giovedì 15 maggio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI presenta la figura dello Pseudo-Dionigi Aeropagita
2) Un interesse reale per il bene delle persone
3) L'assassinio della quattordicenne Lorena Cultraro da parte di suoi coetanei riconferma la tragicità dell'emergenza educativa, di Magdi Cristiano Allam
4) "Il mio 'Grazie Gesù' è una testimonianza per tutti coloro che vivono la loro fede nella paura", di Magdi Cristiano Allam
5) Te la insegno io l’umiltà... - Lettera aperta a Franco Monaco
6) I « MOSTRI » DI NISCEMI E LA RESPONSABILITÀ DI NOI ADULTI - Prima il gioco da grandi Poi l’ansia di cancellare tutto
7) 194: perché le linee guida lombarde funzionano
8) «Decreto assurdo e rischioso», l’aggiornamento delle linee guida della legge 40

Benedetto XVI presenta la figura dello Pseudo-Dionigi Aeropagita
Intervento all'Udienza generale

CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 14 maggio 2008 (ZENIT.org).-Pubblichiamo le parole pronunciate questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale in piazza San Pietro dove ha incontrato i pellegrini e i fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana il Papa, continuando il ciclo di catechesi sui Padri della Chiesa, si è soffermato sulla figura dello Pseudo-Dionigi Aeropagita.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
oggi vorrei, nel corso delle catechesi sui Padri della Chiesa, parlare di una figura assai misteriosa: un teologo del sesto secolo, il cui nome è sconosciuto, che ha scritto sotto lo pseudonimo di Dionigi Areopagita. Con questo pseudonimo egli alludeva al passo della Scrittura che abbiamo adesso ascoltato, cioè alla vicenda raccontata da San Luca nel XVII capitolo degli Atti degli Apostoli, dove viene riferito che Paolo predicò in Atene sull'Areopago, per una élite del grande mondo intellettuale greco, ma alla fine la maggior parte degli ascoltatori si dimostrò disinteressata, e si allontanò deridendolo; tuttavia alcuni, pochi ci dice San Luca, si avvicinarono a Paolo aprendosi alla fede. L’evangelista ci dona due nomi: Dionigi, membro dell'Areopago, e una certa donna, Damaris.
Se l'autore di questi libri ha scelto cinque secoli dopo lo pseudonimo di Dionigi Areopagita vuol dire che sua intenzione era di mettere la saggezza greca al servizio del Vangelo, aiutare l'incontro tra la cultura e l'intelligenza greca e l'annuncio di Cristo; voleva fare quanto intendeva questo Dionigi, che cioè il pensiero greco si incontrasse con l'annuncio di San Paolo; essendo greco, farsi discepolo di San Paolo e così discepolo di Cristo.
Perché egli nascose il suo nome e scelse questo pseudonimo? Una parte di risposta è già stata detta: voleva proprio esprimere questa intenzione fondamentale del suo pensiero. Ma ci sono due ipotesi circa questo anonimato e pseudonimato. Una prima ipotesi dice: era una voluta falsificazione, con la quale, ridatando le sue opere al primo secolo, al tempo di San Paolo, egli voleva dare alla sua produzione letteraria un'autorità quasi apostolica. Ma migliore di questa ipotesi — che mi sembra poco credibile — è l'altra: che cioè egli volesse proprio fare un atto di umiltà. Non dare gloria al proprio nome, non creare un monumento per se stesso con le sue opere, ma realmente servire il Vangelo, creare una teologia ecclesiale, non individuale, basata su se stesso. In realtà riuscì a costruire una teologia che, certo, possiamo datare al sesto secolo, ma non attribuire a una delle figure di quel tempo: è una teologia un po' disindividualizzata, cioè una teologia che esprime un pensiero e un linguaggio comune. Era un tempo di acerrime polemiche dopo il Concilio di Calcedonia; lui invece, nella sua Settima Epistola, dice: «Non vorrei fare delle polemiche; parlo semplicemente della verità, cerco la verità». E la luce della verità da se stessa fa cadere gli errori e fa splendere quanto è buono. E con questo principio egli purificò il pensiero greco e lo mise in rapporto con il Vangelo. Questo principio, che egli afferma nella sua settima lettera, è anche espressione di un vero spirito di dialogo: cercare non le cose che separano, cercare la verità nella Verità stessa; essa poi riluce e fa cadere gli errori.
Quindi, pur essendo la teologia di questo autore, per così dire "soprapersonale", realmente ecclesiale, noi possiamo collocarla nel VI secolo. Perché? Lo spirito greco, che egli mise al servizio del Vangelo, lo incontrò nei libri di un certo Proclo, morto nel 485 ad Atene: questo autore apparteneva al tardo platonismo, una corrente di pensiero che aveva trasformato la filosofia di Platone in una sorta di religione, il cui scopo alla fine era di creare una grande apologia del politeisimo greco e ritornare, dopo il successo del cristianesimo, all’antica religione greca. Voleva dimostrare che, in realtà, le divinità erano le forze operanti nel cosmo. La conseguenza era che doveva ritenersi più vero il politeismo che il monoteismo, con un unico Dio creatore. Era un grande sistema cosmico di divinità, di forze misteriose, quello che mostrava Proclo, per il quale in questo cosmo deificato l'uomo poteva trovare l'accesso alla divinità. Egli però distingueva le strade per i semplici, i quali non erano in grado di elevarsi ai vertici della verità — per loro certi riti potevano anche essere sufficienti — e le strade per i saggi, che invece dovevano purificarsi per arrivare alla pura luce.
Questo pensiero, come si vede, è profondamente anticristiano. È una reazione tarda contro la vittoria del cristianesimo. Un uso anticristiano di Platone, mentre era già in corso un uso cristiano del grande filosofo. È interessante che questo Pseudo-Dionigi abbia osato servirsi proprio di questo pensiero per mostrare la verità di Cristo; trasformare questo universo politeistico in un cosmo creato da Dio, nell'armonia del cosmo di Dio dove tutte le forze sono lode di Dio, e mostrare questa grande armonia, questa sinfonia del cosmo che va dai serafini, agli angeli e arcangeli, all'uomo e a tutte le creature che insieme riflettono la bellezza di Dio e sono lode a Dio. Trasformava così l'immagine politeista in un elogio del Creatore e della sua creatura. Possiamo in questo modo scoprire le caratteristiche essenziali del suo pensiero: esso è innanzitutto una lode cosmica. Tutta la creazione parla di Dio ed è un elogio di Dio. Essendo la creatura una lode di Dio, la teologia dello Pseudo-Dionigi diventa una teologia liturgica: Dio si trova soprattutto lodandolo, non solo riflettendo; e la liturgia, non è qualcosa di costruito da noi, qualcosa di inventato per fare un'esperienza religiosa durante un certo periodo di tempo; essa è il cantare con il coro delle creature