giovedì 22 maggio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI presenta la figura di Romano il Melode
2) Olimpiadi della fede. La Cina squalifica la Madonna di Sheshan, di Sandro Magister
3) Diagnosi prenatale: per prevenire o «scartare»?
4) I nodi cruciali della tanto discussa legge 194
5) L’obbrobrio degli ibridi. - Violato lo specifico umano
6) Quando l’accusa di omofobia viene dispensata gratis
7) Algeri, processo a cristiana convertita
8) l’appello: «Morire non è un diritto»
9) Macerata-Loreto: notte di popolo


Benedetto XVI presenta la figura di Romano il Melode
Intervento all'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 21 maggio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo le parole pronunciate questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale in piazza San Pietro dove ha incontrato i pellegrini e i fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana il Papa, continuando il ciclo di catechesi sui Padri della Chiesa, si è soffermato sulla figura di Romano il Melode.
Cari fratelli e sorelle,
nella serie delle catechesi sui Padri della Chiesa, vorrei oggi parlare di una figura poco conosciuta: Romano il Melode, nato verso il 490 a Emesa (oggi Homs) in Siria. Teologo, poeta e compositore, appartiene alla grande schiera dei teologi che hanno trasformato la teologia in poesia. Pensiamo al suo compatriota, sant’Efrem di Siria, vissuto duecento anni prima di lui. Ma pensiamo anche a teologi dell’Occidente, come sant’Ambrogio, i cui inni sono ancora oggi parte della nostra liturgia e toccano anche il cuore; o a un teologo, a un pensatore di grande vigore, come san Tommaso, che ci ha donato gli inni della festa del Corpus Domini di domani; pensiamo a san Giovanni della Croce e a tanti altri. La fede è amore e perciò crea poesia e crea musica. La fede è gioia, perciò crea bellezza.
Così Romano il Melode è uno di questi, un poeta e compositore teologo. Egli, appresi i primi elementi di cultura greca e siriaca nella sua città natia, si trasferì a Berito (Beirut), perfezionandovi l’istruzione classica e le conoscenze retoriche. Ordinato diacono permanente (515 ca.), fu qui predicatore per tre anni. Poi si trasferì a Costantinopoli verso la fine del regno di Anastasio I (518 ca.), e lì si stabilì nel monastero presso la chiesa della Theotókos, Madre di Dio. Qui ebbe luogo l’episodio-chiave della sua vita: il Sinassario ci informa circa l’apparizione in sogno della Madre di Dio e il dono del carisma poetico. Maria, infatti, gli ingiunse di inghiottire un foglio arrotolato. Risvegliatosi il mattino dopo – era la festa della Natività del Signore – Romano si diede a declamare dall’ambone: «Oggi la Vergine partorisce il Trascendente» (Inno "Sulla Natività" I. Proemio). Divenne così omileta-cantore fino alla morte (dopo il 555).
Romano resta nella storia come uno dei più rappresentativi autori di inni liturgici. L’omelia era allora, per i fedeli, l’occasione praticamente unica d’istruzione catechetica. Romano si pone così come testimone eminente del sentimento religioso della sua epoca, ma anche di un modo vivace e originale di catechesi. Attraverso le sue composizioni possiamo renderci conto della creatività di questa forma di catechesi, della creatività del pensiero teologico, dell’estetica e dell’innografia sacra di quel tempo. Il luogo in cui Romano predicava era un santuario di periferia di Costantinopoli: egli saliva all’ambone posto al centro della chiesa e parlava alla comunità ricorrendo ad una messinscena piuttosto dispendiosa: utilizzava raffigurazioni murali o icone disposte sull’ambone e ricorreva anche al dialogo. Le sue erano omelie metriche cantate, dette "contaci" (kontákia). Il termine kontákion, "piccola verga", pare rinviare al bastoncino attorno al quale si avvolgeva il rotolo di un manoscritto liturgico o di altra specie. I kontákia giunti a noi sotto il nome di Romano sono ottantanove, ma la tradizione gliene attribuisce mille.
In Romano, ogni kontákion è composto di strofe, per lo più da diciotto a ventiquattro, con uguale numero di sillabe, strutturate sul modello della prima strofa (irmo); gli accenti ritmici dei versi di tutte le strofe si modellano su quelli dell’irmo. Ciascuna strofa si conclude con un ritornello (efimnio) per lo più identico per creare l’unità poetica. Inoltre le iniziali delle singole strofe indicano il nome dell’autore (acrostico), preceduto spesso dall’aggettivo "umile". Una preghiera in riferimento ai fatti celebrati o evocati conclude l’inno. Terminata la lettura biblica, Romano cantava il Proemio, per lo più in forma di preghiera o di supplica. Annunciava così il tema dell’omelia e spiegava il ritornello da ripetere in coro alla fine di ciascuna strofa, da lui declamata con cadenza a voce alta.
Un esempio significativo ci è offerto dal kontakion per il Venerdì di Passione: è un dialogo drammatico tra Maria e il Figlio, che si svolge sulla via della croce. Dice Maria: «Dove vai, figlio? Perché così rapido compi il corso della tua vita?/ Mai avrei creduto, o figlio, di vederti in questo stato,/ né mai avrei immaginato che a tal punto di furore sarebbero giunti gli empi/ da metterti le mani addosso contro ogni giustizia». Gesù risponde: «Perché piangi, madre mia? [...]. Non dovrei patire? Non dovrei morire?/ Come dunque potrei salvare Adamo?». Il figlio di Maria consola la madre, ma la richiama al suo ruolo nella storia della salvezza: «Deponi, dunque, madre, deponi il tuo dolore:/ non si addice a te il gemere, poiché fosti chiamata "piena di grazia"» (Maria ai piedi della croce, 1-2; 4-5). Nell’inno, poi, sul sacrificio di Abramo, Sara riserva a sé la decisione sulla vita di Isacco. Abramo dice: «Quando Sara ascolterà, mio Signore, tutte le tue parole,/conosciuto questo tuo volere essa mi dirà:/- Se chi ce l’ha dato se lo riprende, perchè ce l’ha donato?/[...] - Tu, o vegliardo, il figlio mio lascialo a me,/e quando chi ti ha chiamato lo vorrà, dovrà dirlo a me» (Il sacrificio di Abramo, 7).
Romano adotta non il greco bizantino solenne della corte, ma un greco semplice, vicino al linguaggio del popolo. Vorrei qui citare un esempio del suo modo vivace e molto personale di parlare del Signore Gesù: lo chiama "fonte che non brucia e luce contro le tenebre" e dice: «Io ardisco tenerti in mano come una lampada;/ chi porta, infatti, una lucerna fra gli uomini è illuminato senza bruciare./ Illuminami dunque, Tu che sei la Lucerna inestinguibile» (La Presentazione o Festa dell’incontro, 8). La forza di convinzione delle sue predicazioni era fondata sulla grande coerenza tra le sue parole e la sua vita. In una preghiera dice: «Rendi chiara la mia lingua, mio Salvatore, apri la mia bocca / e, dopo averla riempita, trafiggi il mio cuore, perché il mio agire/ sia coerente con le mie parole» (Missione degli Apostoli, 2).
Esaminiamo adesso alcuni dei suoi temi principali. Un tema fondamentale della sua predicazione è l’unità dell’azione di Dio nella storia, l’unità tra creazione e storia della salvezza, l’unità tra Antico e Nuovo Testamento. Un altro tema importante è la pneumatologia, cioè la dottrina sullo Spirito Santo. Nella festa di Pentecoste sottolinea la continuità che vi è tra Cristo asceso al cielo e gli apostoli, cioè la Chiesa, e ne esalta l’azione missionaria nel mondo: «[...] con virtù divina hanno conquistato tutti gli uomini;/ hanno preso la croce di Cristo come una penna,/ hanno usato le parole come reti e con esse hanno pescato il mondo,/ hanno avuto il Verbo come amo acuminato,/ come esca è diventata per loro/ la carne del Sovrano dell’universo» (La Pentecoste 2;18).
Altro tema centrale è naturalmente la cristologia. Egli non entra nel problema dei concetti difficili della teologia, tanto discussi in quel tempo, e che hanno anche tanto lacerato l’unità non solo tra i teologi, ma anche tra i cristiani nella Chiesa. Egli predica una cristologia semplice ma fondamentale, la cristologia dei grandi Concili. Ma soprattutto è vicino alla pietà popolare – del resto, i concetti dei Concili sono nati dalla pietà popolare e dalla conoscenza del cuore cristiano – e così Romano sottolinea che Cristo è vero uomo e vero Dio, ed essendo vero Uomo-Dio è una sola persona, la sintesi tra creazione e Creatore: nelle sue parole umane sentiamo parlare il Verbo di Dio stesso. «Era uomo – dice – il Cristo, ma era anche Dio,/ non però diviso in due: è Uno, figlio di un Padre che è Uno solo» (La Passione 19). Quanto alla mariologia, grato alla Vergine per il dono del carisma poetico, Romano la ricorda alla fine di quasi tutti gli inni e le dedica i suoi kontáki più belli: Natività, Annunciazione, Maternità divina, Nuova Eva.
Gli insegnamenti morali, infine, si rapportano al giudizio finale (Le dieci vergini [II]). Egli ci conduce verso questo momento della verità della nostra vita, del confronto col Giudice giusto, e perciò esorta alla conversione nella penitenza e nel digiuno. In positivo, il cristiano deve praticare la carità, l’elemosina. Egli accentua il primato della carità sulla continenza in due inni, le Nozze di Cana e le Dieci vergini. La carità è la più grande delle virtù: «[...] dieci vergini possedevan la virtù dell’intatta verginità,/ ma per cinque di loro il duro esercizio fu senza frutto./ Le altre brillarono per le lampade dell’amore per l’umanità,/ per questo lo sposo le invitò» (Le dieci Vergini, 1).
Umanità palpitante, ardore di fede, profonda umiltà pervadono i canti di Romano il Melode. Questo grande poeta e compositore ci ricorda tutto il tesoro della cultura cristiana, nata dalla fede, nata dal cuore che si è incontrato con Cristo, con il Figlio di Dio. Da questo contatto del cuore con la Verità che è Amore nasce la cultura, è nata tutta la grande cultura cristiana. E se la fede rimane viva, anche quest’eredità culturale non diventa una cosa morta, ma rimane viva e presente. Le icone parlano anche oggi al cuore dei credenti, non sono cose del passato. Le cattedrali non sono monumenti medievali, ma case di vita, dove ci sentiamo "a casa": incontriamo Dio e ci incontriamo gli uni con gli altri. Neanche la grande musica – il gregoriano o Bach o Mozart – è cosa del passato, ma vive della vitalità della liturgia e della nostra fede. Se la fede è viva, la cultura cristiana non diventa "passato", ma rimane viva e presente. E se la fede è viva, anche oggi possiamo rispondere all’imperativo che si ripete sempre di nuovo nei Salmi: "Cantate al Signore un canto nuovo". Creatività, innovazione, canto nuovo, cultura nuova e presenza di tutta l’eredità culturale nella vitalità della fede non si escludono, ma sono un’unica realtà; sono presenza della bellezza di Dio e della gioia di essere figli suoi.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i Seminaristi del Seminario Regionale Pugliese di Molfetta, e li esorto a fondare la loro vita su Gesù e sulla salda roccia della sua Parola, per esserne coraggiosi annunciatori agli uomini del nostro tempo. Saluto i fedeli albanesi, qui convenuti in occasione della Visita "ad limina Apostolorum" dei Vescovi dell’Albania, e li accompagno con la mia preghiera affinchè il Signore renda fruttuoso il loro impegno di far conoscere Gesù Via, Verità e Vita. Saluto gli imprenditori del settore zootecnico, i fedeli della Rettoria Santa Maria di Campanile, in Frasso Telesino e quelli della parrocchia San Sisto, in Perugia. Cari fratelli e sorelle, vi ringrazio tutti per la vostra presenza e vi incoraggio a seguire con fedeltà Gesù e il suo Vangelo, per essere cristiani autentici in famiglia e in ogni altro ambiente.
Mi rivolgo, infine, ai giovani, ai malati e agli sposi novelli, augurando a ciascuno di servire sempre Dio nella gioia e di amare il prossimo con spirito evangelico.
Vorrei infine ricordare che domani, solennità del Corpus Domini, alle ore 19, sul sagrato della Basilica di San Giovanni in Laterano presiederò la Messa, cui seguirà la tradizionale processione fino a Santa Maria Maggiore. Invito tutti a partecipare a questa solenne celebrazione, per esprimere insieme la fede in Cristo, presente nell’Eucarestia.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]


