mercoledì 21 maggio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Da Martin a Martini Lutero. IL CARDINALE LODA LA RIFORMA
2) La strada americana per ridare qualità al sistema scolastico
3) DIFFUSO IL RAPPORTO TRIENNALE -BAMBINI SOLDATO LA VERGOGNA CHE NON SI SPEGNE
4) L’angoscia che assale nel degrado di una periferia, di Marina Corradi
5) «Gli ibridi? Per la ricerca sono inutili», intervista al Prof. Angelo Vescovi


Da Martin a Martini Lutero. IL CARDINALE LODA LA RIFORMA
Nel suo nuovo libro, l’ex arcivescovo di Milano ammette l’influenza protestante sul cattolicesimo. Anni fa schierò l’Inquisizione contro chi poneva il problema...
di ANTONIO SOCCI
Da Martin Lutero a Martini Lutero? La battuta sarebbe già pronta, se non fosse che nel caviale del tramonto dell'ex arcivescovo di Milano c'è davvero poco da ridere. La tristezza e la malinconia del cardinale lasciano sbigottiti, interdetti. Forse per ritrovare il bello sguardo cristiano di Péguy e di santa Teresina bisogna guardare altrove, a tanti semplici cristiani senza porpora che ci sorprendono ogni giorno con la loro letizia. Dicevo che il cardinale fa l'elogio di Lutero, almeno stando alle anticipazioni che La Repubblica e Il Foglio fanno del suo ultimo libro-intervista, "Colloqui notturni a Gerusalemme", uscito in Germania per le edizioni Herder. La Repubblica c'informa che il prelato «elogia Lutero, esorta la Chiesa al coraggio di riformarsi, a non allontanarsi dal Concilio». Secondo Il Foglio, Martini definisce Lutero, che nella storia della Chiesa è stato una delle più tragiche calamità, come «il più grande riformatore». Poi aggiunge che a Lutero «l'amore per le Sacre Scritture ispirò buone idee» (testuale!) e pur ritenendo «problematico» il fatto che Lutero abbia «tratto da riforme e ideali necessari un sistema proprio», tuttavia Martini afferma che la Chiesa contemporanea «se ne è lasciata ispirare per dar corso al processo di rinnovamento del Concilio Vaticano II, dischiudendo per la prima volta ai cattolici il tesoro della Bibbia su basi più larghe». Francamente non mi pare che duemila anni di esegesi cattolica e di studi biblici avessero bisogno di Lutero che ha dissolto le Sacre Scritture, non le ha certo "scoperte". Tanto è vero che proprio dal mondo protestante è arrivata quell'ondata demolitoria che ha fatto letteralmente a pezzi i Vangeli (o almeno ci ha provato). Questa sì è una peste che è entrata dentro la Chiesa, ma appunto come un'epidemia mortale (lo denunciò Paolo VI con parole accoratissime!). Quello che sorprende, nelle parole di Martini, non è tanto o solo l'elogio di Lutero, ma l'esplicita affermazione che la Chiesa del Concilio si sarebbe "ispirata" all'eretico e scismatico Lutero. Mi soffermo su questo -come si suol dire - per fatto personale. Il cardinal Martini - benché noto come progressista, dialogante e tollerante - è il vescovo, l'unico che io sappia dagli anni del Concilio, che ha sottoposto all'Inquisizione (chiamato oggi Tribunale ecclesiastico di Milano) alcune persone, oltretutto laiche, per un'opinione, una semplice opinione oltretutto non di dottrina, ma di natura storica e culturale (dove la disciplina ecclesiastica non vale).
