare dai nonni.

La Chiesa è consapevole di questo diritto, primordiale perché naturale, dei genitori quali essenziali educatori dei loro figli, e si concepisce anzitutto al loro servizio, e questo fa con profondo rispetto e la premura che viene da un patrimonio umano e religioso a tutti noto. A sua volta, la Chiesa stessa ha un irrinunciabile mandato educativo, che intende assolvere con dedizione assoluta e santità di vita.

Certamente l’istituzione scolastica fa tutto quello che può, specialmente attraverso l’impegno serrato di una moltitudine di docenti e operatori, competenti e generosi. Eppure, questo dispiegamento di disponibilità pare non bastare, tanto è grande e delicata oggi «la sfida educativa». Per questo deve entrare in campo la società nel suo insieme, e dunque con ciascuna delle sue componenti e articolazioni.

Se la scuola – come oggi si intende – dev’essere «comunità educante», bisogna convincersi con una maggiore risolutezza che la società nel suo complesso è chiamata ad essere «comunità educante». Affermare ciò, a fronte di determinati «spettacoli», potrebbe apparire patetico o ingenuo, eppure come Vescovi dobbiamo caricarci sulle spalle anche, e soprattutto, questo onere di richiamare ai doveri di fondo, di evidenziare le connessioni, di scoprire i pilastri portanti di una comunità di vita e di destino.

Se si ingannano i giovani, se si trasmettono ideali bacati cioè guasti dal di dentro, se li si induce a rincorrere miraggi scintillanti quanto illusori, si finisce per trasmettere un senso distorcente della realtà, si oscura la dignità delle persone, si manipolano le mentalità, si depotenziano le energie del rinnovamento generazionale. È la speranza, pane irrinunciabile sul tavolo dei popoli, a piegarsi e venire meno.

Il cuore dei giovani tende − per natura − alla grandezza e alla bellezza, per questo cerca ideali alti: bisogna che essi sappiano che nulla di umanamente valevole si raggiunge senza il senso del dovere, del sacrificio, dell’onestà verso se stessi, della fiducia illuminata verso gli altri, della sincerità che soppesa ogni proposta, scartando insidie e complicità. In una parola, di valori perenni. Gesù è il modello affascinante, l’amico che non tradisce e viene sempre incontro, che prende per mano e riaccende ogni volta la forza sorgiva che sostiene la fiducia verso la realizzazione di sé e la vera felicità.

Questo – come adulti e come giovani − abbiamo bisogno di vedere e di sentire sempre, oltre ogni moralismo ma anche oltre ogni libertarismo, l’uno e l’altro spesso dosati secondo le stagioni.

* Cardinale arcivescovo di Genova, presidente della Conferenza episcopale italiana


24/01/2011 – VATICANO - Bagnasco: minacce alla libertà religiosa anche in occidente, per l’aggressività laicista

Il presidente della Cei apre l’assemblea dei vescovi italiani chiedendo che le istituzioni internazionali si facciano carico dell’esistenza nei singoli stati di un minimo di libertà per tutte le fedi. Europa e cristianofobia: “Un male sottile sta affliggendo l’Europa, provocando una lenta, sotterranea emarginazione del cristianesimo, con discriminazioni talora evidenti”.

Ancona (AsiaNews) – Il presidente della Cei, card. Angelo Bagnasco, ha aperto oggi i lavori dell’Assemblea dei vescovi italiani. Nella sua prolusione ha ricordato le minacce alla libertà religiosa e alla vita dei cristiani in varie parti del mondo e soprattutto in Medio Oriente, facendo memoria degli attentati di Baghdad e di Alessandria d’Egitto. Egli ha anche focalizzato la sua attenzione sull’occidente, denunciando che “subdole minacce ad un’effettiva libertà religiosa esistono anche nei Paesi di tradizione democratica, a partire da quelli europei. Dovremmo guardarci infatti dai sottili tranelli dell’ipocrisia, che induce a cercare lontano ciò che invece è riscontrabile anche vicino”.
Il card. Bagnasco ha ricordato le polemiche sul crocifisso esposto nelle scuole o in ambito pubblico, e ha detto che “la libertà religiosa è un perno essenziale e delicatissimo, compromesso il quale è l’intero meccanismo sociale a risentirne, solitamente anche oltre le previsioni. C’è talora un argomentare infastidito sulla neutralità dello Stato che si rivela non poco capzioso. E c’è un’aggressività laicista dalle singolari analogie con certe ossessioni ideologiche che ci eravamo lasciati alle spalle senza rimpianti. Colpisce, in questo senso, la denuncia che nel mese scorso è stata diffusa durante un convegno viennese dell’Osce secondo la quale un’astratta applicazione del principio di non discriminazione finisce paradossalmente per comportare un’oggettiva limitazione al diritto dei credenti a manifestare pubblicamente la propria fede”.

Il presidente della Cei ha denunciato che “un male sottile insomma sta affliggendo l’Europa, provocando una lenta, sotterranea emarginazione del cristianesimo, con discriminazioni talora evidenti ma anche con un soffocamento silente di libertà  fondamentali. Il caso su cui ci si sofferma è quello dell’obiezione di coscienza sui temi di alta rilevanza etica che, in più nazioni, si tenta ormai di ridimensionare. Ciò segnerebbe un regresso sul crinale della libertà. Emarginare simboli, isolare contenuti, denigrare persone è arma con cui si induce al conformismo, si smorzano le posizioni scomode, si mortificano i soggetti portatori di una loro testimonianza in favore di valori cui liberamente credono”.

Per quanto riguarda la “cristianofobia” in molti Paesi, il porporato si è augurato che “il problema delle più elementari garanzie negate alle minoranze religiose – in non poche situazioni nazionali – venga posto con la lucidità e l’energia necessarie. Si apre qui, è noto, un problema drammatico di reciprocità, che non si risolve minacciando ritorsioni o attenuando, in Italia e in Occidente, le garanzie dei cittadini provenienti dagli Stati che non assicurano parità di trattamento”. Ma è necessario invece “urgentemente porre la questione della libertà religiosa nelle sedi internazionali – Unione Europea, Onu…– al fine di aprire gli occhi e mantenerli aperti, insistendo affinché nei singoli Stati vi sia un sistema minimo di garanzie reali per la libertà di tutte le fedi”.


SENSO RELIGIOSO/ Farouq: io, musulmano, seguo la "rivoluzione" del cuore di don Giussani - INT. Wael Farouq - martedì 25 gennaio 2011 – il sussidiario.net

«Il senso religioso di don Giussani è importante per chi vive in Egitto perché ci ha insegnato un metodo più utile anche del dialogo. L’idea per esempio di parlare di Dio a partire dai capolavori della poesia, dalla musica, della narrativa, mi ha colpito fin da subito. E ogni volta che qui al Cairo applico il metodo di don Giussani, ho la conferma pratica del fatto che è quello giusto». Ad affermarlo è Wael Farouq, musulmano, professore di Lingua araba all'American University del Cairo. Farouq ha letto per la prima volta Il senso religioso in inglese dieci anni fa, e lo ha quindi presentato quando nel 2007 è stato tradotto in arabo. Un’osservazione tutt’altro che scontata, quella di Farouq, se si pensa che per esempio nessuno nel mondo islamico finora ha mai osato applicare la critica letteraria al Corano.

Professor Farouq, perché Il senso religioso può essere importante anche per un musulmano?

L’importanza del Senso religioso non è soltanto legata alle sue idee, ma innanzitutto al metodo utilizzato da don Giussani nel presentarle. Di qualsiasi cosa parli, lo fa sempre utilizzando la poesia, la letteratura, i commenti sulla musica e la pittura. Questa idea dell’importanza della bellezza come un linguaggio comune tra tutti gli esseri umani, ha ispirato fin da subito me e gli altri miei amici con cui ho organizzato il Meeting del Cairo dello scorso ottobre. Che non a caso abbiamo intitolato «Bellezza, lo spazio del dialogo». E così, quando è stata attaccata la chiesa di Alessandria d’Egitto, a Capodanno, per esprimere la nostra indignazione abbiamo pensato di organizzare un concerto di musica classica. Quelli espressi da don Giussani non sono soltanto dei concetti, ma qualcosa che si può applicare nella vita di tutti i giorni, e ogni volta che lo facciamo diventiamo più certi del fatto che è la strada da seguire.

Un modo quindi per incoraggiare il dialogo…

Personalmente non mi piace molto la parola dialogo, ed è anche questa una cosa che ho imparato da don Giussani. Preferisco parlare di incontro, perché il dialogo rischia di essere sempre uno strumento per dividere le persone, un processo in cui si formano due parti e poi si cerca artificialmente di stabilire un contatto tra loro. In Egitto al contrario non esistono due parti separate, viviamo tutti la stessa realtà e ci incontriamo a tutti i livelli della vita di ogni giorno. E quindi ciò che da 20 secoli in Egitto consente a musulmani e cristiani di vivere insieme non è un dialogo inteso astrattamente, ma l’esperienza elementare nell’accezione utilizzata da don Giussani.

Ma prima di don Giussani, qualcun altro nel mondo musulmano aveva tentato di elaborare un metodo simile al suo?

No, abbiamo iniziato noi per primi, ispirandoci a lui. Ed è proprio questo ad avermi colpito del Senso religioso. Di solito gli uomini devoti parlano di valori nobili, degli ordini di Dio agli uomini, proponendo degli stereotipi a cui ognuno dovrebbe conformarsi. Ma Dio non può essere un valore astratto, perché se fosse così ciascuno potrebbe «barare» facendone quello che gli pare e piace. Fino all’estremismo dei terroristi, che usano Dio per uccidere altri uomini. Al contrario, i valori divini devono avere la forma di un essere umano, perché l’amore, la fede, l’onestà e così via, nel momento in cui smettono di essere incarnati nella vita umana cessano di esistere. E’ questo il motivo per cui io e gli altri miei amici, musulmani e cristiani, diamo molta importanza alla bellezza, perché è uno dei modi attraverso cui questi valori divini prendono forma.

L’idea di ragione di don Giussani si oppone al razionalismo moderno. Lei cosa ne pensa?

Trovo che la definizione di ragione data da don Giussani sia molto più umana. A lungo il pensiero europeo moderno ha proposto un’idea di ragione che eliminava una parte importante dell’essere umano come il cuore. E per noi musulmani accettare questa idea di ragione, proposta dalla cultura occidentale, è veramente difficile. Perché è come se la mente umana fosse ridotta al suo aspetto scientifico e materialistico, eliminando una parte molto importante dell’esperienza. L’idea di ragione di don Giussani al contrario non trascura nessuno degli aspetti dell’esperienza. Ed è proprio questo a costituire la grande differenza tra il razionalismo e la ragione di cui si parla nel Senso religioso.

Lei ha citato il legame tra cuore e ragione. Che cosa intendeva?

