mercoledì 28 maggio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) La rivoluzione pacifica dei cattolici del Vietnam, di Sandro Magister
2) Cei: "Basta moschee su spazi dei cattolici"
3) Una filosofia oltre l’illuminismo e il relativismo
4) Una filosofia oltre l’illuminismo e il relativismo - Intervista al Decano della Facoltà di Filosofia dell'Urbaniana
5) Britannico di 22 anni, convertito all'islam, si è fatto esplodere in un ristorante di Exeter: il silenzio dei nostri mass media, di Magdi Cristiano Allam
6) Ma l’uomo non è un dado, di Giorgio Israel
7) Il dibattito sull'eutanasia in Francia - La compassione non ha la licenza di uccidere
8) Svuotare la legge 194 sostenendo la maternità, di Marina Corradi


La rivoluzione pacifica dei cattolici del Vietnam
Come in Birmania i monaci buddisti, così ad Hanoi e in altre città vietnamite scendono in piazza vescovi, preti, suore e fedeli. Rivogliono gli edifici e i terreni confiscati dallo stato. Le loro armi sono croci e rosari. Le apprensioni del Vaticano
di Sandro Magister
ROMA, 28 maggio 2008 – Tra breve una delegazione della Santa Sede si recherà in Vietnam in visita ufficiale, per la quindicesima volta dal 1989. La precedente visita si è svolta poco più di un anno fa. A sua volta il primo ministro del Vietnam, Nguyên Tân Dung, è stato in visita in Vaticano il 25 gennaio del 2007, incontrando il papa e i dirigenti della segreteria di stato.

Assieme alla Cina, alla Corea del Nord, al Myanmar, all'Arabia Saudita, il Vietnam è uno dei pochissimi paesi che non intrattiene rapporti diplomatici con la Santa Sede.

Eppure in Vietnam il cattolicesimo è particolarmente fiorente. I cattolici sono circa 6 milioni, il 7 per cento della popolazione, la pratica religiosa è alta, le vocazioni numerose.

Come in tutti i regimi comunisti la libertà religiosa è fortemente compressa, ma da qualche anno si notano avvisaglie di disgelo. Il 18 giugno 2004 il governo ha emesso un'ordinanza sulle credenze e sulle religioni che ruota attorno ai due principi secondo cui i credenti – e quindi anche i cattolici – sono parte integrante della nazione e lo stato si impegna a rispondere alle loro legittime esigenze.

L'applicazione di questi principi è comunque lontana dall'esaudire le aspettative della Chiesa cattolica.

Ad esempio, la Santa Sede non è libera di nominare i nuovi vescovi. L’attuale prassi è che Roma presenta ogni volta tre candidati, tra i quali le autorità vietnamite escludono quelli ad esse sgraditi.

La nomina dei vescovi sarà certamente uno dei punti che la delegazione vaticana vorrà discutere, nella sua prossima visita. Un altro sarà lo stabilimento delle relazioni diplomatiche. Un altro ancora il rispetto delle minoranze etniche, in particolare dei "montagnard", in buon numero cristiani.

In più, però, sono accaduti in questi ultimi mesi dei fatti nuovi. Per la prima volta in Vietnam, vescovi, preti, suore e fedeli sono scesi in piazza a migliaia, a rivendicare più libertà.

L'hanno fatto in forma pacifica. Pregando, accendendo lumi, piantando croci, portando immagini della Madonna. Sono scesi in piazza nella capitale Hanoi, a Hô Chi Minh Ville, l'ex Saigon, e in altre città. Non una o poche volte, ma per giorni e settimane di fila.

Lo spunto è stato in tutte queste occasioni la richiesta di riavere terreni ed edifici confiscati dal regime alla Chiesa.

Le confische risalgono nel nord del paese agli anni Cinquanta, quando i comunisti presero il potere, e nel sud a dopo il 1975.

La prima e più importante rivendicazione riguarda l'edificio che un tempo ospitava la delegazione pontificia ad Hanoi, adiacente all'arcivescovado e alla cattedrale di San Giuseppe. Edificio requisito nel 1959 e oggi adibito a ristorante.

Lo scorso 15 dicembre l'arcivescovo di Hanoi, Joseph Ngô Quan Kiêt, ha chiesto la restituzione dell'edificio e ha invitato i fedeli a pregare perché sia fatta giustizia.

I fedeli l'hanno preso in parola. Dal 18 dicembre, ogni sera, si sono riuniti davanti alla cancellata dell'ex nunziatura, pregando e portando fiori e candele. La notte di Natale erano 5 mila.

Il 30 dicembre è arrivato tra loro il capo del governo, Nguyên Tân Dung. Fendendo la folla è entrato in arcivescovado, dove ha incontrato per quindici minuti monsignor Ngo Quan Kiet. All'uscita è stato applaudito.

Ma la protesta non si è spenta. Anzi, si è allargata ad altre zone e città.

Il 6 gennaio, festa cristiana dell'Epifania, i fedeli della parrocchia di Thai Ha, ad Hanoi, hanno iniziato a manifestare per chiedere la restituzione di terreni ed edifici confiscati dal regime e ora occupati da varie strutture governative e da una fabbrica. Assieme alla confisca, negli anni Cinquanta, il regime comunista arrestò e face morire in prigione i sacerdoti redentoristi che avevano in cura quella parrocchia.

Il 12 gennaio, a Hô Chi Minh Ville, migliaia di fedeli sono scesi in piazza per una veglia di solidarietà con quelli di Hanoi. Il superiore dei redentoristi, padre Joseph Cao Dinh Tri, in un messaggio, si è appellato alla direttiva 379/TTG che impone alle autorità di restituire ai proprietari i beni ed i terreni confiscati nel tempo, se questi non sono più necessari al governo per scopi prioritari. Ha ricordato inoltre l’ordinanza PL-UBTVQH11 del 2004, che dice: “La proprietà legale dei siti di interesse religioso è protetta dalla legge: ogni violazione è proibita”.

Negli stessi giorni, anche i fedeli della città di Ha Dong, una quarantina di chilometri a sud di Hanoi, hanno iniziato a manifestare pacificamente per la restituzione di un edificio requisito a una parrocchia.

Il 24 gennaio una delegazione del governo è tornata a incontrare l'arcivescovo di Hanoi. Nelle stesse ore, gruppi di fedeli penetravano nel giardino dell'ex nunziatura, piantandovi una croce, prima di essere allontanati dalla polizia.