e l'entrare nella realtà cosmica stessa. E proprio così la liturgia, apparentemente solo ecclesiastica, diventa larga e grande, diventa unione di noi con il linguaggio di tutte le creature. Egli dice: non si può parlare di Dio in modo astratto; parlare di Dio è sempre – egli dice con parola greca – un «hymnein», un cantare per Dio con il grande canto delle creature, che si riflette e concretizza nella lode liturgica. Tuttavia, pur essendo la sua teologia cosmica, ecclesiale e liturgica, essa è anche profondamente personale. Egli creò la prima grande teologia mistica. Anzi la parola "mistica" acquisisce con lui un nuovo significato. Fino a quel tempo per i cristiani tale parola era equivalente alla parola "sacramentale", cioè quanto appartiene al «mysterion», al sacramento. Con lui la parola "mistica" diventa più personale, più intima: esprime il cammino dell'anima verso Dio. E come trovare Dio? Qui osserviamo di nuovo un elemento importante nel suo dialogo tra la filosofia greca e il cristianesimo, in particolare la fede biblica. Apparentemente quanto dice Platone e quanto dice la grande filosofia su Dio è molto più alto, è molto più vero; la Bibbia appare abbastanza "barbara", semplice, precritica si direbbe oggi; ma lui osserva che proprio questo è necessario, perché così possiamo capire che i più alti concetti su Dio non arrivano mai fino alla sua vera grandezza; sono sempre impropri. Queste immagini ci fanno, in realtà, capire che Dio è sopra tutti i concetti; nella semplicità delle immagini, noi troviamo più verità che nei grandi concetti. Il volto di Dio è la nostra incapacità di esprimere realmente che cosa Egli è. Così si parla — è lo stesso Pseudo-Dionigi a farlo — di una "teologia negativa". Possiamo più facilmente dire che cosa Dio non è, che non esprimere che cosa Egli è veramente. Solo tramite queste immagini possiamo indovinare il suo vero volto, e dall'altra parte questo volto di Dio è molto concreto: è Gesù Cristo. E benché Dionigi ci mostri, seguendo questo Proclo, l'armonia dei cori celesti, così che sembra che tutti dipendano da tutti, resta vero che il nostro cammino verso Dio resta molto lontano da Lui; lo Pseudo-Dionigi dimostra che alla fine la strada verso Dio è Dio stesso, il Quale si fa vicino a noi in Gesù Cristo.
E così una teologia grande e misteriosa diventa anche molto concreta sia nella interpretazione della liturgia sia nel discorso su Gesù Cristo: con tutto ciò, questo Dionigi Areopagita ebbe un grande influsso su tutta la teologia medievale, su tutta la teologia mistica sia dell'Oriente sia dell'Occidente, fu quasi riscoperto nel tredicesimo secolo soprattutto da San Bonaventura, il grande teologo francescano che in questa teologia mistica trovò lo strumento concettuale per interpretare l'eredità così semplice e così profonda di San Francesco: il Poverello con Dionigi ci dice alla fine, che l'amore vede più che la ragione. Dov'è la luce dell’amore non hanno più accesso le tenebre della ragione; l'amore vede, l'amore è occhio e l'esperienza ci dà più che la riflessione. Che cosa sia questa esperienza Bonaventura lo vide in San Francesco: è l’esperienza di un cammino molto umile, molto realistico, giorno per giorno, è questo andare con Cristo, accettando la sua croce. In questa povertà e in questa umiltà, nell’umiltà che si vive anche nella ecclesialità, c'è un’esperienza di Dio che è più alta di quella che si raggiunge mediante la riflessione: in essa, tocchiamo realmente il cuore di Dio.
Oggi esiste una nuova attualità di Dionigi Areopagita: egli appare come un grande mediatore nel dialogo moderno tra il cristianesimo e le teologie mistiche dell'Asia, la cui nota caratteristica sta nella convinzione che non si può dire chi sia Dio; di Lui si può parlare solo in forme negative; di Dio si può parlare solo col "non", e solo entrando in questa esperienza del "non" Lo si raggiunge. E qui si vede una vicinanza tra il pensiero dell'Areopagita e quello delle religioni asiatiche: egli può essere oggi un mediatore come lo fu tra lo spirito greco e il Vangelo.
Si vede così che il dialogo non accetta la superficialità. Proprio quando uno entra nella profondità dell'incontro con Cristo si apre anche lo spazio vasto per il dialogo. Quando uno incontra la luce della verità, si accorge che è una luce per tutti; scompaiono le polemiche e diventa possibile capirsi l'un l'altro o almeno parlare l'uno con l'altro, avvicinarsi. Il cammino del dialogo è proprio l'essere vicini in Cristo a Dio nella profondità dell'incontro con Lui, nell'esperienza della verità che ci apre alla luce e ci aiuta ad andare incontro agli altri: la luce della verità, la luce dell'amore. E in fin dei conti ci dice: prendete la strada dell'esperienza, dell'esperienza umile della fede, ogni giorno. Il cuore diventa allora grande e può vedere e illuminare anche la ragione perché veda la bellezza di Dio. Preghiamo il Signore perché ci aiuti anche oggi a mettere al servizio del Vangelo la saggezza dei nostri tempi, scoprendo di nuovo la bellezza della fede, l'incontro con Dio in Cristo.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto le Suore Cappuccine di Madre Rubatto, che partecipano al loro Capitolo generale e le incoraggio a continuare nell’impegno di adesione a Cristo, testimoniando coraggiosamente il Vangelo secondo il carisma della venerata Fondatrice. Saluto con affetto i sacerdoti provenienti da Trento e da Torino ed assicuro la mia preghiera affinché il loro ministero, sostenuto dalla grazia di Dio, sia sempre più fecondo.
Mi rivolgo, infine, ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. La Liturgia odierna ricorda l’Apostolo Mattia, annoverato tra i Dodici per rendere testimonianza della risurrezione del Signore. Il suo esempio sostenga voi, cari giovani, nella costante ricerca di Cristo; incoraggi voi, cari malati, ad offrire le vostre sofferenze affinché il Regno di Dio si diffonda in tutto il mondo; ed aiuti voi, cari sposi novelli, ad essere testimoni dell'amore di Cristo nella vostra famiglia

[APPELLO DEL SANTO PADRE]
Il mio pensiero va, in questo momento, alle popolazioni del Sichuan e delle Province limitrofe in Cina, duramente colpite dal terremoto, che ha causato gravi perdite in vite umane, numerosissimi dispersi e danni incalcolabili. Vi invito ad unirvi a me nella fervida preghiera per tutti coloro che hanno perso la vita. Sono spiritualmente vicino alle persone provate da così devastante calamità: per esse imploriamo da Dio sollievo nella sofferenza. Voglia il Signore concedere sostegno a tutti coloro che sono impegnati nel far fronte alle esigenze immediate del soccorso.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]