Olimpiadi della fede. La Cina squalifica la Madonna di Sheshan
Proibiti i pellegrinaggi al più importante santuario mariano cinese. Nella giornata di preghiera indetta dal papa. Un libro del sinologo Bernardo Cervellera mette a nudo le contraddizioni del regime, alla vigilia dei giochi olimpici di Pechino
di Sandro Magister
ROMA, 22 maggio 2008 – Cade in questo mese di maggio, tra due giorni, la prima delle annuali giornate di preghiera per la Chiesa in Cina indette da Benedetto XVI nella sua lettera di un anno fa ai cattolici cinesi.

Tradizionalmente, ogni 24 maggio, migliaia di cattolici si recano da tutta la Cina in pellegrinaggio al santuario di Sheshan, dedicato a Maria "aiuto dei cristiani", posto su un colle verdeggiante a 50 chilometri a sud di Shanghai (vedi foto).

Per la festività di quest'anno era previsto un afflusso più forte, di almeno 200 mila fedeli. Ma non sarà così. E non solo a motivo del terrificante terremoto che nei giorni scorsi ha fatto innumerevoli vittime nel Sichuan e ha creato difficoltà nell'intero paese.

Gli ostacoli principali al pellegrinaggio sono stati frapposti deliberatamente dalle autorità cinesi, e in particolare dall'Associazione patriottica che controlla la vita religiosa.

Le diocesi più vicine al santuario – quelle di Shanghai, Wenzhou e Ningbo – sono state diffidate dall'organizzare visite collettive di fedeli, e per tutto il mese di maggio è stato proibito agli alberghi e agli ostelli della zona di accogliere pellegrini cattolici. Le visite individuali sono consentite solo a chi – a suo rischio – si registra presso la diocesi di Shanghai e chiede l'autorizzazione.

In una direttiva in cinque punti, l'Associazione patriottica ha intimato a tutte le diocesi di organizzare devozioni mariane solo nei rispettivi territori, senza recarsi a Sheshan. La direttiva è stata sottoscritta anche dal Consiglio dei vescovi cinesi, un organismo fantoccio non riconosciuto dalla Santa Sede. In uno dei cinque punti sono formulate le intenzioni di preghiera: per la pace, per il papa, per la riuscita delle Olimpiadi e per un buon risultato degli atleti cinesi.

