Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI, appello per la pace in Libano
2) Omelia di Benedetto XVI nella Solennità di Pentecoste
3) Educazione e laicità? - Il Cardinale Scola per i 150 anni del Collegio Canova Istituto Cavanis
4) "La famiglia educa oggi? La missione della famiglia nella realtà attuale, riflessioni ed orientamenti."
5) Discorso del Papa ai partecipanti al Congresso per l'Humanae vitae
6) Limite per l'aborto a 22 settimane. Bocciato Formigoni
7) Beirut: lavoriamo per costruire un clima di fiducia, nonostante tutto
11/05/2008 13:18 – Asia News
VATICANO – LIBANO
Benedetto XVI, appello per la pace in Libano
Città del Vaticano (AsiaNews) – Un forte appello per la pacificazione del Libano è stato lanciato oggi da Benedetto XVI alla fine della preghiera del Regina Caeli. Il pontefice ha esortato tutti i libanesi “ad abbandonare ogni logica di contrapposizione aggressiva, che porterebbe il loro caro Paese verso l'irreparabile”. Nei giorni scorsi le milizie sciite di Hezbollah hanno occupato le strade Beirut ovest in risposta al tentativo del governo di Fouad Sinora di piegare la loro forza militare, parallela all’esercito.
Il pontefice ha detto di aver seguito “con profonda preoccupazione, nei giorni scorsi, la situazione in Libano, dove, allo stallo dell'iniziativa politica, hanno fatto seguito, dapprima, la violenza verbale e poi gli scontri armati, con numerosi morti e feriti”. La situazione a Beirut ora è più calma, anche se si registrano scontri e tensioni a Tripoli nel nord del Paese.
“Il dialogo, la mutua comprensione e la ricerca del ragionevole compromesso – ha continuato il papa - sono l’unica via che può restituire al Libano le sue istituzioni e alla popolazione la sicurezza necessaria per una vita quotidiana dignitosa e ricca di speranza nel domani”.
Benedetto XVI ha concluso con un’invocazione perché il Libano risponda “con coraggio alla sua vocazione di essere, per il Medio Oriente e per il mondo intero, segno della reale possibilità di pacifica e costruttiva convivenza tra gli uomini”. In Libano convivono da secoli 17 comunità religiose cristiane e musulmane. “Le diverse comunità che lo compongono – ha ricordato il papa citando l’Esortazione post-sinodale Una nuova speranza per il Libano (cfr n. 1) – sono al tempo stesso ‘una ricchezza, un’originalità ed una difficoltà. Ma far vivere il Libano è un compito comune di tutti i suoi abitanti’. Con Maria, Vergine in preghiera a Pentecoste, chiediamo all’Onnipotente un’abbondante effusione dello Spirito Santo, lo Spirito dell’unità e della concordia, che a tutti ispiri pensieri di pace e di riconciliazione”.
Omelia di Benedetto XVI nella Solennità di Pentecoste
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 11 maggio 2008 (ZENIT.org).- Riportiamo il testo dell'omelia pronunciata da Benedetto XVI questa domenica, Solennità di Pentecoste, presiedendo la celebrazione eucaristica nella Basilica di San Pietro in Vaticano.
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Cari fratelli e sorelle,
il racconto dell'evento di Pentecoste, che abbiamo ascoltato nella prima Lettura, san Luca lo pone al secondo capitolo degli Atti degli Apostoli. Il capitolo è introdotto dall'espressione: "Mentre il giorno di Pentecoste stava per finire, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo" (At 2,1). Sono parole che fanno riferimento al quadro precedente, nel quale Luca ha descritto la piccola compagnia dei discepoli, che si radunava assiduamente a Gerusalemme dopo l'Ascensione al cielo di Gesù (cfr At 1,12-14). E' una descrizione ricca di dettagli: il luogo "dove abitavano" - il Cenacolo - è un ambiente "al piano superiore"; gli undici Apostoli vengono elencati per nome, e i primi tre sono Pietro, Giovanni e Giacomo, le "colonne" della comunità; insieme con loro vengono menzionate "alcune donne", "Maria, la madre di Gesù" e i "fratelli di lui", ormai integrati in questa nuova famiglia, basata non più su vincoli di sangue ma sulla fede in Cristo.
A questo "nuovo Israele" allude chiaramente il numero totale delle persone che era di "circa centoventi", multiplo del "dodici" del Collegio apostolico. Il gruppo costituisce un'autentica "qāhāl", un'"assemblea" secondo il modello della prima Alleanza, la comunità convocata per ascoltare la voce del Signore e camminare nelle sue vie. Il Libro degli Atti sottolinea che "tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera" (1,14). E' dunque la preghiera la principale attività della Chiesa nascente, mediante la quale essa riceve la sua unità dal Signore e si lascia guidare dalla sua volontà, come dimostra anche la scelta di gettare la sorte per eleggere colui che prenderà il posto di Giuda (cfr At 2,25).
Questa comunità si trovava riunita nella stessa sede, il Cenacolo, al mattino della festa ebraica di Pentecoste, festa dell'Alleanza, in cui si faceva memoria dell'evento del Sinai, quando Dio, mediante Mosè, aveva proposto ad Israele di diventare sua proprietà tra tutti i popoli, per essere segno della sua santità (cfr Es 19). Secondo il Libro dell'Esodo, quell'antico patto fu accompagnato da una terrificante manifestazione di potenza da parte del Signore: "Il monte Sinai - vi si legge - era tutto fumante, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco e il suo fumo saliva come il fumo di una fornace: tutto il monte tremava molto" (Es 19,18). Gli elementi del vento e del fuoco li ritroviamo nella Pentecoste del Nuovo Testamento, ma senza risonanze di paura. In particolare, il fuoco prende forma di lingue che si posano su ciascuno dei discepoli, i quali "furono tutti pieni di Spirito Santo" e per effetto di tale effusione "cominciarono a parlare in altre lingue" (At 2,4). Si tratta di un vero e proprio "battesimo" di fuoco della comunità, una sorta di nuova creazione. A Pentecoste la Chiesa viene costituita non da una volontà umana, ma dalla forza dello Spirito di Dio. E subito appare come questo Spirito dia vita ad una comunità che è al tempo stesso una e universale, superando così la maledizione di Babele (cfr Gn 11,7-9). Solo infatti lo Spirito Santo, che crea unità nell'amore e nella reciproca accettazione delle diversità, può liberare l'umanità dalla costante tentazione di una volontà di potenza terrena che vuole tutto dominare e uniformare.
"Societas Spiritus", società dello Spirito: così sant'Agostino chiama la Chiesa in un suo sermone (71, 19, 32: PL 38, 462). Ma già prima di lui sant'Ireneo aveva formulato una verità che mi piace qui ricordare: "Dov'è la Chiesa, là c'è lo Spirito di Dio, e dov'è lo Spirito di Dio, là c'è la Chiesa ed ogni grazia, e lo Spirito è la verità; allontanarsi dalla Chiesa è rifiutare lo Spirito" e perciò "escludersi dalla vita" (Adv. Haer. III, 24, 1). A partire dall'evento di Pentecoste si manifesta pienamente questo connubio tra lo Spirito di Cristo e il mistico Corpo di Lui, cioè la Chiesa. Vorrei soffermarmi su un aspetto peculiare dell'azione dello Spirito Santo, vale a dire sull'intreccio tra molteplicità e unità. Di questo parla la seconda Lettura, trattando dell'armonia dei diversi carismi nella comunione del medesimo Spirito. Ma già nel racconto degli Atti che abbiamo ascoltato, questo intreccio si rivela con straordinaria evidenza. Nell'evento di Pentecoste si rende chiaro che alla Chiesa appartengono molteplici lingue e culture diverse; nella fede esse possono comprendersi e fecondarsi a vicenda. San Luca vuole chiaramente trasmettere un'idea fondamentale, che cioè all'atto stesso della sua nascita la Chiesa è già "cattolica", universale. Essa parla fin dall'inizio tutte le lingue, perché il Vangelo che le è affidato è destinato a tutti i popoli, secondo la volontà e il mandato di Cristo risorto (cfr Mt 28,19). La Chiesa che nasce a Pentecoste non è anzitutto una Comunità particolare - la Chiesa di Gerusalemme - ma la Chiesa universale, che parla le lingue di tutti i popoli. Da essa nasceranno poi altre Comunità in ogni parte del mondo, Chiese particolari che sono tutte e sempre attuazioni della sola ed unica Chiesa di Cristo. La Chiesa cattolica non è pertanto una federazione di Chiese, ma un'unica realtà: la priorità ontologica spetta alla Chiesa universale. Una comunità che non fosse in questo senso cattolica non sarebbe nemmeno Chiesa.
A questo riguardo occorre aggiungere un altro aspetto: quello della visione teologica degli Atti degli Apostoli circa il cammino della Chiesa da Gerusalemme a Roma. Tra i popoli rappresentati a Gerusalemme nel giorno di Pentecoste, Luca cita anche gli "stranieri di Roma" (At 2,10). In quel momento Roma era ancora lontana, "straniera" per la Chiesa nascente: essa era simbolo del mondo pagano in generale. Ma la forza dello Spirito Santo guiderà i passi dei testimoni "fino agli estremi confini della terra" (At 1,8), fino a Roma. Il libro degli Atti degli Apostoli termina proprio quando san Paolo, attraverso un disegno provvidenziale, giunge alla capitale dell'impero e vi annuncia il Vangelo (cfr At 28,30-31). Così il cammino della Parola di Dio, iniziato a Gerusalemme, giunge alla sua meta, perché Roma rappresenta il mondo intero ed incarna perciò l'idea lucana della cattolicità. Si è realizzata la Chiesa universale, la Chiesa cattolica, che è il proseguimento del popolo dell'elezione e ne fa propria la storia e la missione.
A questo punto, e per concludere, il Vangelo di Giovanni ci offre una parola, che si accorda molto bene con il mistero della Chiesa creata dallo Spirito. La parola uscita per due volte dalla bocca di Gesù risorto quando apparve in mezzo ai discepoli nel Cenacolo, la sera di Pasqua: "Shalom - pace a voi!" (Gv 20, 19.21). L'espressione "shalom" non è un semplice saluto; è molto di più: è il dono della pace promessa (cfr Gv 14,27) e conquistata da Gesù a prezzo del suo sangue, è il frutto della sua vittoria nella lotta contro lo spirito del male. E' dunque una pace "non come la dà il mondo", ma come solo Dio può darla.
In questa festa dello Spirito e della Chiesa vogliamo rendere grazie a Dio per aver donato al suo popolo, scelto e formato in mezzo a tutte le genti, il bene inestimabile della pace, della sua pace! Al tempo stesso, rinnoviamo la presa di coscienza della responsabilità che a questo dono è connessa: responsabilità della Chiesa di essere costituzionalmente segno e strumento della pace di Dio per tutti i popoli. Ho cercato di farmi tramite di questo messaggio recandomi recentemente alla sede dell'O.N.U. per rivolgere la mia parola ai rappresentanti dei popoli. Ma non è solo a questi eventi "al vertice" che si deve pensare. La Chiesa realizza il suo servizio alla pace di Cristo soprattutto nell'ordinaria presenza e azione in mezzo agli uomini, con la predicazione del Vangelo e con i segni di amore e di misericordia che la accompagnano (cfr Mc 16,20).
Fra questi segni va naturalmente sottolineato principalmente il Sacramento della Riconciliazione, che Cristo risorto istituì nello stesso momento in cui fece dono ai discepoli della sua pace e del suo Spirito. Come abbiamo ascoltato nella pagina evangelica, Gesù alitò sugli apostoli e disse: "Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete resteranno non rimessi" (Gv 20,21-23). Quanto importante e purtroppo non sufficientemente compreso è il dono della Riconciliazione, che pacifica i cuori! La pace di Cristo si diffonde solo tramite cuori rinnovati di uomini e donne riconciliati e fatti servi della giustizia, pronti a diffondere nel mondo la pace con la sola forza della verità, senza scendere a compromessi con la mentalità del mondo, perché il mondo non può dare la pace di Cristo: ecco come la Chiesa può essere fermento di quella riconciliazione che viene da Dio. Può esserlo solo se resta docile allo Spirito e rende testimonianza al Vangelo, solo se porta la Croce come e con Gesù. Proprio questo testimoniano i santi e le sante di ogni tempo!
Alla luce di questa Parola di vita, cari fratelli e sorelle, diventi ancora più fervida e intensa la preghiera, che quest'oggi eleviamo a Dio in spirituale unione con la Vergine Maria. La Vergine dell'ascolto, la Madre della Chiesa ottenga per le nostre comunità e per tutti i cristiani una rinnovata effusione dello Spirito Santo Paraclito. "Emitte Spiritum tuum et creabuntur, et renovabis faciem terrae - Manda il tuo Spirito, tutto sarà ricreato e rinnoverai la faccia della terra". Amen!
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
Educazione e laicità? - Il Cardinale Scola per i 150 anni del Collegio Canova Istituto Cavanis
VENEZIA, sabato, 10 maggio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato dal Cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia, il 6 marzo scorso al Collegio Canova Istituto Cavanis di Possagno per la celebrazione dei 150 anni di vita dell'istituto.
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Premessa
«Cinquant’anni di povertà e di lotte, come si conveniva ad un nuovo tipo di scuola che fosse gratuita, libera e aperta». Così si legge a pagina 8 del volume dal titolo “I Venerabili Servi di Dio P. Antonio e P. Marco Cavanis” a proposito della loro vita interamente spesa al servizio di Dio e della gioventù.
Certamente, nel panorama della proposta educativa del Patriarcato di Venezia, delle nostre terre venete e ormai in diversi continenti, ma più in generale nel nostro Paese, l’opera dei Fratelli Cavanis brilla come fulgido esempio di un modello di scuola che, con la straordinaria capacità di precorrere i tempi spesso propria dei santi, appare oggi più decisivo che mai per la edificazione di una vita buona personale e sociale. Decisivo, ma purtroppo ancora troppo spesso frainteso, quando non apertamente osteggiato, perché vittima di riduzioni ideologiche che ne pregiudicano la retta comprensione.
Per questo non mi sembra inutile, prima di addentrarmi a descrivere sinteticamente quelle che sono, a mio giudizio, le strutture portanti di un sistema educativo autenticamente laico ed adeguato ad una società plurale come la nostra, proporre qualche considerazione che aiuti a chiarire i termini essenziali della questione educativa.
1. Un significativo conflitto di linguaggi
Anzitutto occorre fare una constatazione. Quando oggi in Italia si ragiona intorno al carattere della scuola, colpisce come avvenga una sorta di distorsione semantica negli aggettivi che ad essa si riferiscono, a seconda che vengano adoperati a partire dai diversi approcci ideologici. Distorsione che non di rado genera conflitto.
Facciamo qualche esempio. Una scuola “libera” è, secondo alcuni, una scuola libera da vincoli ideologici di tipo identitario. Per altri, invece, la scuola è libera proprio in quanto può trasmettere un sistema coerente di valori legati ad una precisa concezione di vita senza costrizioni da parte dello Stato.
Per gli uni, una scuola è indipendente perché in un contesto di finanziamento centralizzato può operare senza preoccuparsi di competere sul “mercato” per affermare la propria qualità; per gli altri, è indipendente perché grazie alla sua qualità (intesa come capacità di rispondere in modo adeguato ai bisogni degli “utenti”) resta sul “mercato” senza dipendere dallo Stato.
2. A proposito di laicità
Non è necessario sottolineare che questo significativo conflitto di linguaggi trova il suo zenit nell’uso del termine laico. Anche questo termine è impiegato con significati assai diversi e spesso contraddittori.
Il concetto di laicità oggi più diffuso poggia su un presupposto acritico e non dichiarato. Considera che, in una società democratica plurale, il rapporto tra il singolo individuo portatore di diritti fondamentali e lo Stato si possa correttamente dare solo a patto di non introdurre tra i due, in nessuna forma, altri elementi di riferimento e di mediazione. In questo contesto, la religione - o più in generale una ben identificabile Weltanschauung - costituirebbe un “terzo incomodo”, tollerabile solo se si riduce a fatto privato proprio del singolo individuo. È la fase ulteriore del processo per cui «la globalizzazione enfatizza una soluzione di neutralità culturale: per la democrazia occidentale odierna tutte le religioni sono “uguali” (in-differenza). La sfera pubblica è dichiarata neutrale verso le religioni (…) Alle diverse religioni si chiede e si impone di considerare il loro universalismo come un fatto privato…»[1].
In ambito scolastico questa posizione implica necessariamente l’opzione per un sistema che si vuole neutro o indifferente. Un sistema che, rinunciando a una proposta di senso, considera di fatto l’educazione prevalentemente come addestramento o apprendimento di technicalities. Senza dover esaminare in dettaglio i termini di questa proposta non ci si può impedire di rilevare che sistemi di questo tipo finiscono nelle secche di quel razionalismo intellettualistico che ancor oggi, con diverse varianti, inficia una grande parte delle istituzioni educative. Esso si esprime, da una parte, nella pretesa di “attrezzare” l’educando fornendogli una sempre più articolata gamma di competenze; dall’altra nel considerarlo come una sorta di monade autosufficiente, sciolto da ogni legame. Nozionismo ed abilità tecnico-pratiche da fornire ad un individuo separato: a questo si riduce spesso l’educazione nelle nostre società sviluppate.
La domanda che si impone allora è chiara: è accettabile l’equivalenza tra laicità e neutralità o indifferenza?
Per rispondere a questa domanda è necessario chinarci, sia pur sommariamente, sulla natura del fenomeno educativo come tale, imprescindibile punto di riferimento, di fatto o di diritto, del sistema scolastico.