Lettera del Presidente CDO Bernhard Scholz a tutti gli associati
Un interesse reale per il bene delle persone
Corriere delle Opere, aprile-maggio 2008
Cari amici,
negli ultimi anni ho avuto l’occasione di incontrare tanti di voi attraverso il mio lavoro per la Scuola d’impresa della Fondazione per la sussidiarietà. Ho potuto conoscere tante opere, ma soprattutto tante persone all’opera: con un interesse reale e intelligente per il bene delle persone, con una carità che si esprime fino al sacrificio, con un gusto per la bellezza come segno di una positività presente in tutto, con una speranza che fa vivere anche situazioni drammatiche con una gratuità sorprendente.
Gli stessi collaboratori della CDO che ho potuto incontrare e sto incontrando in questi giorni vivono il servizio con grandissima disponibilità e reale dedizione. Ho conosciuto quindi la nostra compagnia come una realtà straordinaria - ricca di una umanità viva, caratterizzata da creatività e libertà. E questo non vale solo per le opere più conosciute di cui si parla pubblicamente, ma anche per tante opere piccole e imprese meno note, di cui solo pochi sono a conoscenza.

La CDO si sviluppa di fatto come sostegno reciproco alla creazione di opere che vogliono mettere al centro il bene della persona, rafforzare la libertà, favorire la responsabilità e contribuire al bene comune. In questa esperienza che si esprime in una continua e instancabile tensione ideale sta la valenza sociale e la dignità culturale della CDO. Più un’opera esprime il desiderio autentico della persona, più si sviluppa una relazione organica e verificabile fra il bene della persona, il bene dell’impresa e il bene comune. In questo senso la CDO è una testimonianza che è possibile vivere il lavoro in un modo che, rispondendo al proprio bisogno, contribuisca a rispondere al bisogno di tutti.

Nei prossimi mesi voglio soprattutto comprendere meglio questa nostra amicizia operativa e sollecitare un dialogo fra di noi sulle ragioni che ci sostengono nel nostro lavoro e sulle prospettive che le nostre esperienze ci suggeriscono, partendo dagli organi che rappresentano la CDO in tutte le sue espressioni. Non è una progettualità che ci salva, ma abbiamo la responsabilità di fronte a dei segni evidenti che ci interpellano e ci chiedono di trovare modalità sempre più adeguate per un reale sostegno reciproco.

Senza voler pregiudicare il risultato di questo dialogo, mi permetto di sottolineare tre punti che mi sembrano particolarmente importanti e che vedo in piena continuità con le Presidenze di Giorgio Vittadini e di Raffaello Vignali.
La prima preoccupazione riguarda i giovani e il loro ingresso nel mondo del lavoro. Occorre prima di tutto fare quanto è possibile per valorizzare tutte le opportunità.
Quando un giovane entra in un’impresa o in un’opera ha bisogno non solo di una formazione professionale continua, ma anche della opportunità di una educazione. L’emergenza educativa, infatti, non tocca più soltanto la famiglia e la scuola, ma in modo crescente anche l’azienda: occorre creare le condizioni affinché chi cominci a lavorare possa fare l’esperienza del lavoro stesso come possibilità di una maturazione non solo professionale, ma anche umana. Dovremmo cercare di condividere il più possibile esperienze positive fra di noi che documentano questa possibilità.

La seconda riguarda la rete tra le imprese. All’interno di CDO sono nate e continuano a svilupparsi tante relazioni tra imprenditori, diverse tra di loro per modalità di aggregazione, per finalità, per dimensione, che riflettono tutte la vera natura dell’associazione: un luogo dove gli associati stessi prendono l’iniziativa per lavorare e costruire insieme. Queste aggregazioni tra gli associati sono fatti originali e preziosi, che vanno accompagnati, sostenuti, osservati e compresi perché possano diventare anch’essi patrimonio di esperienza comune.

Infine vorrei sottolineare la necessità della formazione sia professionale sia manageriale per le imprese profit e per le imprese non profit. Proprio il criterio ideale al quale ci riferiamo richiede un impegno continuo per trovare metodi e strumenti più adeguati possibili per uno sviluppo delle imprese, per dare continuità e persistenza a tutto ciò che nasce dalla nostra creatività e dalla nostra inventiva.

Alla politica chiediamo e continueremo a chiedere una tutela delle iniziative che nascono dalle persone e dalle varie associazioni e movimenti presenti nella società. Suggeriamo a tutti di seguire il principio della sussidiarietà che favorisce il connubio fra libertà e responsabilità, radice di una società democratica non solo nella forma, ma anche nella sostanza. Sappiamo di poter contare su politici sensibili a questi temi, tra i quali anche l’amico Raffaello Vignali che mi ha preceduto alla guida di CDO e che ringrazio per il grande lavoro che ha fatto, soprattutto per riaffermare “l’onore di fare impresa”.

L’emergere di una operosità riconoscibile per la sua diversità è la documentazione che la nostra amicizia ha la sua origine in qualcosa che la precede e la plasma dal di dentro. Riconoscere questa origine ideale non solo come generazione storica ma come generazione presente è un atto di ragionevolezza. Sono i fatti che parlano.
Siamo noi i primi a essere sorpresi da questa novità che emerge in mezzo ai nostri limiti, errori e approssimazioni. Ma tutta la ricchezza umana e sociale che ci mette in grado di vivere in questa dinamica piena di costruttività e di accoglienza non è scontata, anzi essa rischia spesso di perdersi dentro una laboriosità quotidiana che si dimentica delle sue ragioni.
Occorre quindi una fedeltà all’ideale e questo vuol dire una fedeltà alla nostra amicizia che riflette in sé la ragione che ha dato l’inizio alla CDO. Perché tutto possa esistere e perché tutto possa contribuire al bene di ognuno. Questa è la nostra originalità - in tutto.

Ma che cos’è il “bene” della persona? Che cos’è il “bene comune”? Il nostro lavoro, le nostre opere e la nostra compagnia risponderanno tanto più adeguatamente a queste domande, tanto più sapranno orientarsi al carisma di don Luigi Giussani che oggi viene reso presente attraverso don Julián Carrón. Questo carisma è l’origine sempre nuova della CDO e lo possiamo scoprire nella sua verità proprio attraverso il nostro lavoro e la nostra amicizia. E siccome più l’albero diventa grande, più ha bisogno di radici profonde, più crescono le nostre opere e più cresce la Cdo stessa, più ci conviene attingere a questa linfa vitale - ricordandoci che i frutti sono per tutti. Tutte le nostre attività e i nostri tentativi saranno tanto più significativi e “attraenti” quanto più saranno espressione di un’esperienza cristiana che diventa possibilità di umanità per tutti.

Il Meeting di quest’anno avrà il titolo “O protagonisti o nessuno”, un titolo che ci richiama nella sua semplicità evocativa al senso del nostro servizio reciproco: fare di tutto perché chi incontriamo possa diventare protagonista: della propria vita, del proprio lavoro, della propria impresa, del bene comune. E più uno lavora con questa intenzione, più diventerà protagonista lui stesso. In questo sta la reciprocità della nostra compagnia e un’autentica capacità di accoglienza e di dialogo con tutti.