Queste ultime intenzioni suonano come una beffa. Risulta infatti che le vicine Olimpiadi non comportano in Cina un allargamento degli spazi di libertà religiosa, ma piuttosto un irrigidimento dei controlli, per "ragioni di sicurezza".

Specie dopo le rivolte tibetane, ogni raggruppamento di persone – anche attorno a un santuario mariano – è visto dalle autorità cinesi come fonte di pericolo. Ed è scoraggiato o impedito.

Inoltre, in alcuni dirigenti cinesi c'è la volontà di ostacolare la giornata di preghiera voluta dal papa proprio perché essa creerebbe una maggiore unità dentro la Chiesa cinese: tra i cattolici con riconoscimento ufficiale e quelli clandestini, e tra tutti questi e la Chiesa di Roma.

Sulla situazione complessiva della Cina alla vigilia delle Olimpiadi esce tra pochi giorni in Italia un libro di un grande esperto, padre Bernardo Cervellera, del Pontificio Istituto Missioni Estere, stampato dall'editrice Ancora e intitolato "Il rovescio delle medaglie".

Padre Cervellera è anche il fondatore e il direttore dell'agenzia on line "Asia News", informatissima sulla Cina.

Ecco qui di seguito un estratto del capitolo settimo del libro, dedicato alle religioni:


"Una grande sete di Dio"
di Bernardo Cervellera
"Pechino 2008 sarà all’insegna dell’armonia e della libertà per tutte le religioni": lo assicura Ye Xiaowen, direttore dell’amministrazione statale per gli affari religiosi, il ministero che si preoccupa di attuare la politica della Cina verso le religioni. [...]

In effetti, al villaggio olimpico, fra stadi e residenze, sta nascendo anche un centro per i servizi religiosi a disposizione dei bisogni degli atleti, secondo le loro diverse convinzioni religiose. Ci saranno locali adibiti alla preghiera per buddisti, indù, cristiani, ebrei e musulmani. [...]

L’impressione però è che tanta apertura verso le fedi religiose degli ospiti olimpici sia solo un altro superbo spettacolo di facciata, una enorme campagna di immagine per mostrare che la Cina del XXI secolo non viola i diritti umani e religiosi. Almeno nel villaggio olimpico.

Il punto è infatti che le regole all’interno del recinto dei Giochi sono diverse dalle regole all’interno del Paese. Nel villaggio olimpico si dà spazio a tutte le religioni, ma in Cina sono riconosciute solo cinque religioni ufficiali: buddismo, taoismo, islam, cristianesimo protestante, cattolicesimo.

Altre comunità religiose presenti nel territorio – come i cristiani ortodossi, gli ebrei, gli indù, i bahai – non hanno luoghi di culto e non possono averli perché il governo non li riconosce.

Nel 2007, in diverse riprese, il patriarca di Mosca ha criticato il governo di Pechino per non concedere piena libertà e riconoscimento alla Chiesa ortodossa cinese, che pure è presente da 300 anni nel Paese. Il gruppo di fedeli – che si aggira sulle 13 mila unità – per le speciali occasioni, come Natale e Pasqua, deve usare i locali dell’ambasciata russa a Pechino. Anche il metropolita greco-ortodosso di Hong Kong, Nikitas Lulias, ha criticato le autorità cinesi per lo stesso motivo.

Una cosa simile vale per gli ebrei. Presenti da secoli sul territorio, essi sono stati spazzati via dal maoismo, che ha sequestrato beni degli israeliti e diverse sinagoghe.

Il rabbino capo di Israele ha chiesto da tempo al governo cinese il ritorno al culto della sinagoga di Shanghai, la Ohel Rachel, ma non ha ottenuto risposta.

A tutt’oggi gli ebrei in Cina, che si aggirano sulle diverse migliaia, sono tollerati finché vivono la loro religione con discrezione e senza coinvolgere cinesi. [...]

Chi pensava che le Olimpiadi sarebbero state il momento per la Cina di assaggiare la libertà religiosa come è praticata in larga maggioranza nella comunità internazionale, dovrà ricredersi: toccherà al resto del mondo assaggiare il controllo religioso "made in China".

In Cina le comunità religiose "riconosciute" godono di libertà religiosa (o meglio, di culto) solo se praticano la loro fede in strutture registrate presso il governo, con personale registrato, con attività registrate e accettando la supervisione delle Associazioni patriottiche (AP). Questa confusione fra Stato e Chiese produce un effetto ridicolo: membri del Partito – la maggioranza dei segretari delle Associazioni patriottiche sono atei – si mettono a gestire la vita spirituale dei fedeli indicando come svolgere i riti, quali libri stampare, chi può scegliere la vocazione religiosa, chi può diventare prete o leader di una comunità, quali ragazze possono entrare in convento. Questo controllo non è neutrale. Esso tende a un lento soffocamento delle religioni. [...]

C’è anche un effetto violento: a chiunque non si sottoponga al controllo delle AP è proibita ogni attività religiosa. Se osa farlo va in prigione perché compie un’azione "illegale" ed è trattato alla stregua di un comune delinquente. [...]

In prossimità delle Olimpiadi, mentre il governo proclama ai quattro venti che durante le Olimpiadi ci sarà piena libertà religiosa, la polizia di diverse regioni ha fatto retate e piazza pulita di vari leader delle comunità sotterranee.

Fra i cattolici [...] il fatto più terribile è certo la morte di monsignor Giovanni Han Dingxian, vescovo sotterraneo di Yongnian. Da due anni in isolamento nelle mani della polizia, il prelato, che ha passato almeno 35 anni della sua vita in prigione, è morto in un ospedale il 9 settembre 2007. I parenti sono stati chiamati poche ore prima che spirasse. Poche ore dopo la sua morte (avvenuta alle 11 di sera), la salma è stata subito cremata e seppellita in un cimitero pubblico, senza possibilità per parenti, fedeli e sacerdoti di poterlo vedere, salutare o benedire. Secondo alcuni cattolici della diocesi, la polizia "voleva coprire delle prove", forse di tortura. [...]

La Cina è stata spesso condannata dalla comunità internazionale per la pratica della tortura da parte della polizia. Manfred Nowak, investigatore capo dell’agenzia ONU sulle torture, ha confermato in un suo rapporto del 2006 "l’uso diffuso della tortura in tutta la Cina", chiedendo il "rilascio immediato di chi è in carcere per aver esercitato il diritto alla libertà religiosa o alla parola". [...]

L’accanimento del regime è forte soprattutto con i protestanti. Il governo centrale teme infatti che durante le Olimpiadi di Pechino avvengano scontri o manifestazioni di tipo religioso che sfuggano al controllo della polizia, proprio da parte dei cristiani protestanti. E questo per due motivi.

Anzitutto perché già da due anni migliaia di protestanti di vari Paesi si preparano a evangelizzare a tappeto la Cina approfittando della facilità con cui essa darà visti di ingresso in occasione dei Giochi.

Nel terrore che questo possa accadere, già nel 2007 Pechino ha espulso più di cento personalità protestanti straniere, provenienti da Stati Uniti, Corea del Sud, Singapore, Canada, Australia, Israele. Il nome in codice dell’operazione poliziesca era "Tifone numero 5" e mirava a "prevenire le attività missionarie di cristiani stranieri, prima delle Olimpiadi di Pechino dell’agosto 2008". [...]