Il modo più semplice con cui possiamo conoscere la realtà è a partire dal cuore. Prima dei tempi moderni, il modo con cui gli uomini conoscevano il mondo era attraverso la bellezza, la poesia, la musica e tutti gli altri linguaggi delle arti. Quando ci riferiamo a queste cose, non stiamo parlando di un modo sentimentale di conoscere, ma di un linguaggio più profondo che è stato utilizzato fin dall’inizio della storia dell’umanità. Senza la curiosità che nasce dal cuore, non c’è nulla che attivi la ragione spingendola a cercare l’origine delle cose.

Ma per lei che esperienza personale è stata leggere per la prima volta questo libro?

La mia prima impressione è stata che fosse una risposta quasi profetica alla crisi che sta vivendo oggi l’uomo moderno. Al punto che ne sono rimasto stupito. Rispondeva infatti a numerose domande che stavo vivendo nella mia società e nella mia cultura, in quanto musulmano che vive in un’epoca moderna. Trascinandomi dietro una serie di questioni irrisolte, con un dualismo continuo tra ragione e religione, fede e realtà, che ho risolto solo dopo avere letto questo libro. Che è stato un vero e proprio ponte che mi ha consentito di ritrovare me stesso, la realtà che mi trovavo a vivere in Egitto e la mia identità di musulmano. Per questo motivo ho voluto che fosse pubblicato in arabo e presentato al Cairo, in modo che il maggior numero di persone possibili potessero incontrare questa analisi profonda della realtà in cui viviamo oggi.

Lei prima ha accennato al fatto che solo il senso religioso autentico può costituire un argine al fondamentalismo…

E’ il motivo per cui sono contento che questo libro sia stato tradotto in arabo. La fede può facilmente trasformarsi in una specie di folklore, in una tradizione svuotata dal suo significato originario, diventando in ultima analisi un’ideologia. Fino al punto che la religione, da una cosa positiva, può diventare uno strumento del Diavolo. Don Giussani, partendo dal presupposto che l’unico luogo dove possiamo incontrare Dio è la realtà, identifica un valido antidoto contro ogni possibile forma di fondamentalismo.

(Pietro Vernizzi)

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Verginità e sacrificio: due termini che nell'ottica cristiana assumono un significato fondamentale di Giulia Tanel - 25/01/2011 - Religione – da http://www.libertaepersona.org

Comunemente il termine verginità viene inteso in senso prettamente fisico, esattamente come il termine sacrificio viene caricato in primo luogo di un significato negativo.
Ebbene, il cristianesimo ci insegna che ci sono delle altre accezioni con cui questi due termini possono essere intesi: mi riferisco alla verginità del cuore e al valore di cui è stato investito il sacrificio dopo la morte di Cristo.

Per cogliere il significato profondo di questi concetti è necessario, però, partire da un presupposto fondamentale: Cristo si è fatto uomo ed è morto per noi. Se non si ha ben chiaro in mente questo primo elemento da cui ha origine tutto, è impossibile capire quello che viene dopo. Infatti, se non ci fosse Cristo chi ce lo farebbe fare di guardare agli altri senza anteporre il nostro egoismo al loro bene, magari sacrificandoci anche per loro?

Ma andiamo con ordine. Dicevamo: Dio si è fatto uomo. Se si riflette seriamente su questa affermazione non si può che rimanere basiti: è una cosa che non ha eguali!

Come testimoniano le Sacre Scritture, durante gli anni che Cristo ha trascorso sulla terra ha proposto un modello di vita al quale ogni cristiano dovrebbe cercare il più possibile di conformarsi e che ha origine da un assunto fondamentale: “Ama Dio e il prossimo tuo come te stesso”. Gesù, infatti, ha dimostrato a tutti noi – sia nel corso della sua vita che nell’atto estremo della morte in croce – di concepire la propria vita “per il mondo, per il disegno di Dio nel mondo, cioè per tutti gli uomini” (L. Giussani, Si può vivere così, Milano, Rizzoli, p. 419).
Anche a noi fedeli, gravati come siamo dalla nostra umanità, è chiesto di guardare agli uomini secondo il loro destino, che è primario ed è deciso da Dio. E’ il concetto di verginità del cuore: trattare il proprio prossimo come un re, anteponendo il suo bene al nostro egoismo ed egocentrismo.
Naturalmente, ripeto, questo sguardo verso gli altri è possibile solo se siamo pieni di Cristo, perché la nostra indole ci spingerebbe, in prima istanza, a “possedere” l’altro, a primeggiare.
In sostanza, quindi, la verginità non è altro che il culmine della carità e ha come effetto la gioia, perché ci permette di “affermare” l’altro, di vederlo inserito in un’ottica eterna.

Per guardare all’altro secondo il suo destino, però, è necessario compiere un sacrificio: bisogna, infatti, “sacrificare la reazione immediata, di piacere o di dispiacere, di simpatia o di antipatia” (L. Giussani, ibidem, p. 420).
Anche questo passaggio del sacrificio sarebbe incomprensibile se non si avesse come punto di riferimento Cristo: se Dio non fosse diventato uomo, il sacrificio sarebbe una comportamento irrazionale, quasi “bestiale”.
Il sacrificio cristiano è, in definitiva, l’accettare una Presenza che viene prima di noi e che è infinitamente grande: comporta l’affermare l’altro ancora prima che noi stessi.

Se nella quotidianità si riescono a vivere i due concetti cristiani di sacrificio e verginità, la prospettiva che si ha della vita cambia radicalmente. Si comincia a vivere con gli altri e con se stessi in una maniera molto più libera. Infatti, l’unico valore di riferimento nelle relazioni comincerebbe ad essere un amore gratuito e totalizzante, scevro da ogni qualsivoglia giudizio di merito o di opinione. Esattamente come non si sarebbe più costretti ad affannarsi per conseguire vani successi, perché si sarebbe consapevoli che è Dio che ci fa: è solo la verginità che può portarci a dire, assieme con Maria, “fa di me ciò che vuoi”, sacrificando la nostra umanità.

E poi, in conclusione, questo abbandono totale a Dio ci renderebbe enormemente più felici.


Conversione di san Paolo, la storia conferma di Ruggero Sangalli, 25-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

La Chiesa celebra, oggi, 25 gennaio, la conversione di san Paolo . Questa ricorrenza ci è di stimolo per approfondire la conoscenza storica di quel che accadde all’Apostolo e quando.

Nella cronologia paolina desumibile dagli "Atti", c’è una sola data sicura ed è relativa a quel che capitò a Corinto (At 18,12) quando Paolo fu giudicato da Gallione, fratello di Seneca.
La carica ricoperta da questo funzionario imperiale durava un anno e l’incaricato giungeva a destinazione normalmente a primavera inoltrata, per evitare i rischi della navigazione invernale. Ebbene, da un’iscrizione trovata a Delfi che correla la presenza di questo proconsole romano con la venticinquesima acclamazione di Claudio imperatore, è possibile sapere che Gallione fu a Corinto dalla primavera del 51. In aggiunta proprio da Seneca (Epistula morales 104,1) sappiamo che il fratello per motivi di salute non rimase in Acaia fino a fine mandato.

Paolo si trattenne a Corinto un anno e mezzo (At 18,11), il che significa che vi arrivò sul finire del 49, o al più tardi ad inizio del 50. Questo particolare storico è molto interessante: a Corinto Paolo abitava presso Aquila e Priscilla, espulsi da Roma e giunti in Acaia a motivo di recenti provvedimenti di Claudio contro i giudei, emanati proprio nel 49 (Svetonio li collega a disordini istigati da “Cresto”). Inoltre Paolo si trovò nel bel mezzo di dispute coinvolgenti la locale sinagoga, fino a dover comparire davanti al nuovo proconsole. Il quadro storico e cronologico è di una coerenza estrema.

Prima di giungere a Corinto, Paolo aveva viaggiato lungamente, partendo da Antiochia. C’era stato un dissapore con Marco e Paolo partì via terra con Sila (At 15,40). Ci volle sicuramente qualche mese per arrivare a Corinto, attraversando tutto l’attuale sud ovest della Turchia, entrando in Europa, subendo l’arresto a Filippi, poi recandosi a Tessalonica ed infine ad Atene. Questa ricostruzione permette di situare il Concilio di Gerusalemme (At 15) nella prima metà del 49.

A questo punto possiamo dar credito a chi sostiene che quella ai Galati potrebbe essere la prima delle lettere di Paolo: in effetti la polemica con Pietro durante l’incidente di Antiochia (Gal 2,11-14) costituisce una logica premessa a quanto poi verrà dibattuto nel Concilio. L’accesissima lettera ai Galati è prodiga di annotazioni cronologiche: Paolo (Gal 1,15-2,1-10) ci racconta tutta la sua vicenda.

La presenza di Paolo a Gerusalemme per dirimere la questione del comportamento da tenere con i Gentili non risulta essere la prima dopo la sua conversione. Da Gerusalemme era partito (At 12,25) per il primo viaggio missionario (At 13 e 14) nel contesto di un intervento umanitario (Gal 2,1-10) a beneficio della popolazione stremata dalla carestia. Di questa carestia, profetizzata da Agabo (At 11,27) Giuseppe Flavio ci dà puntuale conferma durante il periodo in cui Tiberio Alessandro fu plenipotenziario romano in Palestina, nel 46-47.

La Pasqua di morte e resurrezione di Gesù fu quella del 33: se Paolo fu a Gerusalemme prima del suo primo viaggio missionario, collocabile nella seconda parte del 47, e 14 anni dopo la serie di fatti elencata ai Galati, la conversione dell’Apostolo si posiziona con precisione o proprio alla fine del 33 o subito all’inizio del 34: a ridosso dell’assassinio di Stefano, ancora presenti a Gerusalemme Pilato e Caifa.

Solo tre anni dopo Paolo farà ritorno a Gerusalemme, sostandovi quindici giorni e trovandovi solo Pietro e Giacomo (Gal 2,19). È la fine del 36 o l’inizio del 37: Caifa e Pilato erano stati rimossi dai loro incarichi, gli altri apostoli già tutti in missione e Maria ad Efeso, con Giovanni.

Ancora una volta la ricostruzione storica è sensatissima: dopo l’uccisione di Giovanni il battista ad opera di Antipa, per la questione di Erodiade (figlia di Aristobulo e sorella di  Erode Agrippa, nonchè moglie di Filippo prima di andare con Antipa, che era già sposato con la figlia del re nabateo Areta IV) la situazione fu in stallo fino alla morte di Filippo, nel ventesimo anno di Tiberio, ossia nel 34.

A quel punto scoppiò la guerra tra Areta ed Antipa, che volse a favore del primo, senza che Roma gradisse. In Antichità giudaiche (18, 116-119) Giuseppe Flavio scrive che Dio aveva punito Antipa per l’uccisione di Giovanni, facendogli perdere la guerra, anche perché i fedelissimi di Filippo a quel punto passarono con Areta, contro Antipa.
Nel frattempo alcune rimostranze mal governate da Pilato portarono nel 35 a una strage di samaritani sul monte Garizim: i samaritani, che nel complicato scacchiere medio-orientale erano nemici dei giudei e alleati dei romani, si appellarono a Tiberio che dispose di mettere ordine nella turbolenta area (c’era anche un conflitto con i Parti, in Siria).