Sono profondamente grato di poter collaborare con voi in questa grande e appassionante avventura umana, così piena di sfide, ma soprattutto così piena del desiderio di realizzare nuove forme di vita attraverso la fatica dell’impegno nel lavoro quotidiano.

Vi saluto con affetto
Bernhard Scholz


L'assassinio della quattordicenne Lorena Cultraro da parte di suoi coetanei riconferma la tragicità dell'emergenza educativa, di Magdi Cristiano Allam
Dal sito www.magdiallam.it
Dietro alle barbarie perpetrate dai nostri figli c’è una responsabilità che chiama in causa tutti noi e che ci impegna con la massima urgenza a operare per riscattarli dall’arbitrio assoluto dei diritti e delle libertà bilanciandoli con la sana cultura dei doveri e delle regole
autore: Magdi Cristiano Allam (Anteprima, 14-5-2008)
Il brutale assassinio della quattordicenne Lorena Cultraro da parte di suoi coetanei a Niscemi riconferma la tragicità in cui è sprofondata l’emergenza educativa. E’ una storia atroce che denuncia la degenerazione nichilista di una gioventù che non esita a oltraggiare il valore fondante della nostra umanità, la sacralità della vita. Chiamando in causa il fallimento del sistema scolastico che, oltre ad aver fatto sprofondare il nostro Paese agli ultimi posti delle classifiche mondiali per l’apprendimento scientifico, si rivela veicolo di trasmissione dell’aberrazione ideologica del relativismo etico e dell’arbitrio individualista.
Così come denuncia il collasso dell’istituto della famiglia che ha cessato di essere la pietra miliare nella costruzione sociale e sede deputata per la crescita della cultura dell’amore per il prossimo, del rispetto dell’autorità morale, della solidarietà sociale.
Più in generale rispecchia la profonda crisi di valori e di identità di una nazione che tradendo la propria storia e tradizione che affondano le loro radici nella cultura giudaico-cristiana e laica liberale, non ha ancora conquistato il senso dello Stato, del bene comune e dell’interesse nazionale. Dietro alle barbarie perpetrate dai nostri figli c’è una responsabilità che chiama in causa tutti noi e che ci impegna con la massima urgenza a operare per riscattarli dall’arbitrio assoluto dei diritti e delle libertà bilanciandoli con la sana cultura dei doveri e delle regole.