L’altro motivo dell’accanimento è che i protestanti rappresentano fra i cristiani il gruppo più folto e meno controllabile. Secondo statistiche ufficiali, i protestanti cinesi sono 16 milioni. Tutte le denominazioni sono radunate nel Movimento delle Tre Autonomie (MTA), che – similmente all’Associazione patriottica dei cattolici – verifica la loro obbedienza al Partito. Ma grazie a una diffusa evangelizzazione, finanziata da gruppi decisi e potenti con base negli Stati Uniti, in Corea e in Australia, la popolazione protestante è cresciuta fino a oltre 50 milioni (alcune stime dicono anche 80 milioni). Questo squilibrio fra cristiani riconosciuti e non riconosciuti (sotterranei), tra controllati e non controllati, provoca una risposta dura da parte del governo che ormai esige o l’assorbimento delle comunità sotterranee nel MTA, o l’eliminazione della comunità stessa. [...]

L’accanimento del Partito verso le religioni, e soprattutto verso cattolici e protestanti, ha diverse ragioni.

Esse sono certamente ideologiche – Stato ateo, religioni "oppio dei popoli", eccetera – ma sono alimentate anche dalla paura nel veder crescere l’influenza delle religioni nei fenomeni mondiali. Per fare solo un esempio: nell’agosto e settembre 2007 i monaci buddisti birmani sono stati la forza trainante di manifestazioni contro il caro-vita, per la democrazia, di critica della giunta al potere. Vi è poi il caso delle Filippine, dove la Chiesa cattolica esige dal governo rispetto per la vita, per l’ambiente, per i diritti dei lavoratori. Ancora prima, i cattolici polacchi e papa Giovanni Paolo II, con le loro pressioni, avevano messo in crisi il comunismo sovietico e contribuito alla caduta del Muro di Berlino.

Il terrore di Pechino è che possa crescere un’alleanza fra le forze religiose e gli scontenti della società cinese, creando una forza innumerevole, impossibile da fermare.

A questo si aggiunge il fatto che ormai il Partito è al suo minimo storico di credibilità, mentre le religioni si danno sempre più spazio.

Una ricerca di due professori dell’Università Normale di Shanghai, Tong Shijun e Liu Zhongyu, dimostra che i credenti in Cina sono almeno 300 milioni, il triplo di quanto stimato anni fa dal governo. Il rapporto sottolinea che la religione più cresciuta è il cristianesimo: il 12 per cento dei credenti, pari a 40 milioni di persone, si dichiara seguace di Cristo. Nel 2005 Pechino aveva stimato i cristiani in 16 milioni, mentre alla fine degli anni Novanta – sempre secondo dati governativi – essi erano poco più di 10 milioni. [...]

Questi dati confermano molte testimonianze di vescovi cristiani che parlano di "una grande sete di Dio" nel popolo cinese, soffocata da decenni di materialismo marxista e da secoli di materialismo confuciano.

Il fatto strabiliante è che questa nuova ricerca religiosa scuote anche il Partito. Secondo dati pubblicati da "Epoch Times" (12 novembre 2005), almeno 20 dei 60 milioni di quadri del Partito credono in qualche religione. Essi sono spinti a credere perché stanchi del materialismo che non dà gioia, o perché disgustati dalla corruzione e dall’immoralità di molti quadri, che affamano la popolazione per godere di privilegi.

Statistiche segrete della Commissione disciplinare del Partito, arrivate in Occidente, stabiliscono che i quadri implicati in attività religiose nelle città sono 12 milioni e di questi, almeno cinque svolgono attività regolari. Nelle aree rurali altri 4 milioni di attivisti del Partito partecipano ad attività religiose con regolarità. [...]

Nel tentativo di contrastare l’ondata religiosa all’interno delle sue file, il Partito comunista cinese ha varato da più di quattro anni una campagna per la diffusione dell’ateismo utilizzando radio, televisione, internet, seminari universitari. Nel 2006 ha anche finanziato con 30 milioni di dollari una campagna per rivitalizzare il marxismo.

Negli ultimi anni, per contrastare la crescita di protestanti e cattolici, il governo ha anche lanciato campagne a sostegno delle religioni "non occidentali", potenziando buddismo, taoismo e confucianesimo (quest'ultimo non proprio una religione, ma piuttosto una filosofia morale).

A metà aprile 2007, il governo ha finanziato con 1 milione di dollari un convegno in due differenti sedi, Xian e Hong Kong, per promuovere lo studio del "Daodejing", il libro base del taoismo. Al raduno hanno partecipato Liu Yandong, del Comitato centrale del Partito; Xu Jialu, vicepresidente dell’Assemblea nazionale del popolo e Ye Xiaowen, direttore dell’Amministrazione statale per gli affari religiosi.

Dal 13 al 16 aprile 2006 il governo ha anche sponsorizzato il convegno del World Buddhist Forum. Interrogato dall'agenzia ufficiale Xinhua sull’avvenimento, Ye Xiaowen ha dichiarato: "Il buddismo può offrire un contributo particolare alla 'società armoniosa' perché tende a un’idea di armonia più vicina alla visione cinese... In quanto Paese responsabile la Cina ha una sua visione e una politica precisa nel promuovere l’armonia mondiale. Il potere religioso è una delle forze sociali da cui la Cina può ricevere sostegno".

Infine, dal 2002 il governo ha stanziato ben 10 miliardi di dollari per rivitalizzare in patria e nel mondo gli insegnamenti di Confucio, con i cosiddetti "Istituti Confucio". Il desiderio è proprio quello di mostrare un volto noto alla cultura mondiale, rispondendo alla crisi di moralità e di valori spirituali nel Paese.

L’interesse è anche dato dal fatto che la filosofia di Confucio – tanto disprezzato da Mao Zedong – predica soprattutto la pietà filiale, l’obbedienza alle autorità, il sacrificarsi per il clan, tutte doti importanti nella Cina individualista di oggi, che tenta di sfuggire alla massificazione, ma anche alla morsa del controllo del Partito, visto come un padre-padrone.

Anche il sostegno generoso verso il buddismo e il taoismo cinesi si spiega con il fatto che queste due religioni diffondono un credo che ha come ideale il distacco dalla società, la non-azione, senza mai mettere in discussione il potere.

Una parte dei membri del Partito rimane comunque convinta che le religioni, tutte le religioni, possono contribuire all’armonia sociale, alla stabilità e allo sviluppo. Per questo occorre non frenare la loro crescita, permettendo anche ai membri del Partito di partecipare alle attività religiose. [...]

Essendovi in Cina una ricerca religiosa così forte, e una persecuzione altrettanto sistematica, è comprensibile che molti gruppi religiosi nel mondo vogliano sfruttare l’occasione delle Olimpiadi per costringere la Cina ad aprire le maglie del controllo sulle religioni e utilizzare il tempo dei Giochi anche per lanciare nuove occasioni di evangelizzazione. [...]

Quel che è certo è che tutte queste attività metteranno a dura prova la sicurezza cinese e il tentativo di isolare i Giochi, come oasi di libertà, dal resto della vita della Cina, immensa prigione a cielo aperto.

Per questo, il gesto più significativo che Pechino potrebbe fare per proclamare la sua avvenuta maturità nella comunità internazionale sarebbe quello di liberare tutti i prigionieri di coscienza e quelli imprigionati per motivi religiosi.