GIORNALISTI INQUISITI
Accadde nel 1988 e io fui uno dei tre giornalisti del settimanale cattolico "Il Sabato" ad essere convocato in Curia e interrogato dal rappresentante del Tribunale ecclesiastico, monsignor Coccoplamerio. Quale fu il nostro "crimine" ? Un'analisi storica. In una lunga inchiesta sulla crisi della Chiesa, constatammo - con una documentata analisi (elogiata fra gli altri da Augusto Del Noce) - la «corrosione protestante del cattolicesimo politico, ancor più esplicita fra i cattolici intellettuali». Un gruppetto di intellettuali cattoprogressisti presentò un esposto all'arcivescovo di Milano perché, con tale analisi, a loro dire, avremmo leso la "buona fama" di Giuseppe Lazzati, che era uno dei tanti intellettuali menzionati e che mai ci eravamo sognati di attaccare sul piano personale. Il cardinale avrebbe potuto archiviare l'esposto, trattandosi di una normale e libera discussione storico-culturale. Invece attivò il procedimento finché "Il Sabato", essendo un settimanale cattolico legato a Comunione e liberazione, non dovette chinare la testa e fare una specie di abiura per "disciplina ecclesiastica". Un piccolo "caso Galileo" che esplose sui media grazie al Giornale di Montanelli che sparò tutto in prima pagina con questo titolo: "A Milano è tornata l'Inquisizione. Al rogo il settimanale Il Sabato?". Seguirono giorni di polemiche, editoriali e commenti. Il cardinale Martini fu molto seccato perché la cosa era diventata pubblica associando il suo nome all'Inquisizione delle idee. Il caso fu emblematico perché rese evidente che nella Chiesa postconciliare i teologi potevano mettere in discussione tutti i dogmi della fede, dalla Trinità a Maria, passando per i Vangeli, ma guai a mettere in discussione lorsignori "intellettuali cattolici" o più in generale l'establishment cattolico. L'Immacolata Concezione e la Resurrezione di Cristo si potevano discutere, ma Scoppola, Dossetti, Lazzati, Alberigo (con i Prodi e i De Mita che ne erano la proiezione politica) e tanti altri campioni del mondo cattolico, quelli no. Oggi - dopo aver subito quel procedimento di Martini per aver constatato la "protestan tizzazione" del cattolicesimo leggiamo che secondo lo stesso cardinal Martini la Chiesa conciliare «si è lasciata ispirare» da Lutero. Così oggi è lui che dichiara proprio ciò che fu imputato a noi. Certo, per lui questa influenza protestante sul cattolicesimo pare sia cosa buona e giusta. Per altri (me compreso) è una vera sciagura. Mi sembra che anche Paolo VI vedesse nefaste influenze esterne che dissolvevano la vera fede. Lo si intuiva quando denunciò l'invasione di un pensiero «non cattolico» dentro il cattoliceismo, quando intervenne per stoppare le influenze protestanti (durante la redazione della Dei Verbum o sul dogma della Resurrezione di Cristo) e anche quando denunciò il «fumo di Satana» entrato nel tempio di Dio. D'altra parte a condannare questa "protestantizzazione" della Chiesa, curiosamente, fu lo stesso Oscar Cullmann, uno dei più famosi teologi protestanti, spesso citato in ambito cattolico. Ecco le sue testuali parole: «Se mi è permesso, come protestante, di fare questa constatazione, direi che da allora (il Concilio Vaticano II) certi ambienti cattolici, ben lungi dal lasciarsi ispirare dalla necessità di osservare i limiti dell'adattamento che non vanno superati, non si accontentano di cambiare le forme esteriori, ma prendono le stesse norme del pensiero e dell'azione cristiana, non dal Vangelo, ma dal mondo moderno. Più o meno inconsciamente, seguono così i protestanti, non in ciò che hanno di migliore, la fede dei Riformatori, ma nel cattivo esempio che loro offre un certo protestantesimo, detto moderno. Il grande colpevole non è il mondo secolarizzato, ma il falso comportamento dei cristiani riguardo a questo mondo, l'eliminazione dello "scanda lo" della fede. Si ha "vergogna del Vangelo" (Rom. 1,16)».
LA FEDE AUTENTICA
Parole simili e ancora più drammatiche sono state pronunciate, nella sua ultima intervista, da don Luigi Giussani: «La Chiesa si è vergognata di Cristo». E qua il problema riguarda tutti gli uomini di Chiesa. Martiniani e antimartiniani. I quali, per esempio, non intervengono contro le vere e proprie eresie che vengono insegnate nei seminari o nelle facoltà teologiche, ma invece intervengono (e tanto) su tutti i problemi della vita pubblica compresa la legge elettorale: i martiniani magari tuonano sui rom, gli altri sulla bioetica. Tutti hanno i loro "valori non negoziabili" (di tipo sociale gli uni, di tipo morale gli altri), ma forse si dimentica che per la Chiesa - fin dalle origini apostoliche - l'unico "valore" assolutamente non negoziabile è Gesù Cristo e la vera fede cattolica. Che pochissimi oggi difendono. Eppure per un cristiano solo quella vale, tutto il resto è "spazzatura". San Paolo, proprio parlando della Legge (i "valori non negoziabili"), scriveva: «tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura al fine di guadagnare Cristo» (Fil. 3,8). Forse è vero, il problema non è «il mondo secolarizzato», ma un cristianesimo che annacqua o corrompe la vera fede. Perché così la vita quotidiana di tutti è disperata. E non si incontra nessuna speranza. www.antoniosocci.it
LIBERO 21 maggio 2008


La strada americana per ridare qualità al sistema scolastico
Tiziana Pedrizzi21/05/2008
Autore(i): Tiziana Pedrizzi. Pubblicato il 21/05/2008 – IlSussidiario.net
Gli USA si misurano da tempo con i problemi della loro scuola che continua a conseguire, anche nei recenti risultati OCSE PISA 2006, risultati non esaltanti (489 sotto la media OCSE 500) e a registrare un impatto su di essi del background socio-economico sopra la media [1].