"Il mio 'Grazie Gesù' è una testimonianza per tutti coloro che vivono la loro fede nella paura", di Magdi Cristiano Allam
Dal sito www.magdiallam.it
Nell'autobiografia la denuncia forte di un Occidente fragile ammalato di relativismo etico e sottomesso all'islamicamente corretto
autore: Federica Mormando (Corriere del Ticino, 11-05-08)
Magdi Cristiano Allam, vicedirettore “ad personam” del Corriere della Sera, battezzato da Benedetto XVI durante la Veglia Pasquale, da anni si dedica a difendere la sacralità della vita stessa, “minacciata – egli dichiara - oggi in Italia, in Europa e nel mondo dalla predicazione di odio nelle moschee: il vero processo che porta alla formazione di terroristi e aspiranti kamikaze”.
Minaccia ingigantita dalla reazione di un “occidente fragile, debole, incapace di reagire alla guerra del terrorismo islamico, perchè a torto crede che per replicare in modo forte e deciso dovrebbe tradire i suoi stessi valori”. Autore di molti saggi, Allam è un protagonista della Fiera del libro di Torino, dove domenica 11 maggio (Sala dei 500, 15.30) presenterà “Grazie Gesù” appena pubblicato da Mondadori: la storia della sua conversione.
-A che scopo questo libro?- gli chiediamo.
“Per testimoniare il percorso che mi ha portato alla conversione, affinché possa essere punto di riferimento positivo e costruttivo per tutti coloro che vivono la loro fede nella paura. Mi riferisco a tanti musulmani che si sono convertiti al cristianesimo e non lo dicono perchè temono per la loro incolumità, ma anche a tanti cristiani succubi del relativismo etico, che si sono lasciati soggiogare dal nichilismo islamico arrivando ad assumere preventivamente un atteggiamento di autocensura.
Ho infinita ammirazione per il papa che ha volto dare la sua testimonianza: il dovere di diffondere la parola di Gesù deve avere la preminenza su qualsiasi considerazone politica, diplomatica o legata alla sicurezza.
-Come rivive il momento della conversione?
“Benedetto XVI nell’omelia della veglia pasquale ha parlato di conversione perpetua: ogni giorno rigenerarsi e impegnarsi a fondo per essere sempre più vicini alla fede e ai valori in cui crediamo. Percorso inarrestabile, sfida, modo di rapportarsi con la vita esaltanti!”
- Integralismo cristiano?
“Io ho affermato un modo di concepire il rapporto coi valori che prescinde dal cristianesimo. L’integralismo va verificato nei contenuti. Credo al connubio indissolubile di fede e ragione affermato da Benedetto XVI.
-Che cosa l’ha portato alla conversione?
“La testimonianza di Gesù recepita dai Vangeli, lo studio del pensiero di taluni esponenti della chiesa cattolica e la mia posizione particolare di musulmano laico e liberale, da cinque anni costretto a vivere sotto scorta per le condanne a morte e le continue minacce dagli estremisti islamici”.
-Come è avvenuto il passaggio dall’Islam al cristianesimo?
“Ho approfondito la realtà strutturale, fisiologica dell’Islam, del pensiero e dell’azione di Maometto, nel momento in cui l’azione degli estremisti e terroristi islamici viene da loro stessi attribuita a ciò che il Corano prescrive e che Maometto ha fatto. Ricordo la decapitazione di Nick Berg in Iraq da parte di al-Zarqawi, che fece riferimento all’azione di Maometto, partecipe della decapitazione di circa settecento ebrei nei pressi di Medina. Sono stato costretto a valutare in profondità questa realtà comprendendo che c’è un’incompatibilità ideologica fra l’Islam in quanto religione che si attiene in modo letterale e rigoroso al Corano e all’azione di Maometto e il rispetto dei diritti fondamentali della persona e dei valori che considero non negoziabili.
-Anche la Chiesa nella storia è stata crudele…
“Non certo riferendosi alle parole di Gesù. Se consideriamo il Corano come il dio incartato per i musulmani, lo vediamo completamente diverso dai vangeli. Questi sono la descrizione fatta dai discepoli che, in quanto scritta da uomini, si presta alla libera interpretazione. I vangeli dicono che Gesù è stato nella sua dimensione umana mite e contrario alla violenza: non ha mai decapitato nessuno, nè fatto guerre o impugnato spade. Ciò che la Chiesa ha agito di malvagio nel passato non può essere considerato pari a ciò che stanno facendo estremisti e terroristi islamici. E non è secondario che stiamo parlando di fatti di secoli fa. Se c’è stata un’evoluzione positiva nell’ambito del cristianesimo, significa che in esso esistono ragioni che consentono il riscatto.
-Come sono i suoi rapporti col mondo musulmano dopo la conversione?
“Sono convinto che coi musulmani si possa e debba dialogare, optare per costruire insieme una comune civlità, a condizione della condivisione di quei valori che, essenza della nostra umanità, non possono essere oggetto di negoziazione. In primo luogo la fede nella sacralità della vita, la convinzione che la dignità della persona sia fondamento della convivenza civile. Mi riferisco al rispetto della libertà di scelte, fra cui quella religiosa. Non è ipotizzabile, e sarebbe controproducente, un dialogo che, su basi valoriali non condivise, miri a obiettivi contrastanti. Quel dialogo si tradurrebbe nell’accreditare e legittimare i nostri aspiranti carnefici.
Non voglio porre pregiudizi nei confronti dei musulmani in quanto persone, pur riservandomi il diritto a negare che l’Islam sia religione autentica, e ad affermare che è una religione fisiologicamente violenta e storicamente conflittuale. Ciò non si traduce in alcun modo in una guerra di religioni. Io non voglio promuovere guerre di religioni, ma dialogare e costruire con tutti i musulmani che accettano i valori fondamento della nostra umanità.”
-Ritiene il suo libro contributo all’educazione, di cui Benedetto XVI ha affermato l’urgenza?
“Il papa ha affermato la necessità di testimoni contro il relativismo etico. Necessitiamo di un’educazione che faccia scoprire certezze sul piano della conoscenza, dei valori e dell’azione. I nostri ragazzi sono l’opposto: totalmente disorientati sul piano dei valori. Il sistema mediatico, quello politico e in genere la società non li aiutano. Non sanno ciò che vorrebbero e dovrebbero fare, ora e da grandi: non c’è congruenza tra sapere, valori e azione. “
-Molti pensano che l’Islam dia una chiarezza che agli occidentali manca.
“C’è un po’ il mito del musulmano estremamente rigoroso sul piano dell’osservazione religiosa o totalmente dedito alla relizzazione di un messaggio divino. Questa è una percezione mediatica alimentata dal fatto che la realtà legata all’estremismo e al terrorismo è prevalentemente di natura musulmana e i suoi protagonisti danno la sensazione di essere parte integrante di un insieme dove la visione, la fedeltà e l’osservanza di una religione sono base ampiamente condivisa. La realtà è molto diversa, basti pensare che quanto ad alfabetizzazione i paesi arabi sono all’ultimo posto della graduatoria mondiale, superati dall’Africa centrale e meridionale. Sul piano concreto i paesi arabi sono totalmente dipendenti dal resto del mondo. Producono materie prime ma importano tutti i manufatti e ciò che è tecnologia e modernità. Escludo che il sistema educativo dei paesi arabi possa essere modello di riferimento.
-Perchè il mondo musulmano sembra esercitare sugli occidentali un certo fascino?
“Per un insieme d’ignoranza, paura, viltà. E per l’espressione di un pensiero ideologizzato prevalentemente di sinistra che individua nell’Islam una sorta d’alternativa al comunismo sconfitto e un combattere dall’interno la civiltà occidentale sostituendo il Capitale di Marx col Corano: approccio irresponsabile e suicida. La paura ne è conseguenza naturale. Non è un caso che talune reazioni violente nei confronti dei musulmani o più in generale degli immigrati in Italia stiano accadendo in amministrazioni comunali di sinistra da sempre legate a un approccio buonista. Qui la popolazione esplode quando si rende conto che non è più libera a casa propria. Come a Bologna, dove la gente si è accorta di non volere la megamoschea progettata dall’amministrazione di sinistra.
-“Ci salverà la bellezza” è il tema della Fiera del libro quest’anno. Una definizione?
”Abbiamo la necessità di riacquisire una dimensione estetica contemplativa che ci introduca all’ambito più ampio dei valori e degli ideali. Siamo abbrutiti da immagini di violenza e di morte, dal sensazionalismo a tutti i costi. La contemplazione estetica è strumento straordinario per recuperare una dimensione interiore di contemplazione e riflessione. E di preghiera.


Te la insegno io l’umiltà... - Lettera aperta a Franco Monaco
Autore: Mangiarotti, Gabriele - Riva, Maria Gloria Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it E-mail: gabriele.mangiarotti@culturacattolica.it
lunedì 12 maggio 2008
Lettera aperta a Franco Monaco
Carissimo,
abbiamo appreso dal numero di maggio 2008 di “Jesus” le sue note per un “savoir faire” del convertito.
Ci consenta una premessa che sale immediatamente al cuore alla lettura delle prime righe del suo intervento: il nostro Signore Gesù Cristo ci ha insegnato che il primo atto della correzione fraterna sta nel prendere in disparte il fratello e interrogarlo sulle ragioni della sua “errata” posizione. E non ci dica che le regole del giornalismo sono diverse (soprattutto per un giornale che si fregia del nome del Salvatore, Jesus, appunto). Se avesse applicato la rivendicata regola del sano rispetto avrebbe potuto facilmente ricorrere a quelle persone che lo stesso Magdi Cristiano Allam, come ci piace giustamente chiamarlo contrariamente a quanto lei fa, ha indicato come compagni del proprio cammino di conversione.
Queste, e non sono poche (alcune anche autorevoli), se fossero state da lei interpellate, avrebbero dato ragioni e motivazioni più pertinenti e meno equivoche.
Inoltre la conversione di una persona dall’Islam al Cristianesimo non può rappresentare per la comunità cristiana motivo di schietto compiacimento, come lei afferma, perché per un cristiano autentico ogni conversione è fonte di timore reverenziale nei confronti del mistero della Grazia che continuamente opera nella Chiesa e nel cuore dell’uomo. L’attore delle conversioni è, come anche ha ricordato in un intervento pubblico il vescovo di San Marino Montefeltro Mons. Luigi Negri, solo lo Spirito Santo; pertanto l’unico compiacimento possibile, se tale si può definire, è nello Spirito e nella croce del Signore che feconda anche a dispetto della fragilità e dei limiti di noi cristiani. Ma, ancora una volta, sono queste le regole del giornalismo?
Siamo costernati di fronte all’“umile” comunicazione del suo disagio per la supposta ostentazione del suddetto cammino di “conversione intimo e personale” (sic), ma ci sorge, davanti a tanta sapienza cristiana, questa domanda: Gesù cosa intendeva dire quando affermava che una città posta sul monte non può essere nascosta o quando chiedeva di gridare sui tetti ciò che era stato udito nelle orecchie? O ancora, perché Pietro chiedeva (e chiede attraverso la rilettura commovente e affascinante di Benedetto XVI nella «Spe Salvi») di rendere ragione della speranza che è in noi?
Ma certo anche Gesù, forse per taluni, ha ostentato: per esempio quando in giorno di sabato, provocando scandalosamente i farisei presenti in sinagoga, volle guarire un uomo dalla mano inaridita obbligandolo a porsi in mezzo all’assemblea.
Ohibò! C’era proprio bisogno di questa prova di forza? Non poteva fare del bene e guarire in segreto per non turbare la sensibilità religiosa altrui e praticare così, come conviene ai moderati, un sano dialogo?
Evidentemente Gesù non conosceva tutte le regole del savoir faire cristiano.