A capeggiare la delegazione governativa era la vicepresidente del Comitato popolare della capitale, Ngô Thi Thanh Hang. La motivazione ufficiale dell'incontro erano gli auguri per il vicino capodanno lunare, il Tet. Al termine, in un comunicato ufficiale, le autorità hanno riconosciuto “il contributo offerto dall’arcivescovo Joseph Ngô e dalla comunità cattolica per la causa comune di una società di pace, uguaglianza, progresso e sviluppo”. Dieci giorni prima però, la signora Ngô Thi Thanh Hang aveva accusato l’arcivescovo di “usare la libertà di religione per provocare proteste contro il governo” e di “danneggiare i rapporti tra Vietnam e Vaticano”.

A Roma, naturalmente, le autorità vaticane erano al corrente di queste frizioni. E ne erano preoccupate.

Il 30 gennaio il cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone, ha manifestato così le sue preoccupazioni, in una lettera all'arcivescovo di Hanoi, Joseph Ngô Quan Kiêt:

“Come Ella può immaginare, la segreteria di Stato segue con grande attenzione e sollecitudine gli avvenimenti di questi ultimi giorni ad Hanoi. [...] Sono pieno di ammirazione davanti ai sentimenti di fervente devozione e profondo attaccamento alla Chiesa ed alla Santa Sede mostrati da migliaia di fedeli che, giorno dopo giorno, si riuniscono pacificamente per pregare di fronte a questo edificio [dell'ex nunziatura], divenuto un simbolo, per chiedere ai responsabili civili di farsi carico delle necessità della comunità cattolica. D’altro canto, il fatto che queste manifestazioni continuano non può non suscitare qualche preoccupazione, perché, come spesso accade in simili casi, esiste il concreto pericolo che la situazione sfugga di mano e possa degenerare in dimostrazioni di violenza verbale o anche fisica. Ecco perché, a nome del Santo Padre, che è costantemente informato dell’evoluzione della situazione, le chiedo di intervenire perché siano evitati gesti che potrebbero turbare l’ordine pubblico e si torni alla normalità. Sarà così possibile, in un clima più sereno, riprendere il dialogo con le autorità, per trovare una soluzione appropriata a questo delicato problema. Posso assicurarle che la Santa Sede, da parte sua, come ha sempre fatto, non mancherà di farsi interprete col vostro governo delle legittime aspirazioni dei cattolici vietnamiti”.

Due giorni dopo – e dopo un altro incontro con le autorità – l'arcivescovo di Hanoi ha scritto ai fedeli ringraziando Benedetto XVI e il segretario di Stato. In questi 40 giorni di manifestazioni – si legge nella lettera – “abbiamo vissuto una nuova Pentecoste: siamo stati uniti e devoti alla preghiera, nonostante sfide e difficoltà”.

Ma ora, ha proseguito l'arcivescovo, “le nostre preghiere sono state esaudite. Il ristorante [al posto della ex nunziatura] è stato chiuso, [...] e la grande croce [portata dai fedeli sul luogo della protesta] è stata riportata in processione nella cattedrale di San Giuseppe".

In effetti, fonti governative avevano annunciato la prossima restituzione all'arcidiocesi di Hanoi della ex nunziatura.

Quasi un mese dopo, il 27 febbraio, in una riunione del Comitato d’unione dei cattolici che fa parte del Fronte patriottico, l'incaricato del Fronte per gli affari religiosi, Trân Dinh Phung, ha ribadito che “il governo non potrà ignorare” la richiesta "legittima" della restituzione della ex nunziatura e ha elogiato il Vaticano per aver posto fine alle manifestazioni "che rischiavano di degenerare".

Il 15 aprile le autorità hanno annunciato la restituzione anche di un altro terreno espropriato, attorno alla basilica di Le Vang, il principale santuario mariano del Vietnam. L'annuncio è avvenuto dopo un incontro tra il vicepresidente del Comitato del popolo di Quang Tri, Nguyên Duc Chinh, e l’arcivescovo d Huê, Stephen Nguyên Nhu The.

Fino ad oggi, però, a questi annunci non sono seguiti i fatti. Anzi, la Chiesa buddista ufficiale si è fatta avanti a rivendicare essa stessa la proprietà dell'ex nunziatura di Hanoi, sostenendo che lì sorgeva un'antica pagoda, rasa al suolo nel 1883 dai "colonialisti francesi". In ogni caso il governo mantiene il controllo sui terreni e gli edifici contesi. E i cattolici hanno ricominciato qua e là a manifestare.

Dal 17 marzo, a Hô Chi Minh Ville, centinaia di suore e fedeli si riuniscono ogni giorno in preghiera davanti a un edificio sottratto alle suore dell'ordine della carità "Vinh Son", in passato trasformato in bordello e ora in procinto di essere demolito per far posto a un albergo.

Il 20 maggio la protesta si è estesa a un'altra città, Vinh Long, nel sud del paese. In un ex orfanotrofio appartenuto alle suore di St Paul de Chartres dovrebbe sorgere un hotel a quattro stelle. L'orfanotrofio fu requisito nel 1977 e ora il vescovo, le suore e i fedeli della città lo reclamano indietro.

"Non possiamo più tacere", ha detto il vescovo di Vinh Long, Thomas Nguyên Văn Tân. "Il silenzio, in questo momento, significherebbe complicità e accettazione dell'ingiustizia".