3. Educazione come relazione
a) Rendere possibile un’esperienza integrale
«La cosa più importante nell'educazione non è un “affare” di educazione, e ancora meno di insegnamento»[2] così Jacques Maritain, andando al cuore della questione educativa, individua l’inquietante eppure appassionante paradosso di cui ogni vero educatore è ben consapevole. E, subito dopo, ne indica la ragione: «L’esperienza, che è un frutto incomunicabile della sofferenza e della memoria, e attraverso la quale si compie la formazione dell’uomo, non può essere insegnata in nessuna scuola e in nessun corso»[3].
La categoria di esperienza - assunta nella sua integralità, una volta sgombrato il campo da ogni riduzione psicologico-soggettivistica del termine - è il cardine della proposta educativa. L’esperienza integrale può garantire il processo educativo perché garantisce lo sviluppo di tutte le dimensioni di un individuo fino alla loro realizzazione e nello stesso tempo l’affermazione di tutte le possibilità di connessione attiva di quelle dimensioni con tutta la realtà[4]. Realtà in tutte le sue dimensioni, intesa quindi come esistente umano, esistente storico, esistente vitale, esistente cosmico. Dimensioni cariche di implicazioni tra le quali la principale è Dio.
Una simile concezione dell’educazione comporta un giudizio positivo sulla realtà. Il reale, al di là delle tensioni drammatiche che lo attraversano, al di là della sua stessa contingenza, è un bene. L’educazione, per dirla con la celeberrima definizione di Jungmann, è introduzione alla realtà totale («eine Einführung in die Gesamtwirklichkeit») proprio perché la realtà totale corrisponde - “corrispondenza” è la parola che traduce la cum-venientia dei medioevali - al cuore (alle esigenze costitutive) dell’uomo. E corrisponde perché è per il bene dell’uomo. Quindi è un positivo.
Come si rivela questa percezione della positività del reale? Si rivela a partire dalla sua natura di avvenimento. Il mistero dell’essere si dona nel reale, perciò ogni manifestazione del reale si presenta come evento (dal latino e-venio) che interpella la nostra libertà provocandola ad aderire.
In questo senso l’educatore, cercando di introdurre l’educando in un’esperienza integrale della realtà, lo conduce progressivamente a coglierne la natura propria, quella cioè di essere, in tutte le sue manifestazioni, segno del Mistero. E per i cristiani il volto del Mistero è quello del Padre che ci è stato rivelato da Gesù.
b) Natura inter-personale dell’educazione: autorità e tradizione
Una simile impostazione, ad un tempo teoretica e pratica, mette subito in campo la natura inter-personale del processo educativo.
Educatore ed educando sono considerati come liberi soggetti coinvolti in un rapporto modulato dall’imporsi del reale[5].
Imprescindibile punto di partenza perché l’educando possa percorrere la strada dell’integralità dell’esperienza è la cura che le generazioni adulte si prendono delle nuove generazioni. Per me l’immagine più efficace di cosa sia questa cura della catena di generazioni, è l’immagine di Enea che lascia Troia distrutta con Anchise sulle spalle e il figlioletto Julo per mano. L’educazione vede all’opera la catena di generazioni.
Come giustamente è stato affermato, l’educazione domanda tradizione.
Essa consiste, come diceva Blondel, in un luogo di pratica e di esperienza[6], vissuto e proposto in prima persona dall’educatore alla libertà sempre storicamente situata dell’educando. Pertanto la tradizione rettamente intesa è per sua natura aperta a tutte le domande che incombono sul presente. È innovativa. Essa garantisce, come diceva Giovanni Paolo II, la “genealogia” della persona e non solo la sua “biologia”. Assicura la piena ed autentica esperienza di paternità-figliolanza, imprescindibile condizione per suscitare civiltà[7].
Si capisce allora il peso che nella proposta educativa ha il fattore dell’autorità, termine di cui è bene non dimenticare il significato etimologico più accreditato. Il sostantivo latino auctoritas deriva dal supino del verbo latino augere che significa “far crescere”. La persona autorevole, infatti, incarna quell’ipotesi esistenziale di lavoro, cioè quel criterio di sperimentazione dei valori che la tradizione mi offre; l’autorità, quando è autentica, è l’espressione efficace della trama di relazioni comunitarie in cui si origina la mia esistenza. In questo caso l’educando sente l’autorità come profondamente con-veniente alla sua persona.
c) Natura inter-personale dell’educazione: partecipazione e rischio
L’integralità dell’esperienza, nel rispetto della natura del reale, non è garantita solo dal fatto che l’educando sia chiamato al paragone con una proposta vivente e personale veicolata dalla tradizione - sempre innovativa - attraverso una figura autorevole. È necessario che l’educando si impegni personalmente con tale proposta.
È importante capire che in questo passaggio non è semplicemente in gioco un metodo educativo più adeguato, o più consono con le legittime aspirazioni di “autonomia” dei giovani. La portata dell’affermazione a questo proposito è molto più profonda. Si tratta di riconoscere la struttura ultima del rapporto tra l’io e la realtà. In forza di tale struttura, se la libertà dell’uomo non si mette in gioco, gli è negato l’accesso alla verità. Infatti, se la verità è l’evento in cui realtà ed io si incontrano e se tale evento si dà sempre e solo nel segno, non esiste, ultimamente, possibilità di conoscere il reale (verità) senza una decisione.
Afferma l’esegeta Schlier, in proposito: «Il senso ultimo e peculiare di un evento, e quindi l’evento stesso nella sua verità, si apre solo e sempre ad una esperienza che s’abbandoni ad esso e in questo abbandono cerchi d’interpretarlo» e aggiunge: «un evento si palesa a chi partecipa all’esperienza di esso».
Così l’inevitabile rischio dell’educazione apre l’educando alla massima creatività.
d) Il dia-logo educativo
In questo modo l’educazione si attua nel rapporto tra l’educatore e l’educando sempre situati in un contesto interpersonale comunitario. Si tratta di un dialogo tra libertà.
Martin Buber, che con Ebner e Rosenzweig è annoverato tra i cosiddetti maestri del pensiero dialogico, afferma che l’autentico dialogo è uno «scambio profondo con il reale inafferrabile»[8]. Il dialogo come ambito educativo costituisce sempre uno scambio tra l’io (l’educatore che propone e si propone), il tu (l’educando che viene introdotto alla realtà totale). Scambio che è reso possibile dalla stessa realtà che per il suo carattere di segno non è mai meccanicamente afferrabile. Non esiste vero dialogo senza che si mettano in gioco la libertà dell’educatore e dell’educando nell’incessante paragone con il reale. Se mancasse uno solo di queste tre fattori, il trittico dell’educazione verrebbe inevitabilmente meno. Se manca la libertà, integralmente giocata, sia dell’educatore sia dell’educando, il dialogo diventa essenzialmente monologo; se manca l’immersione nella realtà è preclusa la strada all’esperienza.
A partire da questa concezione del dialogo educativo e del percorso fin qui sinteticamente compiuto è ora possibile ripensare il rapporto tra educazione e laicità. Dovrebbe infatti risultare più chiaro che l’equivalenza tra scuola laica e scuola neutra o non identitaria è inaccettabile. Semplicemente perché una tale scuola non può esistere, in forza della natura stessa del rapporto educativo. In altre parole, la scuola si struttura sempre all’interno di un riferimento valoriale, ultimamente riferito ad un quadro – o forse ad una cornice – di significato.
Un’educazione neutra è, di fatto, impraticabile. Infatti, se, come abbiamo mostrato, alla base di ogni educazione sta il concetto di relazione educativa, intesa come rapporto fra chi apprende e chi insegna (in genere, ma non sempre, un giovane e un adulto), in questa relazione, che fiorisce su una trama articolata di rapporti, il senso sta alla base di ogni possibilità di apprendimento[9].
4. Un sistema scolastico laico
Quali conseguenze derivano da una proposta come quella accennata in vista di un ripensamento del sistema scolastico italiano che possa essere espressione adeguata di una nuova laicità imprescindibile nell’odierna società plurale?
a) Due modelli
L’affermazione dell’impraticabilità della scuola neutra, non significa per me dare vita ad alcune battaglie ideologiche contro l’attuale sistema scolastico italiano. Semplificando possiamo dire che oggi, nel sistema scolastico italiano, esistono due modelli educativi.
* Pluralismo nella scuola unica di Stato
È un fatto che nella storia del nostro Paese è stata operata, almeno fino a poco tempo fa, una chiara scelta per una scuola unica e centralizzata. La tesi dei sostenitori della scuola unica di Stato si basa su questa convinzione: la scuola deve rispondere alla domanda di formazione di una comunità che si riconosce nello stesso universo culturale di valori, norme e comportamenti, e quindi condivide anche un’idea di educazione. Questo universo può essere identificato, nella sua espressione minimale o massimale - a questo proposito ci sono delle notevoli divergenze - con il quadro costituzionale di una determinata democrazia.
Ovviamente coloro che sostengono la scuola unica di Stato conoscono bene il carattere plurale delle nostre società. E in forza di questo dato propongono nella scuola unica di Stato il modello del pluralismo di visioni che si confrontano. Si propugna il cosiddetto “pluralismo nella scuola” opposto al “pluralismo delle scuole”. Il pluralismo, allora, è sostanzialmente reso possibile grazie alla giustapposizione di posizioni diverse, ma considerate parimenti legittime. Il mix delle idee proposte è lasciato totalmente al caso: ammesso che esista una visione sintetica interpretativa della realtà, sarà l’alunno a doversela guadagnare al termine del processo educativo, essendosi confrontato con tutte le posizioni in campo. Così si immagina una sorta di miracolistico effetto per cui i contrasti si comporranno in una armoniosa unità, consentendo all’educando di sviluppare autonomia e senso critico. Questo però è il risultato che si auspica. Il dato che si può, invece, costatare è il conflitto reale che scaturisce tra le visioni a confronto[10].
Si tratta di un modello che io considero oltre che in sé sbagliato pedagogicamente inefficace.
E questo non in forza di una prevenzione ideologica, ma solo perché considero pedagogicamente inefficace, in ordine alla ricerca, all’insegnamento e allo studio dei saperi che esigono all’origine un principio interpretativo unificatore.
* Pluralismo delle scuole
Il secondo modello, quello generalmente praticato dalle scuole cattoliche (ma anche dalle scuole montessoriane, steineriane, e dal movimento delle free schools), che è teso a garantire, in una società sempre più differenziata, la possibilità di seguire una proposta educativa che riconosca ai soggetti dell’educazione (o alle loro famiglie, quando i diretti destinatari siano troppo giovani per esprimere una scelta) una coerenza che, tenendo conto dei valori irrinunciabili di cittadinanza sancita dalla Costituzione su cui si basa un paese, consenta un reale sviluppo della persona.
In queste scuole si fa una chiara proposta sintetica educativa interpretativa del reale e si invita lo studente a verificarla e a paragonarla a 360 gradi, secondo tutte le forme moderne oggi concepite e concepibili, pienamente consapevoli del contesto di società plurale in cui il sistema scolastico è inserito.
Siccome i ragazzi sono chiamati da mille agenti educativi (pensate alla televisione, a Internet, ecc…) ad un continuo confronto tra diverse Weltanschauungen, tra diverse visioni di vita, in questa scelta da parte delle scuole non c’è nessun rischio di chiusura, tantomeno vi è la preoccupazione di creare un bel recinto in cui custodire il ragazzo. C’è invece la convinzione pedagogica che davanti ad una chiara proposta interpretativa sintetica del reale si educa meglio. Si studia e si impara meglio. A questo proposito il filone di ricerca sul successo scolastico riscontra la benefica influenza sull’apprendimento di un clima scolastico unitario e di un impostazione condivisa[11].
Questo modello scolastico promuove, inoltre, la vitalità della società civile. Infatti consente di uscire da una situazione che è vessatoria per molte famiglie, dal momento che «la combinazione fra l’obbligo di frequenza, la struttura burocratica, e un apparato abnorme si sostituisce alla scelta delle famiglie… tutte le famiglie possono scegliere il cibo, i vestiti e la casa mentre quando si tratta di lealtà, intelletto, valori fondamentali – in una parola quando è coinvolta l’umanità dell’educando – lo stato domina le ore fondamentali del suo tempo»[12], mentre il principio di sussidiarietà prevede che il processo educativo tenga sempre conto della voce dell’educando, espressa all’interno di una comunità decisionale che lo conosce e si prende cura di lui - normalmente la famiglia - con il contributo dei professionisti che hanno la responsabilità di comunicargli i speri all’interno di un preciso progetto educativo. Nelle scuole scelte dalla famiglia, il pregio principale, oltre alla libertà stessa, è che l’educando nella scuola si sente “a casa”, e quindi sviluppa empatia e impegno morale, consolidando un’identità capace di confrontarsi, e non, come temono alcuni, in contrasto con la sicurezza delle istituzioni, o isolando l’educando dal resto del mondo.
Questo è, dunque, l’altro modello presente nella nostra società.
b) L’odierno contesto culturale
Inoltre questi due modelli sono oggi chiamati a confrontarsi direttamente con un contesto culturale fortemente caratterizzato dal processo in atto - sottolineo la parola processo - che, in altri sedi, ho descritto con l’espressione meticciato di civiltà e di culture.
È necessario riconoscere che l’elevata coincidenza fra il sistema di valori e significati propri degli studenti e dei docenti, che per decenni ha caratterizzato la scuola unica di Stato in Italia, oggi è drasticamente messa in discussione. Infatti questa coincidenza è diminuita nel tempo, prima per il crescere della disparità ideologica fra genitori e insegnanti, ma anche fra genitori e genitori e fra insegnanti e insegnanti, con un processo che può essere definito come di “caduta dell’illusione dell’uniformità”, e poi - in modo più massiccio - per l’affluenza nella scuola di quote rilevanti di ragazzi stranieri di cui solo una minoranza provengono da paesi culturalmente vicini all’Italia.
I dati cambiano con grande rapidità, ho potuto prendere visione di quelli che il Ministero della Pubblica Istruzione ha fornito nello scorso mese di novembre in riferimento all’anno scolastico 2006/2007.
Nel 2006/2007 erano presenti nella scuola italiana più di mezzo milione di ragazzi con cittadinanza straniera, di cui il 25% concentrato in quattro città (Milano, Roma, Torino e Brescia) pari al 5,6%, per lo più nella scuola primaria (38.0% del totale degli stranieri), ma anche nella scuola secondaria di primo grado (22,5%) e nella secondaria (20,5%). I comuni in cui gli studenti stranieri sono più del 15% erano 17 nel 2004-2005, 33 nel 2005-2006 e 51 nel 2006-2007. Le scuole in cui i ragazzi stranieri sono più del 20% sono quasi novecento, e in 89 di esse gli studenti stranieri superano il 40%; in 216 di queste scuole sono presenti ragazzi di più di venti diversi paesi. Di questi ragazzi, il 42,6% sono in parti quasi uguali albanesi, rumeni e marocchini, tutti in ampia crescita[13].
Questi dati servono esclusivamente ad indicare una situazione così complessa (e la cui complessità è destinata a crescere rapidamente) che non è possibile immaginare una scuola unica e uniforme in grado al tempo stesso di trasmettere i valori della società di arrivo, e di rispettare quelli della società di partenza.
Mi preme però sottolineare che limitare ai ragazzi stranieri il problema della rispondenza della scuola alla domanda di educazione è fuorviante: chiaramente in riferimento ad essi è più evidente il problema della conciliazione fra diritti della persona e doveri del cittadino, ma questo tema vale per qualsiasi persona e qualsiasi cittadino italiano.
c) Il compito dello Stato
In una società veramente laica, il compito dello Stato, per quanto riguarda il sistema scolastico, non è quello di difendere un preteso diritto ad essere l’unico gestore della scuola - scegliendo in questo modo il modello di pluralismo nella scuola unica di Stato -, ma quello di garantire l’educazione[14], esercitando innanzitutto un’azione di sostegno dei più deboli.
Così quando parliamo di libertà di educazione chiediamo che i due modelli possano avere gli stessi diritti e gli stessi doveri, né più né meno. Non ci interessa fare la battaglia ideologica su quale sia il modello più giusto, anche se non ci manca un’opinione in proposito. Vogliamo stare all’interno di un sistema scolastico che conceda ad entrambi i modelli parità di condizioni giuridiche ed economiche – senza parità economica non c’è di fatto reale parità - a parità di verifica da parte degli organi statuali competenti.
Mi sembra che la strada sia quella del coraggio di applicare fino in fondo il principio delle libertà realizzate sempre più invocato in tutti i settori delle democrazie laiche e plurali odierne. Lo Stato deve rinunciare in linea di massima a farsi attore propositivo diretto di progetti scolastici per lasciare questo compito alla società civile. Deve impegnarsi invece a garantire, attraverso opportune forme di accreditamento, le condizioni oggettive di rispetto della Costituzione, soprattutto l’equità nel diritto all’accesso e alla riuscita e la qualità delle proposte formulate. Lo Stato deve passare dalla gestione al puro governo del sistema scolastico. È necessario però affermare in pari tempo che le scuole libere, promosse da liberi attori in forza del principio di sussidiarietà, dovranno attuare anche il principio di solidarietà per garantire l’effettivo e qualificato accesso di tutti soprattutto all’istruzione gratuita obbligatoria. Le scuole libere debbono essere scuole di tutti e per tutti. E gli organi statali saranno chiamati, attraverso il processo di accreditamento, a rigorose verifiche.
Concretamente questa proposta significa non espellere le famiglie dall’educazione, ma fornire loro più mezzi (informazione, sostegno economico...). Nel momento in cui ai genitori viene impedito di scegliere, il controllo dell’educazione passa di fatto in mano agli insegnanti e ai burocrati, detentori delle competenze tecniche, che tendono ad abbattere e non a potenziare la partecipazione, e tendono a difendere lo status quo»[15].
5. Un ambito di lavoro comune
La proposta di un sistema scolastico veramente laico che renda possibile nei fatti la coesistenza di questi due modelli, lungi dall’essere un campo di battaglia nel quale opporsi accanitamente, può diventare un’occasione preziosa per un lavoro comune da parte dei diversi soggetti all’opera nella società plurale.