Alcuni problemi non riescono a risolversi: anche dalle relazioni presentate al recente convegno dell’AERA (Associazione dei Ricercatori in Educazione Americani) tenutosi a New York dal 24 al 28 aprile 2008 il livello di alfabetizzazione della minoranza afroamericana sembra restare basso. Ad aggravare il problema sta la invece crescente performance delle altre minoranze, non solo di quella asiatica ma anche di quella latina.
Le risposte tentate vanno in due direzioni. Una è stata quella della mobilizzazione e privatizzazione della struttura organizzativa e finanziaria anche attraverso le Charter Schools che dovrebbero creare un vero mercato educativo attirando imprenditori in educazione e creando un circolo virtuoso di sana competizione. Un’idea forte di chiara matrice statunitense che non va confusa con la situazione italiana in cui questo obiettivo è già stato illegalmente raggiunto con i diplomifici che l’apparato ministeriale burocratico -custode geloso delle priorità della scuola pubblica- non riesce a debellare.
L’altra è quella di tenere sotto controllo gli apprendimenti nelle aree cruciali (lingua 1 e matematica) con la nota legge di Bush “NoChild Left Behind” che, con sostegno bipartisan di repubblicani e democratici, richiede agli Stati di disporre misure utili a che le scuole «garantiscano un adeguato livello di crescita».
Tutti e due i temi sono presenti nella notizia concernente lo sviluppo di Charter Schools nelle zone nere di Chicago che si propongono l’obiettivo di innalzare la percentuale di accesso alla istruzione superiore per le fasce di popolazione più deprivate economicamente e socialmente puntando su una forte leadership ed un curriculum rigoroso basato su una missione chiara. La forte leadership presuppone un rapporto meno vincolato con il personale insegnante donde la nascita di forti contenziosi con le organizzazioni sindacali accanite avversarie del successo di questo tipo di scuole che pure si starebbero espandendo quantitativamente.
Ma rispetto al passato sembra diventare più stringente a caratterizzare l’iniziativa il rapporto con il curriculo ed in particolare con il raggiungimento di livelli di qualità nelle strumentazioni cognitive di base.
NCLB ha generato verso queste una forte attenzione non usuale nel contesto educativo americano che ha sempre dato larghissimo spazio alla opzionalità con il risultato di rinforzare le differenze di background sociale, con i figli della middleclass che sceglievano matematica e gli altri fotografia.
Messe dunque da canto come linee guida per l’educazione negli USA la socializzazione ai ruoli ed in Europa la assimilazione del proprio patrimonio culturale l’obiettivo fondamentale sembra essere divenuto quello di garantire a tutti forme di alfabetizzazione serie che permettano l’acquisizione di una reale cittadinanza. Troviamo la stessa impostazione nelle valutazioni esterne internazionali e nazionali europee (PISA ed INVALSI per l’Italia).
In effetti al convegno dell’AERA sopra ricordato le relazioni più interessanti ed innovative hanno ruotato intorno al tema della realizzazione di NCLB nei diversi Stati.Si pone sempre attenzione agli aspetti politici di queste vicende ma va tenuto in conto che dal punto di vista tecnico la sfida è ardua poiché si tratta di un terreno del tutto vergine.Bisogna definire le tappe di un curriculo progressivo, trovare il modo tecnico per misurarlo credibilmente attraverso prove uguali per tutti e dare una spiegazione del termine “adeguato” tenendo conto della diversità dei livelli degli allievi. Sicuramente questa esperienza farà da apripista anche per l’Europa.
Una conferma della presenza di una forte opposizione che si è data anche un sito [2] si è avuta al termine della presentazione dei progetti dello Stato di NewYork. Dotati di un cospicuo finanziamento essi si propongono obiettivi di valutazione e di assistenza secondo un interessante modello che prevede l’attribuzione di punteggio per il 15% al processo per il 35% ai risultati assoluti degli allievi ed per il 50% al miglioramento conseguito.