Pilato, già sospettato per l’amicizia con Seiano e screditato da quanto accaduto illegalmente a Stefano, fu richiamato a Roma. Vitellio giunse a Gerusalemme nella Pasqua del 36 esautorando definitivamente Pilato ed il suo “amico” Caifa.
Dunque nel 34 Paolo, incaricato dal sinedrio, poteva andare a Damasco a caccia dei seguaci di Gesù in un’area non di guerra: ma meno di tre anni dopo, prima che Paolo tornasse a Gerusalemme, in quella stessa città a comandare è invece Areta (è Paolo stesso a scriverne, in 2 Cor 11,32): tutto torna.

Con la pax romana imposta da Tiberio a tutta l’area, i cristiani possono “respirare” (At 9,31), ma durerà poco: a metà marzo del 37 Tiberio muore e con Caligola ricominciano i guai.


Russia, sui kamikaze girano troppi falsi miti di Massimo Introvigne, 24-01-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Almeno 35 persone sono rimaste uccise in un attentato suicida nell'aeroporto moscovita di Domodedovo. I feriti sono più di 130, una ventina sono gravi. Per la polizia il kamikaze era di origine "caucasica", il che sembra avvalorare la pista del separatismo ceceno. Massima allerta nella capitale.  Il presidente russo Dmitri Medvedev confermando che si tratta di attacco terroristico ha affermato: «Puniremo i responsabili,  ora occorre instaurare un regime speciale per garantire la sicurezza».


L’attentato di Mosca, orribile strage che deve suscitare la riprovazione di tutto il mondo civile e invitare noi cattolici alla preghiera di suffragio per le povere vittime, ricorda a un’opinione pubblica che lo aveva dimenticato che il problema della Cecenia non è stato “risolto”. La Russia controlla militarmente il territorio, ma in assenza di soluzioni politiche il fuoco cova sotto le ceneri alimentato da Al Qaida che, a sua volta, non ha affatto cessato di operare nel Caucaso.

La strage dell'aeroporto di Mosca ripropone anche la domanda generale sul terrorismo suicida: come è possibile che qualcuno davvero – secondo lo slogan di Osama bin Laden – «ami la morte come voi Occidentali amate la vita»? Si dice che questo terrorismo nasce dalla miseria economica: ma non è vero. Per quanto riguarda Hamas e la Palestina, la maggioranza dei terroristi coinvolti negli attentati suicidi, cui ho dedicato una ricerca e un libro nel 1999, appartiene alla buona borghesia dei Territori, e alcuni fanno parte dell'élite economica locale. Lo stesso discorso vale per Al Qaida e per l’11 settembre, i cui principali protagonisti avevano ricevuto un’educazione universitaria. Alcuni avevano perfino studiato in Occidente.

Per la Cecenia una certa propaganda russa diffonde lo stereotipo di contadini e contadine - molte terroriste sono donne, anche se stavolta ad avere colpito sembra sia stato un uomo - manipolati e perfino drogati dai sodali locali di Al Qaida. Questa «spiegazione» appare lontana da tutto quanto si sa del terrorismo suicida in genere, e non corrisponde alle poche biografie di «martiri» ceceni note.

Lo stereotipo della contadina manipolata non è certamente applicabile a Zarina Alikhanova (1976-2003), il modello e il mito cui i terroristi di oggi s’ispirano e la protagonista dell’attentato del 12 maggio 2003 a Znamenskoye, uno dei più sanguinosi (sessanta morti). Nata in Kazakhistan da padre ceceno, funzionario del ministero degli Interni, e madre dell’Inguscezia, proprietaria di magazzini commerciali, Zarina è una studentessa modello in una elitaria scuola tedesca. La sua passione è il balletto, e una rapida carriera al Teatro dell’Opera di Alma Ata culmina nell’interpretazione in una produzione del Romeo e Giulietta di Sergey Prokofiev.

Tramite parenti di Grozny, entra in contatto con la guerriglia cecena, ne sposa un dirigente e – dopo la morte del marito nel 1999 – passa, con altre «vedove nere», al terrorismo. Zarina Alikhanova assomiglia molto agli esponenti della borghesia palestinese o araba che troviamo in Hamas o in Al Qaida, e molto poco allo stereotipo della contadina disperata.

L’idea secondo cui le cause del terrorismo suicida sono prevalentemente economiche è semplicemente un’ulteriore manifestazione – smentita però dai fatti – del vecchio pregiudizio di origine marxista secondo cui i fenomeni che si presentano come religiosi non sono «veramente» tali, ma devono per forza avere cause di tutt’altra natura. Non è così. Gli attentati come quello Mosca non sono frutto dell’economia ma dell’ideologia. Di una dottrina di morte che forse non è più di moda denunciare in Occidente, ma che continua a essere predicata nelle moschee ultra-fondamentaliste del mondo intero. E che continua a uccidere.


Avvenire.it, 25 gennaio 2011 - CHIESA IN CAMMINO - Bagnasco: «L’ora della saggezza e della virtù» di Mimmo Muolo

Nuvole scure al di là delle ampie vetrate dell’albergo che domina il porto di Ancona. Nuvole come quelle che il cardinale Angelo Bagnasco evoca in apertura della sua prolusione e che, sottolinea, «preoccupanti si addensano sul nostro Paese». Infatti «si respira un evidente disagio morale», afferma il presidente della Cei, che parla anche di «debolezza etica», «fibrillazione politica e istituzionale» e di «comportamenti contrari al pubblico decoro», ma non nasconde che molti si chiedono «a cosa sia dovuta l’ingente mole di strumenti di indagine».

Invece l’Italia ha bisogno di «saggezza e virtù», di «sobrietà, disciplina e onore» da parte di chi ha cariche pubbliche; e necessita di investimenti sui giovani, sulla famiglia, sulla solidarietà e il lavoro. Così di un nuovo atteggiamento di legalità verso il fisco: «È il momento di pagare tutti le tasse».

Come era nelle attese, dunque, il discorso con cui l’arcivescovo di Genova ha aperto la riunione del Parlamentino della Cei (Ancona è stata scelta in vista del Congresso eucaristico nazionale che si terrà a settembre, proprio qui), tocca tutti i punti più caldi dell’attualità, cercando inoltre di risalire alle cause ultime di quell’«evidente disagio morale», di cui si diceva. Nel testo, che Avvenire pubblica integralmente, c’è infatti un illuminante riferimento al pensiero del beato Henry Newman, che già ai suoi tempi metteva in guardia dal sostituire la coscienza con «il diritto ad agire a proprio piacimento». Una tendenza, annota il presidente della Cei, che sembra «d’incanto prolungata fino ad oggi».

Nelle quasi 14 cartelle della prolusione, Bagnasco (che sabato era stato ricevuto in udienza dal Papa, proprio in vista di questo Consiglio permanente) parla anche di libertà religiosa e cristianofobia, una piaga che in zone come il Medio Oriente sta diventando «una vera e propria pulizia etnica». A questo proposito chiede che la questione venga posta nelle sedi internazionali (Onu ed Ue soprattutto) ed apprezza i «passi molto importanti compiuti dall’Italia in questo senso».
Quando poi il cardinale passa a parlare delle vicende italiane, pur non facendo mai esplicita menzione del caso Ruby, pronuncia parole che non possono essere equivocate.

«Bisogna che il nostro Paese superi, in modo rapido e definitivo, la convulsa fase che vede miscelarsi in modo sempre più minaccioso la debolezza etica con la fibrillazione politica e istituzionale, per la quale i poteri non solo si guardano con diffidenza ma si tendono tranelli, in una logica conflittuale che perdura ormai da troppi anni», ricorda il presidente della Cei. Il quale, quando parla delle «notizie che riferiscono di comportamenti contrari al pubblico decoro e si esibiscono squarci – veri o presunti – di stili non compatibili con la sobrietà e la correttezza», si riferisce chiaramente anche al caso che coinvolge il presidente del Consiglio.

Ma quando poi sottolinea che «qualcuno si chiede a che cosa sia dovuta l’ingente mole di strumenti di indagine», sembra mandare un preciso segnale anche ai magistrati di Milano. Non certo per quella che qualcuno potrebbe definire una scelta in qualche modo "cerchiobottista", ma per la profonda convinzione che «la vita di una democrazia» comporta la capacità da parte di ciascuno «di auto-limitarsi, di mantenersi cioè con sapienza entro i confini invalicabili delle proprie prerogative».

In ogni caso, ricorda il cardinale, per tutti «gli attori della vita pubblica», cui «la collettività guarda sgomenta», vale la regola d’oro sancita dall’articolo 54 della Costituzione. «Chiunque accetta di assumere un mandato politico deve essere consapevole della misura e della sobrietà, della disciplina e dell’onore che esso comporta». Il pericolo, infatti, è che «dalla presente situazione nessuno ricaverà realmente motivo per rallegrarsi, né per ritenersi vincitore».

La confusione e «la reciproca delegittimazione» sono veleni che «inquinano» l’intero tessuto sociale. «È necessario fermarsi tutti in tempo – esorta Bagnasco – fare chiarezza in modo sollecito e pacato, e nelle sedi appropriate, dando ascolto alla voce del Paese che chiede di essere accompagnato con lungimiranza ed efficacia, senza avventurismi, a cominciare dal fronte dell’etica della vita, della famiglia, della solidarietà e del lavoro».

Una parte rilevante della prolusione è perciò dedicata alle responsabilità degli adulti verso le nuove generazioni. «Se si ingannano i giovani, se si trasmettono ideali bacati cioè guasti dal di dentro, se li si induce a rincorrere miraggi scintillanti quanto illusori, si finisce per trasmettere un senso distorcente della realtà, si oscura la dignità delle persone, si manipolano le mentalità, si depotenziano le energie del rinnovamento generazionale».

Il presidente della Cei punta il dito anche contro la mentalità che tende a «preservare i giovani» dalle «difficoltà e dalle durezze dell’esistenza». Così facendo si rischia di «far crescere persone fragili, poco realiste e poco generose». «Se a questo si aggiunge – prosegue il cardinale – una rappresentazione fasulla dell’esistenza, volta a perseguire un successo basato sull’artificiosità, la scalata furba, il guadagno facile, l’ostentazione e il mercimonio di sé, ecco che il disastro antropologico in qualche modo si compie a danno soprattutto di chi è in formazione». Parole che vengono sicuramente avvalorate dai fatti della cronaca.

Che fare, dunque? Per Bagnasco bisogna che i giovani «sappiano che nulla di umanamente valevole si raggiunge senza il senso del dovere, del sacrificio, dell’onestà verso se stessi, scartando insidie e complicità». Sono dunque i «valori perenni» quelli che il porporato invoca. Quei valori religiosi sui quali l’identità italiana è stata edificata e che devono tornare a rischiararne il panorama. «Cambiare in meglio si può», conclude il porporato. E così sarà possibile scacciare anche le nubi all’orizzonte.