E qui si entra nel punto fondamentale del suo articolo: il dissenso rispetto alle parole, anzi (e qui vorremmo rettificare), ad alcune delle parole iniziali che hanno accompagnato la testimonianza di Magdi Cristiano.

Ci domandiamo quanto le sia noto quell’Islam tutto intero e in radice di cui lei parla. Ma preferiamo non scendere a questo livello, specie per l’impostazione da lei assunta nel discorso, seguendo il saggio consiglio che un qualunque rabbino rivolgerebbe all’interlocutore di altra religione (e che dovrebbe in molti casi essere accolto anche dall’ambito cristiano): «Se vuoi dialogare va’ e studia!»
Vogliamo invece rimanere nell’ambito del tanto invocato ma ahimé forse poco conosciuto magistero.

Noi abbiamo un pregiudizio positivo, un’inguaribile stima nei confronti dell’insegnamento del Magistero della Chiesa (nella sua totalità e non semplicemente per le affermazioni che una certa vulgata politically correct ritiene valide) e nella parola e nelle scelte dei Papi. Abbiamo amato Giovanni XXIII, come Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II, ed ora non ci vergogniamo di essere tra gli ammiratori appassionati e convinti di Benedetto XVI. Abbiamo letto la Nostra Aetate e le sue considerazione sull’Islam, non solo l’invito al dialogo, ma anche il suo prudente suggerimento «a difendere e promuovere insieme per tutti gli uomini la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà». Abbiamo ascoltato Giovanni Paolo II ad Assisi quando ci ricordava (e lo ricordava a tutti i presenti rappresentanti di tutte le esperienze religiose del mondo) che il nome della pace è Gesù Cristo. Ancora prima abbiamo imparato da Paolo VI, il grande Papa dell’Ecclesiam suam, l’invito al dialogo con la precisazione delle sue condizioni, ma soprattutto abbiamo stimato e desiderato imparare da Benedetto XVI quella forma di dialogo che è stato la lectio magistralis di Ratisbona (e non abbiamo sicuramente apprezzato la critica, non dei mussulmani, ma dei giornalisti che ne hanno stravolto il senso impedendo di leggere in maniera realistica la vera capacità di dialogo).

Allora, caro Franco Monaco, a quale Magistero si appella? Non ha forse letto la risposta che il Segretario di Stato Card. Bertone ha dato all’invito dei 138 saggi mussulmani del 19 novembre 2007?
Quella risposta, proprio perché tesa ad avviare un auspicato dialogo, esigeva dagli interlocutori una vera reciprocità, cioè una dichiarazione esplicita riguardo all’accettazione dei valori irrinunciabili e noi diremmo non negoziabili, fra i quali tra l’altro il rispetto della vita e della libertà religiosa.
Già nella domanda della Santa Sede, caro Franco Monaco, è implicita un’affermazione. Come non si chiederebbe a un pasticciere di saper confezionare i dolci, così non si chiede a un cristiano di stimare la vita e la libertà religiosa. Se la Santa Sede ha ritenuto doveroso esplicitare la richiesta dell’osservanza di certi valori, è evidente che ha motivo di dubitare che ciò venga fatto da tutti. E questo, come lei ben sa, è stato detto non a quell’Islam intero e alla radice di cui lei parla, ma a un Islam che si vuole moderato e aperto al dialogo.
Del resto un certo corto circuito si verifica anche nel suo discorrere, laddove lei ammette l’allignare di germi di fondamentalismo in certo islamismo politico estremistico. Ma il riconoscimento di tali germi, che secondo le sue parole provocano in seno all’Islam un corto circuito tra religione e civiltà e istituzioni, come può essere relegato entro una parte dello stesso?
È evidente che per sua natura il corto circuito che si verifica in una sola parte dell’impianto fa saltare l’impianto stesso nella sua interezza. La domanda da porsi, piuttosto, caro Monaco, è capire come mai in maniera così radicale può all’interno dell’Islam annidarsi tale germe distruttivo e fondamentalista.

Siamo d’accordo con il portavoce vaticano che è provvidenzialmente intervenuto non per prendere le distanze da Magdi Cristiano Allam, in quanto non ce ne sarebbe stato alcun bisogno tanto è chiaro che la Chiesa mai canonizza alcuno prima della morte e che da sempre si attiene all’agostiniano principio «in necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus charitas», quanto piuttosto per prendere le distanze da certa superficiale e inopportuna polemica di chi si dice cristiano ma non lo è affatto.
Accusare di saccenza (che è un giudizio morale) una posizione - quella di Magdi Cristiano - che vuole essere ragionevole (in quanto sempre tesa a fornire delle ragioni e delle prove a quanto viene affermando), questo sì ci sembra il vero corto circuito del suo discorrere.
Come mai in tanto giornalismo italiano sedicente cattolico non si sono lanciati strali contro posizioni assunte da personalità politiche in netta contraddizione con i dettami religiosi del Magistero petrino?
Ce lo lasci dire da amici fieramente tali di Magdi Cristiano Allam: quante volte leggendo le obiezioni alle sue argomentazioni abbiamo ascoltato non argomenti ma reazioni (forse da «cristiano adulto»?).
Abbiamo letto i suoi libri e abbiamo visto la modalità di approccio con le persone di varia estrazione sociale e culturale, abbiamo soprattutto constatato la immediata simpatia che egli è capace di suscitare, e questo indipendentemente dalle posizioni politiche e religiose. Questo innato carisma, direbbero i Santi Padri, suscita inevitabilmente invidia, che nel senso forte del termine indica il guardare alla realtà con occhio torvo e viziato.
Sì, anche noi chiediamo per noi stessi, anzitutto, ma anche per Magdi Cristiano l’umiltà, ma quell’umiltà che ci insegna il canto mariano del Magnificat: nell’umiltà dei suoi servi Dio continua ad operare grandi cose che non possono essere taciute, ma vengono e verranno cantate di generazione in generazione.