Il tutto si è concluso con interventi polemici da parte del pubblico di insegnanti e sindacalisti e con la distribuzione di un volantino nel quale si accusava l’attuale Cancelliere Klein ed il suo predecessore Bloomberg di aver creatoun apparato burocratico ben pagato e pletorico che ignora la complessità della relazione educativa e punta solo sui risultati dei test somministrati compulsivamente ogni 8 settimane. Sembrava di essere in Italia…

[1] Dal Rapporto internazionale PISA 2006 pg 189
[2] www.timeoutfromtesting.org



DIFFUSO IL RAPPORTO TRIENNALE -BAMBINI SOLDATO LA VERGOGNA CHE NON SI SPEGNE
Avvenire, 21 maggio 2008
FULVIO SCAGLIONE
C’è molta, troppa differenza tra la fine della guerra e l’inizio della pace. Ecco la lezione più amara del Rapporto globale 2008 pubblicato ieri dalla Coalizione per fermare l’impiego dei bambini soldato, nata nel 1998 da un’iniziativa comune di varie organizzazioni internazionali. Non la più evidente, ma la più amara sì. In primo piano, in questo che è il terzo rapporto triennale ( copre il periodo 2004- 2008) sulla situazione in 197 Paesi, c’è la disperante lentezza con cui in questo campo si riesce a ottenere qualche pro­gresso. Certo, è calato il numero dei conflitti armati ( da 27 nel 2004 a 17 al­la fine del 2007) in cui sono costretti a combattere e a morire anche ragazzi con meno di 18 anni. Ma le buone notizie finiscono qui e anche queste sono dovute soprattutto al fatto che al­cuni conflitti si sono esauriti più che all’impatto della campagna. E il dramma dei più giovani, obbligati spesso a diventare carnefici o vittime, continua senza fine.
Molto relativo anche l’impegno delle nazioni: sono an­cora 86 i Paesi in cui i minori sono arruolati negli e­serciti di Stato oppure reclutati con la forza da gruppi armati, bande di guerri­glieri, organizza­zioni terroristi­che. Myanmar, Yemen, Somalia, Sudan e Uganda i Paesi dove è stato più frequente l’impiego in battaglia di ragazzi inqua­drati in reparti regolari; gli stessi con I­ran, Filippine, Libia, Colombia e Perù quelli dove i giovanissimi militano in gruppi ufficiali paramilitari o di ap­poggio alle forze armate. In qualche ca­so sarebbe stato facile indovinare. Ma avreste detto che nella grande, civilis­sima India, il Paese all’avanguardia nel­le tecnologie e rampante nell’econo­mia, si usano i bambini come spie?
Migliaia di morti e feriti, decine di mi­gliaia di ragazzi e ragazze ai quali l’e­sperienza della violenza, esercitata e subita, rovina la vita per sempre.
Il protocollo della Convenzione sui di­ritti del Ragazzo, il documento che in modo più chiaro e netto proibisce cer­te pratiche, è stato finora sottoscritto da 120 Paesi. Di questi, 80 Paesi, tra cui nell’ultimo triennio anche l’Italia, han­no portato a 18 anni l’età minima per l’arruolamento volontario nell’eserci­to. Ed è qui, a ben vedere, che dovrem­mo fare di più. Non possiamo aspet­tarci apertura mentale o dirittura mo­rale da predoni armati di kalashnikov o terroristi pronti a far saltare in aria un mercato. Ma al Protocollo manca­no ancora le firme di Paesi di enorme peso ( anche demografico) come Rus­sia e Cina. Altre grandi nazioni, come Australia, Nuova Zelanda, Gran Breta­gna ( che ha persino mandato alcuni soldati minorenni in Iraq) e Usa, non hanno voluto portare a 18 anni l’età mi­nima per l’arruolamento, mostrando così in qualche modo di considerare le esigenze dell’apparato bellico priori­tarie rispetto ai diritti dei minori.
Per non parlare dei Paesi dove l’adde­stramento militare è parte integrante dei normali corsi scolastici: Russia, Ci­na, Venezuela, Emirati Arabi Uniti, Kir­gizistan. Nella Corea del Nord del dit­tatore Kim Jong Il, gli studenti della scuola secondaria sono costretti a tre mesi l’anno di training bellico: studenti part- time perché soldati part- time.
