lunedì 19 maggio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI: “Continui Maria a brillare su Genova” - Parole introduttive alla preghiera mariana dell'Angelus
2) Discorso del Papa all'ospedale pediatrico "Gaslini" di Genova
3) Meglio Magdi che Cristiano - Il pubblico Battesimo del vicedirettore del Corriere della Sera scandalizza le riviste dei comboniani e dei gesuiti
4) «Ecco come faremo il tagliando alla 194» - «Da quando fu ratificata la normativa, la medicina è avanzata: ora feti di 22 settimane possono vivere»
5) Un milione di firme per «Un fisco a misura di famiglia»
6) India pacifica. Ma non con i cristiani, di Sandro Magister
7) Quanto conta l'ambiente per lo sviluppo dell'embrione?
8) Così riportiamo i bambini soldato a una vita normale


Benedetto XVI: “Continui Maria a brillare su Genova” - Parole introduttive alla preghiera mariana dell'Angelus
GENOVA, domenica, 18 maggio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito le parole pronunciate da Benedetto XVI ad introduzione della preghiera mariana dell'Angelus, recitata questa domenica al termine dell'incontro con i giovani in piazza Matteotti a Genova.
* * *
Cari fratelli e sorelle!
Nel cuore della mia visita pastorale a Genova, siamo giunti all’ora del consueto appuntamento domenicale dell’Angelus, e il mio pensiero ritorna naturalmente al Santuario di Nostra Signora della Guardia, dove questa mattina ho sostato in preghiera. Pellegrino a quell’oasi montana si recò molte volte il Papa Benedetto XV, vostro illustre concittadino, il quale fece collocare una riproduzione della cara effigie della Madonna della Guardia nei Giardini Vaticani. E come fece il mio venerato Predecessore Giovanni Paolo II, nel suo primo pellegrinaggio apostolico a Genova, anch’io ho voluto iniziare la mia visita pastorale con l’omaggio alla celeste Madre di Dio, che dall’alto del monte Figogna veglia sulla Città e su tutti i suoi abitanti.
La tradizione narra che a Benedetto Pareto, inquieto perché non sapeva come rispondere all’invito di costruire una chiesa in quel luogo tanto remoto dalla città, la Madonna, nella sua prima apparizione, disse: "Confida in me! I mezzi non ti mancheranno. Con il mio aiuto tutto ti sarà facile. Mantieni solo ferma la tua volontà". "Confida in me!" Questo ci ripete oggi Maria. Un’antica preghiera, assai cara alla tradizione popolare, ci fa rivolgere a Lei queste fiduciose parole, che oggi facciamo nostre: "Ricordati, o Vergine Maria, che non si è mai udito che alcuno sia ricorso al tuo patrocinio, abbia implorato il tuo aiuto, chiesto la tua protezione, e sia stato abbandonato". È con questa certezza che invochiamo la materna assistenza della Madonna della Guardia sulla vostra Comunità diocesana, sui suoi Pastori, le persone consacrate, i fedeli laici: i giovani, le famiglie, gli anziani. A Lei chiediamo di vegliare, in modo particolare, sugli ammalati e su tutti i sofferenti, e di rendere fruttuose le iniziative missionarie che sono in cantiere, per recare a tutti l’annuncio del Vangelo. A Maria affidiamo insieme l’intera Città, con la sua variegata popolazione, le sue attività culturali, sociali ed economiche; i problemi e le sfide di questi nostri tempi, e l’impegno di quanti cooperano per il bene comune.
Il mio sguardo si allarga ora a tutta la Liguria, costellata di chiese e santuari mariani, posti come una corona tra il mare e i monti. Insieme con voi, ringrazio Dio per la fede robusta e tenace delle generazioni passate che, nel corso dei secoli, hanno scritto pagine memorabili di santità e di umana civiltà. La Liguria, ed in particolare Genova, è da sempre una terra aperta sul Mediterraneo e sul mondo intero: quanti missionari sono partiti da questo porto per le Americhe e per altre terre lontane! Quanta gente da qui è emigrata per altri Paesi, povera forse di risorse materiali, ma ricca di fede e di valori umani e spirituali, che hanno poi trapiantato nei luoghi di approdo! Continui Maria, Stella del mare, a brillare su Genova; continui Maria, Stella della speranza, a guidare il cammino dei Genovesi, specialmente delle nuove generazioni, perché seguano, con il suo aiuto, la giusta rotta nel mare spesso tempestoso della vita.
Angelus Domini...


[DOPO L'ANGELUS]
Vorrei ora ricordare un importante evento che avrà inizio domani a Dublino: la Conferenza diplomatica sulle munizioni a grappolo, convocata allo scopo di produrre una Convenzione che interdica questi micidiali ordigni. Auspico che, grazie alla responsabilità di tutti i partecipanti, si possa giungere ad uno strumento internazionale forte e credibile: è necessario infatti rimediare agli errori del passato ed evitare che si ripetano in futuro. Accompagno con la mia preghiera le vittime delle munizioni a grappolo e le loro famiglie, nonché quanti prenderanno parte alla Conferenza, formulando i migliori auguri di successo.
Saluto di nuovo i giovani e tutti i presenti. Grazie! Buona domenica!
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]


Discorso del Papa all'ospedale pediatrico "Gaslini" di Genova
SAVONA, domenica, 18 maggio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo sabato da Benedetto XVI in occasione della visita all’ospedale pediatrico "Gianna Gaslini" di Genova.
* * *
Signor Sindaco,
Signor Commissario Straordinario,
cari bambini,
cari fratelli e sorelle!
Dopo aver pregato ai piedi della Madonna della Guardia, nel bel Santuario che dall’alto domina la Città, il primo incontro è con voi, in questo luogo di sofferenza e di speranza, che fu inaugurato il 15 maggio 1938, esattamente settant’anni fa. Abbraccio voi, carissimi bambini, che venite accolti e curati con premura ed amore in questo Ospedale, "punto di eccellenza" per la pediatria al servizio di Genova, dell’Italia e dell’intera area del Mediterraneo. Il vostro portavoce mi ha espresso i vostri sentimenti di affetto, che ricambio di cuore e che accompagno con un pensiero speciale anche per i vostri genitori. Un saluto cordiale alla Signora Marta Vincenzi, Sindaco di Genova, che si è fatta interprete dell’accoglienza della Città. Saluto il Professor Vincenzo Lorenzelli, Commissario Straordinario dell’Istituto "Giannina Gaslini", il quale ha ricordato lo scopo di quest’Ospedale e i futuri sviluppi che sono in programma.
Il Gaslini è nato dal cuore di un generoso benefattore, l’industriale e Senatore Gerolamo Gaslini, che dedicò quest’opera a sua figlia deceduta a soli 12 anni, e fa parte della storia di carità che fa di Genova una "città della carità cristiana". Anche oggi la fede suggerisce a tante persone di buona volontà gesti di amore e di sostegno concreto a questo Istituto, che con giusto orgoglio è sentito dai Genovesi come un patrimonio prezioso. Ringrazio e incoraggio tutti a continuare. In particolare mi rallegro per il nuovo complesso, del quale è stata recentemente posta la prima pietra, e che ha trovato un munifico donatore. Anche l'attenzione fattiva e cordiale delle pubbliche Amministrazioni è segno di riconoscimento del valore sociale che il Gaslini rappresenta per i bambini della Città e oltre. Quando un bene, infatti, è per tutti, merita il concorso di tutti nel giusto rispetto dei ruoli e delle competenze.
Mi rivolgo ora a voi, cari medici, ricercatori, personale paramedico e amministrativo; a voi, cari cappellani, volontari e quanti vi occupate dell’assistenza spirituale dei piccoli ospiti e dei loro familiari. So che è vostro corale impegno far sì che l’Istituto Gaslini sia un autentico "santuario della vita" e un "santuario della famiglia", dove alla professionalità gli operatori di ogni settore uniscano amorevolezza e attenzione per la persona. La decisione del Fondatore, per cui il Presidente della Fondazione deve essere l’Arcivescovo pro tempore di Genova, manifesta la volontà che l’ispirazione cristiana dell’Istituto non venga mai meno e tutti siano sempre sorretti dai valori evangelici.
Nel 1931, ponendo le basi della struttura, il Senatore Gerolamo Gaslini preconizzava "l’opera perenne di bene che dall’Istituto stesso dovrà irraggiare". Irraggiare il bene attraverso l’amorevole cura dei piccoli ammalati è dunque lo scopo di questo vostro Ospedale. Per questo, mentre ringrazio tutto il personale – dirigente, amministrativo e sanitario – per la professionalità e la dedizione del loro servizio, auspico che questo eccellente Istituto Pediatrico continui a svilupparsi nelle tecnologie, nelle cure e nei servizi; ma anche ad allargare sempre più gli orizzonti in quell'ottica di positiva globalizzazione per cui si riconoscono le risorse, i servizi e i bisogni creando e rafforzando una rete di solidarietà oggi tanto urgente e necessaria. Tutto questo senza mai venir meno a quel supplemento di affetto che dai piccoli degenti è avvertito come la prima e indispensabile terapia. L’Ospedale allora diventerà sempre più luogo di speranza.
La speranza qui al Gaslini prende il volto della cura di pazienti in età pediatrica, ai quali si cerca di provvedere mediante la formazione continua degli operatori sanitari. Di fatto, il vostro Ospedale, quale stimato Istituto di Ricerca e Cura a carattere scientifico, si distingue per essere monotematico e polifunzionale, coprendo quasi tutte le specialità in campo pediatrico. La speranza che qui si coltiva ha dunque buoni fondamenti. Tuttavia, per affrontare efficacemente il futuro, è indispensabile che questa speranza sia sostenuta da una visione più alta della vita, che permetta allo scienziato, al medico, al professionista, all’assistente, ai genitori stessi di impegnare tutte le loro capacità, senza risparmiare sforzi per ottenere i migliori risultati che la scienza e la tecnica possono oggi offrire, sul piano della prevenzione e della cura. Ecco allora affacciarsi il pensiero della silenziosa presenza di Dio, che accompagna quasi impercettibilmente l’uomo nel suo lungo cammino nella storia. La vera speranza "affidabile" è solo Dio, che in Gesù Cristo e nel suo Vangelo ha spalancato sul futuro la porta oscura del tempo. "Sono risorto e ora sono sempre con te" - ci ripete Gesù, specialmente nei momenti più difficili – "la mia mano ti sorregge. Ovunque tu possa cadere, cadrai tra le mie braccia. Sono presente anche alla porta della morte".
Qui, al Gaslini, vengono curati i bambini. Come non pensare alla predilezione che Gesù ebbe per i fanciulli? Li volle accanto a sé, li additò agli apostoli come modelli da seguire nella loro fede spontanea e generosa, nella loro innocenza. Con parole dure mise in guardia dal disprezzarli e dallo scandalizzarli. Si commosse dinanzi alla vedova di Nain, una mamma che aveva perso il figlio, il suo unico figlio. Scrive l’evangelista san Luca che il Signore la rassicurò e le disse: "Non piangere!" (cfr Lc 7,14). Gesù ripete ancor oggi a chi è nel dolore queste parole consolatrici: "Non piangere"! Egli è solidale con ognuno di noi e ci chiede, se vogliamo essere suoi discepoli, di testimoniare il suo amore per chiunque si trova in difficoltà.
Mi rivolgo, infine, a voi, carissimi bambini, per ripetervi che il Papa vi vuole bene. Accanto a voi vedo i vostri familiari, che condividono con voi momenti di trepidazione e di speranza. Siatene tutti certi: Dio non ci abbandona mai. Restate uniti a Lui e non perderete mai la serenità, nemmeno nei momenti più bui e complessi. Vi assicuro il mio ricordo nella preghiera e vi affido a Maria Santissima, che come mamma ha sofferto per i dolori del suo divin Figlio, ma ora vive con Lui nella gloria. Un grazie ancora a ciascuno di voi per quest’incontro, che rimarrà impresso nel mio cuore. Con affetto tutti vi benedico.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]