Avvenire.it, 24 gennaio 2011 – PROLUSIONE - «Per l'Italia è l'ora di saggezza e virtù», S.E. Card. Angelo Bagnasco

Venerati e cari Confratelli,

ci ritroviamo insieme, all’inizio del nuovo anno 2011, per la sessione invernale del nostro Consiglio Permanente, mentre nubi ancora una volta preoccupanti si addensano sul nostro Paese. Già la convocazione nella sede di una delle nostre Diocesi dice i propositi che ci muovono, l’attendere cioè all’attività della Conferenza, compresi gli appuntamenti che interessano comunitariamente le Chiese particolari che sono in Italia. Salutiamo, quindi, con grande cordialità l’Arcivescovo di Ancona-Osimo, Sua Eccellenza Monsignor Edoardo Menichelli, e lo ringraziamo per l’ospitalità che unitamente alla sua comunità diocesana ci offre, assicurandolo fin d’ora della nostra corale partecipazione al Congresso Eucaristico Nazionale che qui avrà luogo dal 3 all’11 settembre 2011. Sappiamo che da tempo, e d’intesa con il Comitato per i Congressi Eucaristici Nazionali, è in atto un’accurata preparazione all’evento che – non fatichiamo ad immaginarlo – si rivelerà non solo impegnativo, ma anche prezioso e corroborante per la vita di questa Diocesi, nonché di tutte le Diocesi marchigiane.

Al Santo Padre Benedetto XVI vogliamo subito esprimere il nostro filiale pensiero e la cordiale gratitudine per l’imminente beatificazione del Servo di Dio Giovanni Paolo II: l’annuncio di questo evento ha colmato di gioia non solo l’animo dei credenti, ma il mondo intero che con ammirazione e riconoscenza custodisce il ricordo di questo straordinario pastore del nostro tempo. Contemporaneamente, autorizzando la pubblicazione di altri nove decreti, il Papa ha aperto la strada della beatificazione per il professor Giuseppe Toniolo, fondatore delle Settimane Sociali, laico caro all’Azione Cattolica Italiana e all’Università Cattolica del Sacro Cuore, e per suor Antonia Maria Verna, fondatrice delle Suore della Carità dell’Immacolata Concezione di Ivrea. Ci rallegriamo per la compagnia di questi nuovi modelli che la Chiesa ci propone sulla strada della santità.

1. Conserviamo come preziosa in noi l’eco delle celebrazioni natalizie, con il loro corredo di tradizioni e di clima intensamente familiare, in coincidenza delle quali s’è potuto ancora una volta constatare il fascino benefico che la tradizione cristiana continua a far sentire ovunque nel nostro Paese. E ciò sembra muoversi in un quadro interpretativo nel quale una de-cristianizzazione progressiva apparirebbe ad alcuni ineluttabile. In realtà, sugli esiti possono influire una serie non interamente ponderabile di cause, che determinano situazioni in continua evoluzione. La fede religiosa può far fronte alle intemperie, e ciascuno di noi è testimone di esperienze positive, capaci di rinvigorire e proporre una concezione della vita tipicamente cristiana. C’è, d’altra parte, un legame personale con lo spazio e il tempo che solo la religione riesce ad assicurare. Conosciamo il fascino che esercita il mistero di un Dio mai stanco degli uomini, che si fa loro incontro nella forma scandalosamente più dimessa, fino a permettere alla nostra presuntuosa libertà di ignorarlo o addirittura sentirlo come rivale (cfr Benedetto XVI, Omelia nella Solennità dell’Epifania, 6 gennaio 2011).

Dio supera il nostro metro di misura  e lo sorprende, non in astratto però, bensì  nel Bimbo deposto in una grotta. Pur inerme, è la Verità per contemplare la quale è indispensabile «invertire la rotta» e «uscire dall’autonomia del pensiero arbitrario verso la disposizione all’ascolto, che accoglie ciò che è» (Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al convegno sull’Eredità spirituale e intellettuale di Romano Guardini, 29 ottobre 2010). Certo, nel mistero del Natale riusciamo ad avvertire nitidissimo anche lo strazio per chi si tiene lontano, e non vuol essere raggiunto neppure da un Dio Bambino; ma anche per chi è talmente compreso di sé e della sua propria intelligenza, da non lasciarsi insidiare dallo stupore né ghermire dal sorriso, gratuito e totale che, dalla grotta di Betlemme, si spande sul mondo. Nell’umiltà di quella carne, troviamo le parole più preziose, le verità più decisive per l’uomo peccatore e il destino eterno del tempo e del cosmo. Il mistero colà annunciato si svilupperà nel corso dell’anno liturgico, dispiegando le profondità della fede. Verità e parole che sono il corpo del Vangelo, quale risuona costantemente sulle labbra dei Pastori ed è alla base di ogni gesto che appartiene alla missione della Chiesa amica dell’uomo, ma non solo, amica della società e del mondo.
Nel periodo natalizio, ad esempio, com’è consuetudine siamo stati, noi e i nostri Confratelli Vescovi, in visita alle carceri presenti nei rispettivi territori. Ed insieme alla calorosa accoglienza del gesto e del messaggio, si è riscontrato il persistere amaro dei problemi legati principalmente al sovraffollamento, di cui già dicemmo nella prolusione dello scorso settembre.

2. La strage avvenuta ad Alessandria d’Egitto il primo giorno del 2011, che ha causato la morte di ventitré cristiani copti e il ferimento di altri novanta, è stato probabilmente l’episodio oltre il quale l’opinione pubblica non poteva più far finta di non vedere, ossia lo stillicidio di situazioni persecutorie, che nell’ultimo periodo si erano verificate in diverse zone del mondo, e avevano avuto i cristiani come vittime designate. Questi da tempo sono diventati il gruppo religioso che deve affrontare il maggior numero di persecuzioni a motivo della propria fede. Un crescendo di episodi sanguinosi che nel corso dei mesi aveva interessato India, Pakistan e Filippine, Sudan e Nigeria, Eritrea e Somalia. Ma i fatti più gravi sono avvenuti in Iraq ed infine in Egitto; in entrambe le situazioni, a precedenti episodi di sangue trascurati o non chiariti, ne sono seguiti altri sempre più gravi. Impressiona che il momento di preferenza scelto per condurre gli agguati contro i cristiani sia il giorno di festa, durante la celebrazione liturgica o all’uscita di chiesa. E ciò non fa che aggiungere orrore ad orrore. Naturalmente ciascun episodio fa caso a sé, così come ciascuna Nazione ha uno scenario proprio. Il Medio Oriente è di sicuro la regione a più alta tensione; lì la cristianofobìa, che è la versione più corrente dell’intolleranza religiosa, non è lontana dal porsi ormai nelle forme della pulizia etnica o religiosa, benché i cristiani siano colà una componente certo non aggiuntiva né importata, e per secoli quella terra sia stata laboratorio di convivenza tra fedi ed etnie diverse.

Per i cattolici, e probabilmente non solo per loro, la coincidenza della strage di Alessandria d’Egitto con la 44ª Giornata mondiale della Pace ha gettato una luce ulteriore sul tema che quest’anno è stato scelto dal Papa, ossia «Libertà religiosa, via per la pace». Un’indicazione questa – si ricorderà – che aveva avuto un’ampia trattazione negli anni Ottanta del secolo scorso, allorché si trattava di far maturare oltre-cortina la situazione interna ai Paesi dell’Est europeo, dove i regimi comunisti non potevano tollerare la libertà religiosa. Come non ricordare Giovanni Paolo II e la sua penetrante azione, volta a iscrivere – dinnanzi al mondo – il principio della libertà religiosa tra i diritti fondamentali dell’uomo, e a farne anzi il coronamento oltre che il criterio veritativo? Il suo Successore, Benedetto XVI, ha inteso riprendere esplicitamente quel magistero e nel Messaggio pubblicato per la Giornata del 1° gennaio 2011 ne offre la trattazione – ad oggi – più consequenziale ed organica. «Nella libertà religiosa, infatti – scrive il Papa – trova espressione la specificità della persona umana, che per essa può ordinare la propria vita personale e sociale a Dio, alla cui luce si comprendono pienamente l’identità, il senso e il fine della persona».

E continua: «Negare o limitare in maniera arbitraria tale libertà significa coltivare una visione riduttiva della persona umana; oscurare il ruolo pubblico della religione significa generare una società ingiusta, poiché non proporzionata alla vera natura della persona» (n. 1). E se il diritto alla libertà religiosa è radicato nella dignità umana (n. 2), e sta all’origine della libertà morale (n. 3), significa anche che la stessa libertà religiosa gode di uno statuto speciale giacché quando essa «è riconosciuta, la dignità della persona è rispettata nella sua radice, e si rafforzano l’ethos e le istituzioni dei popoli» (n. 5). La libertà religiosa – ancora – «è un bene essenziale: ogni persona deve poter esercitare liberamente il diritto di professare e di manifestare, individualmente o comunitariamente, la propria religione o la propria fede, sia in pubblico che in privato, nell’insegnamento, nelle pratiche, nelle pubblicazioni, nel culto e nell’osservanza dei riti. Non dovrebbe incontrare ostacoli se volesse eventualmente aderire ad un’altra religione o non professarne alcuna» (ib).

Per questo motivo ai diritti di natura religiosa, l’ordinamento internazionale assegna «lo stesso status del diritto alla vita e alla libertà personale, a riprova della loro appartenenza al nucleo essenziale dei diritti dell’uomo, a quei diritti universali e naturali che la legge umana non può mai negare […]. È elemento imprescindibile di uno Stato di diritto» (ib). La mia, qui, è un’evocazione solo per rapidissimi cenni, desiderando piuttosto incoraggiare i credenti ad una lettura approfondita del testo, notevole davvero per compattezza ed ispirazione, e che va meditato unitamente all’Omelia tenuta nella solennità di Maria Madre di Dio, e al Discorso pronunciato dinanzi al Corpo Diplomatico il 10 gennaio 2011. Anche per gli osservatori e opinionisti laici si va, per fortuna, diffondendo la consapevolezza che la religione, elemento personale e interiore più di ogni altro, non va intesa in senso privato, e dunque isolabile, rispetto al quale assumere atteggiamenti apparentemente neutri, seppur in realtà indifferenti, quando non scettici.

3. Nessuno Stato accetta oggi tranquillamente condizioni di disuguaglianza nei rapporti economici, politici e culturali: se questo è vero, ed è fatto valere nelle sedi internazionali, occorre che il problema delle più elementari garanzie negate alle minoranze religiose – in non poche situazioni nazionali – venga posto con la lucidità e l’energia necessarie. Si apre qui, è noto, un problema drammatico di reciprocità, che non si risolve minacciando ritorsioni o attenuando, in Italia e in Occidente, le garanzie dei cittadini provenienti dagli Stati che non assicurano parità di trattamento. Anziché procedere con mezzo passo in avanti, se ne farebbe uno indietro.