E lo può diventare proprio a partire dal riconoscimento del protagonismo della società civile e del ruolo necessario dello Stato.
Le diverse ermeneutiche presenti nella società civile possono concorrere a dar risposta a due domande fondamentali.
In primo luogo occorre interrogarsi su come e dove si costituisce una solidarietà capace di dare vita a un progetto educativo. E questo mette in campo il dinamismo della società plurale sul quale non possiamo qui soffermarci[16].
In secondo luogo si tratterà di garantire che i progetti educativi dialoghino tra loro e rispettino un codice comune. Per quanto riguarda la diffusione delle virtù di cittadinanza, è vero che «una società stabile e democratica è impossibile senza un grado minimale di istruzione, e senza la conoscenza e la diffusa accettazione da parte dei cittadini di un insieme di valori comuni. L’educazione può contribuire ad entrambi»[17]. In questo ambito lo Stato democratico deve realizzare un equilibrio tra il ruolo di unificatore e quello di garante della diversità delle tradizioni, nei confini di una comune cultura, senza temere il dato inevitabile che nella scuola il “meglio” per una nazione o un gruppo può non esserlo affatto per un altro.
In questo ambito è nell’interesse della società e delle singole persone che le tradizioni religiose e culturali vengano mantenute: lo Stato non deve incoraggiare o scoraggiare queste identità, ma solo accertare che non siano in contrasto con i principi su cui si fonda. È giusto che lo Stato si preoccupi di evitare che le scuole finanziate con denaro pubblico attuino delle forme di discriminazione religiosa o razziale, ma non può farlo imponendo «una cultura unica, secolarizzata, di basso profilo valoriale e dottrinale praticamente a tutti, tranne a quelli che possono pagarsene una diversa»[18].
La capacità della società “laica” di assumere questi compiti eserciterà, assai più che le (mancate) riforme di sistema, un importante influsso sulla qualità della scuola, ma soprattutto sulla qualità dell’esperienza umana che consente.
Siamo ben coscienti che la nostra proposta implica tempi medio-lunghi, anche se ormai è improcrastinabile la necessità di compiere subito dei passi. La parità scolastica integralmente assunta e la pista dell’autonomia di cui per ora esiste solo il tracciato, se portate con coraggio fino in fondo, possono rappresentare una strada percorribile al fine di condurre al traguardo di una autentica libertà di educazione nel nostro paese.
Conclusione
Il grado di civiltà di una società si giudica soprattutto a partire dal peso e dalla libertà dati al fattore educativo da parte delle Istituzioni che sono chiamate a promuoverlo e a garantirlo. In quest’ottica il diritto all’educazione deve essere riconosciuto a tutti i soggetti in grado di realizzare intraprese scolastiche veramente pubbliche, cioè al servizio di tutti.
Di questo, ben due secoli fa, i fratelli Cavanis sono stati profeticamente consapevoli. Per questo hanno lottato strenuamente e si sono spesi infaticabilmente fino al termine della loro vita. Tutte le opere fiorite dal loro carisma - dal germe iniziale della Congregazione mariana del 1802, in cui sono già ben riconoscibili i tratti fondamentali del loro metodo educativo, fino all’antico e robusto albero di questo Collegio Canova, rigoglioso di frutti, o alle più recenti fondazioni in America Latina o nelle Filippine - documentano la straordinaria con-venienza della loro proposta educativa con il cuore dell’uomo di ogni tempo e a tutte le latitudini.
[1] P. Donati, Pensare la società civile come sfera pubblica religiosamente qualificata, in C. Vigna – S. Zamagni (a cura di), Multiculturalismo e identità, Vita e Pensiero, Milano 2002, 55-56.
[2] Cfr. J. Maritain, Per una filosofia dell'educazione, La Scuola, Brescia 2001, 86.
[3] Ibid., 87.
[4] Cfr. L. Giussani, Il rischio educativo, SEI, Torino, 1995, 19.
[5] Cfr. A. Scola, Ospitare il reale, PUL-Mursia, Roma 1999.
[6] Cfr. M. Blondel, Storia e dogma, Queriniana, Brescia 1992, 103-137.
[7]Cfr. A. Scola, Genealogia della persona del figlio, in Pontificio Consiglio per la Famiglia, I figli: famiglia e società nel nuovo millennio. Atti del Congresso Teologico-Pastorale Città del Vaticano 11-13 ottobre 2000, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2001, 95-104.
[8] M. Buber, Dialogo, in Id., Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1993, 206.
[9] La capacità descritta da Mead di identificare l’altro significativo rispetto all’altro generico segna nel bambino il passaggio dall’imitazione all’identificazione, primo passo nella costruzione dell’identità: G. H. Mead, Mente, sé, società, Giunti e Barnera, Firenze, 1972
[10] A parte il fatto che in una scuola esiste quantomeno una “cultura” del dirigente e una cultura degli insegnanti (e non è detto che coincidano), il fatto che gli insegnanti la pensino in modo diverso non ha affatto conseguenze positive. Holmes riscontra l’esistenza di almeno sei idealtipi di docenti - progressista, tecnocratico, culturale, tradizionale, individualista e ugualitario - tra cui il conflitto è reale e constatabile: M. Holmes, Educational policy for the pluralist democracy: the common school, choice and diversity, The Falmer Press, London 1992.
[11] A questo proposito Bryk ha parlato del Catholic school effect a partire dalla costatazione del fatto che l’esistenza di un forte modello unitario giova particolarmente ai ragazzi più svantaggiati, segnatamente gli afro americani, per lo più non cattolici: A. S. Bryk – V. E. Lee – P. B. Holland, Catholic schools and the common good, Harvard University Press, Cambridge 1993. Molto più recentemente, Morris, in un’indagine a Birmingham, riscontra che le scuole cattoliche sono particolarmente efficaci per gli studenti socialmente più svantaggiati, e proprio per questo portano un rilevante contributo al bene comune: cfr. A. B. Morris, Diversity, deprivation and the common good: pupil attainment in Catholic schools in England, in «Oxford Review of Education» 31 (2005) n. 2, 311-330.
[12] J. E. Coons – S. D. Sugarman, Education by choic: the case for family control, University of California Press, Berkeley 1978, 27.
[13] Ministero della Pubblica Istruzione, Alunni con cittadinanza non italiana, a.s. 2006/2007, Roma, novembre 2007.
[14] Quando si parla di responsabilità educative dello Stato si intendono almeno tre cose diverse: il suo potere di fissare i percorsi formativi e i curricoli; il suo potere di possedere e gestire scuole; e infine il suo potere di indirizzare gli alunni a scuole specifiche. Discutere il problema della scelta in relazione all’uno o all’altro di questi tre punti comporta ovviamente conseguenze diverse.
[15] M. Lieberman, Privatisation and educational choice, McMillan, London 1989, 21.
[16] Cfr. A. Scola, Una nuova laicità. Temi per la società plurale, Marsilio, Venezia 2007.
[17] M. Friedman, Capitalism and freedom, University of Chicago Press, Chicago 1962, 86. Trad. it.: Capitalismo e libertà, Studio Tesi, Pordenone 1967.
[18] Holmes, op. cit., 83.
"La famiglia educa oggi? La missione della famiglia nella realtà attuale, riflessioni ed orientamenti."
S.E. Card. Carlo Caffarra
S. Lazzaro di Savena, 9 maggio 2008
Prima di entrare nel tema, devo fare una premessa importante. Quando si parla della famiglia come luogo in cui si forma la persona, si rischia di fare un discorso puramente esortativo; peggio, perfino moralistico. Un discorso cioè in cui si esortano i genitori a fare/non fare certe cose coi loro figli, col rischio che essi se ne ritornano a casa più scoraggiati.
Questa sera io non vorrei riflettere in questa prospettiva, ma dirvi "qualcosa" di più semplice e di più profondo: mostrarvi come la famiglia abbia in se stessa e per se stessa la capacità, la forza di educare la persona. E quando dico "famiglia" intendo parlare della famiglia che, pure in mezzo a tutte le difficoltà quotidiane di ogni genere, vive la sua vita normale di ogni giorno.
Dobbiamo però avere un’idea chiara di che cosa significa "educare la persona": chiarezza che oggi non possiamo dare per scontata.
Il percorso dunque della mia riflessione sarà il seguente. Nel primo punto cercherò di dirvi che cosa intendo per educazione della persona; nel secondo punto cercherò di mostrarvi la capacità educativa insita nell’istituto famigliare; infine concluderò con alcune riflessioni più immediatamente pratiche.
1. Educare la persona
Vi è mai capitato di incontrare una persona che vi chiedeva la strada per arrivare in una città? È una grande metafora dell’atto educativo.
Come tutti sappiamo, l’educazione ha come destinatario la persona arrivata da poco in questo mondo. Essa vi arriva con una grande domanda dentro al cuore: quale via devo prendere per raggiungere la felicità? Fermiamoci un momento a riflettere su questa grande domanda.
Ho parlato di "felicità". Non prendete questa parola nel significato banale che ha ormai nel nostro linguaggio quotidiano. Ciascuno di noi desidera la felicità nel senso di una vita vera, di una vita buona. Non una vita qualsiasi e a qualunque costo. Ci sono dei momenti in cui noi percepiamo, sperimentiamo che cosa sia una vita vera. O negativamente, perché viviamo tali situazioni che diciamo: "ma che vita è questa? Ma questa non è vita!". O positivamente, perché viviamo esperienze tali che diciamo: "ma se la vita fosse sempre così!".
Quando una persona entra in questo mondo, non si incammina verso niente altro che verso questa meta; non desidera altro che questo. Il cammino della vita ha questo orientamento fondamentale.
La persona neo-arrivata ha bisogno in questo cammino di essere guidata? Ha bisogno che gli si indichi la strada? Se osservate per un momento la condizione umana, noterete che fra tutti gli animali l’uomo è quello che raggiunge più tardi l’autonomia, l’auto-sufficienza. Sul piano biologico questo fatto è facilmente constatabile. Ma non solo. Chi ha bambini sa che molto presto questi "tormentano" gli adulti con i loro "perché". Esiste nella persona neo-arrivata un desiderio di sapere la verità delle cose, di conoscere le ragioni di ciò che accade. Non c’è felicità se non si danno risposte alle nostra domande. La domanda della via alla felicità è una domanda circa la verità. "Felix qui potuit rerum conoscere causas", ha scritto Virgilio.
Una delle immagini più frequenti usate per descrivere la vita umana è quella della navigazione: la vita è come una traversata nel mare, verso il porto della felicità. È necessario sapere come muoversi, e conoscere le regole della navigazione. Fuori dell’immagine: la persona neo-arrivata ha bisogno di essere orientata nell’esercizio della sua libertà; ha bisogno di sapere ciò che è bene e ciò che è male.
L’educazione della persona consiste nell’indicare ad essa la via che la può condurre ad una vita vera, ad una buona vita. In una parola: alla felicità. Potrei ora esemplificare con esempi quotidiani, molto semplici. Non ne abbiamo il tempo.
Fino ad ora vi ho descritto il fatto educativo come un fatto universalmente umano. È anche un fatto cristiano? Certamente. Vediamo come.
Ricordiamo il dialogo con cui si inizia la celebrazione del battesimo dei bambini [cfr. Benedetto XVI, Lett. Enc. Spe salvi 10]. Il sacerdote chiede al bambino [ovviamente nella persona dei genitori e dei padrini]: "che cosa chiedi alla Chiesa?". Ed il bambino risponde: "la fede". Il sacerdote fa la seconda domanda: "e che cosa ti procura la fede?"; ed il bambino risponde: "la vita eterna".
Non facciamo fatica ad intravedere in questo dialogo la struttura dell’atto educativo che abbiamo poc’anzi spiegato. La Chiesa aiuta la persona da poco giunta nel mondo a prendere coscienza della domanda, del desiderio che urge dentro al suo cuore. E nello stesso tempo le chiede che cosa si aspetta dalla Chiesa; quale attesa ha nei confronti della Chiesa. La nuova persona si aspetta dalla Chiesa semplicemente la fede. Fate bene attenzione. Fede qui significa ciò che la Chiesa crede, la dottrina della fede e l’attitudine soggettiva, la virtù della fede. Potremmo dire, parafrasando la risposta: "chiedo alla Chiesa di essere educata nella fede". Il dialogo continua sempre più serrato, e la Chiesa fa la domanda che costringe l’interrogato a "scoprire i pensieri del cuore": "perché desideri essere educato nella fede?". E la persona appena arrivata risponde: "ti chiedo di essere educato nella fede, perché ritengo che questa sia la via che mi conduce ad una vita vera, ad una vita buona, ad una vita eterna".
L’educazione cristiana consiste nell’indicare la via della fede come unica via che conduce alla vita vera, alla felicità. La fede diventa, mediante l’educazione cristiana, il nostro modo di pensare: il criterio delle nostre valutazioni; la regola ultima delle nostre scelte. In una parola: diventa la nostra forma di vita.
Abbiamo detto sopra che la navigazione è una potente metafora della vita umana. Vorrei ora leggervi e brevemente commentarvi una pagina di S. Agostino che mi sembra essere una suggestiva descrizione dell’educazione cristiana. "È come se qualcuno riuscisse a vedere da lontano la patria, ma ci sia il mare che lo separa da essa. Egli vede dove deve andare, ma gli manca il mezzo con cui andare. Così è per noi che vogliamo pervenire a questa stabilità nostra, dove ciò che è è, perché questo solo è sempre così com’è. C’è di mezzo il mare di questo secolo attraverso il quale dobbiamo andare, mentre molti non vedono neppure dove devono andare. Perciò, affinché ci fosse anche il mezzo con cui andare, venne di là Colui al quale volevamo andare. E che cosa ha fatto? Ha preparato il legno con cui potessimo attraversare il mare. Infatti, nessuno può attraversare il mare di questo secolo, se non è portato dalla croce di Cristo. A questa croce potrà stringersi, talvolta, anche chi ha gli occhi malati. E chi non riesce a vedere dove deve andare, non si stacchi dalla croce, e la croce lo porterà" [Commento al Vangelo di Giovanni II,2].
Attraverso l’educazione cristiana noi impariamo a pensare come Cristo: ad avere il pensiero di Cristo; ad esercitare la nostra libertà come Cristo: ad amare come Cristo. E così giungere alla felicità. "Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica" [Gv 13,17], ha detto Gesù dopo aver lavato i piedi ai suoi discepoli.
La persona appena arrivata nel mondo chiede questo alla Chiesa, di essere educata nella fede. Chiede cioè alla Chiesa di indicarle la via della beatitudine.
Una delle espressioni fondamentali della cura educativa della Chiesa è la famiglia.
2. Famiglia ed educazione
Vediamo dunque in che modo la famiglia come tale sia capace di realizzare quell’opera educativa di cui vi parlavo.
Da quanto ho detto finora deriva una conseguenza molto importante: educare è molto di più che istruire; è profondamente diverso che istruire. Fermiamoci un momento a riflettere su questo punto.
L’istruzione consiste nella trasmissione di un sapere o teorico o pratico. Posso insegnare la matematica, e trasmetto un sapere teorico. Posso insegnare come si fa l’idraulico, e trasmetto un sapere pratico.
L’educazione è di più di questo. Lo possiamo capire notando che noi possiamo giungere a conoscere due tipi di verità molto diverse. Esistono delle verità che non hanno nessuna rilevanza sul mio modo di essere libero: sapere se il fiume più lungo è il Nilo o il Missisipi non cambia nulla circa il mio modo di vivere. Ma esistono verità che hanno una rilevanza decisiva sul mio modo di essere libero: sapere se approfittando della debolezza altrui, posso prevaricare su di lui o non posso, cambia il mio stile di vita.
L’istruzione trasmette verità che non hanno rilevanza sulla vita, sul suo senso; l’educazione trasmette una proposta di vita ritenuta l’unica degna di essere realizzata, se si vuole giungere alla felicità.
Dunque, teniamo ben ferma questa affermazione: educare è diverso da, è ben più che istruire.
Da questa diversità deriva una conseguenza assai importante: chi educa deve vivere con chi è educato. Non è possibile nessuna educazione senza una qualche comunione di vita. Questo non è vero per l’istruttore. Al limite, posso imparare le istruzioni anche da un libro. Perché questa esigenza? Per la ragione che ho già detto, e che ora voglio esporre un po’ più lungamente.
Chi educa fa una proposta di vita perché ritiene che essa sia vera e buona: sia via verso la felicità. Chi educa non è indifferente a che chi è educato accolga o rifiuti quella proposta: non guarda con occhi indifferenti al destino della persona che sta educando. Desidera che la sua proposta sia convincente.
Ma nello stesso tempo si rivolge ad una persona libera. Questa deve far propria liberamente la proposta di vita fattale dall’educatore, così come la può liberamente rifiutare.
In che modo una proposta di vita è persuasiva senza essere coattiva? È convincente senza essere necessitante? Non c’è che una via: che l’educatore possa mostrare nella propria vita che la proposta fatta è vera e buona. Che l’educatore possa dire: "questa è la proposta di vita che ti faccio, e ti assicuro che io la vivo ed i conti alla fine tornano".
Ora, come si fa a far apparire "che i conti tornano"? vivendo con la persona cui si fa la proposta.
E siamo finalmente arrivati … in famiglia. La narrazione della vicenda educativa appena abbozzata si realizza in grado eminente nella comunità famigliare. Vediamo come e perché.
Ogni genitore è sommamente appassionato al bene del figlio. Non è indifferente al suo destino, a che viva una vita buona o una cattiva vita. Vuole la sua felicità. È questa la base fondamentale di ogni rapporto educativo. E questa base è naturalmente assai solida nel rapporto genitore-figlio.