Meglio Magdi che Cristiano - Il pubblico Battesimo del vicedirettore del Corriere della Sera scandalizza le riviste dei comboniani e dei gesuiti
di Rodolfo Casadei
Macché Umberto Eco. Macché Gianni Vattimo. Macché Eugenio Scalfari. In Italia i veri baluardi del relativismo che tanto preoccupa Benedetto XVI e la Cei non sono questi, ma i missionari gesuiti e comboniani, certi docenti dell’Università Cattolica e certe moderne riviste gesuite. Basta vedere i loro commenti al Battesimo di Magdi Cristiano Allam, vera e propria pietra dello scandalo.
A scandalizzarsi, infatti, in nome della sostanziale equivalenza di tutte le religioni, di quel che il Papa ha fatto durante l’ultima veglia pasquale sono stati proprio i suddetti. Leggere per credere.
Nigrizia, la principale rivista comboniana, ha dedicato alla conversione di Allam un’intervista col protagonista stesso, mettendo però le mani avanti. «Nei documenti ecclesiali e nelle pratiche missionarie degli ultimi decenni», si legge nell’introduzione, «si possono evidenziare due tendenze: quella che concepisce l’evangelizzazione come un “conquistare a Cristo” le altre fedi (un’iniziativa che dovrebbe risolversi con la loro annessione alla chiesa) e quella che vede, invece, la missione nel contesto dell’orizzonte del Regno di Dio e concepisce l’attività missionaria come un continuo dialogo e confronto, che non prevede né vincitori né vinti. I cristiani – i missionari in particolare – sono oggi chiamati ad accettare la coesistenza di fedi differenti non “di malavoglia”, ma di “buon grado”». Quale tendenza prediligano quelli di Nigrizia si capisce bene dal linguaggio e dalle maiuscole che usano: Regno di Dio maiuscolo, Chiesa minuscolo; i termini associati al passaggio da una religione al cristianesimo sono “conquistare”, “annessione”, “vincitori e vinti”; quelli che descrivono la situazione in cui questo passaggio non avviene sono “dialogo”, “confronto”, “Regno di Dio”. Si può immaginare quanto stia loro simpatico Magdi Allam. Viene poi da chiedersi cosa dovrebbero accettare di “buon grado” delle altre religioni i missionari cristiani: il precetto islamico del jihad? La poligamia? I sacrifici umani e la schiavitù femminile dei culti tradizionali africani? La divisione in caste degli indù? La reincarnazione che è negazione della responsabilità individuale presso buddisti e indù?
I gesuiti vanno oltre. Sulla loro rivista Popoli (che un tempo si chiamava Popoli e Missione, poi hanno pensato bene di togliere la parola “Missione” dal nome) affidano il commento del battesimo di Magdi Allam a un confratello residente in Siria. «La luna della preoccupazione prioritaria per le libertà di religione e di coscienza – scrive padre Paolo Dall’Oglio – ha offuscato il sole della discrezione caritatevole, del rispetto dei sentimenti dei musulmani e della rinuncia al proselitismo… Sono scoraggiati numerosi sforzi per costruire armonia e amicizia, tanto nei quartieri delle città europee che nei paesi di secolare e pacifica coesistenza islamo-cristiana». Nei paesi di secolare e pacifica coesistenza i-slamo-cristiana come la Siria i cristiani sono scesi dal 30 per cento della popolazione totale del 1970 al 10 di oggi, ma di questo padre Dall’Oglio non appare preoccupato, anzi, in altra parte dell’articolo spiega di essere d’accordo con una madre cristiana siriana sposata a un musulmano che vorrebbe impedire al figlio musulmano di farsi cristiano, come lui desidera. Quel che lo preoccupa è altro: «È difficile sfuggire all’impressione che la sacra bandiera della libertà di coscienza sia utilizzata dall’Occidente come un cavallo di Troia da introdurre nel mondo musulmano al fine di disintegrarlo». Cioè non è la mancata accettazione della libertà di coscienza che disintegra il mondo musulmano in guerre intestine fra sunniti e sciiti, fra islamisti radicali e musulmani tradizionali. No, è tutta colpa di un complotto occidentale volto a introdurre quel principio che in Europa ha posto fine alle guerre di religione e gettato le basi della democrazia.
Anche il linguaggio utilizzato da Popoli è interessante: la pubblica fede in Gesù Cristo è luna, meno importante del sole, che coincide col dialogo interreligioso; alla prima è associata la parola “proselitismo”, al secondo le parole “armonia e amicizia”. La superiorità del dialogo fra uguali rispetto all’affermazione dell’unicità di Cristo, secondo l’autore del testo e i suoi amici milanesi, dovrebbe essere addirittura dogmatizzata: «La conversione a Gesù è entrare in una logica di carità che tutto scusa e tutto salva… L’avversione teologica verso le religioni islamica o ebraica o altra potrebbe essere un motivo sufficiente per rinviare il battesimo e, comunque, per non fargli propaganda». Sì, avete letto bene: il prerequisito per il Battesimo non è più la fede in Gesù Cristo, ma la fede nel relativismo religioso.
Padre Sorge recluta Paolo Branca
Sulla stessa falsariga si muove Aggiornamenti sociali, altra rivista gesuita. Per commentare e contestualizzare la notizia del Battesimo di Allam con «una meditata riflessione sul tema delle conversioni fra le due grandi religioni monoteiste», il periodico diretto da padre Bartolomeo Sorge si affida niente meno che alla penna di Paolo Branca, docente di lingua araba all’Università Cattolica di Milano che alcuni mesi fa promosse una raccolta di firme di accademici e umanità varia contro Magdi Allam, reo di aver criticato in un suo libro i docenti universitari di islamistica italiani, accusati di una certa ignavia nei confronti degli estremisti islamici. Senza spendere una parola sul suo conflitto di interessi, Branca entra subito nel vivo dell’argomento e, dopo una descrizione dello stato dell’arte, formula giudizi di valore. Il primo è che «il proselitismo è diventato, specie dopo il Concilio Vaticano II, una forma di impegno religioso meno stimato rispetto alla testimonianza… Conoscersi e rispettarsi dovrebbero essere l’obiettivo principale cui tendere». Le conversioni sono legittime ma «è sempre preferibile tenersi al riparo da ogni forma di enfatizzazione, di cui la spettacolarizzazione mediatica è una delle più insidiose». Infine il Battesimo cristiano di un musulmano dovrebbe essere vissuto «come un compimento piuttosto che come una cesura», dovrebbe essere «esempio di una rara ed emblematica doppia fedeltà». Le stilettate contro Allam che ha definito la propria conversione «una svolta radicale» e contro Benedetto XVI che ha creato le condizioni perché il suo Battesimo andasse in mondovisione sono palesi. Il professore non sembra turbato dal fatto che Gesù abbia detto esplicitamente che nessuno può servire due padroni. E nemmeno tenta di spiegare perché il Papa meriti di essere accusato di spettacolarizzazione mediatica insidiosa quando battezza un musulmano, mentre nessuno ha da ridire quando prega alla musulmana dentro una moschea a Instanbul o prega con gli esponenti di altre religioni ad Assisi, e le immagini fanno ugualmente il giro del mondo. Preferisce invece lanciarsi in una spericolata esegesi del passo del Vangelo relativo all’incontro fra Gesù e il centurione romano che chiedeva la guarigione del suo servo, e la cui fede fu lodata da Cristo perché riconosceva che sarebbe bastata la sola parola di Gesù affinché la guarigione avvenisse. Ma secondo Branca il Figlio di Dio lodò piuttosto la discrezione, il rispetto per il diverso e il relativismo culturale di quel soldato di Roma. «Il romano – scrive – presumibilmente avrà percepito il rifiuto degli ebrei di contaminarsi entrando nelle case dei pagani come una sorta di arroganza. Riconoscendo in Gesù una forza salvifica e pur constatando la sua disponibilità a recarsi da lui per curare il servo malato, non volle tuttavia che egli facesse un gesto contrario alla sensibilità del suo popolo e formulò la famosa frase che tanto piacque al Messia e che ancora oggi il cristiano recita al momento di accostarsi all’Eucarestia».
Quel che non sopportano di Allam
Nel corso dei secoli poteri e contropoteri hanno sempre strumentalizzato la Parola di Dio per piegarla alle proprie preferenze e ai propri interessi. Negli anni Sessanta-Settanta la teologia della liberazione ha cercato di piegare testi come il Magnificat o il discorso della montagna a un’interpretazione politica di tipo socialista e rivoluzionario. Oggi i fautori del relativismo religioso e culturale s’ingegnano di trovare giustificazioni alla loro posizione nei testi evangelici. E contemporaneamente di presentare in una luce negativa chi antepone lo splendore dell’incontro personale con la verità all’ambiguità di un dialogo interreligioso dove uno dei due dialoganti, come ben dice Magdi Allam, «si sottomette e si nega dei diritti e delle libertà» che invece riconosce alla controparte. Di costui diranno che vuole la guerra anziché l’amicizia fra i popoli e che favorisce disegni politici di dominio. Ma la ragione profonda dell’imbarazzo di fronte al Battesimo di Allam non dipende dalle sue opinioni politiche. Il vero motivo è il senso di colpa che Allam risveglia nei fautori del cristianesimo ridotto a sedicente dialogo interreligioso. Allam fa quello che facevano i primi cristiani e che i cristiani relativisti non fanno più: si espone all’ostilità, al rigetto e all’irrisione in nome di Cristo. Di più: affermando con calore la verità della fede, mette allo scoperto la tiepidezza di quei cristiani che sulla questione della verità preferirebbero glissare. Perché, dicono, in realtà tutte le religioni, compresa quella cristiana, non esauriscono la verità. Il che può anche essere vero. Ma diventa una giustificazione per tutta un’altra faccenda: il vergognarsi di Cristo. Però «chi si vergognerà di me davanti agli uomini, anch’io mi vergognerò di lui davanti a Dio».
Rodolfo Casadei