Questo però non può essere un alibi per incrementare colpevoli acquiescenze o finti pragmatismi. Si può e si deve urgentemente porre la questione della libertà religiosa nelle sedi internazionali – Unione Europea, Onu…– al fine di aprire gli occhi e mantenerli aperti, insistendo affinché nei singoli Stati vi sia un sistema minimo di garanzie reali per la libertà di tutte le fedi. Esiste la possibilità di istituire degli osservatori internazionali in grado di controllare quello che concretamente avviene nei singoli territori. È ragionevole presumere ci siano, in ogni Paese, settori di opinione pubblica sufficientemente maturi da comprendere che l’estinguersi delle minoranze interne non può non segnare un’involuzione massimalista, quando non totalitaria. Ciò spiega il dibattito magari sottotraccia che esiste anche nelle situazioni più blindate, come pure gli appoggi che i cristiani ricevono sempre di più anche da esponenti di religione diversa. La questione tuttavia, di una fondamentale libertà religiosa, è da sollevarsi opportunamente nelle sedi multilaterali, come nelle relazioni bilaterali, e nei rapporti informali tra rappresentanti di Paesi diversi, avendo cura che l’interessamento puntuale non abbia a scatenare ritorsioni sulle spalle già oberate di chi soffre. Passi molto importanti in questo senso sono stati compiuti dall’Italia, e di ciò noi Vescovi non possiamo non essere grati.

Saremmo – per così dire – ancora più soddisfatti se tutti i nostri stimati interlocutori prendessero atto che subdole minacce ad un’effettiva libertà religiosa esistono anche nei Paesi di tradizione democratica, a partire da quelli europei. Dovremmo guardarci infatti dai sottili tranelli dell’ipocrisia, che induce a cercare lontano ciò che invece è riscontrabile anche vicino. Il Papa nel suo Messaggio non manca di rilevarlo (cfr n. 13; e anche il Saluto all’Angelus, 1 gennaio 2011, e il Discorso cit.), e dal canto nostro, al pari di Confratelli di altri Paesi, non manchiamo di ripeterlo quando serve, ad esempio nella vicenda del Crocifisso esposto nelle scuole o in ambito pubblico. Convinti come siamo che la libertà religiosa è un perno essenziale e delicatissimo, compromesso il quale è l’intero meccanismo sociale a risentirne, solitamente anche oltre le previsioni. C’è talora un argomentare infastidito sulla neutralità dello Stato che si rivela non poco capzioso.

E c’è un’aggressività laicista dalle singolari analogie con certe ossessioni ideologiche che ci eravamo lasciati alle spalle senza rimpianti. Colpisce, in questo senso, la denuncia che nel mese scorso è stata diffusa durante un convegno viennese dell’Osce secondo la quale un’astratta applicazione del principio di non discriminazione finisce paradossalmente per comportare un’oggettiva limitazione al diritto dei credenti a manifestare pubblicamente la propria fede. Un male sottile insomma sta affliggendo l’Europa, provocando una lenta, sotterranea emarginazione del cristianesimo, con discriminazioni talora evidenti ma anche con un soffocamento silente di libertà  fondamentali. Il caso su cui ci si sofferma è quello dell’obiezione di coscienza sui temi di alta rilevanza etica che, in più nazioni, si tenta ormai di ridimensionare. Ciò segnerebbe un regresso sul crinale della libertà. Emarginare simboli, isolare contenuti, denigrare persone è arma con cui si induce al conformismo, si smorzano le posizioni scomode, si mortificano i soggetti portatori di una loro testimonianza in favore di valori cui liberamente credono.

Osiamo con ciò chiedere, come Vescovi, un esame di coscienza per tutti impegnativo. C’è infatti qualcosa che ciascuno può fare per determinare miglioramenti concreti. Chi non comprende come l’invito rivolto dal Papa alle popolazioni bersagliate a «non cedere allo sconforto e alla rassegnazione» (Saluto all’Angelus, 1 gennaio 2010) suoni più efficace se quanti vivono in situazioni di libertà mettono in campo gesti concretamente volti alla solidarietà e alla condivisione? Intanto, poiché cittadini di altre religioni sono già in mezzo a noi, dobbiamo imparare a vivere con la diversità prossima a noi stessi, dando all’altro considerazione, facendolo esistere nell’attenzione e nel rispetto. In questo modo si può diventare quasi degli ambasciatori informali che, nelle forme della ferialità, danno un apporto significativo per modellare positivamente le relazioni tra gruppi etnici e contribuiscono a determinare l’inflessione dei rapporti tra i popoli.

Nel contempo, dobbiamo interpretare a tutto tondo i dettami della nostra religione, senza subire inibizioni striscianti, e ritenendo a nostra volta che vivere fino in fondo la fede, oltre a non essere uno stato di minorità, è un modo eccellente per rendere migliore il mondo. È il momento, come cristiani, di vincolarci di più alla Parola di Dio, in un approccio orante, personale e comunitario: è quanto ci chiede l’esortazione apostolica Verbum Domini (cfr ad esempio i nn. 86 e 87), pubblicata il 30 settembre scorso, e proposta alla coscienza ecclesiale come un’eredità condivisa dell’ultimo Sinodo mondiale dei Vescovi. In occasione del viaggio papale in Gran Bretagna ci furono osservatori, solitamente non proprio favorevoli alla Chiesa cattolica, che riservarono a Benedetto XVI apprezzamenti non formali a proposito del suo modo di porsi, di essere convincente, di indurre negli interlocutori interrogativi non scontati. Proprio questo stile, mite ma anche coraggioso e insieme persuasivo, vorremmo raccomandare a noi stessi e alle nostre Chiese.

È noto, inoltre, che su invito di Papa Benedetto nell’ottobre prossimo avrà luogo ad Assisi un Incontro interreligioso tra i rappresentanti delle Religioni mondiali, a venticinque anni da quello promosso da Giovanni Paolo II. Gesto tuttavia che nel contesto odierno rivelerà non solo la pertinenza della religione nel mondo di oggi ma il potenziale di pace e di sviluppo connesso alle relazioni interreligiose. E qui verrebbe spontanea una considerazione sul profilo del nostro Paese, chiamato ancora una volta a vivere da testimone privilegiato eventi di grande e universale significato simbolico. Ebbene, in vista di questo appuntamento, ci piacerebbe che i nostri fedeli mettessero fin d’ora in moto il cuore e l’anima così da preparare spiritualmente e culturalmente l’Italia ad accoglierlo come conviene. Per questa convocazione del Santo Padre, le comunità parrocchiali e quelle religiose sono chiamate infatti a pregare in modo speciale, sulla scia della giornata di preghiera indetta per domenica 21 novembre, affinché il Dio di ogni misericordia voglia far scendere da essa frutti copiosi di concordia e di pace. Domani, nella festa della Conversione di San Paolo, si conclude la Settimana dedicata all’unità dei cristiani: è stata l’occasione per interiorizzare ancora meglio che il cammino verso l’unità «abita nella preghiera» e che, dispiegandosi nella «comune responsabilità verso il mondo, dobbiamo rendere un servizio comune» (Benedetto XVI, Discorso all’Udienza Generale, 19 gennaio 2011).

4. Accennavo un attimo fa al profilo interiore dell’Italia. Più precisamente, vorrei riferirmi a ciò che ancora oggi la fa essere qualcosa di più della somma di tanti singoli individui, ossia un popolo, e tale in forza non dello Stato, il quale viene dopo, ma di una comunità di destino che cammina con gli altri popoli, e tra gli altri ha una sua indole, un suo carattere, una sua vocazione, potremmo dire  una sua anima. Quando, ad esempio, san Francesco e santa Caterina evocavano nei loro scritti l’Italia – molti secoli prima dell’unità raggiunta nel 1861, di cui si sta felicemente celebrando il 150° anniversario – si riferivano con ogni evidenza ad un’entità geografica che con quel nome era già identificabile, tant’è che sul territorio circolava, oltre alle parlate locali, anche una lingua comune, c’erano scambi e commerci, c’erano letterati, giuristi ed artisti che lavoravano per le diverse corti, e in qualche modo anzi le accomunavano.

E potevano farlo in ragione di una predicazione cristiana che, toccando le varie città e contrade, aveva dato forma agli archetipi fondamentali di base. Intendo dire che il vincolo religioso è stato realmente l’incunabolo da cui è scaturita la prima coscienza di una identità italiana. E ciò non per rimarcare diritti o primati, ma per ricordare che nella storia dei popoli vi sono caratteristiche «che non possono essere negate, dimenticate o emarginate», e che quando è accaduto «si sono causati squilibri e dolorose fratture» (Benedetto XVI, Discorso al nuovo Ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede, 17 dicembre 2010). Va da sé che la fede, nella misura in cui punta all’interiorità, non possa ridursi al fenomeno di «religione civile»; nello stesso tempo non si può negare che abbia una ricaduta nella vita comunitaria e pubblica. La religione è certo apprezzabile nella società civile per le sue attività caritative e assistenziali, dunque per la sua dimensione orizzontale. Essa però prospera nella misura dell’intensità della dimensione verticale. L’apertura al trascendente, che pure è indisponibile allo Stato, non può essergli tuttavia indifferente, in quanto struttura la persona, la mette in grado di interpretare ciò che la circonda, le dona quell’idealità e quella forza morale che la materialità non garantisce. Soprattutto, la rende capace di scegliere il bene anziché il male. Che per una società è la direzione primordiale e insostituibile.

Vale anche nella nostra attualità, in cui non è difficile riscontrare – osserva il Papa – «una perversione di fondo del concetto di ethos» (Discorso per gli auguri alla Curia romana, 20 dicembre 2010). In una situazione in cui «esisterebbe soltanto un “meglio di” e un “peggio di”. […] tutto dipenderebbe dalle circostanze e dal fine inteso. A seconda degli scopi e delle circostanze, tutto potrebbe essere bene o anche male» (ib). In una situazione del genere, quando in certi momenti sembra che a vacillare siano i fondamenti stessi di una civiltà, si comprende forse meglio quale sia «il patrimonio di principi e di valori espressi da una religiosità autentica […]. Essa parla direttamente alla coscienza e alla ragione degli uomini e delle donne, rammenta l’imperativo della conversione morale, motiva a coltivare delle virtù e ad avvicinarsi l’un l’altro con amore, nel segno della fraternità, come membri della grande famiglia umana» (Messaggio cit. n. 9). È la religione ad aiutare la persona a distinguere tra l’assenza di costrizioni e il comportarsi secondo i doveri della coscienza. Non è un caso che la cultura moderna abbia indotto a sovrapporre i due concetti. Scriveva Newman: «Al giorno d’oggi, per una buona parte della gente, il diritto e la libertà di coscienza consistono proprio nello sbarazzarsi della coscienza, nell’ignorare il Legislatore e Giudice, nell’essere indipendenti da obblighi che non si vedono. […] La coscienza è una severa consigliera, ma in questo secolo è stata rimpiazzata da una sua contraffazione, di cui i diciotto secoli passati non avevano mai sentito parlare o dalla quale, se ne avessero sentito, non si sarebbero mai lasciati ingannare: è il diritto ad agire a proprio piacimento» (Lettera al Duca di Norfolk, Milano 1999).