Cei: "Basta moschee su spazi dei cattolici"
I vescovi in un documento detteranno le linee guida per la costruzione dei luoghi di culto. Betori: "Quando un parroco presta i locali deve sapere che li presta per sempre all'Islam"…

di Andrea Tornielli
La Conferenza episcopale preparerà un documento per spiegare la posizione dei vescovi italiani sulla costruzione delle moschee nel nostro Paese. È quanto ha annunciato ieri il Segretario della Cei Giuseppe Betori, rivelando che nel corso della discussione che si è aperta lunedì pomeriggio ed è continuata ieri «ben tre interventi hanno chiesto un approfondimento del problema per avere una posizione ufficiale». Betori ha ribadito il «no» della Cei nei confronti di quei preti che concedono dei locali ecclesiastici per la preghiera musulmana, perché così facendo «alienano per sempre quegli spazi alla fede cattolica».
Il caso più recente, che risale al novembre scorso, aveva coinvolto un parroco del trevigiano. «Quando un parroco presta i locali della parrocchia deve sapere che in quel momento aliena quello spazio alla religione cattolica e lo affida per sempre all’Islam», ha detto il Segretario della Cei, spiegando anche che «le moschee non sono un luogo di culto, ma luoghi di preghiera e di formazione». Secondo un’antica consuetudine, quando un terreno o uno stabile vengono utilizzati per la preghiera dei fedeli seguaci di Maometto, quello spazio non è più disponibile per le altre religioni. Proprio per questo, nel 1993 la Cei aveva pubblicato una Nota nella quale, al paragrafo 34, si specificava che «le comunità cristiane, per evitare inutili fraintendimenti e confusioni pericolose, non devono mettere a disposizione, per incontri religiosi di fedi non cristiane, chiese, cappelle e locali riservati al culto cattolico, come pure ambienti destinati alle attività parrocchiali». Da allora sono passati quindici anni, oggi la presenza musulmana è molto cresciuta e in varie città italiane si discute sui progetti per la costruzione di nuove moschee per i fedeli dell’islam. La nuova nota dei vescovi servirà dunque a dare direttive unitarie sulle posizioni da prendere al riguardo, ribadendo il no alla concessione di spazi parrocchiali o ecclesiastici per la preghiera musulmana.
Betori, rispondendo alle domande dei giornalisti, è tornato sulle parole pronunciate lunedì dal cardinale Bagnasco e si è augurato che i Cpt per gli immigrati rappresentino una «soluzione di passaggio, non finale, per l’identificazione dei clandestini», chiedendo che siano accelerati «i tempi di valutazione» dello status e delle domande di asilo presentate da chi arriva nel nostro Paese, e coniugando l’esigenza di legalità, che è presupposto della sicurezza, con l’esigenza di accoglienza. Il vescovo ha anche invitato a non penalizzare singoli gruppi di immigrati, come in rom, ammettendo però che nel nostro Paese esistono «paura e senso di insicurezza». Da quanto si apprende, la discussione in assemblea è stata accesa riguardo agli immigrati, e alcuni vescovi sono intervenuti contro il provvedimento che intende istituire il reato di immigrazione clandestina.
Betori ha quindi auspicato che venga fatto un «tagliando» alla legge 194 (non citata da Bagnasco nella sua prolusione), spiegando che «come ogni altra legge è passibile di miglioramenti». E ha quindi affrontato lo spinoso problema della pedofilia spiegando che i vescovi, «appena c’è notizia» di un reato di questo tipo che coinvolge un sacerdote, «debbono aprire una inchiesta canonica», mentre la giustizia civile «segue le proprie strade». Sta infatti alle vittime «scegliere la strada della giustizia civile, cosa che non tutti sono pronti a fare».
Infine, Betori, che ha anche pronunciato parole in sostegno all’opera del sottosegretario ai rifiuti Bertolaso, è intervenuto sull’inchiesta genovese e sulle intercettazioni nelle quali vengono citati i nomi dei cardinali Bertone e Bagnasco: «Non hanno bisogno di solidarietà», ha detto il Segretario della Cei, «perché non sono minimamente coinvolti e ci sono solo persone che vantano amicizie con loro».
Il numero due della Cei dovrebbe essere promosso a breve, con tutta probabilità nella sede cardinalizia di Firenze, che si renderà vacante perché il cardinale Antonelli verrà richiamato in Vaticano. Per la sua successione, al posto-chiave di numero due della Cei, si fa con insistenza il nome del vescovo ausiliare di Milano Franco Giulio Brambilla, insieme a quello – oggi più defilato – del vescovo di Ivrea Arrigo Miglio. Altri nomi sono quelli dei vescovi Semeraro (Albano), Bassetti (Arezzo), Ghirelli (Imola) e Bianchi (Pistoia).
Il Giornale n. 126 del 2008-05-28