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Il libro:

Bernardo Cervellera, "Il rovescio delle medaglie. La Cina e le Olimpiadi", Ancora, Milano, 2008, pp. 230.


Diagnosi prenatale: per prevenire o «scartare»?
Sei ecografie in media per ogni gravidanza, centomila amniocentesi l’anno, gli aborti dopo i 90 giorni quintuplicati...
La lettera aperta di un gruppo di medici denuncia una prassi ormai radicata: la diffusione incontrollata di esami sul feto per scovare possibili anomalie E farlo fuori.
Avvenire, 22 maggio 2008
di Andrea Galli
«E’ come se con lo screening delle trisomie 18 e 21 (Down) [...] la scienza avesse ceduto alla società il diritto di stabilire che la nascita di certi bambini non è più desiderabile. [In tale contesto] i genitori che ne desiderano la nascita devono esporsi, oltre che al dolore dell’handicap, al rimprovero sociale per non aver accettato la proposta della scienza legittimata dalla legge. In Francia la diffusione generalizzata dello screening è basata su una proposta, ma nella pratica è divenuta quasi obbligatoria». Così scriveva l’anno scorso Didier Sicard, presidente del Comitato di bioetica francese, cioè di uno degli Stati più 'laici' al mondo, su un giornale non da meno in fatto di 'laicità', Le Monde. La citazione appare all’inizio dell’appello per un «accesso consapevole alla diagnostica prenatale» firmato tra gli altri da Carlo Bellieni e Guido Cocchi, neonatologi, Margherita Gravina, psichiatra, Marco Maltoni, medico palliativista, Giuseppe Noia e Patrizia Vergani, ginecologi, Gabriella Gambino e Claudia Navarini, bioeticisti, Paolo Arosio, neonatologo e presidente dell’associazione «Amici di Giovanni», Luigi Vittorio Berliri, presidente dell’associazione «Spes contra Spem», Loris Brunetta, presidente dei talassemici liguri, Sabrina Paluzzi, alla guida dell’associazione 'La Quercia Millenaria', Claudia Ravaldi, psichiatra e a capo dell’associazione «Ciao Lapo».
Un documento (scaricabile da http://vocabolariodibioetica.splinder.com/) per demitizzare o quantomeno mettere in una luce realistica il sempre più diffuso 'monitoraggio sui feti': pratica diventata negli anni, da mera osservazione genetica, la porta d’accesso per una strisciante selezione eugenetica.
Quello che accade con la sindrome di Down, di cui parla Sicard, è noto.
Meno noto, magari, è un altro dato: in Italia, con il diffondersi dello screening prenatale – sei le ecografie in media per gravidanza, contro le tre consigliate dal Sistema sanitario, e 40% di amniocentesi effettuate con gravidanze 'a rischio' contro il 3% di un Paese come gli Stati Uniti – gli aborti dopo i 90 giorni sono aumentati di 5 volte dal 1981 al 2006.
Del resto, che il terreno sia particolarmente scivoloso e abbia bisogno di qualche argine lo ha riconosciuto la stessa Organizzazione mondiale della sanità in un documento del 2002 intitolato Essential Antenatal, Perinatal and Postpartum Care, in cui ricordava che la metodica in questione non deve essere regolata da semplici «leggi di mercato», in un quadro cioè di «consumismo prenatale», secondo l’efficace espressione del tedesco Wolfram Henn.
I firmatari del documento italiano aggiungono qualche considerazione per far capire le conseguenze di un ricorso superficiale allo screening prenatale: «Si consideri che il limite di 35 anni introdotto per consigliare l’amniocentesi è stato scelto perché oltre detta età il rischio di aborto legato alla tecnica invasiva equivale a quello di avere un figlio affetto da sindrome di Down... dunque si basa su un calcolo costi-benefici, dove i costi sono la perdita di feti sani in seguito alla procedura e i benefici l’individuazione di feti affetti da sindrome di Down».
Non solo. In base ai dati più recenti pubblicati dall’Associazione dei ginecologi canadesi, «il rischio di perdita fetale in seguito all’impiego di procedure diagnostiche invasive (amniocentesi o prelievo dei villi coriali) è di un aborto non voluto ogni 200 procedure, di uno su 100 secondo il Royal College of Obstetrics and Gynecology, o valori intermedi secondo altri». Considerando che in Italia si eseguono circa 100 mila amniocentesi ogni anno, e che la maggior parte dei feti sottoposti a indagine risulta sana, «appare sconcertante l’elevato numero di bambini (probabilmente sani) persi in seguito alla procedura».
Anche sull’uso del termine «prevenzione» la chiarezza non è mai troppa: a oggi, infatti, esistono poche terapie prenatali per malattie genetiche (tra queste «i trapianti prenatali per le sindromi da immunodeficienza congenita, per la osteogenesi imperfetta, per la beta­talassemia, già effettuati nell’uomo ma con risultati clinici non sempre ottimali»). Ne consegue che il «poter accedere a una diagnosi di patologia genetica fetale non costituisce, se non in rari casi, un presupposto per poter intervenire preventivamente e in maniera più efficace sulla malattia, rispetto alla diagnosi effettuata al momento della nascita».
Infine, ed è il punto centrale dell’appello, vari studi dimostrerebbero che le donne che si sottopongono a diagnosi genetica prenatale «raramente hanno piena consapevolezza dei limiti, dei rischi, delle modalità di esecuzione e degli scopi degli screening per la sindrome di Down e che l’informazione al momento della proposta o dell’esecuzione dell’esame è talora carente... anche con riguardo agli esami combinati con ecografia e test su sangue che hanno la finalità di individuare feti a maggior rischio di anomalie cromosomiche, e rispetto ai quali spesso le donne non sanno che possono dare risultati 'falsi negativi' (rassicurazione falsa) o 'falsi positivi' (preoccupazione falsa)». I rischi stavolta li rilevano con sempre maggior frequenza psicologi e psicoterapeuti: ansia e depressione delle donne in gravidanza.
E’ questo il punto centrale perché, spiega Carlo Bellieni, neonatologo presso l’Unità operativa di Terapia intensiva neonatale del Policlinico Santa Maria alle Scotte di Siena, «il fine che vorremmo raggiungere è di sensibilizzare le istituzioni e l’opinione pubblica sulla necessità di non lasciare sola la donna di fronte a queste delicatissime tecniche.
Davanti a una diagnosi di patologia di un nascituro non basta il ginecologo: servono spesso un genetista, o un ematologo, o un pediatra, o qualcuno che conosca per esperienza vissuta la malattia di cui si parla. Serve cioè un percorso di accompagnamento, sia prima che dopo la diagnosi, il quale eviti alla donna di cadere vittima di allarmismi infondati o di preoccupazioni ingigantite. E le permetta così di compiere la scelta migliore per se stessa e il figlio che porta in grembo».