I « MOSTRI » DI NISCEMI E LA RESPONSABILITÀ DI NOI ADULTI - Prima il gioco da grandi Poi l’ansia di cancellare tutto
Avvenire, 15 maggio 2008
ROSSANA SISTI
A desso è facile gridare fuori i mostri dal paese o dire che erano ragazzi tranquilli, figli di famiglie normali.
Come se quei tre di Niscemi che hanno detto di aver messo un cappio al collo della loro amichetta, stringendolo fino a strangolarla, e poi di averla bruciata e buttata nel pozzo, per farla sparire per sempre, fossero stati chissà come catapultati da un altro mondo.
Bisognerebbe invece non sprecarle le parole, sempre che se ne abbiano ancora, per spiegarci l’ennesima violenza e la brutalità con cui tra ragazzini, amici e cresciuti insieme a pochi metri uno dall’altro, si consuma un delitto efferato. Di quelli orrendi che vedi al cinema, che fanno immaginare criminali incalliti, dal sangue freddo e dalle mani esperte e non un orribile impresa da ragazzi. Eppure l’appuntamento, la corda, il fuoco, la pietra legata al collo, il pozzo che ha inghiottito Lorena e infine la fuga sono la sceneggiatura perversa e sadica di un gruppo che banalmente dice di aver perso la testa, perché quei giochi di sesso che si facevano in gruppo al casolare erano sfuggiti di mano. E chissà forse c’era una verità troppo scomoda da accettare, un segreto che avrebbe potuto circolare in paese e non doveva, forse un ricatto che poteva scatenare altre gelosie e non poteva passare.
Non finisce di sorprenderci la banalità del male, l’impaccio di chi maneggia cose troppo grandi e ne finisce vittima, anche quando gioca la parte del carnefice. In questa storia dolorosa tutti volevano sembrare più grandi. Lorena era solo una bambina, tranquilla, affettuosa e sempre allegra, dice suo padre. E ai suoi occhi così doveva apparire. Ma lontano dagli sguardi dei genitori i ragazzi crescono più in fretta di quanto non si crede. Liberi e appagati apparentemente ma sregolati e tremendamente soli a maneggiare il lato umano della vita. E così conciarsi da grandi, colorarsi i capelli, farsi il piercing
e quel mai dire mai alle esperienze di sesso precoce perché così fan tutti, sono segnali di tappe forzate e spesso bruciate nella vita di tanti adolescenti avidi di spremere il senso della vita. Di provare emozioni forti, esperienze che li facciano sentire vivi anche nell’ultimo angolo della provincia più morta d’Italia.
Quando qualcosa va storto, però, ecco l’animo bambino venir fuori, il pensiero magico di chi rompe l’oggetto, lo butta e dice non sono stato io. Di chi guarda con poco orizzonte davanti e immagina di cancellare di colpo la vita di un altro senza doverne pagare alcun prezzo. Forse perché in prima battuta non sa dare valore alla propria. Ma gli adulti cos’hanno insegnato? Il mondo è pieno di ragazzi a posto che un brutto giorno senza capacitarci, scopriamo bulli, picchiatori, violentatori e persecutori. A quel punto si interrogano gli psicologi, i sociologi e persino dalla politica ci si aspetta che qualcuno detti le regole di un nuovo modo di vivere.
E si finge di non capire che tutto nasce dentro lo spettacolo deprimente e devastante di un mondo adulto irresponsabile, inconsistente, volgare, violento, sordo e cieco al bisogno di rispetto e di attenzione di bambini e adolescenti. Adulti da cui si impara a stare al mondo secondo i precetti della legge del più forte. Ma non c’è via di scampo se questo è quanto i bambini e gli adolescenti imparano guardandoci.


194: perché le linee guida lombarde funzionano
L’«Atto di indirizzo» emanato in gennaio dalla Regione Lombardia è stato sospeso da una discussa sentenza del Tar, ora impugnata dai vertici del Pirellone Eppure si tratta di un documento moderno ed efficace Parola di ginecologi, neonatologi e volontari
di Enrico Negrotti
Avvenire, 15 maggio 2008
Si appoggiano sull’evidenza scientifica, sulla buona pratica clinica e sul tentativo di offrire ogni possibile sostegno alla donna che si trovi a valutare l’ipotesi di interrompere la gravidanza le misure previste dall’«Atto di indirizzo» che la Regione Lombardia approvò nel gennaio scorso e che pochi giorni fa è stato sospeso da un’ordinanza del Tar. Lo conferma il parere degli addetti ai lavori: nessuna obiezione fondata nel merito è stata opposta alle norme che la Lombardia ha adottato, frutto dell’esperienza maturata nel corso degli anni da alcuni dei più frequentati reparti di maternità milanesi: la Clinica Mangiagalli e l’Ospedale San Paolo.

Due le questioni – scientifica la prima, organizzativa l’altra – che rappresentano una certa innovazione nel testo dell’Atto di indirizzo emanato dalla Lombardia: il termine di 22 settimane più tre giorni quale limite per effettuare aborti nel secondo trimestre, e la presenza di almeno due medici (oltre alla presa visione del primario) per redigere il certificato di richiesta dell’interruzione volontaria di gravidanza.
Claudio Fabris, direttore della Neonatologia del Sant’Anna di Torino e presidente della Società italiana di neonatologia, trova del tutto adeguato il termine scelto dalla Lombardia: «Nel corso degli anni sono molto migliorate le nostre capacità di assistere i neonati pretermine. Se all’epoca in cui è stata approvata la 194 si indicava di solito la 24esima settimana come soglia per la possibile vitalità del feto, oggi il quadro è molto cambiato e dalla 22esima settimana in poi esistono probabilità sempre crescenti di sopravvivenza. Così noi al Sant’Anna insieme con i ginecologi ci siamo dati un codice di comportamento e abbiamo fissato il termine a 22 settimane e sei giorni. Il limite della Lombardia è leggermente più stretto, ma non cambia molto: la raccomandazione è giusta».

Analogo apprezzamento per la scelta della Lombardia viene dal ginecologo Giuseppe Noia, docente di Medicina dell’età prenatale all’Università Cattolica­Policlinico Gemelli di Roma: «Si tratta di indicazioni prese dai dati oggettivi della letteratura scientifica sull’argomento, non sono certo ragioni di natura confessionale quelle che inducono a dire che dalla 23esima settimana i feti hanno il 10-20% di possibilità di sopravvivere. Del resto la legge 194 parla dell’obbligo di assistere un neonato se manifesta segni di vitalità. Se 18 anni fa sotto un certo peso si salvava solo un 10% dei neonati, ora siamo al 90%: va ricordato che sono cambiate e migliorate le metodologie dell’assistenza per il danno da ipossia (insufficiente apporto di ossigeno) non solo per il neonato pretermine ma anche nell’adulto colpito da ictus o da infarto cardiaco».
ertamente la struttura ha una certa rilevanza nel determinare i risultati, ma i dati mostrano che più ci si impegna e più si ottiene: «Basta guardare al Giappone – aggiunge Noia – dove si riscontrano tassi di sopravvivenza doppi rispetto all’Europa: là c’è un atteggiamento molto attivo per assistere i nati pretermine:
Cper esempio, una puericultrice dedicata per ogni bambino». Infine, osserva Giuseppe Noia, anche il peso delle disabilità è un concetto che va adeguato: «I neuropsichiatri hanno osservato che non pochi neonati che alla nascita manifestavano danni con tassi di paralisi molto alti, a una verifica successiva agli otto anni di età mostravano sorprendenti riduzioni del danno originario: non poteva essere cancellato, ma era a un livello inimmaginabile alla nascita. Sono dati che devono far riflettere quando si assiste a levate di scudi per dichiarazioni abbastanza scontate, come è successo nel febbraio scorso, quando i primari di ginecologia delle università romane hanno ribadito il dovere di rianimare feti pretermine che mostrino segni di vitalità».