Una filosofia oltre l’illuminismo e il relativismo - Intervista al Decano della Facoltà di Filosofia dell'Urbaniana
di Antonio Gaspari
ROMA, mercoledì, 28 maggio 2008 (ZENIT.org).- Verrà presentato questo mercoledì a Roma, alle ore 18:00, presso la sala Marconi della Radio Vaticana, il libro di don Aldo Vendemiati, “Universalismo e relativismo nell’etica contemporanea” (Edizione Marietti, 198 pagine, 16,00 Euro).
Il libro punta alla ricerca di senso, superando l’universalismo etico illuminista e il relativismo post-moderno e proponendo un pluralismo fondato sui doveri e sulla responsabilità.
L’autore, specializzato nelle scienze etiche e bioetiche, è docente ordinario di Filosofia morale e Decano della Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Urbaniana (Roma).
A presentare il libro di vendemiati ci sarà il Cardinale Carlo Caffarra, già docente di Teologia morale e di Etica medica, e la prof.ssa Franca D'Agostini, docente di Filosofia contemporanea al Politecnico di Torino.
Per cercare di comprendere meglio le ragioni al centro del dibattito ZENIT ha intervistato don Aldo Vendemiati.
L’illuminismo ha espresso un pensiero etico fortemente universalista: basti pensare alle dichiarazioni “universali” dei diritti dell’uomo. Come mai oggi questo sembra essere “passato di moda”?
Vendemiati: Ciò dipende dal fatto che gran parte del pensiero contemporaneo è esplicitamente scettico sulle possibilità della ragione. L’approccio culturalmente più diffuso è quello volontarista, secondo cui sarebbe possibile conoscere il bene e la virtù solo se si sapesse ciò che Dio vuole; ma essendo ciò impossibile in prospettiva ‘laica’ (che in questi contesti significa semplicemente ‘non fideistica’), non resta altro criterio all’infuori di ciò che le persone vogliono; non già il dialogo (che implica una comunicazione razionale), ma il consenso tra le persone (il loro «permesso») costituisce l’unico principio morale valido.
Ebbene, se questa è la prospettiva «laica», delle due una: o questa è una posizione razionale o non lo è. Se è razionale, è perché – non ostante quel che sostengono i suoi propugnatori – si è riconosciuto il valore universale dell’autonomia, della negoziazione e della convivenza pacifica. Se invece la proposta non è razionale, se tutto riposa sulla volontà delle persone, non si vede perché la si dovrebbe rispettare.
Il fondamento teoretico del pluralismo è invece l’affermazione che la nostra conoscenza è condizionata e che, pertanto, se da un lato nessun pensiero umano può vantarsi di possedere la Verità assoluta, d’altro lato sono possibili diversi punti di vista su una medesima materia, ciascuno dei quali è potenzialmente in grado di contribuire alla conoscenza della materia stessa.
Ma l’affermazione che la nostra conoscenza è condizionata è possibile solo attingendo – in forma larvata, aurorale e persino labile, ma tuttavia reale – all’incondizionato. Quando, con Gadamer, affermo «l’inaggirabile legame della ragione a orizzonti, a tradizioni e situazioni», mi pongo, con la ragione, al di sopra di orizzonti, tradizioni e situazioni e affermo una verità di carattere universale.
Questo significa che il pensiero non è così debole come si vuol far credere. L’affermazione stessa della condizionatezza presuppone una ragione forte, sicuramente una ragione povera e nuda – perché quel che sa con certezza è davvero assai poco, ed è piena di dubbi, di esitazioni, di errori – ma talmente forte da riconoscere la propria povertà e non arrossire della propria nudità.
Penso dunque che sia non solo necessario, ma anche possibile superare l’impasse che ci vede stretti tra le insolute aporie dell’universalismo moderno e l’“insostenibile leggerezza” del relativismo post-moderno.
Quali sono le motivazioni del relativismo odierno? Sono l’ultima parola possibile nel campo dell’etica?
Vendemiati: Il peggior servizio all’universalismo è stato reso dalle ambizioni razionalistiche ed idealistiche del pensiero occidentale, che hanno preteso di elevare la propria “ragione” al rango di “Ragione” tout court, ossia di porsi “dal punto di vista di Dio” (come direbbe H. Putnam), per altro dopo aver negato valore conoscitivo alla fede in lui.
In etica ciò si esprime assumendo la prospettiva della “terza persona”: la riflessione morale consisterebbe nella ricerca di norme, elaborate “dal punto di vista di Dio”, ma di un dio secolarizzato ed immanente, coincidente – in ultima analisi – con il legislatore o il giudice umani.
A tale pretesa si oppongono le “ragioni” della democrazia liberale, dell’antropologia, dell’ermeneutica, dell’epistemologia e della stessa etica contemporanea, che – in vario modo – mostrano la condizionatezza della nostra conoscenza, la vana inconsistenza di chi pretende di possedere la Verità assoluta, l’Intero, il Tutto.
Da tali ragioni, il pensiero autentico deve lasciarsi impoverire e denudare, per giungere ad una corretta visione del pluralismo: sulla stessa materia sono, di fatto e di diritto, possibili diversi punti di vista, ciascuno dei quali potrebbe contribuire ad una migliore comprensione della realtà.
Tuttavia bisogna guardarsi bene anche dagli “eccessi di correzione” in cui le prospettive relativistiche vengono a cadere. Il relativismo, lungi dal garantire i valori del pluralismo e del dialogo tra le civiltà, livella tutti gli approcci etico-culturali in un’equivalenza teoretica e pratica, dalla quale si esce unicamente con la violenza della manipolazione o del terrorismo.
Qual è il senso e il ruolo della ricerca etico-razionale per chi vive nell’orizzonte della fede cristiana?
Vendemiati: La conoscenza razionale ha una sua specificità che non può mai venire meno. E questo è particolarmente evidente oggi, nella società complessa e secolarizzata in cui ci muoviamo.
Nel dibattito sui temi che dilaniano la coscienza delle nazioni e del mondo intero (ad esempio sui temi dell’eutanasia, dell’aborto, della politica economica, ecc.), noi cristiani non possiamo portare i nostri argomenti a partire dall’autorità del Vangelo, giacché ci troviamo a discutere con persone (e sono la maggioranza) che non riconoscono questa autorità.
Dobbiamo fondare razionalmente i nostri argomenti. La tradizione cristiana, a questo proposito, ha insegnato che la filosofia è “al servizio” della teologia (philosophia ancilla theologiae). E si tratta di un servizio reso su due fronti: da un lato la filosofia scopre alcune verità che facilitano l’accoglienza del Vangelo; dall’altro lato la filosofia smaschera alcuni errori che impediscono l’accoglienza del Vangelo.
D’altra parte, ci sentiamo invitati dalla nostra stessa fede ad esercitare fino in fondo la ragione. Un assioma teologico classico dice: «La grazia non distrugge la natura, ma la suppone»; nel nostro campo questo può essere tradotto così: «La fede non distrugge la ragione, ma la suppone».
La fede non sostituisce la ragione, bensì la completa e la eleva: quindi è necessario che ci sia qualcosa da completare ed elevare: un’attività razionale a cui la fede non si sostituisce. Posta questa distinzione metodologica, è ora possibile sottolineare che per l’etica è necessario porsi in ascolto delle grandi tradizioni religiose e, nel nostro caso, del cristianesimo.
E’ possibile impostare un’etica che consenta di rendere ragione alle istanze dell’autenticità, della diversità sociale e del riconoscimento? O siamo costretti a soggiacere alla “dittatura del relativismo”?
Vendemiati: Per la salvezza del pianeta e dell’umanità che lo abita è necessario fornire delle basi etiche di confronto che possano garantire il dialogo e, se non la convivenza pacifica, almeno una equa risoluzione dei conflitti.
Se non è possibile considerare alcuna civiltà concreta come se fosse la cultura universalmente valida, non è neppure possibile negare che vi sono dei valori universalmente validi ai quali tutte le civiltà possono (con maggior o minore sforzo) in ultima analisi richiamarsi.
Questo è il senso di una ricerca sull’universalismo morale. Per far ciò è necessario che l’etica si ponga in ascolto delle grandi tradizioni religiose: esse costituiscono un orizzonte interpretativo universale, capace di offrire un senso ultimo alla vita e alla morte. In esse, effettivamente, i valori, le norme e le motivazioni risultano garantiti incondizionatamente, concretizzati, resi capaci di creare sicurezza spirituale, fiducia e speranza.
Laddove invece la secolarizzazione taglia il cordone ombelicale fra le grandi tradizioni della fede e la ricerca razionale, o laddove il fondamentalismo esclude la possibilità della ricerca razionale stessa, i rischi sono evidenti. Il fondamentalismo, quando non conduce all’isolamento e all’incomunicabilità, sfocia nel conflitto e nel terrorismo.
Il secolarismo radicale tende a sostituire la verità con il consenso, e – come nota Ratzinger – ‘quanto fragili siano i consensi e quanto rapidamente, in un certo clima intellettuale, gruppi partitici possano imporsi come gli unici rappresentanti autorizzati del progresso e della responsabilità è davanti agli occhi di noi tutti’.