«Ecco come faremo il tagliando alla 194» - «Da quando fu ratificata la normativa, la medicina è avanzata: ora feti di 22 settimane possono vivere»
di Andrea Tornielli
«È arrivato il momento di fare il tagliando alla 194 e questi sono gli interventi più urgenti: applicare la parte disattesa, riguardante la prevenzione e dare delle linee guida per far sì che la normativa non sia più violata come accade in varie parti d’Italia». Ha le idee chiare ma nessun intento di crociata il nuovo sottosegretario al Welfare Eugenia Roccella, che dovrebbe ricevere deleghe riguardanti la tutela della maternità. All’indomani delle polemiche scaturite dalle parole pronunciate da Benedetto XVI, che ricevendo il Movimento per la vita in Vaticano ha parlato della legge che trent’anni fa introdusse l’aborto legale in Italia come di «una ulteriore ferita nelle nostre società, già purtroppo gravate da profonde sofferenze».
Onorevole Roccella, volete mettere mano subito alla 194?
«La legge sull’aborto è una materia che necessita un tagliando, l’ho ripetuto per mesi. Ma noi non intendiamo assolutamente intervenire a gamba tesa sulla 194. Chi ci attribuisce questo intento non sostiene il vero. Quelle che vogliamo varare sono norme applicative, linee guida...».
Nessuna revisione, dunque?
«La legge 194 rimarrà tale e quale. Quando si fa un tagliando a una macchina non si sostituisce il motore, lo si mette a punto, per permettergli di funzionare al meglio. Il nostro non sarà un intervento di tipo legislativo, ma di applicazione. Chi agita lo spauracchio, facendo credere che vogliamo attentare a una legge dello Stato, non ha compreso il nostro intento».
Se si tratta di una legge che legalizza l’aborto, farla funzionare meglio che cosa significa?
«La legge che ha legalizzato l’interruzione di gravidanza non si limitava a questo. Prevedeva e prevede, nella prima parte, tutta una serie di interventi di prevenzione. Largamente inapplicati. Non si cerca di rimuovere i problemi pratici e i problemi psicologici che portano la donna all’aborto. Non c’è un supporto adeguato che assista e aiuti le donne a guardarsi dentro».
C’è chi dice che è sospetta la fretta con cui volete intervenire...
«Anche questo non è vero. Non è vero che non sia avvertita la necessità urgente di avere delle linee guida. Oggi esiste un reale problema di mancata applicazione e di disomogeneità nell’applicazione della 194. Non c’è solo la parte preventiva che è rimasta in moltissimi casi lettera morta. Ci sono articoli della stessa legge che vengono violati».
Può fare qualche esempio di violazione?
«Emblematico e doloroso è stato il caso avvenuto all’ospedale Careggi di Firenze, dove un bambino venne abortito alla 23ª settimana, per motivi legati alla diagnosi prenatale. I medici avevano pronosticato una malformazione all’esofago, che poi in realtà non c’era. Non ci si deve stupire di questo, capita spessissimo, perché la diagnosi prenatale viene fatta su base probabilistica. Ebbene, il piccolo sopravvisse per un certo periodo. Il caso fu scioccante, perché balzò all’onore della cronaca il fatto che di tanto in tanto nascevano vivi bambini abortiti oltre i tre mesi».
Perché in questo caso la legge fu violata?
«Perché l’articolo 7 della 194 stabilisce che non può essere abortito un feto che ha possibilità di vita autonoma. Molto sapientemente, la legge non fissa dei termini. Quando venne scritta, trent’anni fa, bambini di 23-24 settimane non potevano sopravvivere. Oggi questa possibilità esiste. Ormai i neonatologi concordano nell’affermare che a 22 settimane i neonati vanno rianimati. Il problema è che in alcuni ospedali italiani oggi si può abortire oltre le 22 settimane di gestazione, in altri no. Come vede, ci sono violazioni, regole diverse da regione a regione, da ospedale a ospedale. C’è necessità di linee guida generali, valide per tutti».
Ha parlato di articoli non applicati.
«Ho fatto l’esempio importante della prevenzione. Gliene faccio un altro. La pillola abortiva Ru 486 viene usata in sette regioni italiane senza che l’Aifa, l’ente italiano di vigilanza sui farmaci, l’abbia autorizzata. C’è da stabilire il protocollo per il suo utilizzo. Eppure viene utilizzata da singole aziende sanitarie senza autorizzazione, che copiano chi il protocollo americano, chi quello francese. L’Aifa, prima di autorizzare, studierà e approfondirà. Nel caso poi arrivasse l’autorizzazione, bisognerà rendere compatibile la somministrazione della pillola abortiva con la legge 194, e quindi l’intero processo dovrà svolgersi in ospedale. Solo così, come ha detto lo stesso Consiglio superiore di Sanità, la pillola abortiva e il metodo chirurgico avranno lo stesso grado di sicurezza».
Sintetizzi il tagliando in una battuta...
«Daremo pieno sviluppo e piena applicazione alla parte preventiva della legge rimasta inapplicata, e delle linee guida uguali per tutti».