Anche Andrea Natale, ginecologo dell’Ospedale Macedonio Melloni di Milano, sottolinea che «rifiutare le linee guida della Lombardia significa non accettare i progressi realizzati dalla neonatologia negli ultimi anni: è come non voler gettare lo sguardo in avanti».
Basilio Tiso, direttore sanitario della Mangiagalli, sempre a Milano, puntualizza: «Noi continueremo ad applicare quei parametri, che del resto avevamo adottato già dal 2004. Del resto le Linee guida sono state bocciate per la forma e non per la sostanza. Infatti c’è un accordo pressoché assoluto sulle 22 settimane come termine oltre il quale crescono le possibilità di vita del feto». Sul fatto che la firma di un secondo medico renda più difficile l’aborto, Tiso dissente e parla di organizzazione: «Stiamo parlando di aborti piuttosto rari, non più del 10% del totale. La Regione che deve organizzare i servizi può benissimo decidere che tali interventi vengano effettuati solo in strutture – e in Lombardia non mancano (ma anche nelle altre regioni) – sufficientemente grandi e attrezzate per avere sempre un’équipe disponibile».

Tra le altre misure significative dell’Atto di indirizzo c’è il potenziamento delle attività di prevenzione: «Ci siamo resi conto – conclude Tiso – che, tra le ragioni che portano a interrompere la gravidanza, stanno crescendo i motivi sociali ed economici: poiché molte tra le donne che si rivolgono a noi non sono passate dai consultori, ci pare opportuno far conoscere le possibilità di sostegno alla maternità che sono a disposizione». In questo senso un ruolo significativo in Mangiagalli viene svolto dal Centro di aiuto alla vita: «Noi siamo un consultorio familiare accreditato – puntualizza la responsabile Paola Bonzi –, che come tale deve sempre farsi carico della persona individualmente: e se la presa in carico realizza una relazione di aiuto, le settimane non contano. Se la donna ha deciso che quello che porta in grembo è suo figlio, non ha bisogno di linee guida».


«Decreto assurdo e rischioso»
Nei centri di sterilità il documento della Turco complica le cose: cozza con la legge, rendendo impossibile (anche dove lo sia) la diagnosi pre-impianto. Ed espone medici e ginecologi ai ricorsi delle coppie
di Viviana Daloiso
Avvenire, 15 maggio 2008
L’aggior­namento delle linee guida della legge 40 ha dato il via a un acceso dibattito in campo politico, scientifico e giuridico: al centro le implicazioni etiche – e per così dire 'teoriche' – del decreto voluto dalla Turco, sulla cui liceità rimangono ancora sospesi diversi interrogativi. A ben vedere, tuttavia, la decisione dell’ex ministro della Salute ha determinato anche delle conseguenze pratiche nel campo della fecondazione assistita, o almeno avrebbe dovuto registrarne: togliere il limite posto della legge a una diagnosi dell’embrione puramente 'osservazionale' permette ora alle coppie sterili portatrici di qualche malattia genetica di rivolgersi a uno dei 336 centri per la sterilità registrati sul territorio chiedendo la diagnosi pre­impianto (o dovrebbe permettere). E i centri stessi possono ora garantire la tecnica in questione a tutte le coppie che ne facciano richiesta (o dovrebbero potere). Il condizionale, tuttavia, è d’obbligo, perché in realtà – sul campo – niente di tutto ciò avviene. Parola di chi un cambiamento delle linee guida della legge 40 lo attendeva da tempo (e nel senso più volte auspicato dalla stessa Turco), come il ginecologo Andrea Burini, responsabile di Tecnobios Procreazione, centro per la fecondazione assistita con sede a Bologna e diverse succursali sparse in altre regioni (da Appiano Gentile a Pesaro e Brindisi): «Le nuove linee guida non hanno cambiato proprio niente – spiega –, anzi hanno complicato le cose. Anche in un centro come il nostro, che prima dell’entrata in vigore della legge 40 era attrezzato per la diagnosi pre-impianto, eseguire questa tecnica sarebbe assurdo».
Il motivo? Semplice: la legge 40 pone il limite di tre embrioni fecondabili per ciclo di procreazione assistita. E tale limite azzera l’utilità della diagnosi pre-impianto, che per avere probabilità di successo necessiterebbe di almeno otto, nove o addirittura dieci embrioni a disposizione. È la legge dei 'grandi numeri', non la legge 40: le probabilità di successo di una selezione aumentano all’aumentare dei 'soggetti' in campo (in questo caso embrioni, vite umane). Ecco dunque che al centro Tecnobios Burini sconsiglierà vivamente tutte le coppie a procedere con una diagnosi inutile e tuttavia molto costosa (circa 2 mila euro nel centro di Bologna, da aggiungere ai 4 mila previsti per ciclo di fecondazione): «Come professionista non potrei mentire alle coppie: se lo facessi potrei essere portato in tribunale per non aver garantito loro quello che la diagnosi prometteva.Così mi comporto esattamente come prima: consiglio loro di andare all’estero, dove si possono fecondare molti più embrioni. Col rischio, tuttavia, di essere portato in tribunale anche per questa sincerità».
Situazione complicata: le nuove linee guida permettono di fare ciò che la legge impedisce in tutte le sue altre parti, e che quindi risulta insensato dal punto di vista clinico, prima ancora che etico. Perché mai emanarle?

La stessa domanda risuona nelle corsie delll’Unità operativa Medicina e Riproduzione umana dell’Ospedale civile di Mantova: «Qui la diagnosi pre­impianto non si è mai fatta e tanto meno si fa ora – spiega il direttore Massimo Bertoli –, come in tutti i centri per la fecondazione assistita pubblici». Già, perché la tecnica richiede tecnologie costosissime e personale super-qualificato, che le strutture pubbliche (unica eccezione l’ospedale di Cagliari) non si possono permettere: «Senza contare – aggiunge Bertoli – che la questione diagnosi pre-impianto è stata decisamente 'gonfiata': sono pochissime le coppie che ne fanno richiesta. Aggiungendo questi due particolari al limite degli embrioni fecondabili, che rende inutile la tecnica, mi domando davvero che senso abbiano avuto le nuove linee guida».