Ora, a parte il rilievo che il secolo in cui viveva Newman sembra essersi d’incanto prolungato fino ad oggi, com’è possibile non farsi aiutare dal nuovo Beato a identificare proprio nello stravolgimento del concetto di coscienza la causa di tanti equivoci? Forse non è vero che l’origine di troppe scelte sbagliate sta nello scambiare l’opzione di coscienza con la pretesa di essere padroni di agire come ci pare? Oppure com’è, sul momento, più conveniente e redditizio? Troppe volte, nella cultura come nella vita, si confonde il concetto di coscienza, ossia la capacità della persona di riconoscere la verità e decidere di incamminarsi in essa, con l’ultima perentorietà dell’istanza soggettiva (cfr anche Benedetto XVI, Discorso ai Dirigenti e Agenti della Questura di Roma, 21 gennaio 2011). In pratica, è lo stordimento attorno al falso concetto di autonomia ciò che incrina la cultura odierna, quella secondo cui la persona si pensa tanto più felice quanto si sente prossima a fare ciò che vuole. Peccato, tuttavia, che da lì in poi scoprirà che la felicità è altrove, e la si conquista in ben altro modo. Si può cogliere da qui il senso degli Orientamenti pastorali che l’Episcopato ha deciso, per questo decennio (2011-2020), in ordine all’emergenza educativa, «il cui punto cruciale sta nel superamento di quella falsa idea di autonomia che induce l’uomo a concepirsi come un “io” completo in se stesso, laddove invece egli diventa “io” nella relazione con il “tu” e il “noi”» (n. 9). Più di quanto non si pensi oggi è avvertito – seppur non ammesso – il bisogno di un’educazione coerente e duratura, che dia cioè gli ormeggi oggettivi, essendo in se stessa anche morale (cfr Benedetto XVI, Messaggio alla 62a Assemblea Generale della CEI, 4 novembre 2010).

5. La crisi economica e finanziaria che, a partire dal 2009, ha investito in pratica il mondo intero non è finita. E che non sia esaurita lo dicono studiosi ed economisti, ma del fatto abbiamo conferma anche nella concreta vicinanza alla gente, nostra e dei nostri cari sacerdoti, ai quali indirizziamo il pensiero grato e fraterno. Non mancano germi di nuovo, segnali di ripresa e di innovazione, con esperimenti rilevanti nelle relazioni lavorative, ma persistono varie situazioni impaludate.

E dentro ciascuna di esse ci sono persone e, di conseguenza, famiglie in grande allarme e in comprensibile sofferenza. Noi siamo anzitutto con loro. Contribuisce poi ad impensierirci ulteriormente il senso di spaesamento che perdura, non come un’atmosfera evidentemente artificiosa e momentanea, ma come stato d’animo concreto, affatto passeggero. Per questo resta sempre necessario ascoltare per meglio comprendere e opportunamente decidere. Ad esempio, la contestazione studentesca, sviluppatasi nelle settimane precedenti il Natale, è un fatto che merita una riflessione non scontata.

Non si è trattato di un evento ripetitivo del passato; troppo diverse le situazioni e le condizioni. Certo, hanno inquietato gli innesti di violenza e di grave devastazione che si sono registrati. Si è parlato di infiltrazioni improprie, e non tutti né ovunque sono stati pronti a dissociarsi dalla violenza. Ma in ogni campo bisogna dare ascolto alle preoccupazioni reali e ai dubbi sinceri per meglio capirsi e per poter procedere con l’apporto più ampio e onesto possibile. Riconoscendo anche, come è accaduto non di rado, che l’esperienza diretta e concreta del nuovo ha riservato sorprese positive, magari non subito colte nella concitazione degli animi e degli eventi. Resta l’esigenza evidente, comunque, che ogni riforma richiede risorse indispensabili.

La prospettiva infatti del ridimensionamento di quello che ai giovani appare come il più consistente cespite di spesa che lo Stato stanzia in loro favore, deve essere apparsa incomprensibile. Ma oltre a queste motivazioni psicologiche – di impellenza immediata – ci sono quelle lunghe, ossia la consapevolezza che essi hanno di arrivare alla ribalta in cui dovrebbe cominciare la vita adulta e autonoma, quando una serie di condizioni sono diventate sfavorevoli. Si dice che questa sia la prima generazione della decrescita, e la si chiama generazione inascoltata o non garantita. La disoccupazione giovanile è un dramma per l’intera società, e non solo per i giovani direttamente interessati. Stando alle statistiche, ci sono oltre due milioni di giovani tra i 15 e 34 anni che non studiano, non lavorano, né ormai cercano più un impiego. Dicono di saper già di non trovarne uno stabile e sono poco disponibili ad abbracciarne uno qualsiasi. La svalutazione del lavoro manuale, anche specializzato, è evidente. E questo non è un bene. Il mondo degli adulti, secondo le diverse responsabilità, è in debito nei confronti delle nuove generazioni, “in debito di futuro”. I giovani non vogliono certo essere accarezzati come degli eterni adolescenti, desiderano essere considerati responsabili e quindi trattati con serietà, ma chiedono di non sentirsi soli, gettati nella vita e privi di possibilità.

6. In un documento del nostro Episcopato pubblicato trent’anni or sono e che ebbe a suo tempo una notevole accoglienza (La Chiesa italiana e le prospettive del Paese, 1981), si diceva icasticamente: «Il consumismo ha fiaccato tutti» (n. 11). Ed eravamo appena agli inizi di quel processo di trasformazione che interesserà l’Italia e l’Occidente nei decenni a seguire, e troverà rappresentazione nella cosiddetta “modernità liquida” dominata da quella che alcuni hanno definito “ideologia del mercato”. Colpisce l’efficacia di quella predizione, dove ad apparire centrato è in particolare il verbo usato: “fiaccare”. La desertificazione valoriale ha prosciugato l’aria e rarefatto il respiro.

La cultura della seduzione ha indubbiamente raffinato le aspettative ma ha soprattutto adulterato le proposte. Ha così potuto affermarsi un’idea balzana della vita, secondo cui tutto è a portata di mano, basta pretenderlo. Una sorta di ubriacatura, alle cui lusinghe ha – in realtà – ceduto una parte soltanto della società. Però il calco di quel pensiero è entrato sgomitando nella testa di molti, come un pensiero molesto che pretende ascolto. Un ascolto peraltro che diventava sempre più improbabile, considerato il nuovo clima sociale, determinato da un volano economico che senza tanti complimenti si era messo a girare all’incontrario. Noi siamo testimoni della dignità con cui la nostra gente sta normalmente reagendo alle difficoltà che si sono presentate, arrivando a configurare un andamento diverso nel passo del mondo. Sembrava che il trend della crescita dovesse tutto sommato aumentare sempre, in un movimento espansivo che avrebbe via via incluso sempre nuove fette di popolazione. Invece la crisi si è presentata come una sorta di drenaggio generale, obbligando un po’ tutti a rivedere le proprie ambizioni.

C’è una verità, forse non troppo detta, ma che la gente ha intuito abbastanza presto: si stava vivendo al di sopra delle proprie possibilità. Bisogna allora imprimere una moderazione complessiva dell’andamento di vita, senza dimenticare – anzi! – tutti coloro che già prima vivevano sul filo e oggi si trovano sotto. Con bilanci meno ambiziosi, occorre far fronte a tutte le necessità di una società moderna, per di più senza poter più contare sullo sfogo del debito pubblico che invece dovrà rientrare. Ma che fare se ognuno difende a spada tratta il livello di vita già acquisito? Questo è il punto in cui i problemi dei giovani vengono a coincidere con le questioni di ordine generale: bisogna infrangere l’involucro individualista e tornare a pensare con la categoria comunitaria del “noi”, perché tutto va ricalibrato secondo un diverso soggetto.

Anziché una somma di tanti “io”, sicuramente legittimi e forse un po’ pretenziosi, occorre insediare il plurale che abita in ogni famiglia, il plurale di cui si compone ogni società. Non sarà un’operazione facile, ma occorrerà convertire una parte di ciò che eravamo abituati a considerare nella nostra esclusiva disponibilità, e metterlo nella disponibilità di tutti. E naturalmente chi nel frattempo aveva accumulato di più, qualcosa di più ora deve mettere a disposizione. Quando un anno e mezzo fa cercavamo di trovare il senso di ciò che la crisi poteva richiedere, si parlò ad un certo punto di una necessaria conversione degli stili di vita. Ora ci siamo arrivati.

C’è un’alfabetizzazione etica su questa nuova stagione che occorre saper alimentare anche al livello dei nostri gruppi, delle nostre associazioni, dei nostri movimenti. Se una parte di reddito va ridistribuita per poter corrispondere alle essenziali attese delle ultime generazioni, che diversamente rimarrebbero sul lastrico, ecco che c’è un lavoro di rimotivazione da compiere per dare un orizzonte convincente alla dose di sacrifici che bisogna affrontare. Si torna qui alla sfida educativa che ci siamo prefissi. Nella mentalità più diffusa, la sofferenza è l’ambito oscuro della vita che è meglio mettere tra parentesi, e da cui in ogni caso è necessario preservare i più giovani. Ma questo, pur scaturito dalle migliori intenzioni, è l’autoinganno più fatale che si sia indotto nei figli, nei nipoti, nei discepoli. Tentando di preservarli dalle difficoltà e dalle durezze dell’esistenza, si rischia di far crescere persone fragili, poco realiste e poco generose. Se a questo si aggiunge una rappresentazione fasulla dell’esistenza, volta a perseguire un successo basato sull’artificiosità, la scalata furba, il guadagno facile, l’ostentazione e il mercimonio di sé, ecco che il disastro antropologico in qualche modo si compie a danno soprattutto di chi è in formazione. «Non esiste una vita senza sacrificio», ammoniva il Papa parlando proprio ai giovani (Omelia nella Domenica delle Palme, 5 aprile 2010), non si può diventare liberi da sé «senza osare il grande Sì» (ib). E poi spiegava : «Se getto uno sguardo retrospettivo sulla mia vita personale, devo dire che proprio i momenti in cui ho detto “sì” ad una rinuncia sono stati momenti grandi ed importanti della mia vita» (ib).

Anche la crescente allergia che si registra nei confronti dell’evasione fiscale è un segnale positivo, che va assecondato. Adesso più che mai è il momento di pagare tutti nella giusta misura le tasse che la comunità impone, a fronte dei servizi che si ricevono. Bisogna snellire e semplificare, ma nessuno è moralmente autorizzato ad autodecretarsi il livello fiscale. Chi fa il furbo non va ammirato né emulato. Il settimo comandamento, «Non rubare», resiste con tutta la sua intrinseca perentorietà anche in una prospettiva sociale.