Un milione di firme per «Un fisco a misura di famiglia»
Intervista a Paola Soave, vicepresidente del Forum delle Famiglie
Giovedì scorso, XV Giornata internazionale della famiglia, avete consegnato al presidente Napolitano le firme della petizione «Un fisco a misura di famiglia», che ha raccolto più di un milione di adesioni. Che bilancio si sente di fare?
Il bilancio è molto positivo per quanto riguarda la capacità di mobilitazione e comprensione dell'urgenza di questo problema da parte delle famiglie italiane. La raccolta di 1 milione e 71 mila firme significano una grande capacità di risposta. Vuol dire che il popolo del Family Day dall'anno scorso non si è disperso e incomincia a capire i diritti che ha e che deve giustamente esibire. Questo è stato il primo grande risultato. La prima cosa che vorremmo – e ne faremo subito richiesta anche a mezzo stampa – è un incontro con la Presidenza del Consiglio, dal momento che la delega alla Famiglia è stata affidata a Carlo Giovanardi, sottosegretario della Presidenza del Consiglio. In seguito chiederemo un incontro con il ministro dell'Economia Giulio Tremonti. È indispensabile l'incontro prima della stesura del Dpef, che avverrà a giugno, perchè nelle linee guida del Dpef è previsto il tema della fiscalità familiare.
Le agenzie hanno riportato questa sua dichiarazione: «Bene l'idea del quoziente familiare, ma partiamo dalle deduzioni». Vuole spiegare ai nostri lettori la differenza tra questi due istituti e perchè voi preferite uno piuttosto che l'altro?
Noi preferiamo il sistema delle deduzioni perché vuol dire dedurre dall'imponibile su cui si calcola l'imposta una cifra che di anno in anno si può concordare, e che riconosce il peso e la spesa di ogni familiare a carico. La deduzione può essere graduale e può rispettare le esigenze di bilancio. Noi a regime vorremmo arrivare in una legislatura a una deduzione di 7000-7500 euro a figlio, a partire da 3mila, 3500 ed è una cosa molto semplice. Ogni anno il governo stabilisce che per ogni figlio a carico si deduce dall'imponibile quella cifra. Il quoziente familiare invece è una cosa molto più complessa: occorre fare una somma dei redditi e non sempre è possibile, perchè ci sono dei redditi in nero, alcune famiglie sono monoreddito, e si divide la somma per i componenti della famiglia. I componenti della famiglia non hanno lo stesso peso nel conteggio. E per il nostro sistema fiscale è considerato contribuente il singolo, non il nucleo familiare. Di fatto il quoziente familiare funziona in Francia, dove da anni lo applicano, con risultati positivi.
Cosa ne pensa del sistema francese?
Il sistema francese è ottimo. Al convegno che si è svolto in occasione della Giornata internazionale della famiglia (L’alleanza per la famiglia in Europa: l’associazionismo protagonista) erano presenti anche i francesi, dal momento che si è parlato di politiche familiari in Europa. Il sistema fiscale francese funziona perfettamente, tanto che ci sono famiglie italiane con un genitore che lavora in Francia che finiscono per trasferirsi là. Viceversa, le famiglie francesi che si trasferiscono in Italia finiscono poi per ritornare in Francia, dove le famiglie numerose non vedono calare la qualità della vita in modo vertiginoso proprio perché sono sostenute in modo intelligente, mentre nel nostro Paese occorre, purtroppo, “valutare” bene prima di creare una famiglia.
Benedetto XVI, durante il ricevimento di oggi, ha parlato di «condizioni di preoccupante precarietà in cui vivono tante famiglie in italia» e ha posto l'accento su un significato ben preciso di famiglia.
Il concetto espresso dal Papa è fondamentale. Per noi è importante mettere in evidenza che quando si parla di famiglia intendiamo il nucleo familiare fondato sul matrimonio, come recita l'articolo 29 della Costituzione. Ciò non toglie che i figli nati nel matrimonio o fuori dal matrimonio hanno gli stessi costi e gli stessi diritti, quindi la deduzione viene calcolata per il genitore che ha a carico il figlio, indipendentemente dal fatto che sia sposato o meno.
La XV Giornata internazionale della famiglia – che come tale è stata istituita dall’Onu nel 1993 – non ha avuto molta eco. Come spiega questa disattenzione?
Questo succede da anni. In Italia il Family Day si è svolto il 12 maggio proprio perchè il 15 sarebbe stata la Giornata internazionale della famiglia. Il deficit di comunicazione si spiega col fatto che quel che riguarda la famiglia è una notizia volutamente censurata. Abbiamo consegnato oltre un milione di firme, erano presenti i media, ma pochi giornali ne hanno parlato. Esiste di fatto una censura sotterranea verso la famiglia, quando questo tema è propositivo di diritti e di modelli che non sono quelli considerati oggi vincenti dai media.
ilsussidiario.net 17/05/2008


India pacifica. Ma non con i cristiani
Al pari degli indici economici, crescono nel grande paese asiatico anche gli attacchi contro chiese e fedeli. Nel silenzio e nel disinteresse del mondo. Un reportage dallo Stato dell'Orissa, il più segnato dalle violenze
di Sandro Magister
ROMA, 19 maggio 2008 – Mentre gli occhi severi del mondo sono puntati sulla Cina, in India violazioni altrettanto gravi della libertà e dei diritti umani avvengono nel disinteresse generale. Con i cristiani come vittime.

L'epicentro delle violenze è l'Orissa, uno Stato che si affaccia sul Golfo del Bengala, a sud di Calcutta. Qui, da Natale a oggi, si sono contati 6 morti, 5 mila senza tetto, 70 chiese, 600 case, 6 conventi, 3 seminari distrutti.

"Una distesa di cenere, questo è ciò che rimane", ha esclamato il cardinale Telesphore Toppo, arcivescovo di Ranchi, dopo una visita nelle zone colpite dalle violenze anticristiane.

Ma anche da altri luoghi dell'India arrivano notizie allarmanti.

Nel Maharashtra, lo Stato con capitale Mumbai, nel mese di marzo due suore carmelitane che da tredici anni svolgono il loro ministero tra le tribù fuori casta sono state aggredite da estremisti indù . "Gridavano accusandole di operare conversioni", hanno raccontato alcuni testimoni.

Nel Madhya Pradesh, a Pasqua, il governo ha dovuto schierare le forze dell’ordine a difesa delle chiese: una misura presa dopo oltre cento aggressioni dal dicembre 2003, cioè da quando il BJP, il partito nazionalista indù, ha conquistato questo governo locale.

Negli stessi giorni, il parlamento di un altro Stato indiano, il Rajasthan, ha approvato una legge anti-conversione che infligge una pena di cinque anni di carcere e una multa di 50 mila rupie (circa 1250 dollari) a chi opera conversioni "tramite forza, coercizione o frode". Con il Rajasthan, sono ora sei gli Stati indiani dove è in vigore questo tipo di normativa, di fatto puntata contro i missionari cristiani.

Ma il peggio avviene nell'Orissa, lo Stato indiano con quasi metà dei suoi 36 milioni di abitanti fatta di tribali e dalit, cioè i gruppi sociali più svantaggiati dal rigido sistema delle caste. Nell'Orissa povertà, arretratezza e modernizzazione convivono e producono una miscela esplosiva.

Ed è su questo sfondo che si scatena la violenza anticristiana. Nel disinteresse di un Occidente tutto assorbito dal boom economico di questo gigante asiatico.

A rompere il silenzio sulla tragedia c'è il reportage riprodotto qui sotto, pubblicato sul numero di maggio 2008 del mensile "Mondo e Missione" del Pontificio Istituto Missioni Estere:
Orissa, i perseguitati di serie B
di Giorgio Bernardelli
"Nel villaggio il clima tra noi e gli indù era sempre stato buono. Li invitavamo alle nostre feste e noi partecipavamo alle loro. Ma adesso abbiamo tutti paura". Parla della sua Baminigam padre Santosh Kumar Singh, giovane prete dell’arcidiocesi di Chuttack e Bhubaneswar. Parla di un villaggio come tanti altri in questa zona dell’India Orientale. Un gruppo di case nella foresta che, all’improvviso, si trasforma nell’epicentro della più imponente ondata di violenze anti-cristiane degli ultimi anni.