Poiché non è indifferente al bene del figlio, il genitore fa una proposta di vita; indica la via; dà una risposta alla domanda di felicità che urge nel cuore del figlio. Nessun genitore darebbe al figlio che glielo chiede un bicchiere di acqua, se dubitasse che fosse avvelenata. È una proposta di vita, quella che fa il genitore, della cui verità e bontà è certo. Una certezza che gli viene dalla sua esperienza.
Ed è a questo punto che si vede la potenza straordinaria che la famiglia ha di educare. Nessuna comunità di vita è più intima, è più prolungata nel tempo, è più continua nella quotidianità, della vita comune familiare. In un certo senso, all’interno di una normale vita famigliare i genitori educano quasi senza accorgersene.
Ma da quanto detto finora risultano evidenti anche le insidie che possono indebolire la forza educativa della famiglia. Devo almeno enunciarle, così che siate vigilanti nei loro confronti.
La prima e la più grave di tutte è la mancanza nei genitori di una proposta educativa precisa, seria, unitaria e continua. Questa mancanza può essere il risultato di una profonda incertezza interiore presente nei genitori; oppure, e sarebbe il peggio, il risultato di un vero e proprio relativismo educativo. La mancanza di una proposta genera degli schiavi, non delle persone libere.
La seconda è la mancanza di una vera e propria vita comune familiare. La vita in comune non è abitare semplicemente sotto lo stesso tetto. È dialogo; è condivisione.
La terza è la mancanza della testimonianza. Come ho già detto, in fondo l’atto educativo è una testimonianza di vita. "La mia vita dice che ciò che ti propongo è vero", dice l’educatore. Quando l’educatore non può dire questo, l’atto educativo rischia altamente l’inefficacia.
Conclusione
Non ho neppure accennato a questioni centrali oggi nell’educazione familiare, quale quella dell’autorità. Non ne avevamo il tempo. Mi premeva che voi andaste via da qui con più "coraggio educativo" di quanto ne avete quando siete arrivati.
A questo scopo, termino con un pensiero assai importante. Nella vostra proposta educativa voi non partite da zero. Siete dentro ad una grande tradizione educativa, quella cristiana, che la Chiesa tiene viva ed operante. Non sradicatevi da essa.
Discorso del Papa ai partecipanti al Congresso per l'Humanae vitae
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 11 maggio 2008 (ZENIT.org).- Riportiamo le parole pronunciate da Benedetto XVI questo sabato mattina ricevendo in udienza nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano i partecipanti al Congresso internazionale promosso dalla Pontificia Università Lateranense nel 40° Anniversario dell'Enciclica "Humanae vitae".
* * *
Venerati Fratelli nell'Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle,
è con particolare piacere che vi accolgo al termine del lavoro, che vi ha impegnati a riflettere su un problema antico e sempre nuovo quale la responsabilità e il rispetto per il sorgere della vita umana. Saluto in modo particolare Mons. Rino Fisichella, Magnifico Rettore della Pontificia Università Lateransense, che ha promosso questo Congresso internazionale e lo ringrazio per le espressioni di saluto che ha voluto rivolgermi. Il mio saluto si estende poi agli illustri Relatori, Docenti e partecipanti tutti, che con il loro contributo hanno arricchito queste giornate di intenso lavoro. Il vostro contributo si inserisce efficacemente all'interno di quella più vasta produzione che, nel corso dei decenni, è venuta crescendo su questo tema così controverso e, tuttavia, così decisivo per il futuro dell'umanità.
Già il Concilio Vaticano II, nella Costituzione Gaudium et spes, si rivolgeva agli uomini di scienza sollecitandoli ad unire gli sforzi per raggiungere un'unità del sapere e una certezza consolidata circa le condizioni che possono favorire una "onesta regolazione della procreazione umana" (GS, 52). Il mio Predecessore di venerata memoria, il Servo di Dio Paolo VI, il 25 luglio del 1968, pubblicava la Lettera enciclica Humanae vitae. Quel documento divenne ben presto segno di contraddizione. Elaborato alla luce di una decisione sofferta, esso costituisce un significativo gesto di coraggio nel ribadire la continuità della dottrina e della tradizione della Chiesa. Quel testo, spesso frainteso ed equivocato, fece molto discutere anche perché si poneva agli albori di una profonda contestazione che segnò la vita di intere generazioni. A quarant'anni dalla sua pubblicazione quell'insegnamento non solo manifesta immutata la sua verità, ma rivela anche la lungimiranza con la quale il problema venne affrontato. Di fatto, l'amore coniugale viene descritto all'interno di un processo globale che non si arresta alla divisione tra anima e corpo né soggiace al solo sentimento, spesso fugace e precario, ma si fa carico dell'unità della persona e della totale condivisione degli sposi che nell'accoglienza reciproca offrono se stessi in una promessa di amore fedele ed esclusivo che scaturisce da una genuina scelta di libertà. Come potrebbe un simile amore rimanere chiuso al dono della vita? La vita è sempre un dono inestimabile; ogni volta che si assiste al suo sorgere percepiamo la potenza dell'azione creatrice di Dio che si fida dell'uomo e in questo modo lo chiama a costruire il futuro con la forza della speranza.
Il Magistero della Chiesa non può esonerarsi dal riflettere in maniera sempre nuova e approfondita sui principi fondamentali che riguardano il matrimonio e la procreazione. Quanto era vero ieri, rimane vero anche oggi. La verità espressa nell'Humanae vitae non muta; anzi, proprio alla luce delle nuove scoperte scientifiche, il suo insegnamento si fa più attuale e provoca a riflettere sul valore intrinseco che possiede. La parola chiave per entrare con coerenza nei suoi contenuti rimane quella dell'amore. Come ho scritto nella mia prima Enciclica Deus caritas est: "L'uomo diventa realmente se stesso quando corpo e anima si ritrovano in intima unità... Non sono né lo spirito né il corpo da soli ad amare: è l'uomo, la persona, che ama come creatura unitaria, di cui fanno parte corpo e anima" (n. 5). Tolta questa unità si perde il valore della persona e si cade nel grave pericolo di considerare il corpo come un oggetto che si può comperare o vendere (cfr ibid.). In una cultura sottoposta alla prevalenza dell'avere sull'essere, la vita umana rischia di perdere il suo valore. Se l'esercizio della sessualità si trasforma in una droga che vuole assoggettare il partner ai propri desideri e interessi, senza rispettare i tempi della persona amata, allora ciò che si deve difendere non è più solo il vero concetto dell'amore, ma in primo luogo la dignità della persona stessa. Come credenti non potremmo mai permettere che il dominio della tecnica abbia ad inficiare la qualità dell'amore e la sacralità della vita.
Non a caso Gesù, parlando dell'amore umano, si richiama a quanto operato da Dio all'inizio della creazione (cfr Mt 19,4-6). Il suo insegnamento rimanda a un atto gratuito con il quale il Creatore ha inteso non solo esprimere la ricchezza del suo amore, che si apre donandosi a tutti, ma ha voluto anche imprimere un paradigma sul quale l'agire dell'umanità deve declinarsi. Nella fecondità dell'amore coniugale l'uomo e la donna partecipano all'atto creativo del Padre e rendono evidente che all'origine della loro vita sponsale vi è un "sì" genuino che viene pronunciato e realmente vissuto nella reciprocità, rimanendo sempre aperto alla vita. Questa parola del Signore permane immutata con la sua profonda verità e non può essere cancellata dalle diverse teorie che nel corso degli anni si sono succedute e a volte perfino contraddette tra loro. La legge naturale, che è alla base del riconoscimento della vera uguaglianza tra le persone e i popoli, merita di essere riconosciuta come la fonte a cui ispirare anche il rapporto tra gli sposi nella loro responsabilità nel generare nuovi figli. La trasmissione della vita è iscritta nella natura e le sue leggi permangono come norma non scritta a cui tutti devono richiamarsi. Ogni tentativo di distogliere lo sguardo da questo principio rimane esso stesso sterile e non produce futuro.
E' urgente che riscopriamo di nuovo un'alleanza che è sempre stata feconda, quando è stata rispettata; essa vede in primo piano la ragione e l'amore. Un acuto maestro come Guglielmo di Saint Thierry poteva scrivere parole che sentiamo profondamente valide anche per il nostro tempo: "Se la ragione istruisce l'amore e l'amore illumina la ragione, se la ragione si converte in amore e l'amore acconsente a lasciarsi trattenere entro i confini della ragione, allora essi possono fare qualcosa di grande" (Natura e grandezza dell'amore, 21,8). Cos'è questo "qualcosa di grande" a cui possiamo assistere? E' il sorgere della responsabilità per la vita, che rende fecondo il dono che ognuno fa di sé all'altro. E' frutto di un amore che sa pensare e scegliere in piena libertà, senza lasciarsi condizionare oltre misura dall'eventuale sacrificio richiesto. Da qui scaturisce il miracolo della vita che i genitori sperimentano in se stessi, verificando come qualcosa di straordinario quanto si compie in loro e tramite loro. Nessuna tecnica meccanica può sostituire l'atto d'amore che due sposi si scambiano come segno di un mistero più grande che li vede protagonisti e compartecipi della creazione.
Si assiste sempre più spesso, purtroppo, a vicende tristi che coinvolgono gli adolescenti, le cui reazioni manifestano una non corretta conoscenza del mistero della vita e delle rischiose implicanze dei loro gesti. L'urgenza formativa, a cui spesso faccio riferimento, vede nel tema della vita un suo contenuto privilegiato. Auspico veramente che soprattutto ai giovani sia riservata un'attenzione del tutto peculiare, perché possano apprendere il vero senso dell'amore e si preparino per questo con un'adeguata educazione alla sessualità, senza lasciarsi distogliere da messaggi effimeri che impediscono di raggiungere l'essenza della verità in gioco. Fornire false illusioni nell'ambito dell'amore o ingannare sulle genuine responsabilità che si è chiamati ad assumere con l'esercizio della propria sessualità non fa onore a una società che si richiama ai principi di libertà e di democrazia. La libertà deve coniugarsi con la verità e la responsabilità con la forza della dedizione all'altro anche con il sacrificio; senza queste componenti non cresce la comunità degli uomini e il rischio di rinchiudersi in un cerchio di egoismo asfissiante rimane sempre in agguato.
L'insegnamento espresso dall'Enciclica Humanae vitae non è facile. Esso, tuttavia, è conforme alla struttura fondamentale mediante la quale la vita è sempre stata trasmessa fin dalla creazione del mondo, nel rispetto della natura e in conformità con le sue esigenze. Il riguardo per la vita umana e la salvaguardia della dignità della persona ci impongono di non lasciare nulla di intentato perché a tutti possa essere partecipata la genuina verità dell'amore coniugale responsabile nella piena adesione alla legge inscritta nel cuore di ogni persona. Con questi sentimenti imparto a tutti voi l'Apostolica Benedizione.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
Limite per l'aborto a 22 settimane. Bocciato Formigoni
Il Tar della Lombardia ha accolto il ricorso della Cgil contro le linee guida di applicazione della legge 194 proposte dal Pirellone.
Il limite torni a ventiquattro settimane. Il Tar della Lombardia ha bocciato le nuove linee guida della giunta Formigoni sulla legge 194. Alcune modifiche che prevedevano, tra le altre cose, che l'aborto terapeutico non fosse più praticato oltre le ventidue settimane e tre giorni dal concepimento del feto, invece delle ventiquattro generalmente accettate. Il ricorso era stato presentato da alcuni medici milanesi aderenti alla Cgil. «È stata ripristinata la libertà delle donne - spiega il segretario regionale per la Lombardia Susanna Camuso - ora la Regione [deve] dare attuazione alla sospensiva e ripristinare la libertà dei medici sottoposti a indebite pressioni». Un appello che la Regione pare già pronta a respingere: «Questo ricorso appariva del tutto insussistente dall'inizio - spiega Roberto Formigoni - quando poi avremo modo di capire le motivazioni di questa sospensoria, potremo prepararci per ricorso immediato al Consiglio di Stato». Il Pirellone, infatti, nutre ancora seri dubbi sul perché il Tar abbia deciso di bloccare tutto: «Abbiamo appreso della cosa leggendo un sito Internet del tribunale - spiega il governatore - francamente è un modo di operare che non ci può piacere». La legge 194 prevede che dopo i primi novanta giorni, periodo in cui è consentita l'interru zione volontaria di gravidanza, si possa intervenire per procurare un aborto solo «quando il parto comporti un grave pericolo per la vita della donna». Questo perché solo dopo quel momento si può parlare di vita autonoma per il feto. Secondo la Regione, però, le moderne tecnologie consentirebbero di tenere in vita un neonato già dopo la ventiduesima settimana di gestazione. «Si tratta - spiega l'assessore alla Sanità Luciano Bresciani - di una decisione strettamente connessa alle attuali evidenze scientifiche che, grazie ai notevoli passi avanti della medicina, con il passare del tempo richiedono di adeguare un limite temporale che la legge non può stabilire a priori. E i dati scientifici oggi a disposizione indicano infatti che a ventitré settimane di età gestazionale è possibile la vita autonoma del neonato». La modifica che era stata accolta con favore anche da buona parte del mondo scientifico. «È stato compiuto un passo in avanti verso la piena attuazione della legge 194 - diceva la dottoressa Alessandra Kustermann, responsabile del Servizio Diagnosi Prenatale della Fondazione Ospedale Maggiore Policlinico, Mangiagalli e Regina Elena - in particolare dell'articolo 1 dove si dice che la vita va tutelata sin dal suo inizio».
di Lorenzo Mottola
LIBERO 10 maggio 2008
Beirut: lavoriamo per costruire un clima di fiducia, nonostante tutto
Redazione12/05/2008
Autore(i): Redazione. Pubblicato il 12/05/2008 – IlSussidiario.net
Per meglio capire la situazione che si vive a Beruit, ilsussidiario.net ha intervistato Marco Perini, rappresentante dell'Ong Avsi che opera in Libano.
Dopo gli ultimi scontri a Beirut le agenzie parlano di almeno una decina di morti, riferiscono di una situazione di calma apparente e di una città presidiata dai militari. Saprebbe spiegarci la situazione?
Il tutto ha avuto inizio nel momento in cui il consiglio dei ministri del governo Siniora ha preso due decisioni: la prima di aprire un’inchiesta su una presunta rete parallela telefonica di Hezbollah, e la seconda di sostituire il responsabile della sicurezza dell’aeroporto di Beirut perché sarebbe vicino alle posizioni di Hezbollah o dell’altro movimento sciita di opposizione, Hamal.
Questo atto ha fatto salire la tensione e Hezbollah ha vissuto quella decisione come atto ostile nei suoi confronti: sapete da anni – è come se avesse detto Hezbollah al governo – che noi abbiamo questa rete di sicurezza che ci garantisce di poter comunicare tra militanti della resistenza al riparo da Israele. Prima questa rete andava bene ma ora non più, perché avete subito le pressioni di Condoleeza Rice.
Questo è l’elemento che ha fatto scatenare una settimana fa le prime tensioni, fino a due giorni fa, quando sono scoppiati scontri violenti condotti anche con armi pesanti nei quartieri controllati dai Sunniti, che al 90% fanno riferimento a Hariri e quindi alla maggioranza di governo. Di conseguenza gli Hezbollah sciiti hanno preso le armi e sono andati a conquistare i quartieri a prevalenza sunniti nella parte sud e ovest di Beirut. Stamattina, 11 maggio, questi quartieri sono sotto il controllo di Hezbollah che sta lasciando all’esercito il compito. Dopo due giorni in cui ci sono stati decine di morti, centinaia di feriti e molti danni materiali, questa mattina a Beirut regna una calma apparente che sembra preludere a qualcosa di nuovo che potrebbe accadere, ma che nessuno sa dire cosa sarà.
Lei lavora per una Ong. Questi scontri hanno cambiato qualcosa per il lavoro delle Ong presenti sul territorio libanese?
Direi che due sono gli effetti di questa crisi: un effetto immediato, come quello che stiamo vivendo in questi giorni, cioè le attività si fermano e ci sono problemi di collegamento nel paese. In questo momento, per esempio, noi abbiamo delle attività avviate sia al sud del paese che nella valle della Bekaa, ma non possiamo andarci perché le strade sono chiuse e controllate dai miliziani di una o dell’altra parte, o dall’esercito, e comunque sono insicure. Come conseguenza i nostri uffici periferici hanno problemi di collegamento e di comunicazione e quindi di sicurezza. C’è poi un secondo effetto secondo me più importante. Credo che la grande sfida per noi in questo paese - in cui l’obiettivo delle giovani generazioni è di andare a lavorare all’estero o di lasciare il paese - sia quella di testimoniare con le nostre opere un’amicizia, una fiducia, una speranza possibile. Quando succedono fatti come quelli recenti ci troviamo di fronte a persone che ci dicono: ecco, vedete, voi qui fate progetti di sviluppo, lavorate in vista del domani etc. ma qui un futuro non c’è.
Ho già avuto modo di vivere questa situazione nel sud del Libano, al confine con Israele, dove su una piana incolta stiamo lavorando ad un sistema irriguo, che può funzionare solo se musulmani e cristiani collaborano nella gestione del sistema. È un’opera che richiede un lavoro strutturale e di management molto complesso e che coinvolge due comunità che fanno fatica a convivere. Per di più siamo in una zona al confine con Israele, dove circa 8 mesi fa ci fu un attentato contro un contingente dell’Unifil in cui morirono 6 militari spagnoli. I giorni successivi i contadini ci dicevano: vedete, voi fate tutto questo con grande sforzo ma le bombe o i carri armati di Israele possono superare in qualsiasi momento il confine e distruggere tutto. Cristiani o sciiti hezbollah possono prendere la supremazia nella zona ed ecco che tutto questo non serve più a nulla.
Ebbene, in un paese da così tanto tempo in guerra credo che sia questa la sfida più difficile: combattere questa perdita di fiducia. Trovo che tantissimi nostri colleghi, beneficiari o persone che hanno lo stesso nostro modo di vivere, abbiano perso la fiducia in un futuro normale. Lo conferma quello che sentiamo parlando con le persone in questi giorni e in queste ultime ore: che la politica è ben lontana dal bisogno della gente comune. Che chiede di poter vivere in un paese normale, in uno Stato con politiche che funzionano. Quello che non sta succedendo in Libano oggi.