Britannico di 22 anni, convertito all'islam, si è fatto esplodere in un ristorante di Exeter: il silenzio dei nostri mass media
Dal sito www.magdiallam.it
Il fatto che non ci sia stata la strage ha fatto ritenere che la notizia non meritasse di essere menzionata, eppure è l'ennesima conferma che l'Europa è diventata una "fabbrica" di terroristi suicidi islamici
autore: Magdi Cristiano Allam (Anteprima, 27.5.2008)
Nick Reilly, un ragazzo britannico di 22 anni con disagi mentali, dopo essersi convertito all’islam assumendo il nome di Mohammed Rasheed, si è fatto esplodere nel bagno di un ristorante della catena Giraffe nel centro commerciale Princesshay a Exeter, nel sud dell’Inghilterra, con l’intento di provocare una strage.
Per fortuna qualcosa non ha funzionato nell’innesco dell’esplosivo. Lui è rimasto ferito agli occhi ma non vi sono state vittime tra gli avventori del ristorante. E’accaduto la scorsa settimana.
La vera notizia è che il tragico fatto è stato pressoché ignorato dai mass media. Come se la fortuita mancanza di conseguenze letali rendesse il fatto non degno di essere ricordato. Ancora una volta si conferma la necessità di un’informazione etica e responsabile, affrancata dall’approccio prevalentemente sensazionalistico e scandalistico.
Nel caso specifico si dovrebbe comprendere che il fallito attentato è non solo rilevante di per sé ma anche per ciò che sostanzialmente sottintende. Di fatto ci comportiamo come chi si concentra esclusivamente sulla punta dell’iceberg perdendo di vista la realtà dell’iceberg. Ovvero il fatto che la Gran Bretagna si conferma una “fabbrica di terroristi suicidi islamici”, in grado di trasformare dei cittadini britannici in bombe umane che si fanno esplodere nel nome di Allah. Non aspettiamo che l’irrompere della punta dell’iceberg affondi quest’Europa relativista e succube dell’estremismo islamico.
Magdi Cristiano Allam