E in Russia le scuole riservate ai cadet­ti sono aperte ai ragazzi fin dai 12 an­ni d’età.
Dice la teoria che per avere la pace è saggio preparare la guerra. La pratica invece insegna che preparando la guer­ra si finisce prima o poi per averne u­na.


LA FRONTIERA DELLA SICUREZZA
L’angoscia che assale nel degrado di una periferia

Avvenire, 21 maggio 2008
MARINA CORRADI
I l Tg1 ha mostrato un’operazione di polizia nella periferia di Roma, in un quartiere popolare dove - dicevano i cittadini – « non è possibile tornare a casa la sera senza trovarsi di fronte a transessuali che incontrano i clienti sul marciapiedi, davanti a casa nostra » . Gli esasperati intervistati erano pensionati, casalinghe – quelli che in altri tempi veniva detto proletariato. Italia oggi
pubblica in prima pagina la storia di un operaio milanese con 1380 euro al mese e famiglia a carico. « Dopo una vita di lavoro sono riuscito a riscattare la casa popolare dove abito – racconta – ma il Comune ha assegnato altri appartamenti a delle famiglie rom.
Chi si lamenta del rumore o della sporcizia, viene insultato minacciosamente. Il cortile è pieno di immondizie, e ci fanno i falò. Sono figlio di un partigiano, sempre votato a sinistra, iscritto al sindacato, ma così non si può vivere. Ci sentiamo abbandonati » . Due episodi, ma emblematici. Affiora sui media una porzione d’Italia spesso dimenticata.
Forse perché i giornalisti in genere, come gli onorevoli, come la classe dirigente, non abitano nei quartieri dormitorio, o in sessanta metri quadri dell’Aler. C’è un’Italia di cui si è raccontato troppo poco. Non è quella dei clandestini, dei disperati anche di casa nostra, dei rom cacciati dai loro campi – o lager – in un accesso atroce di furia collettiva. Non è l’Italia degli ultimi: quella è spesso titolo sulle pagine dei giornali. Anche i vecchi, le casalinghe, gli operai in pensione delle smantellate acciaierie milanesi sono cittadini in piena regola, che pagano tutte le tasse, e il canone tv, e l’affitto, e fanno disciplinatamente la raccolta differenziata dei rifiuti domestici.
Gente coi figli grandi ancora precari, e magari un vecchio in casa. Brava gente. Poveri, con quegli stipendi e quelle pensioni, e quindi confinati nelle periferie metropolitane. Ma non si lamentano, prima di tutto, dei 1300 euro al mese in quattro. Non è quella, la prima povertà. La povertà più esasperante è non sentirsi tranquilli in casa propria, avvertirsi assediati, e rientrare prima che faccia buio, in fretta. Aspettare inquieti, la sera, il ritorno di una figlia adolescente. Percepirsi indifesi nella casa popolare in cui stai da 30 anni.
Sentirsi, dove sei nato, quasi un intruso. Non è razzismo, non è xenofobia. All’origine, almeno, è semplicemente impotenza e paura – ma una paura non immaginaria. Per anni la politica, e molte amministrazioni locali, hanno ignorato la metamorfosi di certe periferie un tempo operaie. Forse non le vedevano ( nei quartieri residenziali questa paura non si respira). Forse pensavano che il concetto di sicurezza del territorio fosse politicamente imbarazzante.
Oppure, semplicemente, era più semplice occuparsi d’altro – notti bianche, maratone ecologiste molto apprezzate dalle classi benestanti.
Sta di fatto che l’incuria della politica ha lasciato andare alcune periferie italiane alla destrutturazione della convivenza civile. Lasciando come un tessuto spezzato. Poi sulla paura attecchisce facilmente l’istinto di autodifesa, le ronde in cui le vittime rischiano di farsi aggressori. La rabbia, che può anche scoppiare – come è avvenuto a Napoli ­improvvisamente feroce e cieca. Ma quel furore – certamente ingiustificabile – è cronologicamente secondario a un anteriore abbandono. La nuova povertà non è mille euro al mese, è sperare di non scendere da soli al capolinea del bus – e preparare le chiavi già in mano, per aprire in fretta il portone. È l’ansia quotidiana di chi ha lavorato una vita in fabbrica, e ora è vecchio e inerme. Non sono gli ultimi, ma i penultimi. Di cui per anni nessuno si è curato.