Lei ha citato la missione Unifil. Le agenzie riportano che dove c’è Unifil la situazione è più vivibile: è così? Come si può portare avanti in un contesto così instabile una missione di cooperazione?
La presenza di Unifil è sicuramente importante ed è un fattore di stabilità, su questo non c’è dubbio. Nel sud del Libano grazie a Unifil – che è presente da Beirut fin verso Israele - a parte alcuni episodi il paese ha attraversato una fase di calma, un periodo di sicurezza. Non a caso in queste ore gli scontri principali avvengono nelle zone in cui Unifil non c’è. Questo è un indubbio merito di Unifil, a cui si aggiunge quello di aver creato un cuscinetto tra Israele e il Libano degli Hezbollah. È una missione che la gente vive positivamente e i militari sono ben voluti, al di là di particolari circostanze di tensione e crisi come è accaduto per i caschi blu spagnoli.
Per noi lavorare in questa situazione di crisi è una sfida quotidiana, con ragioni profonde. Questo paese è l’esempio storico di una convivenza possibile tra un mondo cristiano e un mondo musulmano e questo per noi è un valore assoluto, al quale val la pena di dedicare tutto il nostro impegno. Certo non è facile. Perché se al sud c’è Israele, con tutti i problemi storici che questo significa, in Libano vivono diverse comunità religiose che sono un valore ma che rappresentano anche un problema: per esempio il 10% della popolazione è fatto da rifugiati palestinesi che hanno uno status autonomo all’interno del paese. Poi il Libano si trova a fare da cuscinetto tra Sira e Israele perché a nord confina con la Siria, nemico storico dello Stato ebraico. È l’ultimo paese testimone di una convivenza possibile: oggi in Libano musulmani e cristiani vivono insieme. È una convivenza che purtroppo oggi viene minata da fatti gravi come quelli di questi giorni. Questo è il primo problema, ma è anche la ragione per cui vale la pena rimanere qui.
Si sa che sono stati evacuati italiani da Beirut ovest e il ministero degli Esteri parla di un ponte per agevolarne il rientro. È possibile, a suo avviso, che la situazione degeneri ulteriormente? Lei personalmente vive momenti di paura? Pensate di rientrare o di rimanere in Libano?
Io credo che la possibilità di rimanere ci sia e che questo vada fatto fino a che, naturalmente, non diventi una scelta incosciente. Cosa succederà nelle prossime ore non si può sapere. Gli Hezbollah sciiti controllano una zona della città che fino all’altro ieri era controllata dai musulmani sunniti; ora stiamo vivendo momenti di relativa calma, nonostante ci siano focolai di scontri un po’ ovunque nel paese, ma meno dei giorni scorsi. Come ho detto, è un momento di grande incertezza. È chiaro che nella complicata questione libanese contano molto anche i ministeri degli Esteri di altri paesi – Israele e la Siria e quindi Stati Uniti e Iran, per essere chiari. Se la situazione dovesse aggravarsi, prenderemo in considerazione l’ipotesi di lasciare il paese, cosa che per il momento ci sentiamo di escludere. Per quanto riguarda gli italiani che sono stati evacuati, abitavano nella zona in cui nelle ultime 48 ore ci sono stati gli scontri e sono stati portati in zone più sicure. È una situazione a macchia di leopardo. Noi viviamo in un quartiere cristiano e queste tensioni le conosciamo, anche se non siamo stati coinvolti direttamente.
1) Benedetto XVI, appello per la pace in Libano
2) Omelia di Benedetto XVI nella Solennità di Pentecoste
3) Educazione e laicità? - Il Cardinale Scola per i 150 anni del Collegio Canova Istituto Cavanis
4) "La famiglia educa oggi? La missione della famiglia nella realtà attuale, riflessioni ed orientamenti."
5) Discorso del Papa ai partecipanti al Congresso per l'Humanae vitae
6) Limite per l'aborto a 22 settimane. Bocciato Formigoni
7) Beirut: lavoriamo per costruire un clima di fiducia, nonostante tutto
11/05/2008 13:18 – Asia News
VATICANO – LIBANO
Benedetto XVI, appello per la pace in Libano
Città del Vaticano (AsiaNews) – Un forte appello per la pacificazione del Libano è stato lanciato oggi da Benedetto XVI alla fine della preghiera del Regina Caeli. Il pontefice ha esortato tutti i libanesi “ad abbandonare ogni logica di contrapposizione aggressiva, che porterebbe il loro caro Paese verso l'irreparabile”. Nei giorni scorsi le milizie sciite di Hezbollah hanno occupato le strade Beirut ovest in risposta al tentativo del governo di Fouad Sinora di piegare la loro forza militare, parallela all’esercito.
Il pontefice ha detto di aver seguito “con profonda preoccupazione, nei giorni scorsi, la situazione in Libano, dove, allo stallo dell'iniziativa politica, hanno fatto seguito, dapprima, la violenza verbale e poi gli scontri armati, con numerosi morti e feriti”. La situazione a Beirut ora è più calma, anche se si registrano scontri e tensioni a Tripoli nel nord del Paese.
“Il dialogo, la mutua comprensione e la ricerca del ragionevole compromesso – ha continuato il papa - sono l’unica via che può restituire al Libano le sue istituzioni e alla popolazione la sicurezza necessaria per una vita quotidiana dignitosa e ricca di speranza nel domani”.
Benedetto XVI ha concluso con un’invocazione perché il Libano risponda “con coraggio alla sua vocazione di essere, per il Medio Oriente e per il mondo intero, segno della reale possibilità di pacifica e costruttiva convivenza tra gli uomini”. In Libano convivono da secoli 17 comunità religiose cristiane e musulmane. “Le diverse comunità che lo compongono – ha ricordato il papa citando l’Esortazione post-sinodale Una nuova speranza per il Libano (cfr n. 1) – sono al tempo stesso ‘una ricchezza, un’originalità ed una difficoltà. Ma far vivere il Libano è un compito comune di tutti i suoi abitanti’. Con Maria, Vergine in preghiera a Pentecoste, chiediamo all’Onnipotente un’abbondante effusione dello Spirito Santo, lo Spirito dell’unità e della concordia, che a tutti ispiri pensieri di pace e di riconciliazione”.
Omelia di Benedetto XVI nella Solennità di Pentecoste
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 11 maggio 2008 (ZENIT.org).- Riportiamo il testo dell'omelia pronunciata da Benedetto XVI questa domenica, Solennità di Pentecoste, presiedendo la celebrazione eucaristica nella Basilica di San Pietro in Vaticano.
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Cari fratelli e sorelle,
il racconto dell'evento di Pentecoste, che abbiamo ascoltato nella prima Lettura, san Luca lo pone al secondo capitolo degli Atti degli Apostoli. Il capitolo è introdotto dall'espressione: "Mentre il giorno di Pentecoste stava per finire, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo" (At 2,1). Sono parole che fanno riferimento al quadro precedente, nel quale Luca ha descritto la piccola compagnia dei discepoli, che si radunava assiduamente a Gerusalemme dopo l'Ascensione al cielo di Gesù (cfr At 1,12-14). E' una descrizione ricca di dettagli: il luogo "dove abitavano" - il Cenacolo - è un ambiente "al piano superiore"; gli undici Apostoli vengono elencati per nome, e i primi tre sono Pietro, Giovanni e Giacomo, le "colonne" della comunità; insieme con loro vengono menzionate "alcune donne", "Maria, la madre di Gesù" e i "fratelli di lui", ormai integrati in questa nuova famiglia, basata non più su vincoli di sangue ma sulla fede in Cristo.
A questo "nuovo Israele" allude chiaramente il numero totale delle persone che era di "circa centoventi", multiplo del "dodici" del Collegio apostolico. Il gruppo costituisce un'autentica "qāhāl", un'"assemblea" secondo il modello della prima Alleanza, la comunità convocata per ascoltare la voce del Signore e camminare nelle sue vie. Il Libro degli Atti sottolinea che "tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera" (1,14). E' dunque la preghiera la principale attività della Chiesa nascente, mediante la quale essa riceve la sua unità dal Signore e si lascia guidare dalla sua volontà, come dimostra anche la scelta di gettare la sorte per eleggere colui che prenderà il posto di Giuda (cfr At 2,25).
Questa comunità si trovava riunita nella stessa sede, il Cenacolo, al mattino della festa ebraica di Pentecoste, festa dell'Alleanza, in cui si faceva memoria dell'evento del Sinai, quando Dio, mediante Mosè, aveva proposto ad Israele di diventare sua proprietà tra tutti i popoli, per essere segno della sua santità (cfr Es 19). Secondo il Libro dell'Esodo, quell'antico patto fu accompagnato da una terrificante manifestazione di potenza da parte del Signore: "Il monte Sinai - vi si legge - era tutto fumante, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco e il suo fumo saliva come il fumo di una fornace: tutto il monte tremava molto" (Es 19,18). Gli elementi del vento e del fuoco li ritroviamo nella Pentecoste del Nuovo Testamento, ma senza risonanze di paura. In particolare, il fuoco prende forma di lingue che si posano su ciascuno dei discepoli, i quali "furono tutti pieni di Spirito Santo" e per effetto di tale effusione "cominciarono a parlare in altre lingue" (At 2,4). Si tratta di un vero e proprio "battesimo" di fuoco della comunità, una sorta di nuova creazione. A Pentecoste la Chiesa viene costituita non da una volontà umana, ma dalla forza dello Spirito di Dio. E subito appare come questo Spirito dia vita ad una comunità che è al tempo stesso una e universale, superando così la maledizione di Babele (cfr Gn 11,7-9). Solo infatti lo Spirito Santo, che crea unità nell'amore e nella reciproca accettazione delle diversità, può liberare l'umanità dalla costante tentazione di una volontà di potenza terrena che vuole tutto dominare e uniformare.
"Societas Spiritus", società dello Spirito: così sant'Agostino chiama la Chiesa in un suo sermone (71, 19, 32: PL 38, 462). Ma già prima di lui sant'Ireneo aveva formulato una verità che mi piace qui ricordare: "Dov'è la Chiesa, là c'è lo Spirito di Dio, e dov'è lo Spirito di Dio, là c'è la Chiesa ed ogni grazia, e lo Spirito è la verità; allontanarsi dalla Chiesa è rifiutare lo Spirito" e perciò "escludersi dalla vita" (Adv. Haer. III, 24, 1). A partire dall'evento di Pentecoste si manifesta pienamente questo connubio tra lo Spirito di Cristo e il mistico Corpo di Lui, cioè la Chiesa. Vorrei soffermarmi su un aspetto peculiare dell'azione dello Spirito Santo, vale a dire sull'intreccio tra molteplicità e unità. Di questo parla la seconda Lettura, trattando dell'armonia dei diversi carismi nella comunione del medesimo Spirito. Ma già nel racconto degli Atti che abbiamo ascoltato, questo intreccio si rivela con straordinaria evidenza. Nell'evento di Pentecoste si rende chiaro che alla Chiesa appartengono molteplici lingue e culture diverse; nella fede esse possono comprendersi e fecondarsi a vicenda. San Luca vuole chiaramente trasmettere un'idea fondamentale, che cioè all'atto stesso della sua nascita la Chiesa è già "cattolica", universale. Essa parla fin dall'inizio tutte le lingue, perché il Vangelo che le è affidato è destinato a tutti i popoli, secondo la volontà e il mandato di Cristo risorto (cfr Mt 28,19). La Chiesa che nasce a Pentecoste non è anzitutto una Comunità particolare - la Chiesa di Gerusalemme - ma la Chiesa universale, che parla le lingue di tutti i popoli. Da essa nasceranno poi altre Comunità in ogni parte del mondo, Chiese particolari che sono tutte e sempre attuazioni della sola ed unica Chiesa di Cristo. La Chiesa cattolica non è pertanto una federazione di Chiese, ma un'unica realtà: la priorità ontologica spetta alla Chiesa universale. Una comunità che non fosse in questo senso cattolica non sarebbe nemmeno Chiesa.
A questo riguardo occorre aggiungere un altro aspetto: quello della visione teologica degli Atti degli Apostoli circa il cammino della Chiesa da Gerusalemme a Roma. Tra i popoli rappresentati a Gerusalemme nel giorno di Pentecoste, Luca cita anche gli "stranieri di Roma" (At 2,10). In quel momento Roma era ancora lontana, "straniera" per la Chiesa nascente: essa era simbolo del mondo pagano in generale. Ma la forza dello Spirito Santo guiderà i passi dei testimoni "fino agli estremi confini della terra" (At 1,8), fino a Roma. Il libro degli Atti degli Apostoli termina proprio quando san Paolo, attraverso un disegno provvidenziale, giunge alla capitale dell'impero e vi annuncia il Vangelo (cfr At 28,30-31). Così il cammino della Parola di Dio, iniziato a Gerusalemme, giunge alla sua meta, perché Roma rappresenta il mondo intero ed incarna perciò l'idea lucana della cattolicità. Si è realizzata la Chiesa universale, la Chiesa cattolica, che è il proseguimento del popolo dell'elezione e ne fa propria la storia e la missione.
A questo punto, e per concludere, il Vangelo di Giovanni ci offre una parola, che si accorda molto bene con il mistero della Chiesa creata dallo Spirito. La parola uscita per due volte dalla bocca di Gesù risorto quando apparve in mezzo ai discepoli nel Cenacolo, la sera di Pasqua: "Shalom - pace a voi!" (Gv 20, 19.21). L'espressione "shalom" non è un semplice saluto; è molto di più: è il dono della pace promessa (cfr Gv 14,27) e conquistata da Gesù a prezzo del suo sangue, è il frutto della sua vittoria nella lotta contro lo spirito del male. E' dunque una pace "non come la dà il mondo", ma come solo Dio può darla.
In questa festa dello Spirito e della Chiesa vogliamo rendere grazie a Dio per aver donato al suo popolo, scelto e formato in mezzo a tutte le genti, il bene inestimabile della pace, della sua pace! Al tempo stesso, rinnoviamo la presa di coscienza della responsabilità che a questo dono è connessa: responsabilità della Chiesa di essere costituzionalmente segno e strumento della pace di Dio per tutti i popoli. Ho cercato di farmi tramite di questo messaggio recandomi recentemente alla sede dell'O.N.U. per rivolgere la mia parola ai rappresentanti dei popoli. Ma non è solo a questi eventi "al vertice" che si deve pensare. La Chiesa realizza il suo servizio alla pace di Cristo soprattutto nell'ordinaria presenza e azione in mezzo agli uomini, con la predicazione del Vangelo e con i segni di amore e di misericordia che la accompagnano (cfr Mc 16,20).
Fra questi segni va naturalmente sottolineato principalmente il Sacramento della Riconciliazione, che Cristo risorto istituì nello stesso momento in cui fece dono ai discepoli della sua pace e del suo Spirito. Come abbiamo ascoltato nella pagina evangelica, Gesù alitò sugli apostoli e disse: "Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete resteranno non rimessi" (Gv 20,21-23). Quanto importante e purtroppo non sufficientemente compreso è il dono della Riconciliazione, che pacifica i cuori! La pace di Cristo si diffonde solo tramite cuori rinnovati di uomini e donne riconciliati e fatti servi della giustizia, pronti a diffondere nel mondo la pace con la sola forza della verità, senza scendere a compromessi con la mentalità del mondo, perché il mondo non può dare la pace di Cristo: ecco come la Chiesa può essere fermento di quella riconciliazione che viene da Dio. Può esserlo solo se resta docile allo Spirito e rende testimonianza al Vangelo, solo se porta la Croce come e con Gesù. Proprio questo testimoniano i santi e le sante di ogni tempo!
Alla luce di questa Parola di vita, cari fratelli e sorelle, diventi ancora più fervida e intensa la preghiera, che quest'oggi eleviamo a Dio in spirituale unione con la Vergine Maria. La Vergine dell'ascolto, la Madre della Chiesa ottenga per le nostre comunità e per tutti i cristiani una rinnovata effusione dello Spirito Santo Paraclito. "Emitte Spiritum tuum et creabuntur, et renovabis faciem terrae - Manda il tuo Spirito, tutto sarà ricreato e rinnoverai la faccia della terra". Amen!
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
Educazione e laicità? - Il Cardinale Scola per i 150 anni del Collegio Canova Istituto Cavanis
VENEZIA, sabato, 10 maggio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato dal Cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia, il 6 marzo scorso al Collegio Canova Istituto Cavanis di Possagno per la celebrazione dei 150 anni di vita dell'istituto.
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Premessa
«Cinquant’anni di povertà e di lotte, come si conveniva ad un nuovo tipo di scuola che fosse gratuita, libera e aperta». Così si legge a pagina 8 del volume dal titolo “I Venerabili Servi di Dio P. Antonio e P. Marco Cavanis” a proposito della loro vita interamente spesa al servizio di Dio e della gioventù.
Certamente, nel panorama della proposta educativa del Patriarcato di Venezia, delle nostre terre venete e ormai in diversi continenti, ma più in generale nel nostro Paese, l’opera dei Fratelli Cavanis brilla come fulgido esempio di un modello di scuola che, con la straordinaria capacità di precorrere i tempi spesso propria dei santi, appare oggi più decisivo che mai per la edificazione di una vita buona personale e sociale. Decisivo, ma purtroppo ancora troppo spesso frainteso, quando non apertamente osteggiato, perché vittima di riduzioni ideologiche che ne pregiudicano la retta comprensione.
Per questo non mi sembra inutile, prima di addentrarmi a descrivere sinteticamente quelle che sono, a mio giudizio, le strutture portanti di un sistema educativo autenticamente laico ed adeguato ad una società plurale come la nostra, proporre qualche considerazione che aiuti a chiarire i termini essenziali della questione educativa.