I nodi cruciali della tanto discussa legge 194
Lorenza Violini22/05/2008
Autore(i): Lorenza Violini. Pubblicato il 22/05/2008 – IlSussidiario.net
La legge n. 194 del 1978 recante “Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza” introduce previsioni volte a disciplinare l’interruzione volontaria di gravidanza e a depenalizzare l’aborto in forza dell’abrogazione degli articoli 545-555 del codice penale.
L’art. 1 della legge rende espliciti i principi che informano la disciplina dell’interruzione volontaria di gravidanza: ivi si legge, infatti, che lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente responsabile e che esso riconosce il valore sociale della maternità, tutelando la vita fin dal suo inizio.
In questa sua fondamentale impostazione difensiva, la legge sembra essere in continuità con la celebre sentenza n. 27 del 1975, pronunciata in merito alla disciplina normativa previgente alla legge n. 194, in cui la Corte Costituzionale - che pure giunge a depenalizzare l’aborto nei primi mesi di via del feto - aveva affermato che la tutela del concepito avesse un fondamento nell’art. 2 della Costituzione sulla tutela della dignità umana e nell’art. 31, che impone espressamente allo Stato di difendere la maternità.
Proprio per soddisfare le finalità affermate nell’art. 1 della legge in esame, l’art. 2 della stessa attribuisce ai consultori familiari un ruolo fondamentale di assistenza alla donna durante lo stato di gravidanza. In particolare, a tali strutture è affidato il compito di informare la donna sui diritti a lei spettanti in base alla legislazione statale e regionale, nonché sui servizi sociali, sanitari e assistenziali concretamente offerti dalle strutture operanti nel territorio.
Si prospetta pertanto, almeno sulla carta, un ruolo attivo e tutt’altro che irrilevante dei consultori, il cui fine è quello di agevolare la scelta della maternità, anche attraverso l’attuazione di interventi speciali. Tuttavia, è storia nota che nella concreta attuazione della legge 194 si è registrato uno svilimento del ruolo dei consultori o un loro utilizzo depotenziato e distorto rispetto alle finalità originarie. In particolare, sembra pressoché lettera morta la previsione che prevede la possibilità per i consultori, sulla base di appositi regolamenti o convenzioni, di «avvalersi della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita».
Un altro punto nodale della legge 194 riguarda la definizione dei termini entro i quali è consentito abortire. Nei primi 90 giorni di gravidanza, il ricorso alla IVG è permesso alla donna in presenza di circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute o alle sue condizioni economiche, sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito.
Le fattispecie che legittimano il ricorso all’aborto nel primo trimestre di gestazione sono, a ben vedere, estremamente eterogenee e disorganiche, tali da lasciare un ampio margine di discrezionalità in merito alla decisione di abortire. Resta tuttavia da rimarcare la preoccupazione del legislatore di limitare la facoltà di abortire solo in presenza di cause serie, quand’anche disorganicamente elencate.
Per quanto riguarda l'interruzione volontaria della gravidanza dopo i primi 90 giorni, la disciplina si fa più restrittiva: essa è praticabile solo quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna, oppure quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. Trattasi, come si vede, di formulazioni severamente circoscritte, che avrebbero dovuto indurre i decisori a rifarsi a tali norme solo in casi estremi. Vi è da aggiungere, a riprova della evidenziata ratio legis, che, quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l'interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di grave pericolo per al vita della donna e il medico che esegue l'intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto (così letteralmente recita l’art. 7 della legge in esame).
Nell’insieme, emerge la tendenza del legislatore a subordinare l’aborto alla difesa della salute o della vita della donna, contro ogni tentativo di fare dell’aborto uno strumento eugenetico (per tacere poi della prassi che vede nello stesso un mezzo di limitazione delle nascite, espressamente vietata dall’art. 1)
Un ultimo aspetto cui si ritiene opportuno accennare riguarda la previsione, accordata al personale medico e sanitario, di sollevare obiezione di coscienza e pertanto di essere esonerato dal prendere parte agli interventi di interruzione volontaria di gravidanza. Anche questa previsione offre un importante aggancio letterale per una interpretazione restrittiva di tutto l’impianto normativo; come è noto, infatti, l’obiezione di coscienza viene consentita a tutela di situazioni di potenziale grave conflitto tra le scelte legislative e i diritti fondamentalissimi della persona.
Considerata nel suo tenore letterale comprensivo e alla luce della giurisprudenza costituzionale anche posteriore, la legge 194 manifesta una chiara tendenza a non considerare l’aborto un diritto di libertà - diversamente da quanto comunemente si pretende di leggere tra le sue righe - bensì solo l’estrema ratio cui l’ordinamento consente di adire in casi problematici, così problematici da consentire un vulnus ai principi fondamentali dello stesso, tra cui spicca il diritto alla vita e la tutela della parte più debole nei rapporti sociali.


SUL CASO DELLE CHIMERE D’OLTREMANICA
L’obbrobrio degli ibridi. - Violato lo specifico umano

Avvenire, 22 maggio 2008
ROBERTO COLOMBO
N ella mitologia greca i mostri più orrendi e temuti erano proprio quegli animali dalle fattezze d’uomo, che mescolavano la bestialità con l’umanità sì che quest’ultima ne risultava sconvolta e deprezzata, umiliata e ferita. Così, emblematicamente, la lotta dell’uomo per riconquistare se stesso e la propria civiltà passava proprio attraverso l’esorcizzazione di questa generazione mostruosa, una lotta faticosa che meritò la palma dell’eroe ad Ercole ed altri uomini che riscattarono se stessi salvando l’umanità dalle chimere nate per caso da unioni abominevoli.
Dopo oltre due millenni, alcuni ricercatori (a onor del vero, assai pochi) ed i loro sponsor economici e politici ripropongono una versione biotecnologica degli ibridi uomo-animale dalle sembianze non più raccapriccianti e dalle promesse ammalianti. Nuove chimere, non più temute e combattute come nemiche dell’uomo, ma desiderate, invocate come strumento del progresso medico. Se realizzati in laboratorio, questi mostri tecnologici non li potremo certo vedere circolare nelle strade delle nostre città e neppure in quelle del Regno Unito, dove le due Camere hanno rimosso il veto alla loro generazione sperimentale. Grandi come la punta di uno spillo, saranno osservabili solo al microscopio, che non rivelerà teste d’uomo e corpi di bue o di coniglio.
Nulla di tutto questo: l’embrione ibrido sviluppato in seguito al trasferimento del nucleo di una cellula somatica umana nell’ooplasto di uno di questi animali (procedura di clonazione interspecie), nei pochi giorni che gli saranno concessi per vivere, prima della sua soppressione allo stadio di blastocisti per ricavarne cellule staminali, sarà morfologicamente simile a quello umano. Perché, dunque, tanta indignazione di fronte a una simile prospettiva? Non si tratta forse, come alcuni sostengono, di un caso particolare della cosiddetta 'clonazione terapeutica', ossia dei tentativi di clonazione di un embrione destinato a generare una linea di staminali autologhe rispetto al paziente che ha donato il suo nucleo cellulare per il trasferimento e che spera di poter ricevere un innesto di cellule derivate dalle staminali per riparare o rigenerare i suoi tessuti lesionati? Se il contributo genomico dell’animale da cui proviene la cellula uovo enucleata è solo circa lo 0,1% del Dna umano, in cosa consiste l’abominio antropologico, etico e sociale di questi esperimenti? Non è bene solo ciò che appare, a vista d’occhio, come innocente o bello, e non è male solo ciò che è orribile allo sguardo, anche quello di un osservatore attento. «L’essenziale è invisibile agli occhi», fa dire de Saint-Exupéry al suo Piccolo principe. Ed è vero: per cogliere il bene o il male in un’azione dell’uomo non bastano gli occhi e neppure il microscopio. La scienza sperimentale ci aiuta a conoscere la realtà e a usarla per i nostri bisogni, ma, da sola, non basta per scegliere il nostro presente e a preparare il futuro dei nostri figli. Ci fa stare meglio ma non ci fa vivere bene. E non è bene per l’uomo che egli perda la sua originale, irriducibile differenza biologica (e, dunque, antropologica) per commistione del suo patrimonio genetico con quello dell’animale, attraverso una forma di generazione artificiosa che, perso ormai ogni legame con l’amore tra una donna e un uomo e con la sua dimensione sessuale, viola ora anche la separatezza creativa ed evolutiva tra la specie umana e quelle animali. E tutto questo senza una reale, documentata evidenza che non vi sia una strada alternativa e percorribile per la terapia cellulare. Una prospettiva, quella aperta oltre la Manica, che è al di là del bene e del male, perché di queste categorie fondative dell’agire umano disconosce la essenziale natura 'non scientifica', non inferibile a partire dalla sola osservazione e sperimentazione. Un interrogativo emergente interpella la libertà di tutti i cittadini europei, credenti e non credenti: su quale ricerca scientifica voglia investire le nostre risorse per il bene comune, quello di tutti e di ciascuno, della nostra generazione e di quelle che ci seguiranno?