È la storia di quanto avvenuto qui in Orissa a Natale. Con le scorribande dei fanatici indù dell’RSS che hanno lasciato dietro di sé sette morti e centinaia di case, chiese, scuole e dispensari bruciati nel distretto di Kandhamal. E in un clima di intimidazione che – a ormai diversi mesi di distanza – qui si tocca ancora con mano.

Ancora alla Domenica delle Palme, ad esempio, nel villaggio di Tyiangia, una folla istigata dai soliti noti si è radunata gridando slogan anti-cristiani. Le violenze sono state evitate solo perché il parroco ha deciso di annullare la processione.

Tutto è cominciato a Baminigam il 24 dicembre, vigilia di Natale. "Vuoi sapere come è andata davvero?", chiede subito padre Santosh. Ci tiene a raccontarlo. Perché di ricostruzioni dei fatti ne girano parecchie. E quella apparsa sui giornali indiani cita come scintilla l’aggressione contro lo swami Laxmananda Saraswati, un santone indù legato all’RSS che gira per l’Orissa per "riportare alle loro origini" i tribali convertitisi al cristianesimo.

"Non è così", ribatte padre Santosh. "Tutto è nato quando la mattina del 24 dicembre ci è stato revocato il permesso di celebrare in piazza il Natale. Sono arrivati i nostri negozianti e gli è stato detto che dovevano tornare a casa. Ci sarà stata anche tensione. Ma dalla foresta sono subito spuntati fuori duecento uomini armati di bastoni che hanno cominciato a distruggere e bruciare tutto".

Sono andate avanti quattro giorni queste violenze. Favorite da inspiegabili ritardi nell’intervento delle forze dell’ordine. Con i cristiani costretti a scappare nella foresta per sopravvivere, mentre le loro case continuavano a bruciare. Vi sono rimasti per giorni e notti, al freddo, nutrendosi di quello che trovavano. Finché, finalmente, le autorità locali hanno allestito delle tendopoli. E nel distretto di Kandhamal è tornata una calma carica di tensione e di grossi dubbi.

"Avevamo capito quello che stava per accadere", racconta mons. Raphael Cheenath, l’arcivescovo di Chuttack-Bhubaneswar, nel cui territorio si trova il distretto di Kandhamal. "Il 22 dicembre avevamo detto chiaramente alle autorità che per Natale temevamo di subire violenze. Loro ci avevano promesso protezione. Invece non hanno fatto proprio niente".

Incontro mons. Cheenath a Bhubaneswar, la capitale dell’Orissa. Il distretto di Kandhamal dista da qui cinque o sei ore di macchina nella foresta. Eppure in quei giorni la violenza è arrivata fino all’arcivescovado, con una bottiglia incendiaria lanciata contro l’ingresso. E non è un mistero per nessuno che le riunioni dell’RSS in cui si additano i cristiani come nemici avvengano anche in questa città di 800 mila abitanti. Ma, più dei conciliaboli segreti, sono le decisioni pubbliche a preoccupare l’arcivescovo. L’atteggiamento perlomeno ambiguo tenuto dal governo locale, guidato dal primo ministro Naveen Patnaik, alleato del BJP, il partito nazionalista indù.

"A febbraio – continua l’arcivescovo – proprio qui in Orissa c’è stato un attacco da parte dei guerriglieri maoisti. Hanno assaltato una caserma di polizia e ucciso alcuni agenti. Lo stato di emergenza è scattato immediatamente: nel giro di poche ore i militari sono arrivati in massa. A Natale, invece, – quando nel distretto di Kandhamal a subire le violenze erano i cristiani – ci sono voluti quattro giorni. Perché questa differenza di comportamento?".

Ma c’è anche il problema dell’assistenza alle vittime, ancora aperto. "Non permettono alle nostre organizzazioni di portare aiuti", denuncia mons. Cheenath. "Là c’è gente che ha perso tutto: hanno bruciato loro le case, sono rimasti con i vestiti che avevano addosso. Il governo ha promesso che provvederà, ma gli aiuti non arrivano. E la popolazione continua a soffrire".

Con le case, nel distretto di Kandhamal, è l’intero lavoro di trent’anni a essere andato distrutto: scuole, dispensari, centri di assistenza. Persino la casa dei Missionari della Carità, il ramo maschile dell’ordine di Madre Teresa di Calcutta – che ospita lebbrosi e malati di tubercolosi –, è stata attaccata. Tutto è stato lasciato per ore a bruciare, mentre i cristiani scappavano nella foresta. E adesso si fa lezione sotto le tende. "Misereor" – l’organizzazione di solidarietà internazionale della Chiesa tedesca – si è fatta avanti per aiutare a ricostruire. Ma il governo dell’Orissa non dà i permessi. Allo stesso arcivescovo per 42 giorni è stata negata la possibilità di recarsi a visitare le comunità colpite.

"Ufficialmente – commenta monsignor Cheenath – ci dicono che è per motivi di sicurezza. Ma la verità è che vogliono ostacolare la presenza delle organizzazioni cristiane. Gli estremisti indù ci accusano di operare conversioni attraverso gli aiuti. Ma è un’accusa falsa: lo hanno visto tutti qui in Orissa nel 1999, quando c’è stato un tremendo ciclone. Furono duemila i nostri volontari mobilitati. E aiutarono tutti, senza distinzioni". Per sbloccare questa situazione è dovuta intervenire l’8 aprile la corte suprema indiana, con una sentenza che ha dichiarato illegittimo il divieto.

Nel guardare questa grande città, così uguale a tante altre, si fa fatica a credere che sia un covo di fanatici. "Sappiamo che molti indù sono contrari alle violenze", conferma l'arcivescovo. "Privatamente ci hanno anche espresso solidarietà. Però hanno paura di esporsi. E così questa campagna d’odio condotta dai fanatici sta producendo risultati. Ci dipingono come i nemici, dicono apertamente che vogliono distruggerci".

"Ma secondo lei da dove nasce tutto questo odio contro i cristiani?", gli chiedo.

"Sono convinto – risponde l’arcivescovo – che dietro all’estremismo religioso vi sia una motivazione più nascosta, che è di ordine sociale. Il vero problema non sono le conversioni, ma l’opera di promozione che negli ultimi 140 anni in Orissa i cristiani hanno compiuto a favore dei tribali e dei dalit, gli ultimi nella scala delle caste. Prima erano come schiavi. Adesso – almeno una parte di loro – studiano nelle nostre scuole, mettono in piedi attività nei villaggi, rivendicano i propri diritti. E chi – anche nell’India del boom economico – vuole mantenere intatta la vecchia divisione in caste, ha paura che acquistino troppa forza. L’Orissa di oggi è un laboratorio. In gioco c’è il futuro dei milioni di dalit e tribali che vivono in tutto il paese".

L’Orissa è come il nuovo laboratorio dei fondamentalisti: lo ripetono in tanti nella comunità cristiana. Perché è vero che questo è uno degli Stati più poveri del subcontinente. Però anche qui a Bhubaneswar qualcosa si sta muovendo. Esci dall’arcivescovado e ti imbatti nel Big Bazar, il nuovissimo centro commerciale in stile americano. L’aeroporto – come tutti gli scali indiani – è in espansione. E in città crescono le torri dei centri direzionali.

"Sembra incredibile, ma quando abbiamo aperto, vent’anni fa, qui intorno c’era ancora la giungla", racconta padre E. A. Augustine, direttore dello Xavier Insitute of Management, uno dei vanti della città. Una facoltà di economia dalla storia interessante: è frutto di un accordo tra il governo dell’Orissa e la locale Provincia dei gesuiti.

Anche in uno Stato come l'Orissa in cui vige la legge anti-conversione, dunque, non c’è alcuna difficiltà a intitolare a San Francesco Saverioun ente di diritto pubblico. Perché in India Xavier School è ovunque sinonimo di qualità. "Tutti vogliono le nostre strutture – continua padre Augustine –, ne riconoscono la qualità. A parte pochi fanatici, ci rispettano. Però noi non vogliamo essere un centro d’élite. Ad esempio, organizziamo anche corsi di management rurale, pensati specificamente per lo sviluppo dei villaggi".

E poi – sempre qui a Bhubaneswar – c’è l’altro volto della presenza dei gesuiti. Quello dello Human Life Center, con i suoi corsi popolari di inglese parlato per aiutare chi è emigrato in città dalle aree rurali. O i corsi di sartoria, di dattilografia, di informatica, per dare un’opportunità a chi non ne avrebbe altre. E poi le sette scuole aperte direttamente negli slum di Bhubaneswar. Perché il cambiamento deve arrivare anche lì.