1. Un significativo conflitto di linguaggi
Anzitutto occorre fare una constatazione. Quando oggi in Italia si ragiona intorno al carattere della scuola, colpisce come avvenga una sorta di distorsione semantica negli aggettivi che ad essa si riferiscono, a seconda che vengano adoperati a partire dai diversi approcci ideologici. Distorsione che non di rado genera conflitto.
Facciamo qualche esempio. Una scuola “libera” è, secondo alcuni, una scuola libera da vincoli ideologici di tipo identitario. Per altri, invece, la scuola è libera proprio in quanto può trasmettere un sistema coerente di valori legati ad una precisa concezione di vita senza costrizioni da parte dello Stato.
Per gli uni, una scuola è indipendente perché in un contesto di finanziamento centralizzato può operare senza preoccuparsi di competere sul “mercato” per affermare la propria qualità; per gli altri, è indipendente perché grazie alla sua qualità (intesa come capacità di rispondere in modo adeguato ai bisogni degli “utenti”) resta sul “mercato” senza dipendere dallo Stato.
2. A proposito di laicità
Non è necessario sottolineare che questo significativo conflitto di linguaggi trova il suo zenit nell’uso del termine laico. Anche questo termine è impiegato con significati assai diversi e spesso contraddittori.
Il concetto di laicità oggi più diffuso poggia su un presupposto acritico e non dichiarato. Considera che, in una società democratica plurale, il rapporto tra il singolo individuo portatore di diritti fondamentali e lo Stato si possa correttamente dare solo a patto di non introdurre tra i due, in nessuna forma, altri elementi di riferimento e di mediazione. In questo contesto, la religione - o più in generale una ben identificabile Weltanschauung - costituirebbe un “terzo incomodo”, tollerabile solo se si riduce a fatto privato proprio del singolo individuo. È la fase ulteriore del processo per cui «la globalizzazione enfatizza una soluzione di neutralità culturale: per la democrazia occidentale odierna tutte le religioni sono “uguali” (in-differenza). La sfera pubblica è dichiarata neutrale verso le religioni (…) Alle diverse religioni si chiede e si impone di considerare il loro universalismo come un fatto privato…»[1].
In ambito scolastico questa posizione implica necessariamente l’opzione per un sistema che si vuole neutro o indifferente. Un sistema che, rinunciando a una proposta di senso, considera di fatto l’educazione prevalentemente come addestramento o apprendimento di technicalities. Senza dover esaminare in dettaglio i termini di questa proposta non ci si può impedire di rilevare che sistemi di questo tipo finiscono nelle secche di quel razionalismo intellettualistico che ancor oggi, con diverse varianti, inficia una grande parte delle istituzioni educative. Esso si esprime, da una parte, nella pretesa di “attrezzare” l’educando fornendogli una sempre più articolata gamma di competenze; dall’altra nel considerarlo come una sorta di monade autosufficiente, sciolto da ogni legame. Nozionismo ed abilità tecnico-pratiche da fornire ad un individuo separato: a questo si riduce spesso l’educazione nelle nostre società sviluppate.
La domanda che si impone allora è chiara: è accettabile l’equivalenza tra laicità e neutralità o indifferenza?
Per rispondere a questa domanda è necessario chinarci, sia pur sommariamente, sulla natura del fenomeno educativo come tale, imprescindibile punto di riferimento, di fatto o di diritto, del sistema scolastico.
3. Educazione come relazione
a) Rendere possibile un’esperienza integrale
«La cosa più importante nell'educazione non è un “affare” di educazione, e ancora meno di insegnamento»[2] così Jacques Maritain, andando al cuore della questione educativa, individua l’inquietante eppure appassionante paradosso di cui ogni vero educatore è ben consapevole. E, subito dopo, ne indica la ragione: «L’esperienza, che è un frutto incomunicabile della sofferenza e della memoria, e attraverso la quale si compie la formazione dell’uomo, non può essere insegnata in nessuna scuola e in nessun corso»[3].
La categoria di esperienza - assunta nella sua integralità, una volta sgombrato il campo da ogni riduzione psicologico-soggettivistica del termine - è il cardine della proposta educativa. L’esperienza integrale può garantire il processo educativo perché garantisce lo sviluppo di tutte le dimensioni di un individuo fino alla loro realizzazione e nello stesso tempo l’affermazione di tutte le possibilità di connessione attiva di quelle dimensioni con tutta la realtà[4]. Realtà in tutte le sue dimensioni, intesa quindi come esistente umano, esistente storico, esistente vitale, esistente cosmico. Dimensioni cariche di implicazioni tra le quali la principale è Dio.
Una simile concezione dell’educazione comporta un giudizio positivo sulla realtà. Il reale, al di là delle tensioni drammatiche che lo attraversano, al di là della sua stessa contingenza, è un bene. L’educazione, per dirla con la celeberrima definizione di Jungmann, è introduzione alla realtà totale («eine Einführung in die Gesamtwirklichkeit») proprio perché la realtà totale corrisponde - “corrispondenza” è la parola che traduce la cum-venientia dei medioevali - al cuore (alle esigenze costitutive) dell’uomo. E corrisponde perché è per il bene dell’uomo. Quindi è un positivo.
Come si rivela questa percezione della positività del reale? Si rivela a partire dalla sua natura di avvenimento. Il mistero dell’essere si dona nel reale, perciò ogni manifestazione del reale si presenta come evento (dal latino e-venio) che interpella la nostra libertà provocandola ad aderire.
In questo senso l’educatore, cercando di introdurre l’educando in un’esperienza integrale della realtà, lo conduce progressivamente a coglierne la natura propria, quella cioè di essere, in tutte le sue manifestazioni, segno del Mistero. E per i cristiani il volto del Mistero è quello del Padre che ci è stato rivelato da Gesù.
b) Natura inter-personale dell’educazione: autorità e tradizione
Una simile impostazione, ad un tempo teoretica e pratica, mette subito in campo la natura inter-personale del processo educativo.
Educatore ed educando sono considerati come liberi soggetti coinvolti in un rapporto modulato dall’imporsi del reale[5].
Imprescindibile punto di partenza perché l’educando possa percorrere la strada dell’integralità dell’esperienza è la cura che le generazioni adulte si prendono delle nuove generazioni. Per me l’immagine più efficace di cosa sia questa cura della catena di generazioni, è l’immagine di Enea che lascia Troia distrutta con Anchise sulle spalle e il figlioletto Julo per mano. L’educazione vede all’opera la catena di generazioni.
Come giustamente è stato affermato, l’educazione domanda tradizione.
Essa consiste, come diceva Blondel, in un luogo di pratica e di esperienza[6], vissuto e proposto in prima persona dall’educatore alla libertà sempre storicamente situata dell’educando. Pertanto la tradizione rettamente intesa è per sua natura aperta a tutte le domande che incombono sul presente. È innovativa. Essa garantisce, come diceva Giovanni Paolo II, la “genealogia” della persona e non solo la sua “biologia”. Assicura la piena ed autentica esperienza di paternità-figliolanza, imprescindibile condizione per suscitare civiltà[7].
Si capisce allora il peso che nella proposta educativa ha il fattore dell’autorità, termine di cui è bene non dimenticare il significato etimologico più accreditato. Il sostantivo latino auctoritas deriva dal supino del verbo latino augere che significa “far crescere”. La persona autorevole, infatti, incarna quell’ipotesi esistenziale di lavoro, cioè quel criterio di sperimentazione dei valori che la tradizione mi offre; l’autorità, quando è autentica, è l’espressione efficace della trama di relazioni comunitarie in cui si origina la mia esistenza. In questo caso l’educando sente l’autorità come profondamente con-veniente alla sua persona.
c) Natura inter-personale dell’educazione: partecipazione e rischio
L’integralità dell’esperienza, nel rispetto della natura del reale, non è garantita solo dal fatto che l’educando sia chiamato al paragone con una proposta vivente e personale veicolata dalla tradizione - sempre innovativa - attraverso una figura autorevole. È necessario che l’educando si impegni personalmente con tale proposta.
È importante capire che in questo passaggio non è semplicemente in gioco un metodo educativo più adeguato, o più consono con le legittime aspirazioni di “autonomia” dei giovani. La portata dell’affermazione a questo proposito è molto più profonda. Si tratta di riconoscere la struttura ultima del rapporto tra l’io e la realtà. In forza di tale struttura, se la libertà dell’uomo non si mette in gioco, gli è negato l’accesso alla verità. Infatti, se la verità è l’evento in cui realtà ed io si incontrano e se tale evento si dà sempre e solo nel segno, non esiste, ultimamente, possibilità di conoscere il reale (verità) senza una decisione.
Afferma l’esegeta Schlier, in proposito: «Il senso ultimo e peculiare di un evento, e quindi l’evento stesso nella sua verità, si apre solo e sempre ad una esperienza che s’abbandoni ad esso e in questo abbandono cerchi d’interpretarlo» e aggiunge: «un evento si palesa a chi partecipa all’esperienza di esso».
Così l’inevitabile rischio dell’educazione apre l’educando alla massima creatività.
d) Il dia-logo educativo
In questo modo l’educazione si attua nel rapporto tra l’educatore e l’educando sempre situati in un contesto interpersonale comunitario. Si tratta di un dialogo tra libertà.
Martin Buber, che con Ebner e Rosenzweig è annoverato tra i cosiddetti maestri del pensiero dialogico, afferma che l’autentico dialogo è uno «scambio profondo con il reale inafferrabile»[8]. Il dialogo come ambito educativo costituisce sempre uno scambio tra l’io (l’educatore che propone e si propone), il tu (l’educando che viene introdotto alla realtà totale). Scambio che è reso possibile dalla stessa realtà che per il suo carattere di segno non è mai meccanicamente afferrabile. Non esiste vero dialogo senza che si mettano in gioco la libertà dell’educatore e dell’educando nell’incessante paragone con il reale. Se mancasse uno solo di queste tre fattori, il trittico dell’educazione verrebbe inevitabilmente meno. Se manca la libertà, integralmente giocata, sia dell’educatore sia dell’educando, il dialogo diventa essenzialmente monologo; se manca l’immersione nella realtà è preclusa la strada all’esperienza.
A partire da questa concezione del dialogo educativo e del percorso fin qui sinteticamente compiuto è ora possibile ripensare il rapporto tra educazione e laicità. Dovrebbe infatti risultare più chiaro che l’equivalenza tra scuola laica e scuola neutra o non identitaria è inaccettabile. Semplicemente perché una tale scuola non può esistere, in forza della natura stessa del rapporto educativo. In altre parole, la scuola si struttura sempre all’interno di un riferimento valoriale, ultimamente riferito ad un quadro – o forse ad una cornice – di significato.
Un’educazione neutra è, di fatto, impraticabile. Infatti, se, come abbiamo mostrato, alla base di ogni educazione sta il concetto di relazione educativa, intesa come rapporto fra chi apprende e chi insegna (in genere, ma non sempre, un giovane e un adulto), in questa relazione, che fiorisce su una trama articolata di rapporti, il senso sta alla base di ogni possibilità di apprendimento[9].
4. Un sistema scolastico laico
Quali conseguenze derivano da una proposta come quella accennata in vista di un ripensamento del sistema scolastico italiano che possa essere espressione adeguata di una nuova laicità imprescindibile nell’odierna società plurale?
a) Due modelli
L’affermazione dell’impraticabilità della scuola neutra, non significa per me dare vita ad alcune battaglie ideologiche contro l’attuale sistema scolastico italiano. Semplificando possiamo dire che oggi, nel sistema scolastico italiano, esistono due modelli educativi.
* Pluralismo nella scuola unica di Stato
È un fatto che nella storia del nostro Paese è stata operata, almeno fino a poco tempo fa, una chiara scelta per una scuola unica e centralizzata. La tesi dei sostenitori della scuola unica di Stato si basa su questa convinzione: la scuola deve rispondere alla domanda di formazione di una comunità che si riconosce nello stesso universo culturale di valori, norme e comportamenti, e quindi condivide anche un’idea di educazione. Questo universo può essere identificato, nella sua espressione minimale o massimale - a questo proposito ci sono delle notevoli divergenze - con il quadro costituzionale di una determinata democrazia.
Ovviamente coloro che sostengono la scuola unica di Stato conoscono bene il carattere plurale delle nostre società. E in forza di questo dato propongono nella scuola unica di Stato il modello del pluralismo di visioni che si confrontano. Si propugna il cosiddetto “pluralismo nella scuola” opposto al “pluralismo delle scuole”. Il pluralismo, allora, è sostanzialmente reso possibile grazie alla giustapposizione di posizioni diverse, ma considerate parimenti legittime. Il mix delle idee proposte è lasciato totalmente al caso: ammesso che esista una visione sintetica interpretativa della realtà, sarà l’alunno a doversela guadagnare al termine del processo educativo, essendosi confrontato con tutte le posizioni in campo. Così si immagina una sorta di miracolistico effetto per cui i contrasti si comporranno in una armoniosa unità, consentendo all’educando di sviluppare autonomia e senso critico. Questo però è il risultato che si auspica. Il dato che si può, invece, costatare è il conflitto reale che scaturisce tra le visioni a confronto[10].
Si tratta di un modello che io considero oltre che in sé sbagliato pedagogicamente inefficace.
E questo non in forza di una prevenzione ideologica, ma solo perché considero pedagogicamente inefficace, in ordine alla ricerca, all’insegnamento e allo studio dei saperi che esigono all’origine un principio interpretativo unificatore.
* Pluralismo delle scuole
Il secondo modello, quello generalmente praticato dalle scuole cattoliche (ma anche dalle scuole montessoriane, steineriane, e dal movimento delle free schools), che è teso a garantire, in una società sempre più differenziata, la possibilità di seguire una proposta educativa che riconosca ai soggetti dell’educazione (o alle loro famiglie, quando i diretti destinatari siano troppo giovani per esprimere una scelta) una coerenza che, tenendo conto dei valori irrinunciabili di cittadinanza sancita dalla Costituzione su cui si basa un paese, consenta un reale sviluppo della persona.
In queste scuole si fa una chiara proposta sintetica educativa interpretativa del reale e si invita lo studente a verificarla e a paragonarla a 360 gradi, secondo tutte le forme moderne oggi concepite e concepibili, pienamente consapevoli del contesto di società plurale in cui il sistema scolastico è inserito.
Siccome i ragazzi sono chiamati da mille agenti educativi (pensate alla televisione, a Internet, ecc…) ad un continuo confronto tra diverse Weltanschauungen, tra diverse visioni di vita, in questa scelta da parte delle scuole non c’è nessun rischio di chiusura, tantomeno vi è la preoccupazione di creare un bel recinto in cui custodire il ragazzo. C’è invece la convinzione pedagogica che davanti ad una chiara proposta interpretativa sintetica del reale si educa meglio. Si studia e si impara meglio. A questo proposito il filone di ricerca sul successo scolastico riscontra la benefica influenza sull’apprendimento di un clima scolastico unitario e di un impostazione condivisa[11].
Questo modello scolastico promuove, inoltre, la vitalità della società civile. Infatti consente di uscire da una situazione che è vessatoria per molte famiglie, dal momento che «la combinazione fra l’obbligo di frequenza, la struttura burocratica, e un apparato abnorme si sostituisce alla scelta delle famiglie… tutte le famiglie possono scegliere il cibo, i vestiti e la casa mentre quando si tratta di lealtà, intelletto, valori fondamentali – in una parola quando è coinvolta l’umanità dell’educando – lo stato domina le ore fondamentali del suo tempo»[12], mentre il principio di sussidiarietà prevede che il processo educativo tenga sempre conto della voce dell’educando, espressa all’interno di una comunità decisionale che lo conosce e si prende cura di lui - normalmente la famiglia - con il contributo dei professionisti che hanno la responsabilità di comunicargli i speri all’interno di un preciso progetto educativo. Nelle scuole scelte dalla famiglia, il pregio principale, oltre alla libertà stessa, è che l’educando nella scuola si sente “a casa”, e quindi sviluppa empatia e impegno morale, consolidando un’identità capace di confrontarsi, e non, come temono alcuni, in contrasto con la sicurezza delle istituzioni, o isolando l’educando dal resto del mondo.
Questo è, dunque, l’altro modello presente nella nostra società.
b) L’odierno contesto culturale
Inoltre questi due modelli sono oggi chiamati a confrontarsi direttamente con un contesto culturale fortemente caratterizzato dal processo in atto - sottolineo la parola processo - che, in altri sedi, ho descritto con l’espressione meticciato di civiltà e di culture.
È necessario riconoscere che l’elevata coincidenza fra il sistema di valori e significati propri degli studenti e dei docenti, che per decenni ha caratterizzato la scuola unica di Stato in Italia, oggi è drasticamente messa in discussione. Infatti questa coincidenza è diminuita nel tempo, prima per il crescere della disparità ideologica fra genitori e insegnanti, ma anche fra genitori e genitori e fra insegnanti e insegnanti, con un processo che può essere definito come di “caduta dell’illusione dell’uniformità”, e poi - in modo più massiccio - per l’affluenza nella scuola di quote rilevanti di ragazzi stranieri di cui solo una minoranza provengono da paesi culturalmente vicini all’Italia.
I dati cambiano con grande rapidità, ho potuto prendere visione di quelli che il Ministero della Pubblica Istruzione ha fornito nello scorso mese di novembre in riferimento all’anno scolastico 2006/2007.
Nel 2006/2007 erano presenti nella scuola italiana più di mezzo milione di ragazzi con cittadinanza straniera, di cui il 25% concentrato in quattro città (Milano, Roma, Torino e Brescia) pari al 5,6%, per lo più nella scuola primaria (38.0% del totale degli stranieri), ma anche nella scuola secondaria di primo grado (22,5%) e nella secondaria (20,5%). I comuni in cui gli studenti stranieri sono più del 15% erano 17 nel 2004-2005, 33 nel 2005-2006 e 51 nel 2006-2007. Le scuole in cui i ragazzi stranieri sono più del 20% sono quasi novecento, e in 89 di esse gli studenti stranieri superano il 40%; in 216 di queste scuole sono presenti ragazzi di più di venti diversi paesi. Di questi ragazzi, il 42,6% sono in parti quasi uguali albanesi, rumeni e marocchini, tutti in ampia crescita[13].