Ma l’uomo non è un dado
Giorgio Israel28/05/2008
Autore(i): Giorgio Israel. Pubblicato il 28/05/2008 – IlSussidiario.net
Nel 1821 il grande matematico Augustin-Louis Cauchy così scriveva: «… se ho tentato di perfezionare l’analisi matematica sono ben lungi dall’affermare che quest’analisi sia sufficiente a tutte le scienze della ragione. Indubbiamente, nelle scienze cosiddette naturali, il solo metodo che possa essere impiegato con successo consiste nell’osservare i fatti e nel sottoporre le osservazioni al calcolo. Ma sarebbe un grave errore pensare che la certezza non possa essere trovata altro che nelle dimostrazioni geometriche o nella testimonianza dei sensi; e nonostante nessuno fino ad oggi abbia tentato di dimostrare con l’analisi l’esistenza di Augusto o di Luigi XIV, ogni uomo sensato converrà che questa esistenza è per lui altrettanto certa del quadrato dell’ipotenusa o del teorema di MacLaurin. Dirò di più: la dimostrazione di quest’ultimo teorema è alla portata di poche menti […]; al contrario tutti sanno molto bene da chi sia stata governata la Francia nel diciassettesimo secolo, e che non è possibile sollevare al riguardo alcuna contestazione ragionevole. Ciò che ho detto a proposito di un fatto storico si applica parimenti a una quantità di problemi, nel campo religioso, morale e politico. Occorre convincersi che esistono verità diverse dall’algebra, realtà diverse dagli oggetti sensibili. Coltiviamo con ardore le scienze matematiche, ma senza volerle ostentare al di là del loro dominio; e non illudiamoci che si possa affrontare la storia con delle formule, né sanzionare la morale con dei teoremi o con il calcolo integrale».
Si potrebbe pensare che siffatti propositi – che toccano brillantemente il tema oggi tanto discusso di una visione della ragione non ristretta all’approccio delle scienze naturali e matematiche – fossero un’eccezione nel panorama scientifico, che esprimessero le vedute di un matematico cattolico e conservatore. Al contrario, questa era l’opinione prevalente nel mondo scientifico dell’Ottocento. Ad esempio, nel 1836, un altro celebre matematico, Louis Poinsot, definiva «ripugnante» l’applicazione del calcolo delle probabilità alle «cose dell’ordine morale»: «rappresentare con un numero la credibilità di un testimone, assimilare gli uomini a dadi», trattare matematicamente le qualità morali e ricavare su questa base conclusioni che possano «determinare un uomo sensato a prendere una decisione o a dare un consiglio su una cosa di qualche importanza, è un’aberrazione della mente, una falsa applicazione della scienza e che non potrebbe altro che screditarla».
Potrei continuare, ma basti dire che l’opposizione diffusa ai tentativi di matematizzare le scienze sociali provenne dai matematici ancor più che dagli economisti e condusse alla disperazione il pioniere dell’economia matematica Léon Walras, isolato dallo scetticismo di scienziati di primissimo piano come Henri Poincaré. L’Ottocento fu un secolo fondamentalmente dualista che chiuse la parentesi del materialismo settecentesco estremo secondo cui l’anima è una secrezione del cervello come la bile lo è del fegato (Cabanis), e attribuì statuti distinti alle scienze naturali e alle scienze umane. Del resto, anche i grandi protagonisti della rivoluzione scientifica del Seicento quando dicevano che “il mondo è matematico” intendevano per “mondo” soltanto la sfera dei fenomeni materiali. Anche Cartesio, che pure si era spinto avanti nell’“esilio” di Dio dal mondo, asserendo che «il concorso ordinario di Dio nella conservazione del moto non impedisce che la natura sia autonoma nella sua propria sfera», ribadiva nettamente che questa sfera «è quella della materia». E nonostante egli considerasse la matematica come la suprema scienza dell’ordine e della misura che fornisce il modello del metodo (mathesis universalis), si guardava bene dall’estenderne il dominio al di là della sfera naturale. Al punto di proscrivere ogni tentativo di dominare il concetto di infinito; con il che non voleva dire che l’uomo non possieda tale concetto: al contrario, il possesso da parte dell’uomo dell’idea di infinito e di perfezione manifesta la presenza divina. Ma la mente umana è finita e «sarebbe ridicolo che tentassimo di determinarne qualcosa [dell’infinito] e in tal modo supporlo finito cercando di capirlo». Per questo, secondo Cartesio, non bisogna chiedersi se la metà di una retta sia infinita o se l’infinito è pari o dispari. Soltanto Leibniz si spinge ad asserire che l’infinito e l’infinitamente piccolo possono essere manipolati come le quantità finite, perché vi è coerenza completa tra realtà e ragione, e addirittura propugna la creazione di un calcolo simbolico universale con cui sviluppare ogni ragionamento, quale che ne sia l’oggetto. Ciononostante anche Leibniz era un dualista convinto. È nel Novecento che si è affermata la concezione detta “naturalismo” che ha come programma la riduzione di ogni aspetto della realtà a processi naturali, ovvero materiali, e che quindi altro non è che una forma di materialismo, seppure declinata talora nella versione blanda del “materialismo metodologico”, secondo cui non importa chiedersi se tutto sia riducibile a fatti materiali ma conviene ragionare “come se” così fosse. Oggigiorno predomina una versione forte del naturalismo: un materialismo metafisico che attribuisce alla scienza il compito di mostrare che ogni aspetto della realtà consiste di processi materiali. Ed è così che l’esilio di Dio dalla natura predicato da Cartesio e da Leibniz – e tanto criticato dai filosofi newtoniani, come Clarke – diventa un esilio totale, ateismo radicale e la scienza viene investita del compito di distruggere la “superstizione” religiosa. Anzi – a leggere certi testi e a seguire certi dibattiti – sembra quasi che la sua attività si riduca esclusivamente a questo fine. Questi sviluppi non potevano non avere come conseguenza la caduta della barriera che si era frapposta contro la matematizzazione di ogni aspetto della realtà.
Il Novecento segna il dilagare della matematica in ogni campo ed oggi questo processo assume contorni parossistici. Tutti i premi Nobel per l’economia vengono conferiti a matematici; la biologia si ripartisce tra un approccio sperimentale volto ossessivamente a ricercare le basi materiali della vita e del pensiero e un approccio matematico modellistico; praticare le scienze sociali, psicologiche e pedagogiche senza mettere in opera un approccio se non strettamente matematico, quantomeno ispirato alla logica formale e alla modellistica, sembra sconveniente. Pare che non sia più lecito pensare se non in termini di procedimenti logico-formali.
La vera domanda è se tutto ciò abbia qualcosa a che fare con la scienza come è stata intesa per qualche secolo, sia in termini di finalità che in termini di risultati oggettivi. Al riguardo, considero fondamentali le osservazioni proposte da Gershom Scholem una trentina di anni fa. Egli osservava che «un ebraismo vivo, quale che sia la sua concezione di Dio, dovrà opporsi risolutamente al naturalismo» – e mi pare che ciò valga in modo del tutto identico per il cristianesimo. Secondo Scholem, questa opposizione dovrà mettere in luce che l’idea secondo cui il progresso è di per sé sorgente di produzione di senso è assurda, e che l’ipotesi secondo cui il mondo è «luogo di assenza di senso è ricevibile a condizione di trovare un solo uomo che sia pronto ad accettarne le conseguenze». A costo di ripetere quel che ho già scritto altrove, dirò che lo spettacolo odierno di persone che impiegano tempo ed energie a dimostrare che tutto è prodotto senza senso di interazioni casuali – e così si mettono nella tragicomica situazione di chi da senso alla propria vita proponendosi di convincere gli altri che nulla ha senso – costituisce la migliore prova della tesi di Scholem. Cui egli ne aggiunge un altra, e cioè che «la frivolezza filosofica con cui molti biologi cercano di ricondurre le categorie morali a categorie biologiche è una delle caratteristiche più oscure del clima culturale della nostra epoca ma non può ingannarci circa il carattere disperato di una simile impresa. Basta studiare attentamente una sola di queste opere per percepire gli equivoci, le petizioni di principio, le latenze teologiche, le incrinature e le fessure di questo genere di edifizi intellettuali». Questo è stato scritto una trentina di anni fa ma è ancor più vero oggi. E quaranta anni non hanno modificato – se mai aggravato – il giudizio del celebre storico della scienza Alexandre Koyré circa i risultati dell’«imitazione servile» del metodo di analisi e ricostruzione per atomi applicato al di fuori delle scienze naturali propriamente dette: egli li definiva «mostruosità». Bisogna avere il rigore e il coraggio di esaminare in profondità e mettere in luce l’estrema povertà dei risultati dell’estensione del metodo delle scienze fisico-matematiche al campo delle scienze umane. Non farlo significa subire passivamente un conformismo trionfalistico privo di fondamento e lasciare campo libero al dilagare del peggiore naturalismo. Questo non significa assumere un atteggiamento antiscientifico. Al contrario. Per dirla con Poinsot e Cauchy, questo è l’unico modo sensato per difendere l’onore della scienza in quanto attività conoscitiva contro i tentativi di ridurla a un’impresa di propaganda del materialismo e dell’ateismo.
Occorre pertanto sviluppare un elevato livello di vigilanza critica. Quando leggiamo le indicazioni governative per l’istruzione e constatiamo che la matematica non viene intesa come una scienza, bensì come “la” modalità per eccellenza del pensiero che deve plasmare ogni forma di esercizio della ragione, ci troviamo di fronte al riflesso di una visione “ridotta” della razionalità che considera inferiore qualsiasi forma di ragionamento diversa da quella logico-formale e precipita le materie umanistiche nel purgatorio del pensiero, in quanto incapaci di produrre verità. Ma non basta essere vigili. Occorre essere coerenti. A che vale proporre come centrale il “senso” nella vita e nei rapporti con gli altri se poi si finisce con l’accettare passivamente una concezione dell’educazione e dei rapporti affettivi in contraddizione con tale proposito? Oggi dilagano teorie pedagogiche ispirate al più smaccato scientismo. Esse proclamano che l’insegnante non deve più essere un “maestro” bensì un “facilitatore”, che il rapporto con gli allievi non deve essere “dichiarativo” (ossia basato sui contenuti) bensì “procedurale”, ovvero centrato su metodi e tecniche dell’insegnamento; e, in quanto esperto di tali metodi e tecniche, l’insegnante deve divenire un “professionista”. Pretendono inoltre di oggettivizzare in modo quantitativo i processi di valutazione, sottraendoli alla soggettività “arbitraria” del rapporto tra insegnante e studente per consegnarli alle procedure di una “scienza”, la “docimologia” che ha la pretesa sconfinata di misurare le competenze, la cultura, il pensiero. Infine, pretendono addirittura di trasformare in “scienza” i rapporti affettivi e la morale delegando la formazione della persona in tali ambiti a corsi di “affettività” e “convivenza civile”. Da un lato, occorre mettere in luce l’estrema fragilità delle premesse teoriche di tali teorie e la desolante miseria dei loro risultati. Ma occorre anche che si risolva l’incoerenza di coloro – e non sono pochi – che, da un lato, sono convinti che il processo educativo sia un rapporto tra persone in cui l’insegnante si presenta come “rappresentante del mondo” (per dirla con Hannah Arendt) che fornisce all’allievo gli strumenti conoscitivi per costruire il progetto e il senso del proprio futuro, e non è il mero agente di procedure meccaniche e standardizzate; e, d’altro lato, accettano passivamente di praticare queste procedure. In tal modo si permette al più vieto scientismo di ridurre al rango di vuoti proclami ciò di cui più si è convinti.
(L’Osservatore Romano, sabato 24 maggio 2008)