Quando l’accusa di omofobia viene dispensata gratis
Avvenire, 22 maggio 2008
FRANCESCO D’AGOSTINO
L a dichiarazione della ministra Mara Carfagna di non voler concedere il patrocinio del governo alla manifestazione del Gay Pride ha suscitato le solite prevedibili polemiche, culminanti nell’accusa di omofobia. Negare il patrocinio equivarrebbe a misconoscere i diritti dei gay, a partire da quello dotato di maggiore spessore simbolico, il diritto al matrimonio. Poco mi interessa, in questo momento, valutare su di un piano strettamente politico l’atteggiamento della giovane ministra (atteggiamento peraltro, non privo di saggezza, a quanto ho potuto percepire dai giornali, anche da quelli più antipatizzanti nei suoi confronti). Più della questione politica quella che qui si rileva è infatti una questione giuridica ed antropologica, tutto sommato elementare, ma in merito alla quale si continuano a sollevare polveroni ideologici. Riassumiamola in pochi punti essenziali. Primo punto: hanno diritti i gay?
Certamente sì; hanno esattamente gli stessi diritti di cui gode qualunque altra persona umana: sarebbe assurdo il solo dubitarne.
La nostra Costituzione, all’art. 3, stabilisce con limpida fermezza che tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. Sarebbe difficile immaginare una formulazione migliore del principio costituzionale di eguaglianza. Ne segue che ogni discriminazione nei confronti degli omosessuali, a causa della loro omosessualità, è per la nostra Costituzione (e per la nostra coscienza civile) intollerabile e va assolutamente rimossa. Secondo punto: hanno diritto i gay a manifestare pacificamente contro qualsiasi discriminazione venga perpetrata nei loro confronti? Ancora una volta: assolutamente sì (alle consuete condizioni di ordine pubblico che ogni manifestazione deve rispettare). Terzo punto: hanno diritto i gay ad ottenere il patrocinio del governo per le loro manifestazioni? La risposta è no: tutti coloro che attivano una manifestazione hanno ovviamente il diritto di 'chiedere' il patrocinio, non quello di 'ottenerlo'. Spetta al governo valutare se concederlo, in base a un criterio molto semplice: è in gioco un reale interesse pubblico? Nel nostro caso: è in atto una tale discriminazione nei confronti degli omosessuali, da giustificare a favore del Gay Pride un patrocinio, così altamente simbolico, come quello governativo? La risposta è negativa, a meno che non si diano (ma nessuno oggi ci riesce) esempi concreti di discriminazioni sociali in atto nel nostro paese nei confronti dei gay.
Quarto punto: il mancato riconoscimento legale in Italia delle unioni omosessuali non costituisce obiettivamente una discriminazione nei confronti dei gay? No, a meno che non si provi (e non semplicemente si affermi) il contrario. Ma si tratta di una prova impossibile, perché al diritto non spetta qualificare giuridicamente la vita sessuale dei cittadini (e meno che mai quella dei gay). C’è una sola eccezione a questo principio, quella del matrimonio, che è però istituto strutturalmente eterosessuale, perché fondativo della famiglia (come riconosce l’art. 29 della nostra Costituzione). La pretesa dei gay di ottenere per le loro convivenze un qualsiasi riconoscimento legale (fino a quello matrimoniale) non ha motivazioni sociali, ma solo psicologiche e simboliche, motivazioni che dimostrano il carattere mimetico delle unioni omosessuali (rispetto a quelle eterosessuali) e la loro strutturale fragilità (un’unione intrinsecamente forte si difende tranquillamente da sola, senza chiedere aiuto al diritto). Quinto punto: chiunque difenda posizioni come quelle cui sopra si è accennato sa bene di prestare il fianco all’accusa di omofobia. Si tratta naturalmente di un’accusa che è ben difficile evitare, in un dibattito così ideologicamente connotato come quello sull’omosessualità. Non si dovrebbe però mai dimenticare che il prezzo per non essere accusati di omofobia sta diventando ormai troppo alto, se è né più né meno che quello di cedere (consapevolmente o inconsapevolmente) all’'eterofobia'. Cosa altro è, in fondo, se non un segno di irriducibile e inaccettabile 'eterofobia' il tentativo di svuotare dal di dentro la realtà antropologica e storica del matrimonio, come unione tra uomo e donna?


Algeri, processo a cristiana convertita
Avvenire, 22 maggio 2008
Cristiani in preghiera ad Algeri
«Ha praticato un culto non islamico senza autorizzazione»
ALGERI. Per la prima volta in Algeria si è aperto ieri a Tiaret (ad ovest di Algeri) un processo contro un’algerina convertita al cristianesimo accusata di aver «praticato un culto non musulmano senza autorizzazione». In realtà la ragazza è stata arrestata non mentre stava pregando ma su autobus e a causa di alcuni Vangeli che aveva con sé. «L’accusa però non è di proselitismo» scrive il quotidiano “El Watan”, «per la prima volta viene veramente messa in discussione la libertà di praticare liberamente la fede cristiana». Secondo il giornale, Habiba, meno di 30 anni e da quattro convertita al cristianesimo, non ha voluto rinunciare alla sua religione pur di non finire in tribunale. «O la moschea o il tribunale», gli avrebbe intimato, continua “El Watan”, il procuratore di Tiaret durante un primo colloquio. «Ti hanno fatto bere dell’acqua che ti porterà diretta in paradiso?», ha chiesto ieri il giudice in aula. Habiba è stata arrestata su autobus diretto ad Orano. La polizia ha trovato nel suo zaino 12 libri religiosi. La ragazza si è difesa dicendo che si tratta di testi personali e non destinati ad altre persone. Il ministero della Religione si è costituito parte civile e il procuratore ha richiesto ieri una condanna a tre anni di prigione. Martedì prossimo la sentenza. Insieme a lei finiranno presto in tribunale anche altri sei membri del comunità cristiana di Tiaret accusati di proselitismo.