Questi dati servono esclusivamente ad indicare una situazione così complessa (e la cui complessità è destinata a crescere rapidamente) che non è possibile immaginare una scuola unica e uniforme in grado al tempo stesso di trasmettere i valori della società di arrivo, e di rispettare quelli della società di partenza.
Mi preme però sottolineare che limitare ai ragazzi stranieri il problema della rispondenza della scuola alla domanda di educazione è fuorviante: chiaramente in riferimento ad essi è più evidente il problema della conciliazione fra diritti della persona e doveri del cittadino, ma questo tema vale per qualsiasi persona e qualsiasi cittadino italiano.
c) Il compito dello Stato
In una società veramente laica, il compito dello Stato, per quanto riguarda il sistema scolastico, non è quello di difendere un preteso diritto ad essere l’unico gestore della scuola - scegliendo in questo modo il modello di pluralismo nella scuola unica di Stato -, ma quello di garantire l’educazione[14], esercitando innanzitutto un’azione di sostegno dei più deboli.
Così quando parliamo di libertà di educazione chiediamo che i due modelli possano avere gli stessi diritti e gli stessi doveri, né più né meno. Non ci interessa fare la battaglia ideologica su quale sia il modello più giusto, anche se non ci manca un’opinione in proposito. Vogliamo stare all’interno di un sistema scolastico che conceda ad entrambi i modelli parità di condizioni giuridiche ed economiche – senza parità economica non c’è di fatto reale parità - a parità di verifica da parte degli organi statuali competenti.
Mi sembra che la strada sia quella del coraggio di applicare fino in fondo il principio delle libertà realizzate sempre più invocato in tutti i settori delle democrazie laiche e plurali odierne. Lo Stato deve rinunciare in linea di massima a farsi attore propositivo diretto di progetti scolastici per lasciare questo compito alla società civile. Deve impegnarsi invece a garantire, attraverso opportune forme di accreditamento, le condizioni oggettive di rispetto della Costituzione, soprattutto l’equità nel diritto all’accesso e alla riuscita e la qualità delle proposte formulate. Lo Stato deve passare dalla gestione al puro governo del sistema scolastico. È necessario però affermare in pari tempo che le scuole libere, promosse da liberi attori in forza del principio di sussidiarietà, dovranno attuare anche il principio di solidarietà per garantire l’effettivo e qualificato accesso di tutti soprattutto all’istruzione gratuita obbligatoria. Le scuole libere debbono essere scuole di tutti e per tutti. E gli organi statali saranno chiamati, attraverso il processo di accreditamento, a rigorose verifiche.
Concretamente questa proposta significa non espellere le famiglie dall’educazione, ma fornire loro più mezzi (informazione, sostegno economico...). Nel momento in cui ai genitori viene impedito di scegliere, il controllo dell’educazione passa di fatto in mano agli insegnanti e ai burocrati, detentori delle competenze tecniche, che tendono ad abbattere e non a potenziare la partecipazione, e tendono a difendere lo status quo»[15].
5. Un ambito di lavoro comune
La proposta di un sistema scolastico veramente laico che renda possibile nei fatti la coesistenza di questi due modelli, lungi dall’essere un campo di battaglia nel quale opporsi accanitamente, può diventare un’occasione preziosa per un lavoro comune da parte dei diversi soggetti all’opera nella società plurale.
E lo può diventare proprio a partire dal riconoscimento del protagonismo della società civile e del ruolo necessario dello Stato.
Le diverse ermeneutiche presenti nella società civile possono concorrere a dar risposta a due domande fondamentali.
In primo luogo occorre interrogarsi su come e dove si costituisce una solidarietà capace di dare vita a un progetto educativo. E questo mette in campo il dinamismo della società plurale sul quale non possiamo qui soffermarci[16].
In secondo luogo si tratterà di garantire che i progetti educativi dialoghino tra loro e rispettino un codice comune. Per quanto riguarda la diffusione delle virtù di cittadinanza, è vero che «una società stabile e democratica è impossibile senza un grado minimale di istruzione, e senza la conoscenza e la diffusa accettazione da parte dei cittadini di un insieme di valori comuni. L’educazione può contribuire ad entrambi»[17]. In questo ambito lo Stato democratico deve realizzare un equilibrio tra il ruolo di unificatore e quello di garante della diversità delle tradizioni, nei confini di una comune cultura, senza temere il dato inevitabile che nella scuola il “meglio” per una nazione o un gruppo può non esserlo affatto per un altro.
In questo ambito è nell’interesse della società e delle singole persone che le tradizioni religiose e culturali vengano mantenute: lo Stato non deve incoraggiare o scoraggiare queste identità, ma solo accertare che non siano in contrasto con i principi su cui si fonda. È giusto che lo Stato si preoccupi di evitare che le scuole finanziate con denaro pubblico attuino delle forme di discriminazione religiosa o razziale, ma non può farlo imponendo «una cultura unica, secolarizzata, di basso profilo valoriale e dottrinale praticamente a tutti, tranne a quelli che possono pagarsene una diversa»[18].
La capacità della società “laica” di assumere questi compiti eserciterà, assai più che le (mancate) riforme di sistema, un importante influsso sulla qualità della scuola, ma soprattutto sulla qualità dell’esperienza umana che consente.
Siamo ben coscienti che la nostra proposta implica tempi medio-lunghi, anche se ormai è improcrastinabile la necessità di compiere subito dei passi. La parità scolastica integralmente assunta e la pista dell’autonomia di cui per ora esiste solo il tracciato, se portate con coraggio fino in fondo, possono rappresentare una strada percorribile al fine di condurre al traguardo di una autentica libertà di educazione nel nostro paese.
Conclusione
Il grado di civiltà di una società si giudica soprattutto a partire dal peso e dalla libertà dati al fattore educativo da parte delle Istituzioni che sono chiamate a promuoverlo e a garantirlo. In quest’ottica il diritto all’educazione deve essere riconosciuto a tutti i soggetti in grado di realizzare intraprese scolastiche veramente pubbliche, cioè al servizio di tutti.
Di questo, ben due secoli fa, i fratelli Cavanis sono stati profeticamente consapevoli. Per questo hanno lottato strenuamente e si sono spesi infaticabilmente fino al termine della loro vita. Tutte le opere fiorite dal loro carisma - dal germe iniziale della Congregazione mariana del 1802, in cui sono già ben riconoscibili i tratti fondamentali del loro metodo educativo, fino all’antico e robusto albero di questo Collegio Canova, rigoglioso di frutti, o alle più recenti fondazioni in America Latina o nelle Filippine - documentano la straordinaria con-venienza della loro proposta educativa con il cuore dell’uomo di ogni tempo e a tutte le latitudini.
[1] P. Donati, Pensare la società civile come sfera pubblica religiosamente qualificata, in C. Vigna – S. Zamagni (a cura di), Multiculturalismo e identità, Vita e Pensiero, Milano 2002, 55-56.
[2] Cfr. J. Maritain, Per una filosofia dell'educazione, La Scuola, Brescia 2001, 86.
[3] Ibid., 87.
[4] Cfr. L. Giussani, Il rischio educativo, SEI, Torino, 1995, 19.
[5] Cfr. A. Scola, Ospitare il reale, PUL-Mursia, Roma 1999.
[6] Cfr. M. Blondel, Storia e dogma, Queriniana, Brescia 1992, 103-137.
[7]Cfr. A. Scola, Genealogia della persona del figlio, in Pontificio Consiglio per la Famiglia, I figli: famiglia e società nel nuovo millennio. Atti del Congresso Teologico-Pastorale Città del Vaticano 11-13 ottobre 2000, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2001, 95-104.
[8] M. Buber, Dialogo, in Id., Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1993, 206.
[9] La capacità descritta da Mead di identificare l’altro significativo rispetto all’altro generico segna nel bambino il passaggio dall’imitazione all’identificazione, primo passo nella costruzione dell’identità: G. H. Mead, Mente, sé, società, Giunti e Barnera, Firenze, 1972
[10] A parte il fatto che in una scuola esiste quantomeno una “cultura” del dirigente e una cultura degli insegnanti (e non è detto che coincidano), il fatto che gli insegnanti la pensino in modo diverso non ha affatto conseguenze positive. Holmes riscontra l’esistenza di almeno sei idealtipi di docenti - progressista, tecnocratico, culturale, tradizionale, individualista e ugualitario - tra cui il conflitto è reale e constatabile: M. Holmes, Educational policy for the pluralist democracy: the common school, choice and diversity, The Falmer Press, London 1992.
[11] A questo proposito Bryk ha parlato del Catholic school effect a partire dalla costatazione del fatto che l’esistenza di un forte modello unitario giova particolarmente ai ragazzi più svantaggiati, segnatamente gli afro americani, per lo più non cattolici: A. S. Bryk – V. E. Lee – P. B. Holland, Catholic schools and the common good, Harvard University Press, Cambridge 1993. Molto più recentemente, Morris, in un’indagine a Birmingham, riscontra che le scuole cattoliche sono particolarmente efficaci per gli studenti socialmente più svantaggiati, e proprio per questo portano un rilevante contributo al bene comune: cfr. A. B. Morris, Diversity, deprivation and the common good: pupil attainment in Catholic schools in England, in «Oxford Review of Education» 31 (2005) n. 2, 311-330.
[12] J. E. Coons – S. D. Sugarman, Education by choic: the case for family control, University of California Press, Berkeley 1978, 27.
[13] Ministero della Pubblica Istruzione, Alunni con cittadinanza non italiana, a.s. 2006/2007, Roma, novembre 2007.
[14] Quando si parla di responsabilità educative dello Stato si intendono almeno tre cose diverse: il suo potere di fissare i percorsi formativi e i curricoli; il suo potere di possedere e gestire scuole; e infine il suo potere di indirizzare gli alunni a scuole specifiche. Discutere il problema della scelta in relazione all’uno o all’altro di questi tre punti comporta ovviamente conseguenze diverse.
[15] M. Lieberman, Privatisation and educational choice, McMillan, London 1989, 21.
[16] Cfr. A. Scola, Una nuova laicità. Temi per la società plurale, Marsilio, Venezia 2007.
[17] M. Friedman, Capitalism and freedom, University of Chicago Press, Chicago 1962, 86. Trad. it.: Capitalismo e libertà, Studio Tesi, Pordenone 1967.
[18] Holmes, op. cit., 83.
"La famiglia educa oggi? La missione della famiglia nella realtà attuale, riflessioni ed orientamenti."
S.E. Card. Carlo Caffarra
S. Lazzaro di Savena, 9 maggio 2008
Prima di entrare nel tema, devo fare una premessa importante. Quando si parla della famiglia come luogo in cui si forma la persona, si rischia di fare un discorso puramente esortativo; peggio, perfino moralistico. Un discorso cioè in cui si esortano i genitori a fare/non fare certe cose coi loro figli, col rischio che essi se ne ritornano a casa più scoraggiati.
Questa sera io non vorrei riflettere in questa prospettiva, ma dirvi "qualcosa" di più semplice e di più profondo: mostrarvi come la famiglia abbia in se stessa e per se stessa la capacità, la forza di educare la persona. E quando dico "famiglia" intendo parlare della famiglia che, pure in mezzo a tutte le difficoltà quotidiane di ogni genere, vive la sua vita normale di ogni giorno.
Dobbiamo però avere un’idea chiara di che cosa significa "educare la persona": chiarezza che oggi non possiamo dare per scontata.
Il percorso dunque della mia riflessione sarà il seguente. Nel primo punto cercherò di dirvi che cosa intendo per educazione della persona; nel secondo punto cercherò di mostrarvi la capacità educativa insita nell’istituto famigliare; infine concluderò con alcune riflessioni più immediatamente pratiche.
1. Educare la persona
Vi è mai capitato di incontrare una persona che vi chiedeva la strada per arrivare in una città? È una grande metafora dell’atto educativo.
Come tutti sappiamo, l’educazione ha come destinatario la persona arrivata da poco in questo mondo. Essa vi arriva con una grande domanda dentro al cuore: quale via devo prendere per raggiungere la felicità? Fermiamoci un momento a riflettere su questa grande domanda.
Ho parlato di "felicità". Non prendete questa parola nel significato banale che ha ormai nel nostro linguaggio quotidiano. Ciascuno di noi desidera la felicità nel senso di una vita vera, di una vita buona. Non una vita qualsiasi e a qualunque costo. Ci sono dei momenti in cui noi percepiamo, sperimentiamo che cosa sia una vita vera. O negativamente, perché viviamo tali situazioni che diciamo: "ma che vita è questa? Ma questa non è vita!". O positivamente, perché viviamo esperienze tali che diciamo: "ma se la vita fosse sempre così!".
Quando una persona entra in questo mondo, non si incammina verso niente altro che verso questa meta; non desidera altro che questo. Il cammino della vita ha questo orientamento fondamentale.
La persona neo-arrivata ha bisogno in questo cammino di essere guidata? Ha bisogno che gli si indichi la strada? Se osservate per un momento la condizione umana, noterete che fra tutti gli animali l’uomo è quello che raggiunge più tardi l’autonomia, l’auto-sufficienza. Sul piano biologico questo fatto è facilmente constatabile. Ma non solo. Chi ha bambini sa che molto presto questi "tormentano" gli adulti con i loro "perché". Esiste nella persona neo-arrivata un desiderio di sapere la verità delle cose, di conoscere le ragioni di ciò che accade. Non c’è felicità se non si danno risposte alle nostra domande. La domanda della via alla felicità è una domanda circa la verità. "Felix qui potuit rerum conoscere causas", ha scritto Virgilio.
Una delle immagini più frequenti usate per descrivere la vita umana è quella della navigazione: la vita è come una traversata nel mare, verso il porto della felicità. È necessario sapere come muoversi, e conoscere le regole della navigazione. Fuori dell’immagine: la persona neo-arrivata ha bisogno di essere orientata nell’esercizio della sua libertà; ha bisogno di sapere ciò che è bene e ciò che è male.
L’educazione della persona consiste nell’indicare ad essa la via che la può condurre ad una vita vera, ad una buona vita. In una parola: alla felicità. Potrei ora esemplificare con esempi quotidiani, molto semplici. Non ne abbiamo il tempo.
Fino ad ora vi ho descritto il fatto educativo come un fatto universalmente umano. È anche un fatto cristiano? Certamente. Vediamo come.
Ricordiamo il dialogo con cui si inizia la celebrazione del battesimo dei bambini [cfr. Benedetto XVI, Lett. Enc. Spe salvi 10]. Il sacerdote chiede al bambino [ovviamente nella persona dei genitori e dei padrini]: "che cosa chiedi alla Chiesa?". Ed il bambino risponde: "la fede". Il sacerdote fa la seconda domanda: "e che cosa ti procura la fede?"; ed il bambino risponde: "la vita eterna".
Non facciamo fatica ad intravedere in questo dialogo la struttura dell’atto educativo che abbiamo poc’anzi spiegato. La Chiesa aiuta la persona da poco giunta nel mondo a prendere coscienza della domanda, del desiderio che urge dentro al suo cuore. E nello stesso tempo le chiede che cosa si aspetta dalla Chiesa; quale attesa ha nei confronti della Chiesa. La nuova persona si aspetta dalla Chiesa semplicemente la fede. Fate bene attenzione. Fede qui significa ciò che la Chiesa crede, la dottrina della fede e l’attitudine soggettiva, la virtù della fede. Potremmo dire, parafrasando la risposta: "chiedo alla Chiesa di essere educata nella fede". Il dialogo continua sempre più serrato, e la Chiesa fa la domanda che costringe l’interrogato a "scoprire i pensieri del cuore": "perché desideri essere educato nella fede?". E la persona appena arrivata risponde: "ti chiedo di essere educato nella fede, perché ritengo che questa sia la via che mi conduce ad una vita vera, ad una vita buona, ad una vita eterna".
L’educazione cristiana consiste nell’indicare la via della fede come unica via che conduce alla vita vera, alla felicità. La fede diventa, mediante l’educazione cristiana, il nostro modo di pensare: il criterio delle nostre valutazioni; la regola ultima delle nostre scelte. In una parola: diventa la nostra forma di vita.
Abbiamo detto sopra che la navigazione è una potente metafora della vita umana. Vorrei ora leggervi e brevemente commentarvi una pagina di S. Agostino che mi sembra essere una suggestiva descrizione dell’educazione cristiana. "È come se qualcuno riuscisse a vedere da lontano la patria, ma ci sia il mare che lo separa da essa. Egli vede dove deve andare, ma gli manca il mezzo con cui andare. Così è per noi che vogliamo pervenire a questa stabilità nostra, dove ciò che è è, perché questo solo è sempre così com’è. C’è di mezzo il mare di questo secolo attraverso il quale dobbiamo andare, mentre molti non vedono neppure dove devono andare. Perciò, affinché ci fosse anche il mezzo con cui andare, venne di là Colui al quale volevamo andare. E che cosa ha fatto? Ha preparato il legno con cui potessimo attraversare il mare. Infatti, nessuno può attraversare il mare di questo secolo, se non è portato dalla croce di Cristo. A questa croce potrà stringersi, talvolta, anche chi ha gli occhi malati. E chi non riesce a vedere dove deve andare, non si stacchi dalla croce, e la croce lo porterà" [Commento al Vangelo di Giovanni II,2].
Attraverso l’educazione cristiana noi impariamo a pensare come Cristo: ad avere il pensiero di Cristo; ad esercitare la nostra libertà come Cristo: ad amare come Cristo. E così giungere alla felicità. "Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica" [Gv 13,17], ha detto Gesù dopo aver lavato i piedi ai suoi discepoli.