Il dibattito sull'eutanasia in Francia - La compassione non ha la licenza di uccidere
di Ferdinando Cancelli
In Francia si è riaperto recentemente il dibattito sull'eutanasia, ancora una volta sull'onda del pubblico coinvolgimento causato da un caso umano prima che clinico. Chantal Sébire, una donna affetta da una forma tumorale deturpante del volto, dopo aver ripetutamente chiesto di essere aiutata a morire giudicando indegna la propria condizione, si è tolta la vita con dosi letali di sedativi.
Già nel 2003 il caso di Vincent Humbert, ventunenne affetto da una tetraplegia da trauma cranico, aveva scosso l'opinione pubblica francese. Il giovane, appoggiato dalla madre, aveva a lungo reclamato pubblicamente, anche con un libro, il proprio "diritto a morire" divenendo il simbolo di una corrente di pensiero pro eutanasia sia in vita sia, ancor più, dopo la morte, avvenuta in seguito alla decisione dei medici rianimatori di sospendere i mezzi di sostegno vitale posti in atto dopo che la madre, proprio nel giorno di pubblicazione del libro, aveva somministrato al figlio un'alta dose di farmaci sedativi con l'intento di ucciderlo. Oggi come allora diverse associazioni favorevoli all'eutanasia o al suicidio assistito, prima fra tutte l'Association pour le droit de mourir dans la dignité, vorrebbero cavalcare l'onda mediatica della spettacolarizzazione del dolore per affermare l'assenza di dignità in persone affette da malattie inguaribili in fase avanzata e per vedere riconosciuto il "diritto alla dolce morte"; ma oggi come allora l'effetto conseguente, almeno in Francia, sembra essere esattamente quello contrario. Fu proprio in seguito al caso di Vincent Humbert e alla presa di coscienza che investì il mondo politico di allora che iniziò l'approfondito iter legislativo che portò alla legge del 22 maggio 2005, nota dal nome del parlamentare Jean Leonetti come "legge Leonetti". Quest'ultima ha segnato, pur non priva di punti deboli e di passaggi che andrebbero ulteriormente approfonditi, un passo in avanti nella definizione del ruolo delle cure palliative che, evitando sia l'accanimento terapeutico che l'eutanasia, rappresentano ad oggi la miglior garanzia di accompagnamento al malato inguaribile e alla sua famiglia. Emerge peraltro da un rapporto sullo stato delle cure palliative in Francia, della psicologa Marie de Hennezel nel dicembre 2007, a quattro anni dall'uscita della legge, che i ritardi sono ancora molti e "bisogna riconoscere che ad oggi molti medici non conoscono le buone pratiche cliniche proprie della fase finale della vita. Molti fra questi - continua la de Hennezel - ignorano quanto la legge permette loro di fare e insistono nel pensare che l'estrema soluzione per alleviare la sofferenza nelle fasi terminali consista nell'abbreviare la vita del malato".
Alla risposta che il governo e con esso parte della società francese diedero nel 2005 ai delicati problemi etici di fine vita si può comparare quanto oggi sta emergendo di fronte al caso di Chantal Sébire. In un comunicato stampa del 20 marzo 2008 la Société française d'accompagnement et de soins palliatifs, l'associazione che raduna la stragrande maggioranza degli operatori sanitari francesi nel campo delle cure palliative, e altre sei grandi associazioni mediche, ricordano che "nel contesto attuale nel quale si mescolano la tragicità di una situazione di vita - riferendosi a Chantal Sébire (n.d.a.) - la chiamata in causa della giustizia e dei pubblici poteri e la messa in discussione della legge sui diritti dei malati e sulla fine della vita" sono da ribadire con forza due principi: "trattare il dolore ed alleviare la sofferenza resta una priorità assoluta" e "far morire non può essere una soluzione", nemmeno quando la morte è desiderata dalla persona stessa. Il comunicato termina "riaffermando con forza che, qualunque siano le scelte che la società potrà fare nel futuro, dare la morte non è in alcuna maniera un atto di competenza medica e che i professionisti della sanità non si assumeranno tale competenza".
In parallelo a questa chiarissima presa di posizione da parte di associazioni laiche di professionisti, e quasi negli stessi giorni nei quali Benedetto xvi all'assemblea plenaria del Pontificio Consiglio per la Famiglia ha ribadito che "con crescente insistenza si giunge persino a proporre l'eutanasia come soluzione per risolvere situazioni difficili", l'arcivescovo di Parigi cardinale André Vingt-Trois, presidente della Conferenza episcopale francese, nel discorso di apertura dell'assemblea generale della stessa Conferenza episcopale pronunziato il primo aprile, ha denunciato la "recente campagna orchestrata, ancora una volta, a partire dal dramma personale d'una persona gravemente malata per fare passare nell'opinione pubblica l'urgenza di legalizzare il permesso di disporre della propria vita. In realtà - prosegue apertamente il cardinale - si tratterebbe ancora una volta del permesso di disporre della vita del proprio prossimo, del permesso di uccidere". Dopo aver sottolineato come la marea emozionale sia stata ancora una volta scatenata a detrimento di una chiara e serena valutazione della situazione specifica, il cardinale afferma che "subdolamente il lavoro ammirevole delle équipe di cure palliative è stato screditato e svalutato agli occhi dell'opinione pubblica; vergognosamente, in migliaia di persone gravemente malate, o negli ultimi anni di vita, è stato instillato il sospetto di non avere il coraggio della "dignità"; in modo fraudolento l'istanza di rimandare alla società la decisione della propria morte è stata presentata come un progresso umano (...) La passione per la morte ha sostituito la compassione per la vita".
Sono parole di condanna dalle quali però si può trarre anche un appello alla speranza. Di fronte all'evidenza che, per dirla con Lucien Israel, "l'uomo occidentale non è più mentalmente, spiritualmente, in grado di assistere coloro che ama e che ha amato, di chiudere loro gli occhi e di baciare una fronte disertata dalla vita", piace pensare che siano ancora in tanti ad avere compassione per la vita, ad avere la forza e la lucidità per passare dall'emozione alla ragione, a tenere davanti agli occhi gli esempi non rari di quanti, per servire la vita, hanno speso tutte le loro umane energie. Fra questi, il servo di Dio Jerôme Lejeune ci ricorda che sempre ci troveremo "a scegliere tra due modi di vedere gli uomini: quello di Giuda o quello dell'Innocente che ha detto "Ciò che avete fatto al più piccolo degli esseri lo avete fatto a me". A noi la scelta.
(©L'Osservatore Romano - 28 maggio 2008)