L’impressione è che alla fine il vero problema stia proprio qui. La violenza in Orissa non è semplicemente l’eredità di un passato che l’India fa fatica a lasciarsi alle spalle. Lo scontro riguarda il presente e soprattutto il futuro del Paese. Riguarda una situazione sociale in cui quanti per secoli sono rimasti ai margini cominciano ad alzare la testa. E allora chi – al contrario – vuole mantenere lo status quo gioca la carta dell’identità minacciata.

C’è un importante appuntamento elettorale in vista: nel maggio del 2009 in India ci saranno le elezioni generali. Il BJP – il partito nazionalista indù, sconfitto nel 2004 dall’alleanza tra il Partito del Congresso e la sinistra – mira alla rivincita. E – come hanno dimostrato nel 2002 le violenze contro i musulmani in Gujarat – soffiare sulle tensioni tra gruppi religiosi è il modo più efficace per rafforzare le fila. "Non è un caso – sostiene padre Jimmy Dhabby, direttore a New Delhi dell’Indian Social Institute – che queste violenze contro i cristiani siano scoppiate poche settimane dopo la riconferma alla guida del Gujarat di Narendra Modi, uno degli esponenti di punta del BJP. E che siano avvenute proprio in Orissa, uno Stato dove nel 2009 si voterà anche per il governo locale".

È un gioco che – nonostante i fatti di Natale – a Bhubaneswar va avanti. Basta aprire l’edizione locale del quotidiano "The Indian Express" in un giorno qualunque per trovare dichiarazioni come questa, del leader del RSS K. S. Sudar-shan: "Sono molte le minacce che incombono sulla nazione: la violenza dei maoisti, la jihad islamica, le conversioni dei missionari cristiani. Dobbiamo unirci per reagire. Non aspettate che altri lo facciano per voi".

La stessa inchiesta promossa dal governo dell’Orissa per fare luce su quanto accaduto a Natale, sta procedendo con metodi alquanto discutibili. "Dopo mesi in cui non si era saputo più nulla – ha denunciato sul suo blog John Dayal, segretario generale dell’All India Christian Council – il giudice incaricato è arrivato senza preavviso nel distretto di Kandhamal. Ha interrogato le suore e i preti. Che sono rimasti a bocca aperta sentendosi domandare: Avete convertito qualcuno qui?". Come se l’oggetto dell’inchiesta fosse l’operato dei cristiani, non le violenze commesse dai fanatici indù.

Altro capitolo preoccupante è quello dei risarcimenti. "Finora non sono state ancora date indicazioni ufficiali – continua Dayal –, ma sui giornali abbiamo letto che mentre scuole, ostelli e dispensari potranno ricevere un contributo di 200 mila rupie (circa 5 mila dollari), le chiese e i conventi saranno esclusi da ogni risarcimento. Se ciò fosse sarebbe non solo sorprendente ma offensivo. Il principale obiettivo degli attacchi sono state proprio le chiese e i conventi. Escluderli non ha alcun senso".

Questa è l'aria che si respira oggi in Orissa. "Sotto la cenere cova una situazione esplosiva", denuncia Hemanl Naik, dell’Orissa Dalit Adivasi Action Net. "Da tempo i nazionalisti indù fanno campagne per 'riconvertire' i tribali cristiani. Non sono queste delle violazioni delle leggi anti-conversione? Perché non le applicano?".

Dopo tante persone uccise, dopo tante case e chiese cristiane bruciate una domanda si impone. Dove sta la differenza rispetto alle violenze islamiche in altre regioni, alle quali – giustamente – è riservato così tanto spazio sui media? E perché nessuno in Occidente alza la voce su ciò che accade nell'Orissa? A Pasqua la protesta dei cristiani davanti al parlamento a New Delhi non ha fatto notizia sui nostri giornali.

La risposta dell'arcivescovo Cheenath è amara: "L’India di oggi è un mercato che fa gola a tutti – spiega –. Ci sono grandi interessi economici, tutti vogliono avere buone relazioni con noi. In una situazione del genere ciò che accade alle minoranze non interessa a nessuno".

È un grido di dolore scomodo, quello che sale oggi dai cristiani dell’Orissa.


Quanto conta l'ambiente per lo sviluppo dell'embrione?
Int. a Carlo Bellieni19/05/2008
Autore(i): Int. a Carlo Bellieni. Pubblicato il 19/05/2008 – IlSussidiario.net