l’appello: «Morire non è un diritto»
Avvenire, 22 maggio 2008
Morire «non può diventare la nuova fron­tiera dei di­ritti umani». Attraverso un computer e con il solo movimento degli occhi – l’unica cosa che rie­sce a muovere oltre al capo, dopo essersi risvegliato da due anni di coma – Salvato­re Crisafulli è tornato a fare sentire la sua voce. L’altro ie­ri ha inviato un nuovo mes­saggio a Napolitano, ri­spondendo alla lettera che il capo dello Stato gli aveva scritto ad aprile dopo il pri­mo, disperato appello, che lui e altre famiglie di pazienti in stato vegetativo avevano lanciato. «Perché i mass me­dia parlano solo di eutana­sia senza andare in fondo al problema? Perché le discus­sioni si infiammano quando vengono sollevati casi come quello di Piergiorgio Welby?». Domande di cui le 90 famiglie che hanno fir­mato il messaggio, per lo più ignorato dai media, atten­dono risposta. Si tratta di ge­nitori, figli, fratelli e sorelle di persone in coma accudi­te a casa:« Oggi tutto grava sulle nostre famiglie – pro­segue l’appello – perché non ci sono strutture adatte ad accoglierci e in particolare non esiste un’assistenza do­miciliare. Gli ospedali che ci assistono oggi sono le nostre case».
Si chiede allo Stato di in­tervenire soprattutto laddove le Regioni sono inadempienti: «In Lombar­dia ci sono persone che nel­le nostre stesse condizioni a cui non manca (quasi) nien­te, in Sicilia e in Puglia man­ca tutto. La Regione Sicilia, per esempio, non recepisce una legge nazionale come la 162/98 ('vita indipenden­te'). Altro che vita indipen­dente, da anni dicono che mancano i fondi e pertanto non si può usufruire nem­meno dei benefici della leg­ge 328/00». La convinzione che con un’assistenza ade­guata si può migliorare, ha spinto Salvatore e queste 90 famiglie a rivolgersi nuova­mente al presidente della Re­pubblica: «Il vero dramma non è il cosiddetto 'stato ve­getativo' ma quello che ne consegue: l’abbandono, l’in­differenza delle istituzioni e della medicina». (I. N.)


Macerata-Loreto: notte di popolo
Bagnasco: inestinguibile l’anelito alla verità che sta nel cuore dell’uomo. Vecerrica: la domanda di felicità è il vero motore di ogni esistenza. Allam: questo gesto, tappa importante per la mia conversione.
Avvenire, 22 maggio 2008
DI GIORGIO PAOLUCCI
I l pellegrinaggio notturno a piedi da Macera­ta a Loreto compie trent’anni. Nel 1978 furo­no trecento i giovani che risposero all’invito lanciato da don Giancarlo Vecerrica, giovane in­segnante di religione al liceo classico Leopardi di Macerata, di ripercorrere il percorso tra paesi e campagne battuto per secoli da migliaia di per­sone. L’anno scorso i partecipanti hanno rag­giunto quota 65mila, in quello che da tempo è di­ventato il pellegrinaggio a piedi più frequentato d’Italia. Anche quest’anno si prevede una parte­cipazione massiccia, e la sera di sabato 7 giugno sarà il presidente della Cei, cardinale Angelo Ba­gnasco, a presiedere allo stadio Helvia Recina di Macerata la celebrazione eucaristica che apre la manifestazione.
Il tema di quest’anno riprende una frase pro­nunciata da don Giussani il 30 maggio 1998, in occasione del raduno mondiale dei movimenti ecclesiali promosso da Giovanni Paolo II: «Il ve­ro protagonista della storia è il mendicante». Pa­role che descrivono in maniera efficace l’atteg­giamento con cui migliaia di persone cammina­no per tutta la notte verso la Basilica di Loreto dove è custodita la casa in cui duemila ani fa la Madonna ha pronunciato il suo 'sì' all’annun­cio dell’incarnazione portato da un angelo. Spie­ga Ermanno Calzolaio, direttore del Comitato Pel­legrinaggio (www.pellegrinaggio.org): «In un mo- mento in cui sembra prevalere una mentalità i­spirata all’autosufficienza dell’uomo e alla fidu­cia nelle ’magnifiche sorti e progressive’ della scienza e della tecnologia, desideriamo ripro­porre il cristianesimo come esperienza per tutti, che parte dalla vera natura dell’uomo, consape­vole dei suoi limiti e insieme desideroso di infi­nito. Il vero protagonista è colui che è capace di rapportarsi col destino dentro la realtà, ovvero l’uomo religioso: da qui nasce l’irriducibilità del­la persona che non può accontentarsi di nessu­na riduzione ideologica e che trova la sua realiz­zazione nell’incontro fecondo tra fede e ragio­ne ».
Monsignor Vecerrica, dal 2002 vescovo di Fa­briano- Matelica, cita una frase di Cesare Pavese: «'L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad o­gni istante'. Queste parole rispecchiano lo spiri­to con cui ci rimetteremo in cammino: non guar­dando alle edizioni passate ma come se fosse la prima volta, portando nel cuore la domanda di felicità che è il vero motore di ogni esistenza. È questo che mantiene giovane il Pellegrinaggio, e continua ad affascinare persone di sensibilità e culture molto diverse».
Il 7 giugno ci sarà anche don Julián Carrón, pre­sidente della Fraternità di Comunione e libera­zione e dal 2005 alla guida del movimento fon­dato da don Giussani, che intervenne al Pelle­grinaggio nel 1987 e nel 1993. Proposta da Cl d’in­tesa con le diocesi marchigiane, la manifestazio­ne è da sempre occasione di unità tra movimen­ti e associazioni ecclesiali e in questi anni ha re­gistrato la presenza di numerosi esponenti della società civile, artisti, uomini di cultura e sporti­vi. Vecerrica spiega che «fin dalle sue origini il Pel­legrinaggio è stato un gesto che vuole testimo­niare e incrementare l’unità della Chiesa, sia per­ché questo è il compito a cui tutti i cattolici sono chiamati, sia perché siamo convinti che un po­polo unito eserciti un fascino verso la gente co­mune e rappresenti un grande contributo al be­ne del nostro Paese». L’edizione 2008 è dedicata a Chiara Lubich, la fondatrice del movimento del Focolare recentemente scomparsa e che ha sem­pre guardato con amicizia all’iniziativa, alla qua­le ogni anno partecipano molti focolarini.
Dove sta il segreto di un’adesione sempre più nu­merosa a questo gesto? Secondo il cardinale Ba­gnasco «il successo in termini di numero, ma an­che per la qualità della partecipazione, è il segno che la ricerca dell’uomo non si spegne perché porta con sé un inestinguibile anelito alla verità delle cose e alla verità di se stesso. È questa, a pensarci bene, la vicenda dell’umanità che fa del­la storia un grande pellegrinaggio religioso. Que­sta istanza interrogativa non è legata a circostanze di tipo economico, politico, culturale, ma al cuo­re dell’uomo. Anche nelle civiltà più evolute dal punto di vista tecnologico e scientifico queste domande sul senso della vita persistono».
Sarà presente anche Magdi Cristiano Allam, già intervenuto nelle ultime due edizioni: «La parte­cipazione alla Macerata-Loreto è una tappa im­portante nel mio cammino di avvicinamento al cristianesimo – spiega il vicedirettore del Corrie­re della sera –. Sono impressionato dal modo con cui tanta gente testimonia il desiderio inesausto di cercare risposte ai grandi interrogativi dell’e­sistenza, e dalla positività che si respira, una po­sitività non superficiale ma ancorata ai valori del­la fede e della sacralità della persona. E poi c’è il fascino della Vergine Maria alla quale ho sempre guardato con ammirazione, come tante altre per­sone appartenenti alla tradizione musulmana».