7. L’intelligenza collettiva ha il dovere di riscattare l’istituto familiare dalle visioni ristrette e impacciate in cui è stato relegato. I riconoscimenti che nell’ultimo periodo sono giunti da istituzioni insospettabili alla famiglia italiana quale soggetto-baluardo della finanza nazionale e salvadanaio in grado di riequilibrare la finanza pubblica agli occhi delle autorità europee, acquistano oggi il valore di una riabilitazione culturale della famiglia stessa dinanzi a quei grandi poteri da cui è stata spesso ignorata. Conviene appena ricordare che tale esito non nasce accidentalmente, ma è il risultato paziente dell’antropologia di riferimento della nostra cultura, per la quale da sempre noi viviamo anzitutto in una società di famiglie. Questa è la campata sotto la quale l’Italia vive, avendo − sotto il profilo sociologico − una connotazione sua propria, la quale ha ripercussioni decisive a livello educativo, nel contenimento dei disagi giovanili, nella resa scolastica, nelle strategie di prevenzione sociale, nel recupero dalle dipendenze, nella comunicazione intergenerazionale.

Va da sé che una ricognizione lucida della condizione nazionale deve portare il Paese a darsi una politica familiare preveggente, che mantenga la famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna, e aperta alla vita, quale base per rilanciare il Paese, e rilanciarlo sul proprio caratteristico equilibrio esistenziale, dunque senza ossessivi cedimenti alla struttura del «soggetto singolare». Le risultanze della Conferenza nazionale sulla Famiglia, svoltasi di recente a Milano, vanno indubbiamente in questa direzione e meritano – sia per il versante culturale sia per il versante politico-fiscale – la pronta considerazione delle forze politiche. L’individuazione del “fattore famiglia” come criterio ad oggi più evoluto, in quanto più equilibrato rispetto ad ipotesi precedenti, suggerisce che l’auspicata, urgente riforma del fisco dispone già di un elemento centrale di grande convergenza. Diremo anche noi con Benedetto XVI che tutto ciò che si fa per sostenere il matrimonio e la famiglia accresce la grandezza dell’uomo, rafforzando nel contempo la società (cfr Benedetto XVI, Discorso all’Udienza Generale, 10 novembre 2010; e anche Discorso agli Amministratori della Regione Lazio, del Comune e della Provincia di Roma, 14 gennaio 2011).

Come ho già più volte auspicato, bisogna che il nostro Paese superi, in modo rapido e definitivo, la convulsa fase che vede miscelarsi in modo sempre più minaccioso la debolezza etica con la fibrillazione politica e istituzionale, per la quale i poteri non solo si guardano con diffidenza ma si tendono tranelli, in una logica conflittuale che perdura ormai da troppi anni. Si moltiplicano notizie che riferiscono di comportamenti contrari al pubblico decoro e si esibiscono squarci – veri o presunti – di stili non compatibili con la sobrietà e la correttezza, mentre qualcuno si chiede a che cosa sia dovuta l’ingente mole di strumenti di indagine. In tale modo, passando da una situazione abnorme all’altra, è l’equilibrio generale che ne risente in maniera progressiva, nonché l’immagine generale del Paese. La collettività, infatti, guarda sgomenta gli attori della scena pubblica, e respira un evidente disagio morale. La vita di una democrazia – sappiamo – si compone di delicati e necessari equilibri, poggia sulla capacità da parte di ciascuno di auto-limitarsi, di mantenersi cioè con sapienza entro i confini invalicabili delle proprie prerogative. «Muoversi secondo una prospettiva di responsabilità − ammoniva il Papa in occasione dell’ultima Settimana Sociale − comporta la disponibilità ad uscire dalla ricerca del proprio interesse esclusivo per perseguire insieme il bene del Paese» (Benedetto XVI, Messaggio alla 46a Settimana Sociale dei cattolici italiani, 12 ottobre 2010).

Come ho già avuto modo di dire, «chiunque accetta di assumere un mandato politico deve essere consapevole della misura e della sobrietà, della disciplina e dell’onore che esso comporta, come anche la nostra Costituzione ricorda (cfr art. 54)» (Prolusione al Consiglio Permanente, 21-24 settembre 2009, n. 8). Dalla situazione presente – comunque si chiariranno le cose – nessuno ricaverà realmente motivo per rallegrarsi, né per ritenersi vincitore. Troppi oggi – seppur ciascuno a modo suo – contribuiscono al turbamento generale, a una certa confusione, a un clima di reciproca delegittimazione. E questo − facile a prevedersi − potrebbe lasciare nell’animo collettivo segni anche profondi, se non vere e proprie ferite.

La comunità nazionale ha indubbiamente una propria robustezza e non si lascia facilmente incantare né distrarre dai propri compiti quotidiani. Tuttavia, è possibile che taluni sottili veleni si insinuino nelle psicologie come nelle relazioni, e in tal modo – Dio non voglia! – si affermino modelli mentali e di comportamento radicalmente faziosi. Forse che questo non sarebbe un attentato grave alla coesione sociale? E quale futuro comune potrà risultare, se il terreno in cui il Paese vive rimanesse inquinato? È necessario fermarsi − tutti − in tempo, fare chiarezza in modo sollecito e pacato, e nelle sedi appropriate, dando ascolto alla voce del Paese che chiede di essere accompagnato con lungimiranza ed efficacia senza avventurismi, a cominciare dal fronte dell’etica della vita, della famiglia, della solidarietà e del lavoro. Come Pastori che amano la comunità cristiana, e come cittadini di questo caro Paese, diciamo a tutti e a ciascuno di non cedere al pessimismo, ma di guardare avanti con fiducia. È questo l’atteggiamento interiore che permetterà di avere quello scatto di coscienza e di responsabilità necessario per camminare e costruire insieme.

Così, non possiamo non porre mente particolare alle giovani generazioni e al dovere educativo che investe in primissimo luogo la famiglia, e irrinunciabilmente i genitori, sostenuti dai parenti, in particolare dai nonni. La Chiesa è consapevole di questo diritto, primordiale perché naturale, dei genitori quali essenziali educatori dei loro figli, e si concepisce anzitutto al loro servizio, e questo fa con profondo rispetto e la premura che viene da un patrimonio umano e religioso a tutti noto. A sua volta, la Chiesa stessa ha un irrinunciabile mandato educativo, che intende assolvere con dedizione assoluta e santità di vita.

Certamente l’istituzione scolastica fa tutto quello che può, specialmente attraverso l’impegno serrato di una moltitudine di docenti e operatori, competenti e generosi. Eppure, questo dispiegamento di disponibilità pare non bastare, tanto è grande e delicata oggi «la sfida educativa». Per questo deve entrare in campo la società nel suo insieme, e dunque con ciascuna delle sue componenti e articolazioni. Se la scuola – come oggi si intende – dev’essere «comunità educante», bisogna convincersi con una maggiore risolutezza che la società nel suo complesso è chiamata ad essere «comunità educante». Affermare ciò, a fronte di determinati «spettacoli», potrebbe apparire patetico o ingenuo, eppure come Vescovi dobbiamo caricarci sulle spalle anche, e soprattutto, questo onere di richiamare ai doveri di fondo, di evidenziare le connessioni, di scoprire i pilastri portanti di una comunità di vita e di destino. Se si ingannano i giovani, se si trasmettono ideali bacati cioè guasti dal di dentro, se li si induce a rincorrere miraggi scintillanti quanto illusori, si finisce per trasmettere un senso distorcente della realtà, si oscura la dignità delle persone, si manipolano le mentalità, si depotenziano le energie del rinnovamento generazionale.

È la speranza, pane irrinunciabile sul tavolo dei popoli, a piegarsi e venire meno. Il cuore dei giovani tende − per natura − alla grandezza e alla bellezza, per questo cerca ideali alti: bisogna che essi sappiano che nulla di umanamente valevole si raggiunge senza il senso del dovere, del sacrificio, dell’onestà verso se stessi, della fiducia illuminata verso gli altri, della sincerità che soppesa ogni proposta, scartando insidie e complicità. In una parola, di valori perenni. Gesù è il modello affascinante, l’amico che non tradisce e viene sempre incontro, che prende per mano e riaccende ogni volta la forza sorgiva che sostiene la fiducia verso la realizzazione di sé e la vera felicità. Questo – come adulti e come giovani − abbiamo bisogno di vedere e di sentire sempre, oltre ogni moralismo ma anche oltre ogni libertarismo, l’uno e l’altro spesso dosati secondo le stagioni.

Bisogna che nel suo complesso il Paese ringiovanisca, torni a crescere dal punto di vista culturale e quindi anche sociale ed economico, battendo i catastrofismi. Cambiare in meglio si può e si deve. Le cortine fumogene svaniscono, arroganze e supponenze portano a poco. I sacrifici che i cittadini stanno affrontando acquistano un senso se vengono prospettati obiettivi credibili e affidabili. Tra questi, c’è l’orizzonte di una maggiore giustizia sociale e di una modernizzazione effettiva in ogni articolazione pubblica, anche quella a beneficio dell’utenza più larga, specialmente se perseguita nel rispetto delle regole, e respingendo il malaffare e le intimidazioni di ogni mafia. Come è obiettivo inderogabile l’avvio delle riforme annunciate, applicandosi in un’ottica puntigliosamente coinvolgente tutte le forze politiche, ciascuna secondo la misura intera nella parte assegnata dai cittadini. Bisogna avere fiducia nelle nostre qualità e potenziare la capacità elaborativa di ogni sede responsabile, affinando l’attitudine a captare umori e orientamenti per poterli comporre in vista di una mediazione d’insieme la più alta possibile. Un Paese complesso richiede saggezza e virtù.

Vi ringrazio, Confratelli cari, per il Vostro paziente ascolto e per l’accoglienza ragionata che vorrete riservare a queste considerazioni. Con la discussione, entriamo già nel vivo dell’ordine del giorno, mentre ci attendono argomenti importanti in merito alla vita cristiana del nostro popolo e all’efficacia della nostra Conferenza. Ci assista Maria, che il popolo anconetano venera come Regina di tutti Santi, e che dalla sacra Casa di Loreto ci segue e ci protegge. E ci assistano i Santi Patroni, san Ciriaco e san Leopardo, san Giuseppe da Copertino e san Francesco di Sales: la loro compagnia ci incoraggia e ci sostiene. Grazie.
Angelo Card. Bagnasco


25/01/2011 – VATICANO - Papa: tanti ancora non conoscono Cristo o lo hanno “dimenticato” - Nel messaggio per la Giornata missionaria mondiale Benedetto XVI sottolinea l’attualità dell’“andate e annunciate” di Gesù, in un mondo nel quale molti ancora non conoscono il Vangelo mentre globalizzazione e relativismo fanno crescere il numero di coloro che vivono come se Dio non esistesse. Chi si dedica all’evangelizzazione si preoccupa anche del miglioramento delle condizioni di vita delle persone.

Città del Vaticano (AsiaNews) - L’annuncio del Vangelo “coinvolge tutti, tutto e sempre” e, al giorno d’oggi, “non possiamo rimanere tranquilli al pensiero che, dopo duemila anni, ci sono ancora popoli che non conoscono Cristo”, mentre “l’imperante relativismo” sta facendo crescere il numero di coloro che pensano e vivono “come se Dio non esistesse”. E’ il monito che Benedetto XVI rivolge a “tutti i battezzati” per ricordare l’“andate e annunciate” di Gesù, in occasione della Giornata missionaria mondiale, che sarà celebrata il 23 ottobre, in vista della quale oggi è stato pubblicato il suo messaggio.