MENTRE SI DISCUTE TENTIAMO UN ESPERIMENTO
Svuotare la legge 194 sostenendo la maternità

MARINA CORRADI
N el dibattito continuo che intorno all’aborto resta vivo in Italia – a dimostrazione che, trent’anni dopo la legge, non si è arrivati a una pacificazione delle coscienze – c’è una cifra che colpisce l’immaginazione. È il 'rapporto di abortività', cioè il numero di figli non nati ogni anno, a fronte di mille nati vivi. Nel 2005 in Italia per mille nati ci sono stati 241 aborti. Per ogni mille case in cui è entrato un bambino col suo corteo di speranza e di gioia, in 241 case quel figlio che si era affacciato non è arrivato. Spesso per motivi diffusi e considerati 'ragionevoli': un lavoro precario o nessun lavoro, un padre assente, una madre povera o straniera.
Anche se ci viene ripetuto che la legge «funziona», a noi quei 241 su mille che non nascono sembrano moltissimi. Proviamo per un attimo a non parlare della legge. A non farci prendere dall’inesausto dibattito se la 194 sia ritoccabile oppure di per sé intangibile – come certi vetusti monumenti protetti contro ogni moderna profanazione da severe sovraintendenze. Ancora ieri il vescovo Betori, segretario della Cei, a chi gli sollecitava un parere, suggeriva l’idea di fare almeno il tagliando alla legge. Ma è di altro, di quei 241 su mille cancellati, di cui vorremmo parlare, una volta. Al di là della legge: come ha scritto Giuliano Ferrara, l’aborto va combattuto e vinto, trent’anni dopo, quasi 'a prescindere' dalla 194. Nel tentativo umile ma concreto e realista di svuotare da dentro il bacino della 'domanda', drammatica, di aborto. Di colmare quanto più si può tutte quelle lacune che della mentalità abortiva creano l’humus. Il Progetto Gemma che cosa è stato, in questi anni, se non il tentativo, per molti bimbi riuscito, di schierarsi dalla loro parte, mentre si discuteva? Forse è un momento di svolta, in cui anche molti laici, a cominciare da Napolitano, si chinano pensosi sulla fatica a generare di madri e padri ancora precari a trent’anni. Quei 241 su mille buttati nel nulla – un figlio ogni cinque – sono, anche, la conseguenza tragica di politiche familiari latitanti, di nidi che mancano da sempre, di donne che devono scegliere fra lo stipendio e un bambino, di lavoro senza garanzie. Quei figli mai nati c’entrano con tutto quello che in Italia non c’è. Con un mondo attorno distratto e latitante, scrupolosamente ligio a salvaguardare una borghese 'libertà' di aborto che invece spesso oggi è resa di morte, di fronte a troppo gravi incognite. La 194 non si tocca, ripetono automaticamente le voci, spesso invecchiate, di un femminismo che non si accorge che molte donne oggi pensano all’aborto più come a un arrendersi nella solitudine che a un 'diritto' di autodeterminazione da brandire con fierezza.
Forse è il tempo per domandare una tregua nella polemica politica e ideologica, e per operare sulla realtà: occorrono consultori, aiuti, servizi. Attorno a tante che abortiscono perché pensano di non avere alternative, una nuova solidarietà: dei vostri figli, ci importa. Vorremmo, senza ledere dogmi anni Settanta e laici democratici totem, che almeno le nostre figlie crescessero sapendo che sì, una legge dello Stato, per noi inaccettabile, consente di cancellare un figlio; ma che questa è l’ultima istanza cui pensare, quando si scoprissero incinte. Perché il femminismo ci ha raccontato gli orrori dell’aborto clandestino: ma poi una certa cultura e anche la 194 in trent’anni hanno costruito la mentalità dell’aborto non solo legale ma 'normale', scontato, inevitabile. È l’aborto per mancanza di alternative, che della 'libertà' è il capovolgimento più crudele e radicale. Svuotare la 'domanda' di aborto con ogni possibile misura.
Quanti, di quei 241 cancellati su mille, vivrebbero?
Pure sotto la 194, artrosica mesta bandiera di un’Italia 'liberata', che bello se tuttavia quei figli tornassero a nascere. Che segno darebbe una politica, che sapesse invertire la tendenza. Migliaia di bambini in più nelle nostre strade, si sentirebbero. I bambini, sono segni che fanno rumore.