C’è un’idea diffusa nella popolazione, un’idea meccanicistica della vita, della biologia, secondo cui una volta smontata quella “macchina” che è l’essere umano, o l’essere vivente, se ne capiscono tutti quanti i segreti: basta “sventrare” una cellula, prenderne il dna e analizzarlo insieme a tutti gli altri “pezzetti”. Questo permetterebbe di capire non soltanto i segreti di quella cellula, ma di tutto l’organismo e della vita in generale.
Questa è una visione ormai presente in tutte le scuole e in tutti i libri di testo. Ma ciò non vuol dire che sia corretta, anzi, non è per niente adeguata a quella che è l’esperienza della ricerca scientifica attuale. Ci sono diversi motivi per poterlo affermare, ma quelli principali sono due.
Il primo è psicologico-esistenziale e si potrebbe spiegare con un esempio. Quando si monta un orologio, non si può avere l’idea dell’oggetto che verrà fuori guardando solamente i piccoli “pezzetti” che si hanno davanti: i bulloni, le molle, le lancette e un po’ di numeri. Occorre avere presente a cosa servono quei “pezzetti” rispetto all’intero oggetto e alla sua finalità. Non è perciò smontando una cosa che se ne capisce l’uso e la finalità.
Il secondo motivo è biologico. Il dna, come sappiamo bene, non ha altro che una funzione di trasporto di informazioni, di cui la cellula ne userà solo alcune. In base a che cosa le userà o non le userà? In gran parte in base all’impatto dell’ambiente circostante, cioè delle cellule che ha vicino, e all’inquinamento, cioè alle sostanze con cui si trova a contatto.
Questi, in sintesi, sono i problemi nell’approccio dello studio della genetica moderna. Abbiamo chiesto al professor Carlo Bellieni di spiegarci, in modo accessibile anche ai non esperti, cos’è e perché questo tema è così importante da aver dato vita addirittura a una nuova branca della genetica, che si chiama epigenetica, e che studia appunto gli effetti sull’organismo delle interazioni dell’ambiente sul dna. E questo ha molta importanza anche nello sviluppo del bambino. Il professor Bellieni, pediatra, interviene sull’argomento.
Professor Bellieni, perché è così importante il tema dell’epigenetica?
Ci terrei prima a precisare meglio la questione. Di norma si pensa che dentro ogni cellula c’è un lungo filamento di dna, e questo è vero. Questo lungo filamento di dna ha una serie infinita di piccoli pezzettini che si chiamano geni, che a loro volta sono fatti di piccoli pezzettini che si chiamano basi. Queste basi, questi geni, sono uguali in tutte le cellule del corpo. E allora ci si domanda: perché se il dna è uguale in tutte le cellule del corpo, le cellule sono diverse?
Negli anni si è cercato di rispondere a questa domanda. Ora si sa che dal momento dell’inizio della vita dell’essere vivente, cioè dal momento della fecondazione, il contatto con l’ambiente circostante, che nell’essere umano è la tuba uterina, le cellule comunicano tra loro: la parete della tuba uterina dà dei messaggi alle cellule dell’embrione, l’embrione manda dei messaggi alla tuba uterina, le cellule dell’embrione tra loro comunicano. È un continuo scambio di messaggi che porteranno le cellule a differenziarsi. Man mano che l’embrione cresce, diventerà sempre più grande e man mano che diventa più grande iniziano a svilupparsi le prime cellule della pelle, del sistema nervoso, del sangue, ecc., tutte cellule con lo stesso patrimonio genetico ma con diverse caratteristiche. Queste gli vengono attribuite da messaggi arrivati dall’esterno. Ma come funzionano questi messaggi? Ogni messaggio fa stare zitti, “silenzia” si dice, alcuni geni.
Quindi in ogni cellula c’è lo stesso patrimonio di dna, però cambiano i geni che stanno “zitti”. Questi geni che stanno “zitti” in maniera diversa danno cellule diverse. Quindi è importantissimo questo contatto e questo scambio di messaggi. È importante perché fa capire che l’ambiente influenza il dna. Quindi non è vero che una volta che noi abbiamo letto il dna abbiamo capito con che cellula abbiamo a che fare. Abbiamo capito solo qual è la struttura portante. Come se noi di un orologio sapessimo distinguere solo le lancette e nient’altro.
Ora qual è il messaggio importante? Se è vero, come è vero, che il dna parla anche a seconda dei messaggi che gli arrivano dall’ambiente, ciò ha degli influssi importanti su tre questioni.
La prima riguarda la fecondazione in vitro, perché l’ambiente nel quale avviene la fecondazione in vitro non è assolutamente indifferente. Se una fecondazione avviene all’interno dell’utero materno ci saranno dei messaggi che arriveranno all’embrione diversi rispetto a quelli che arriveranno durante una fecondazione in un ambiente esterno, fatto in una provetta sottoposta alla luce, con iniezioni o sostanze che vengono date in maniera artificiale. Questo oltretutto spiega perché in bambini nati da fecondazione in vitro certe patologie sono più frequenti che nella popolazione generale.
Può fare qualche esempio?
Ci sono malattie genetiche importanti che si è visto che sembrano essere più frequenti nei casi di fecondazione in vitro, per esempio la malattia di Angelman. Inoltre è maggiore la possibilità che vi siano delle malformazioni, dei danni celebrali, delle nascite premature o con peso inferiore alla media.
E questo è dovuto al mancato “dialogo” di cui parlava prima...
Non solo. Talvolta c’è anche il fatto di far agire delle cellule, cioè spermatozoi o ovuli, che di per sé non potevano funzionare, e forse non funzionavano proprio perché era la natura che dava una barriera protettiva per non farle funzionare. Facendole funzionare è stata evitata la selezione naturale che le bloccava. Inoltre, spesso c’è un problema di età materna avanzata: nella fecondazione in vitro spesso è questo un altro fattore di rischio per la salute del bambino. Infine, spesso vengono impiantati troppi embrioni. In Italia fortunatamente c’è una legge che lo vieta, ma all’estero si possono impiantare anche quattro o cinque embrioni.
Parla della famosa legge 40?
Esattamente: la legge 40 che vieta questo eccesso di impianti.
Per tornare a quello che stavo dicendo, alle conseguenze che ha il riconoscere che il dna “dialoga” con l’ambiente esterno, abbiamo visto che la prima riguarda la fecondazione in vitro.
La seconda riguarda l’evoluzione della vita, perché si è visto recentemente che queste alterazioni, questi “silenziamenti” che vengono dati al dna dall’ambiente, invece di sparire al momento in cui si formano nella persona i nuovi gameti, cioè l’ovulo e lo spermatozoo, restano impressi e diventano talvolta ereditari. Questo significa che il meccanismo dell’ereditarietà dei caratteri non è più solo legato alla selezione naturale casuale, come voleva Darwin, ma anche all’interazione con l’ambiente.
Già tutta la teoria dell’evoluzionismo casuale zoppica per tanti motivi. Nelle scuole si insegna che noi deriviamo per una casualità dalle scimmie, che la giraffa ha allungato il collo perché a un certo punto non c’erano più le pianticelle basse e sono sopravissuti solo gli animali col collo lungo, e che in fondo c’è intrinseco nella natura un criterio di sopravvivenza del più adatto o del più forte, che poi ha anche dei risvolti sociali nel maltusianesimo e via dicendo. Questa teoria comincia però a scricchiolare anche sotto i colpi di queste nuove conoscenze, perché sapere che anche l’ambiente può dare dei messaggi al dna e che questi possono essere ereditari, dà la chiara impressione che l’evoluzione non avviene soltanto perché casualmente avviene una mutazione del dna e tra le diecimila mutazioni possibili sopravvive casualmente quella che si integra meglio con l’ambiente, ma che è invece l’ambiente stesso a indurre l’alterazione all’espressione del dna e non ai suoi geni.
Questo è interessante anche perché vari ecologisti ormai stanno spiegando che su questa base si incomincia a intravedere che questo scambio di informazioni tra ambiente e dna ha quasi una valenza finalistica. Non arrivano a parlare di creazione, ma arrivano a capire però che le cose si dirigono comunque verso un progresso, verso un qualche scopo che non riescono a identificare. Parlo di ecologisti importantissimi, il premio nobel Prigogine per esempio, oppure Enzo Tiezzi, che ha recentemente preso il premio nobel col gruppo di Al Gore. Costoro arrivano a dire che la vita si è evoluta sulla terra non in una forma casuale, ma in una forma stocastica, cioè in una forma in cui tanti cambiamenti casuali “inspiegabilmente” tendono verso un obiettivo ideale.
E l’ambiente, l’interazione tra dna e ambiente avrebbe proprio questa valenza: quella di comunicare reciprocamente verso un progresso reale, verso una finalità reale dell’evoluzione della vita.
Infine, la terza conseguenza ha a che fare con la clonazione e gli embrioni chimera, cioè creati usando parte del patrimonio genetico umano e parte del patrimonio genetico animale, e talvolta vegetale, perché si pensa che una volta cresciuti possano essere usati come donatori di organi. Anche in questo caso, l’alterazione del contatto con l’ambiente circostante può portare a delle alterazioni, che noi ancora non conosciamo, che potrebbero essere anche pericolose per la salute. Potrebbe capitare perciò di creare delle cellule che possono essere dannose.
Per quanto riguarda la clonazione, si è visto molto bene che il fatto che possano nascerne degli individui sani è un’eccezione. Gli studi dimostrano che alcuni geni, infatti, si esprimono in modo diverso se provengono dal padre o dalla madre, e la clonazione elimina questa “genitorialità” genetica.
Lo stesso gene che fornisce, per esempio, il fattore di crescita si manifesterà nel bambino in maniera diversa, se arriva dal padre oppure dalla madre, perché il gene stesso ha avuto dal contatto con l’ambiente paterno o materno dei cambiamenti: questo si chiama “imprinting genomico”. Questo è importantissimo per lo sviluppo dell’embrione, tanto che alcuni geni devono assolutamente essere di provenienza maschile o femminile. Volendo fare un essere vivente soltanto con una cellula femminile o soltanto con una cellula maschile non si riesce per lo più ad avere un essere vivente nei termini sperati. Quindi si rischia di perdere tempo e risorse. Ci sono tante ricerche all’avanguardia che vengono fatte e che dopo anni non hanno portato risultati, come quelle sulle cellule staminali embrionali, che sottraggono fondi a quelle che servono, cioè a quelle sulle cellule staminali adulte, che si è visto funzionare.
Ecco queste sono le tre tematiche importanti che vengono da quest’osservazione iniziale: cioè che guardando il dna non si è capito né la vita, né a che cosa serva il dna stesso. Il dna si comincia a capire in movimento, cioè quando si vede come interagisce, come l’ambiente lo modifica, come l’ambiente gli dice di stare “zitto” in certe parti: questo lo trasforma in cellula di un tipo, piuttosto che di un altro. Ma se la cellula viene alterata da un ambiente che non è quello “tradizionale”, possono scaturire effetti di cui sinceramente la comunità scientifica si sta molto preoccupando: si stanno pubblicando moltissime cose sui rischi che si corrono.
Perché questa è una questione fondamentale? Perché anche un non addetto ai lavori dovrebbe interessarsi all’epigenetica?
L’epigenetica è semplicemente la modalità con cui l’ambiente agisce sull’espressione dei geni. E l’importanza che questa cosa ha è relativa alle tre tematiche di cui ho parlato e che sono molto attuali. Soprattutto fa capire che bisogna agire nella prima e nell’ultima (fecondazione in vitro e clonazione) con grande precauzione.
Non volendo bloccare la ricerca, bisogna che questa venga fatta con molta attenzione, senza mettere a rischio la salute della donne e dei bambini che sono così concepiti. E la questione dell’evoluzione è l’altro punto importante perché fa capire che non bisogna “bere” tutto quello che c’è scritto sui libri. Bisogna stare attenti, perché sui libri vengono semplificate le cose, talvolta in maniera eccessiva. Bisogna che la gente capisca che non è tutto vero quello che viene “passato” in questo modo: nella scienza esistono le teorie, che saranno pur più o meno accreditate, ma rimangono sempre teorie e quindi discutibili alla luce di nuovi fatti.