«Gli ibridi? Per la ricerca sono inutili»
DI VIVIANA DALOISO
La notizia dell’approvazione di Londra alla crea­zione e manipolazione di embrioni ibridi ha raggiunto Angelo Vescovi, genetista e diretto­re dell’Istituto cellule staminali adulte di Terni, men­tre si trovava in California, dove in questi giorni ha tenuto una serie di lezioni universitarie sul tema della cura del cancro attraverso le cellule stamina­li adulte. Tutt’altro fronte della ricerca scientifica, rispetto a quello britannico.
Professore, mettiamo per un attimo da parte l’or­rore “etico” innanzi alla decisione presa dal Parla­mento britannico e ragioniamo in termini pratici. Quali sono gli «enormi benefici» che la ricerca su­gli ibridi uomo-animale dovrebbe portare alla scienza e alla medicina del futuro?
Credo che il punto di tutta la questione sia proprio questo: la ricerca sugli ibridi non offre alcun bene­ficio. Se di beneficio terapeutico stiamo parlando, ovviamente, cioè di reali e concreti benefici per i pazienti. Prendiamo in esame le dichiarazioni che più spesso abbiamo sentito, nelle ultime settima­ne, in merito alla questione degli ibridi: più volte si è detto che questi embrioni rappresentano la solu­zione per malattie neurodegenerative come il Parkinson, l’Alzheimer. Dal punto di vista scientifi­co, a scatenare queste malattie sono problemi a li- vello di respirazione mitocondriale e di funziona­mento integrato tra nucelo cellulare e Dna mito­condriale: bastano, cioè, piccole disfunzioni nella relazione tra mitocondrio e nucleo per esitare que­sto tipo di patologie. Ora, creare cellule in cui il nu­cleo è umano e il mitocondrio bovino (gli ibridi) si­gnifica innescare a priori quel problema: come si re­lazioneranno elementi così diversi? Cosa succederà in quella cellula e in quell’embrione? Non lo pos­siamo sapere. Immaginarsi come potremo mai cu­rare malattie neurodegenerative con le stesse cel­lule!
Sorge spontaneo, a questo punto, domandarle per­ché allora la Gran Bretagna si dimostri così ostinata su questa linea.
Semplicemente, per altri interessi. Primo fra tutti quello nel campo della ricerca e sperimentazione farmacologica, che notoriamente attira l’attenzio­ne di numerosi fondi e investimenti da parte delle multinazionali. Devo però dire che anche su que­sto punto rimango molto perplesso e proprio per i motivi che ho spiegato poc’anzi. Non si capisce co­me la sperimentazione di determinati farmaci pos­sa essere avvalorata se condotta su cellule ibride piuttosto che umane: i risultati non possono esse­re attendibili. Basti pensare che determinate so­stanze hanno un effetto sulla razza caucasica e un altro sulle popolazioni dell’Indocina, e proprio per delle differenze genetiche tra le diverse razze ed et­nie. È un azzardo, se non una follia, pensare che ciò che agisce su una cellula umano-bovina malata pos­sa avere lo stesso effetto su una umana.
Lei è reduce da un viaggio negli Usa, patria altret­tanto “liberale” nel campo della ricerca scientifica. Che idea si sono fatti i suoi colleghi americani del passo di Londra? Crede che lo imiteranno?
Attualmente le attenzioni della comunità scientifi­ca americana e, oserei dire, della grossa parte di quella internazionale, sono puntate su un’altra fron­tiera: quella della riprogrammazione cellulare, i­naugurata dalle scoperte dello scorso novembre di Yamanaka e Thompson. Le motivazioni sono pro­prio quelle che abbiamo visto non sussistere nel campo della ricerca sugli ibridi: la strada della ri­programmazione promette enormi benefici in cam­po terapeutico e farmaceutico – permettendo di ot­tenere cellule equiparabili allo stato di pluripoten­za embrionale – col grande vantaggio di non com­portare sacrifici dal punto di vista etico. Indubbia­mente una grande conquista per la scienza.
C’è però il rischio che la decisione di Londra inne­schi una serie di esperimenti indiscriminati, so­prattutto nei Paesi caratterizzati da una deregula­tion in campo scientifico?
Senz’altro. Questo è il timore più grande, il grande rischio che ci preoccupa tutti e a cui da oggi siamo esposti.
Il genetista Vescovi fa il punto sull’ultima follia britannica: un «pasticcio» cellulare, che non garantisce esiti terapeutici e che è già stato superato dalle scoperte sulla riprogrammazione di Yamanaka