Intitolato “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi” (Gv 20,21), il documento del Papa parte dall’affermazione che “l’incessante annuncio del Vangelo vivifica anche la Chiesa, il suo fervore, il suo spirito apostolico, rinnova i suoi metodi pastorali perché siano sempre più appropriati alle nuove situazioni - anche quelle che richiedono una nuova evangelizzazione - e animati dallo slancio missionario: «La missione rinnova la Chiesa, rinvigorisce la fede e l’identità cristiana, dà nuovo entusiasmo e nuove motivazioni. La fede si rafforza donandola! La nuova evangelizzazione dei popoli cristiani troverà ispirazione e sostegno nell’impegno per la missione universale» (GIOVANNI PAOLO II, Enc. Redemptoris missio, 2).

“Questo obiettivo -– prosegue il Messaggio - viene continuamente ravvivato dalla celebrazione della liturgia, specialmente dell’Eucaristia, che si conclude sempre riecheggiando il mandato di Gesù risorto agli Apostoli: “Andate…” (Mt 28,19). La liturgia è sempre una chiamata ‘dal mondo’ e un nuovo invio ‘nel mondo’ per testimoniare ciò che si è sperimentato: la potenza salvifica della Parola di Dio, la potenza salvifica del Mistero Pasquale di Cristo. Tutti coloro che hanno incontrato il Signore risorto hanno sentito il bisogno di darne l’annuncio ad altri, come fecero i due discepoli di Emmaus”.

“Destinatari dell’annuncio del Vangelo sono tutti i popoli. La Chiesa, «per sua natura è missionaria, in quanto essa trae origine dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo, secondo il disegno di Dio Padre» (CONC. ECUM. VAT. II, Decr. Ad gentes, 2). Questa è «la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare» (PAOLO VI, Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 14). Di conseguenza, non può mai chiudersi in se stessa. Si radica in determinati luoghi per andare oltre. La sua azione, in adesione alla parola di Cristo e sotto l’influsso della sua grazia e della sua carità, si fa pienamente e attualmente presente a tutti gli uomini e a tutti i popoli per condurli alla fede in Cristo (cfr Ad gentes, 5).
Questo compito non ha perso la sua urgenza. Anzi”, accanto a coloro che non hanno mai avuto l’annuncio del Vangelo, “si allarga la schiera di coloro che, pur avendo ricevuto l’annuncio del Vangelo, lo hanno dimenticato e abbandonato, non si riconoscono più nella Chiesa; e molti ambienti, anche in società tradizionalmente cristiane, sono oggi refrattari ad aprirsi alla parola della fede. È in atto un cambiamento culturale, alimentato anche dalla globalizzazione, da movimenti di pensiero e dall’imperante relativismo, un cambiamento che porta ad una mentalità e ad uno stile di vita che prescindono dal Messaggio evangelico, come se Dio non esistesse, e che esaltano la ricerca del benessere, del guadagno facile, della carriera e del successo come scopo della vita, anche a scapito dei valori morali”.

E’ una “corresponsabilità di tutti”, perché “il Vangelo non è un bene esclusivo di chi lo ha ricevuto, ma è un dono da condividere, una bella notizia da comunicare. E questo dono-impegno è affidato non soltanto ad alcuni, bensì a tutti i battezzati”. “Ne sono coinvolte pure tutte le attività. L’attenzione e la cooperazione all’opera evangelizzatrice della Chiesa nel mondo non possono essere limitate ad alcuni momenti e occasioni particolari, e non possono neppure essere considerate come una delle tante attività pastorali: la dimensione missionaria della Chiesa è essenziale, e pertanto va tenuta sempre presente. E’ importante che sia i singoli battezzati e sia le comunità ecclesiali siano interessati non in modo sporadico e saltuario alla missione, ma in modo costante, come forma della vita cristiana. La stessa Giornata Missionaria non è un momento isolato nel corso dell’anno, ma è una preziosa occasione per fermarsi a riflettere se e come rispondiamo alla vocazione missionaria; una risposta essenziale per la vita della Chiesa”.

Benedetto XVI evidenzia, infine, che “l’evangelizzazione è un processo complesso e comprende vari elementi. Tra questi, un’attenzione peculiare da parte dell’animazione missionaria è stata sempre data alla solidarietà. Questo è anche uno degli obiettivi della Giornata Missionaria Mondiale, che, attraverso le Pontificie Opere Missionarie, sollecita l’aiuto per lo svolgimento dei compiti di evangelizzazione nei territori di missione. Si tratta di sostenere istituzioni necessarie per stabilire e consolidare la Chiesa mediante i catechisti, i seminari, i sacerdoti; e anche di dare il proprio contributo al miglioramento delle condizioni di vita delle persone in Paesi nei quali più gravi sono i fenomeni di povertà, malnutrizione soprattutto infantile, malattie, carenza di servizi sanitari e per l'istruzione. Anche questo rientra nella missione della Chiesa. Annunciando il Vangelo, essa si prende a cuore la vita umana in senso pieno. Non è accettabile, ribadiva il Servo di Dio Paolo VI, che nell’evangelizzazione si trascurino i temi riguardanti la promozione umana, la giustizia, la liberazione da ogni forma di oppressione, ovviamente nel rispetto dell’autonomia della sfera politica. Disinteressarsi dei problemi temporali dell’umanità significherebbe «dimenticare la lezione che viene dal Vangelo sull’amore del prossimo sofferente e bisognoso» (Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 31.34); non sarebbe in sintonia con il comportamento di Gesù, il quale ‘percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni malattia e infermità’ (Mt 9,35)”.

“Così, attraverso la partecipazione corresponsabile alla missione della Chiesa, il cristiano diventa costruttore della comunione, della pace, della solidarietà che Cristo ci ha donato, e collabora alla realizzazione del piano salvifico di Dio per tutta l’umanità. Le sfide che questa incontra, chiamano i cristiani a camminare insieme agli altri, e la missione è parte integrante di questo cammino con tutti. In essa noi portiamo, seppure in vasi di creta, la nostra vocazione cristiana, il tesoro inestimabile del Vangelo, la testimonianza viva di Gesù morto e risorto, incontrato e creduto nella Chiesa”.


SENSO DA RIDARE, LOGICHE DA CAMBIARE - AL CUORE DEL PROBLEMA di MARCO TARQUINIO, Avvenire, 25 gennaio 2011

N on tutto è uguale, il bene è bene e il male è ma­le. Ma anche dal male può nascere un bene. E coloro che hanno responsabilità politiche e istituzio­nali, coloro che esercitano i poteri cardine della de­mocrazia italiana hanno il compito di lavorare per que­sto, pena altrimenti la sconfitta di tutti, pena un dram­matico «inquinamento» del terreno in cui il nostro Paese vive e un grave colpo al futuro comune. Il car­dinale Angelo Bagnasco ha aperto ieri con questa ri­flessione – o, meglio, anche con questa riflessione – i lavori del Consiglio permanente della Conferenza e­piscopale italiana. E ha saputo così indicare il vero cuore del problema che oggi scuote e, ancora una vol­ta, divide l’opinione pubblica. Nessuno potrà «ralle­grarsi, né ritenersi vincitore», ha avvertito, se dalla gran tempesta nella quale ci troviamo – tempesta morale e istituzionale, tempesta politica ed economico-socia­le – non si saprà uscire con uno «scatto di coscienza e di responsabilità». Molti si aspettavano un giudizio sulle questioni sollevate a partire dall’ultima indagine condotta dalla procura di Milano sul presidente del Consiglio, e il giudizio è arrivato. Non nella impossi­bile forma di una sentenza sommaria e indebita sul premier o sui suoi accusatori, ma in quella della luci­da individuazione dei pesanti nodi che anche questa nuova vicenda mette in evidenza e che vanno sciolti, facendo chiarezza «in modo sollecito e pacato e nelle sedi appropriate». Un giudizio esplicito, espresso con la stessa sobrietà che si invoca come regola ritrovata e condivisa, mettendo a disposizione del Paese la straor­dinaria capacità di ascolto, di lettura e di servizio del­la nostra realtà nazionale che è propria della Chiesa.

C’è bisogno, ha dunque spiegato il presidente della Cei, di ritrovare e di dare stabilmente «ormeggi ogget­tivi » al primato della persona e della coscienza uma­na, pena l’avvitarsi in un individualismo e in un rela­tivismo che conducono, come insegna Papa Bene­detto, alla «perversione di fondo del concetto di ethos ». E le cronache costellate di «rappresentazioni fasulle dell’esistenza» e di «ostentazione e mercimonio di sé» dicono quanto questo sia vero.

C’è da imprimere una sterzata che allontani final­mente il Paese da una fase troppo lunga e «convulsa» nella quale «debolezza etica» e «fibrillazioni» dovute al conflitto tra poteri si sono intrecciate e hanno sca­tenato prove di forza a catena, indotto a «tranelli» re­ciproci e incentivato una devastante logica del so­spetto. E c’è la necessità da parte di chi ricopre cari­che pubbliche di testimoniare a una cittadinanza «sgomenta» per gli esibiti «squarci, veri o presunti, di stili non compatibili con la sobrietà e la correttezza» e di «comportamenti contrari al pubblico decoro» la volontà di adempiere alle funzioni della politica con consapevolezza «della disciplina e dell’onore» che so­no indispensabili in questo alto servizio. C’è, insom­ma, da dimostrare che in politica si sale e non si scen­de, e che un uomo pubblico deve essere rispettato nella propria sfera privata, ma deve anche poter vi­vere in una casa di cristallo. Ed è un appello che ri­chiama l’oggettività del bene e del male, «oltre ogni moralismo» di comodo.

Perché per disincagliare il Paese c’è bisogno di ben altro. La classe dirigente italiana deve trovare la forza morale, le politiche e i percorsi di consenso e di scel­ta per «ringiovanire» se stessa. Per questo il presiden­te della Cei suggerisce un triplice capovolgimento. Capovolgere le attenzioni, portando in primo piano la questione giovanile, che è educativa e lavorativa e nella sostanza resta – lo dimostrano un disagio e una protesta che non possono essere ridotti agli episodi più esacerbati – la grande ignorata nell’Italia che si avvia a celebrare i 150 anni di unità politica. Capo­volgere le priorità di un fisco che non si è ancora po­sto al fianco della famiglia costituzionalmente defi­nita, ma che ora può farlo grazie alla vasta conver­genza attorno alla soluzione tecnica del 'fattore fa­miglia'. Capovolgere la logica autogiustificativa degli evasori fiscali: c’è da ridistribuire risorse e chi ritiene di poter decidere, lui, quante tasse pagare non si fa giu­stizia, ma compie un furto. Anche stavolta il presidente della Cei parla da ve­scovo attento e da cittadino pensoso del bene co­mune. Invoca «saggezza e virtù» per l’Italia e da chi l’Italia è chiamato a guidare e servire. Non c’è dub­bio che proprio questo la nostra gente attende e pre­tende: qui, ora.