Così riportiamo i bambini soldato a una vita normale
Redazione19/05/2008
Autore(i): Redazione. Pubblicato il 19/05/2008 – IlSussidiario.net

Il Guardian ha recentemente lanciato l’allarme sui bambini soldato in Congo. Lei che lavora da anni nel recupero dei bambini soldato in Africa, ci può descrivere questa situazione?
La problematica relativa ai bambini soldato non è una “novità”, ma è già emersa negli ultimi 30 anni, da quando le guerre nel Terzo mondo sono diventate conflitti tra tribu, tra popoli, che usano la popolazione civile per combattere, cioè guerre non più militari.
Questo fenomeno è quindi legato da una parte al fatto che si attaccano le popolazioni civili, dall’altro che le popolazioni stesse vengono utilizzate nella guerra. I bambini vengono perciò rapiti o arruolati, a seconda dei paesi (che hanno metodi diversi per utilizzarli), per essere usati in eserciti di ribelli. Vengono scelti perché si tratta ancora di esseri umani in età di sviluppo e quindi molto più facili da manipolare, insegnando loro che per vivere è necessario uccidere e combattere.
Perché vengono scelti proprio i bambini?
Perché, come accennavo, sono in una fase della vita in cui imparano i valori e il perché della loro vita. Per farlo seguono gli adulti e quelli che hanno di fronte gli insegnano che armarsi e uccidere non è una cosa grave, anzi è necessaria per vivere meglio. Quanto più un gruppo è più “potente”, tanto più rapisce bambini più piccoli. Spesso vengono “scelti” quando hanno dai 6 agli 8 anni per cominciare a istruirli, per poi utilizzarli quando raggiungono i 12 anni. In genere i più piccoli vengono utilizzati per semplici lavori di pulizia o nelle cucine degli accampamenti, dove però cominciano già a vedere gli adulti intorno a loro che obbediscono “ciecamente” al capo e che uccidono come se fosse una cosa normalissima della vita.
Voi vi occupate del recupero di questi bambini. Com’è possibile riabilitarli verso sé stessi e gli altri che hanno intorno? Vi è mai capito di pensare che non fossero altro che “assassini irrecuperabili”?
Innanzitutto bisogna dire che non è possibile fare un discorso generalizzato. Io posso parlare dell’esperienza di cui mi occupo nel Nord Uganda, dove i bambini sono stati tutti rapiti e non arruolati e quindi obbligati a questo tipo di vita. In altre zone, come nella Sierra Leone, i bambini vengono spesso drogati, e il loro recupero diventa quindi ancor più difficile.
Nel nostro caso il recupero è sempre stato possibile perché l’essere umano da una parte ha un’educazione, dall’altra ha un cuore e un’esigenza all’interno di sé che nessuno può cancellare, ed è su questa che noi lavoriamo. Per cui un bambino che è stato molto tempo (anche 5 anni) con i ribelli ha sempre quel bisogno originale di essere amato, che per noi costituisce il punto di partenza.
Inoltre, essendo stati rapiti da piccoli, quando ritornano vengono riaccolti amorevolmente dalle famiglie di origine, che sanno che le azioni da loro compiute sono state “obbligate”, contro la loro libertà e volontà.
Sempre questo bisogno, questa esigenza originale dell’uomo, rende possibile il “senso di colpa”, perché la loro libertà, seppur costretta, è stata messa in gioco, per cui si rendono conto di quello che hanno fatto. Il lavoro che viene fatto con loro non riguarda però la gravità delle azioni commesse, perché queste dipendono dalla circostanza in cui si sono trovati. Il lavoro viene fatto sul “dopo”, sul fatto che si è ritornati in un luogo dove qualcuno ti rivuole, ed è questo il punto vincente.
Che significato ha nel suo lavoro il termine “perdono”?
È un termine fondamentale. Io avuto la grazia di lavorare con la popolazione acioli dove già esistevano dei riti di perdono, anche per i semplici litigi tra famiglie. Per esempio, gli anziani si ritrovavano intorno al fuoco, discutevano della questione, risolvendola anche attraverso un risarcimento “economico” (una mucca piuttosto che un’altra cosa). Questo bastava per “perdonare” e ricominciare un rapporto normale.
Tutto questo è stato molto utile anche per il lavoro con i ragazzi, perché una volta avuto il rito di accoglienza, di ritorno e di perdono, potevano ricominciare una nuova vita.
Il perdono, questo sguardo nei loro confronti, è fondamentale per far sì che non resti solo la colpa. Laddove non c’è, va ricordato e riportato, e questo è una parte del lavoro che facciamo.
Ci può parlare di una storia positiva di recupero che l’ha colpita e, al contrario, di qualcuno che non ce l’ha fatta a reinserirsi?
Uno dei ricordi più belli è quello di un ragazzo di 18 anni, che era stato rapito quando ne aveva 10, e che quindi aveva passato un lunghissimo periodo con i ribelli. Lui è ritornato il giorno in cui ha visto arrivare nel suo campo i suoi due fratellini più piccoli che erano stati rapiti: in quel momento è come se in lui si fosse risvegliato quel cuore di cui parlavo prima, la coscienza che quel che stava facendo era sbagliato. Riuscì a scappare durante un attacco, molti dei ragazzi che riescono a fuggire lo fanno in queste circostanze e arrivato, poi al nostro centro dapprincipio ebbe una vita piuttosto difficile perché dopo otto anni insieme ai ribelli, di cui era diventato uno dei “capetti”, ad ogni minimo litigio la tentazione che aveva era quella di eliminare la persona con cui stava litigando perché è la modalità che lui aveva imparato per risolvere i problemi fra le persone.
Il suo recupero è stato quindi più lungo che per altri, ma il bello fu che guardando i suoi fratellini che erano li con lui e avendo presente giorno per giorno che doveva imparare un’altra modalità di vita che gli permettesse di stare con la sua famiglia è riuscito a uscire da questo tunnel e, dopo aver fatto le scuole professionali, ha aperto un piccolo negozietto di meccanico e si è reinserito molto bene. E’ una delle storie più belle che ricordo.
Purtroppo però esistono anche delle situazioni che non si risolvono felicemente e queste sono legate moltissimo al fatto che non tutti riaccolgono i ragazzi che ritornano. Ho in mente un ragazzino che ha scelto in un certo senso di ritornare a vivere calato in una situazione di violenza, arruolandosi nell’esercito regolare. I suoi genitori erano morti e i ragazzi del villaggio in cui era tornato a scuola continuavano a prenderlo in giro chiamandolo “ribelle” e lui non ce l’ha fatta a sopportare questo clima. Forse avremmo dovuto cercare di tenerlo ancora con noi ancora per qualche tempo o avviarlo subito al lavoro, piuttosto che cercare un reinserimento scolastico, ci sembrava per lui la cosa migliore e non sempre purtroppo si immagina che cosa può davvero essere un bene per una persona.
Cosa vi differenzia a livello di metodo educativo dalle altre realtà di cooperazione che operano sul territorio?
Ritengo che la nostra particolarità, che credo ci abbia anche permesso di crescere e di essere valorizzati sul territorio, sia il fatto di ritenere che nei ragazzi, nelle loro comunità, in fondo ci sia una positività da cui partire. E partire proprio da li. Noi non facciamo terapie individuali, lavoriamo moltissimo sulle risorse che la persona, il villaggio e la comunità possono avere e quando sbagliamo è perché perdiamo questa posizione e ci mettiamo in quella di chi può dire “risolvo io il problema della tua vita”, mentre partire dall’altro è vincente nel tempo ed è una caratteristica peculiare di Avsi: partire da un positivo che c’è, crederci, cercarlo e partire da lì. È un errore pensare che il positivo lo portiamo noi dall’esterno.
In Italia recentemente abbiamo assistito a diversi efferati delitti commessi da minori, da ragazzi, cito l’esempio di Verona e di Caltanissetta, che a differenza di quanto accade ai bambini soldato non hanno agito così perché costretti. Come giudica questi fatti?
Io credo che in fondo la radice di questi gesti possa essere la stessa. Chi ha agito così non sa che la vita ha un valore, né la propria né di conseguenza quella degli altri. Non gli è stato insegnato. È vero che hanno commesso questi delitti volontariamente, ma lo hanno fatto in un certo senso “imitando” una società che non gli ha insegnato che la loro vita ha un valore e che quindi non può essere buttata via per dei motivi insignificanti. Credo che una parte importante di responsabilità in questi gesti pur deliberati e di cui dovranno sopportare le conseguenze, sia in questa mancanza di testimonianza da parte di noi adulti che la vita ha un valore: evidentemente non è quello che gli stiamo mostrando.
Ora questi ragazzi affronteranno i tribunali, sconteranno delle pene e andranno incontro a processi riabilitativi. Lei da dove ripartirebbe con loro, cosa gli direbbe?
Gli direi che a prescindere da quello che hanno fatto sono importanti, che la vita vale, che anche la loro vita adesso vale. Bisogna ripartire dal fatto che la vita è importante e degna di essere vissuta sempre e non ripartire dall’atto che hanno commesso. Certo sono colpevoli ed è giusto che vadano incontro alle conseguenze delle loro azioni, ma non sono definiti da quello che hanno fatto. Io credo che si debba distinguere sempre le azioni dalle persone e lavorare sulle persone e sui loro desideri, non sugli atti che hanno compiuto.
Un conto è il rispetto dell’altro e della vita dell’altro e un altro è il giudizio sull’azione sbagliata che viene commessa e noi spesso questi due piani li confondiamo. In una società è giusto che ci siano meccanismi che facciano capire che un’azione è sbagliata, ma non posso in ogni caso perdere una posizione umana che riaffermi sempre e comunque che la vita di tutti ha un valore. Il male è dentro tutti noi e un giorno potrebbe capitare a chiunque di commetterlo, specialmente a un ragazzino che magari ne rimane affascinato, ma la sua vita non perde valore e si può ripartire solo dal riconoscimento di questo valore. In sé e negli altri.