La persona appena arrivata nel mondo chiede questo alla Chiesa, di essere educata nella fede. Chiede cioè alla Chiesa di indicarle la via della beatitudine.
Una delle espressioni fondamentali della cura educativa della Chiesa è la famiglia.
2. Famiglia ed educazione
Vediamo dunque in che modo la famiglia come tale sia capace di realizzare quell’opera educativa di cui vi parlavo.
Da quanto ho detto finora deriva una conseguenza molto importante: educare è molto di più che istruire; è profondamente diverso che istruire. Fermiamoci un momento a riflettere su questo punto.
L’istruzione consiste nella trasmissione di un sapere o teorico o pratico. Posso insegnare la matematica, e trasmetto un sapere teorico. Posso insegnare come si fa l’idraulico, e trasmetto un sapere pratico.
L’educazione è di più di questo. Lo possiamo capire notando che noi possiamo giungere a conoscere due tipi di verità molto diverse. Esistono delle verità che non hanno nessuna rilevanza sul mio modo di essere libero: sapere se il fiume più lungo è il Nilo o il Missisipi non cambia nulla circa il mio modo di vivere. Ma esistono verità che hanno una rilevanza decisiva sul mio modo di essere libero: sapere se approfittando della debolezza altrui, posso prevaricare su di lui o non posso, cambia il mio stile di vita.
L’istruzione trasmette verità che non hanno rilevanza sulla vita, sul suo senso; l’educazione trasmette una proposta di vita ritenuta l’unica degna di essere realizzata, se si vuole giungere alla felicità.
Dunque, teniamo ben ferma questa affermazione: educare è diverso da, è ben più che istruire.
Da questa diversità deriva una conseguenza assai importante: chi educa deve vivere con chi è educato. Non è possibile nessuna educazione senza una qualche comunione di vita. Questo non è vero per l’istruttore. Al limite, posso imparare le istruzioni anche da un libro. Perché questa esigenza? Per la ragione che ho già detto, e che ora voglio esporre un po’ più lungamente.
Chi educa fa una proposta di vita perché ritiene che essa sia vera e buona: sia via verso la felicità. Chi educa non è indifferente a che chi è educato accolga o rifiuti quella proposta: non guarda con occhi indifferenti al destino della persona che sta educando. Desidera che la sua proposta sia convincente.
Ma nello stesso tempo si rivolge ad una persona libera. Questa deve far propria liberamente la proposta di vita fattale dall’educatore, così come la può liberamente rifiutare.
In che modo una proposta di vita è persuasiva senza essere coattiva? È convincente senza essere necessitante? Non c’è che una via: che l’educatore possa mostrare nella propria vita che la proposta fatta è vera e buona. Che l’educatore possa dire: "questa è la proposta di vita che ti faccio, e ti assicuro che io la vivo ed i conti alla fine tornano".
Ora, come si fa a far apparire "che i conti tornano"? vivendo con la persona cui si fa la proposta.
E siamo finalmente arrivati … in famiglia. La narrazione della vicenda educativa appena abbozzata si realizza in grado eminente nella comunità famigliare. Vediamo come e perché.
Ogni genitore è sommamente appassionato al bene del figlio. Non è indifferente al suo destino, a che viva una vita buona o una cattiva vita. Vuole la sua felicità. È questa la base fondamentale di ogni rapporto educativo. E questa base è naturalmente assai solida nel rapporto genitore-figlio.
Poiché non è indifferente al bene del figlio, il genitore fa una proposta di vita; indica la via; dà una risposta alla domanda di felicità che urge nel cuore del figlio. Nessun genitore darebbe al figlio che glielo chiede un bicchiere di acqua, se dubitasse che fosse avvelenata. È una proposta di vita, quella che fa il genitore, della cui verità e bontà è certo. Una certezza che gli viene dalla sua esperienza.
Ed è a questo punto che si vede la potenza straordinaria che la famiglia ha di educare. Nessuna comunità di vita è più intima, è più prolungata nel tempo, è più continua nella quotidianità, della vita comune familiare. In un certo senso, all’interno di una normale vita famigliare i genitori educano quasi senza accorgersene.
Ma da quanto detto finora risultano evidenti anche le insidie che possono indebolire la forza educativa della famiglia. Devo almeno enunciarle, così che siate vigilanti nei loro confronti.
La prima e la più grave di tutte è la mancanza nei genitori di una proposta educativa precisa, seria, unitaria e continua. Questa mancanza può essere il risultato di una profonda incertezza interiore presente nei genitori; oppure, e sarebbe il peggio, il risultato di un vero e proprio relativismo educativo. La mancanza di una proposta genera degli schiavi, non delle persone libere.
La seconda è la mancanza di una vera e propria vita comune familiare. La vita in comune non è abitare semplicemente sotto lo stesso tetto. È dialogo; è condivisione.
La terza è la mancanza della testimonianza. Come ho già detto, in fondo l’atto educativo è una testimonianza di vita. "La mia vita dice che ciò che ti propongo è vero", dice l’educatore. Quando l’educatore non può dire questo, l’atto educativo rischia altamente l’inefficacia.
Conclusione
Non ho neppure accennato a questioni centrali oggi nell’educazione familiare, quale quella dell’autorità. Non ne avevamo il tempo. Mi premeva che voi andaste via da qui con più "coraggio educativo" di quanto ne avete quando siete arrivati.
A questo scopo, termino con un pensiero assai importante. Nella vostra proposta educativa voi non partite da zero. Siete dentro ad una grande tradizione educativa, quella cristiana, che la Chiesa tiene viva ed operante. Non sradicatevi da essa.
Discorso del Papa ai partecipanti al Congresso per l'Humanae vitae
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 11 maggio 2008 (ZENIT.org).- Riportiamo le parole pronunciate da Benedetto XVI questo sabato mattina ricevendo in udienza nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano i partecipanti al Congresso internazionale promosso dalla Pontificia Università Lateranense nel 40° Anniversario dell'Enciclica "Humanae vitae".
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Venerati Fratelli nell'Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle,
è con particolare piacere che vi accolgo al termine del lavoro, che vi ha impegnati a riflettere su un problema antico e sempre nuovo quale la responsabilità e il rispetto per il sorgere della vita umana. Saluto in modo particolare Mons. Rino Fisichella, Magnifico Rettore della Pontificia Università Lateransense, che ha promosso questo Congresso internazionale e lo ringrazio per le espressioni di saluto che ha voluto rivolgermi. Il mio saluto si estende poi agli illustri Relatori, Docenti e partecipanti tutti, che con il loro contributo hanno arricchito queste giornate di intenso lavoro. Il vostro contributo si inserisce efficacemente all'interno di quella più vasta produzione che, nel corso dei decenni, è venuta crescendo su questo tema così controverso e, tuttavia, così decisivo per il futuro dell'umanità.
Già il Concilio Vaticano II, nella Costituzione Gaudium et spes, si rivolgeva agli uomini di scienza sollecitandoli ad unire gli sforzi per raggiungere un'unità del sapere e una certezza consolidata circa le condizioni che possono favorire una "onesta regolazione della procreazione umana" (GS, 52). Il mio Predecessore di venerata memoria, il Servo di Dio Paolo VI, il 25 luglio del 1968, pubblicava la Lettera enciclica Humanae vitae. Quel documento divenne ben presto segno di contraddizione. Elaborato alla luce di una decisione sofferta, esso costituisce un significativo gesto di coraggio nel ribadire la continuità della dottrina e della tradizione della Chiesa. Quel testo, spesso frainteso ed equivocato, fece molto discutere anche perché si poneva agli albori di una profonda contestazione che segnò la vita di intere generazioni. A quarant'anni dalla sua pubblicazione quell'insegnamento non solo manifesta immutata la sua verità, ma rivela anche la lungimiranza con la quale il problema venne affrontato. Di fatto, l'amore coniugale viene descritto all'interno di un processo globale che non si arresta alla divisione tra anima e corpo né soggiace al solo sentimento, spesso fugace e precario, ma si fa carico dell'unità della persona e della totale condivisione degli sposi che nell'accoglienza reciproca offrono se stessi in una promessa di amore fedele ed esclusivo che scaturisce da una genuina scelta di libertà. Come potrebbe un simile amore rimanere chiuso al dono della vita? La vita è sempre un dono inestimabile; ogni volta che si assiste al suo sorgere percepiamo la potenza dell'azione creatrice di Dio che si fida dell'uomo e in questo modo lo chiama a costruire il futuro con la forza della speranza.
Il Magistero della Chiesa non può esonerarsi dal riflettere in maniera sempre nuova e approfondita sui principi fondamentali che riguardano il matrimonio e la procreazione. Quanto era vero ieri, rimane vero anche oggi. La verità espressa nell'Humanae vitae non muta; anzi, proprio alla luce delle nuove scoperte scientifiche, il suo insegnamento si fa più attuale e provoca a riflettere sul valore intrinseco che possiede. La parola chiave per entrare con coerenza nei suoi contenuti rimane quella dell'amore. Come ho scritto nella mia prima Enciclica Deus caritas est: "L'uomo diventa realmente se stesso quando corpo e anima si ritrovano in intima unità... Non sono né lo spirito né il corpo da soli ad amare: è l'uomo, la persona, che ama come creatura unitaria, di cui fanno parte corpo e anima" (n. 5). Tolta questa unità si perde il valore della persona e si cade nel grave pericolo di considerare il corpo come un oggetto che si può comperare o vendere (cfr ibid.). In una cultura sottoposta alla prevalenza dell'avere sull'essere, la vita umana rischia di perdere il suo valore. Se l'esercizio della sessualità si trasforma in una droga che vuole assoggettare il partner ai propri desideri e interessi, senza rispettare i tempi della persona amata, allora ciò che si deve difendere non è più solo il vero concetto dell'amore, ma in primo luogo la dignità della persona stessa. Come credenti non potremmo mai permettere che il dominio della tecnica abbia ad inficiare la qualità dell'amore e la sacralità della vita.
Non a caso Gesù, parlando dell'amore umano, si richiama a quanto operato da Dio all'inizio della creazione (cfr Mt 19,4-6). Il suo insegnamento rimanda a un atto gratuito con il quale il Creatore ha inteso non solo esprimere la ricchezza del suo amore, che si apre donandosi a tutti, ma ha voluto anche imprimere un paradigma sul quale l'agire dell'umanità deve declinarsi. Nella fecondità dell'amore coniugale l'uomo e la donna partecipano all'atto creativo del Padre e rendono evidente che all'origine della loro vita sponsale vi è un "sì" genuino che viene pronunciato e realmente vissuto nella reciprocità, rimanendo sempre aperto alla vita. Questa parola del Signore permane immutata con la sua profonda verità e non può essere cancellata dalle diverse teorie che nel corso degli anni si sono succedute e a volte perfino contraddette tra loro. La legge naturale, che è alla base del riconoscimento della vera uguaglianza tra le persone e i popoli, merita di essere riconosciuta come la fonte a cui ispirare anche il rapporto tra gli sposi nella loro responsabilità nel generare nuovi figli. La trasmissione della vita è iscritta nella natura e le sue leggi permangono come norma non scritta a cui tutti devono richiamarsi. Ogni tentativo di distogliere lo sguardo da questo principio rimane esso stesso sterile e non produce futuro.
E' urgente che riscopriamo di nuovo un'alleanza che è sempre stata feconda, quando è stata rispettata; essa vede in primo piano la ragione e l'amore. Un acuto maestro come Guglielmo di Saint Thierry poteva scrivere parole che sentiamo profondamente valide anche per il nostro tempo: "Se la ragione istruisce l'amore e l'amore illumina la ragione, se la ragione si converte in amore e l'amore acconsente a lasciarsi trattenere entro i confini della ragione, allora essi possono fare qualcosa di grande" (Natura e grandezza dell'amore, 21,8). Cos'è questo "qualcosa di grande" a cui possiamo assistere? E' il sorgere della responsabilità per la vita, che rende fecondo il dono che ognuno fa di sé all'altro. E' frutto di un amore che sa pensare e scegliere in piena libertà, senza lasciarsi condizionare oltre misura dall'eventuale sacrificio richiesto. Da qui scaturisce il miracolo della vita che i genitori sperimentano in se stessi, verificando come qualcosa di straordinario quanto si compie in loro e tramite loro. Nessuna tecnica meccanica può sostituire l'atto d'amore che due sposi si scambiano come segno di un mistero più grande che li vede protagonisti e compartecipi della creazione.
Si assiste sempre più spesso, purtroppo, a vicende tristi che coinvolgono gli adolescenti, le cui reazioni manifestano una non corretta conoscenza del mistero della vita e delle rischiose implicanze dei loro gesti. L'urgenza formativa, a cui spesso faccio riferimento, vede nel tema della vita un suo contenuto privilegiato. Auspico veramente che soprattutto ai giovani sia riservata un'attenzione del tutto peculiare, perché possano apprendere il vero senso dell'amore e si preparino per questo con un'adeguata educazione alla sessualità, senza lasciarsi distogliere da messaggi effimeri che impediscono di raggiungere l'essenza della verità in gioco. Fornire false illusioni nell'ambito dell'amore o ingannare sulle genuine responsabilità che si è chiamati ad assumere con l'esercizio della propria sessualità non fa onore a una società che si richiama ai principi di libertà e di democrazia. La libertà deve coniugarsi con la verità e la responsabilità con la forza della dedizione all'altro anche con il sacrificio; senza queste componenti non cresce la comunità degli uomini e il rischio di rinchiudersi in un cerchio di egoismo asfissiante rimane sempre in agguato.
L'insegnamento espresso dall'Enciclica Humanae vitae non è facile. Esso, tuttavia, è conforme alla struttura fondamentale mediante la quale la vita è sempre stata trasmessa fin dalla creazione del mondo, nel rispetto della natura e in conformità con le sue esigenze. Il riguardo per la vita umana e la salvaguardia della dignità della persona ci impongono di non lasciare nulla di intentato perché a tutti possa essere partecipata la genuina verità dell'amore coniugale responsabile nella piena adesione alla legge inscritta nel cuore di ogni persona. Con questi sentimenti imparto a tutti voi l'Apostolica Benedizione.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
Limite per l'aborto a 22 settimane. Bocciato Formigoni
Il Tar della Lombardia ha accolto il ricorso della Cgil contro le linee guida di applicazione della legge 194 proposte dal Pirellone.
Il limite torni a ventiquattro settimane. Il Tar della Lombardia ha bocciato le nuove linee guida della giunta Formigoni sulla legge 194. Alcune modifiche che prevedevano, tra le altre cose, che l'aborto terapeutico non fosse più praticato oltre le ventidue settimane e tre giorni dal concepimento del feto, invece delle ventiquattro generalmente accettate. Il ricorso era stato presentato da alcuni medici milanesi aderenti alla Cgil. «È stata ripristinata la libertà delle donne - spiega il segretario regionale per la Lombardia Susanna Camuso - ora la Regione [deve] dare attuazione alla sospensiva e ripristinare la libertà dei medici sottoposti a indebite pressioni». Un appello che la Regione pare già pronta a respingere: «Questo ricorso appariva del tutto insussistente dall'inizio - spiega Roberto Formigoni - quando poi avremo modo di capire le motivazioni di questa sospensoria, potremo prepararci per ricorso immediato al Consiglio di Stato». Il Pirellone, infatti, nutre ancora seri dubbi sul perché il Tar abbia deciso di bloccare tutto: «Abbiamo appreso della cosa leggendo un sito Internet del tribunale - spiega il governatore - francamente è un modo di operare che non ci può piacere». La legge 194 prevede che dopo i primi novanta giorni, periodo in cui è consentita l'interru zione volontaria di gravidanza, si possa intervenire per procurare un aborto solo «quando il parto comporti un grave pericolo per la vita della donna». Questo perché solo dopo quel momento si può parlare di vita autonoma per il feto. Secondo la Regione, però, le moderne tecnologie consentirebbero di tenere in vita un neonato già dopo la ventiduesima settimana di gestazione. «Si tratta - spiega l'assessore alla Sanità Luciano Bresciani - di una decisione strettamente connessa alle attuali evidenze scientifiche che, grazie ai notevoli passi avanti della medicina, con il passare del tempo richiedono di adeguare un limite temporale che la legge non può stabilire a priori. E i dati scientifici oggi a disposizione indicano infatti che a ventitré settimane di età gestazionale è possibile la vita autonoma del neonato». La modifica che era stata accolta con favore anche da buona parte del mondo scientifico. «È stato compiuto un passo in avanti verso la piena attuazione della legge 194 - diceva la dottoressa Alessandra Kustermann, responsabile del Servizio Diagnosi Prenatale della Fondazione Ospedale Maggiore Policlinico, Mangiagalli e Regina Elena - in particolare dell'articolo 1 dove si dice che la vita va tutelata sin dal suo inizio».
di Lorenzo Mottola
LIBERO 10 maggio 2008
Beirut: lavoriamo per costruire un clima di fiducia, nonostante tutto
Redazione12/05/2008
Autore(i): Redazione. Pubblicato il 12/05/2008 – IlSussidiario.net
Per meglio capire la situazione che si vive a Beruit, ilsussidiario.net ha intervistato Marco Perini, rappresentante dell'Ong Avsi che opera in Libano.
Dopo gli ultimi scontri a Beirut le agenzie parlano di almeno una decina di morti, riferiscono di una situazione di calma apparente e di una città presidiata dai militari. Saprebbe spiegarci la situazione?
Il tutto ha avuto inizio nel momento in cui il consiglio dei ministri del governo Siniora ha preso due decisioni: la prima di aprire un’inchiesta su una presunta rete parallela telefonica di Hezbollah, e la seconda di sostituire il responsabile della sicurezza dell’aeroporto di Beirut perché sarebbe vicino alle posizioni di Hezbollah o dell’altro movimento sciita di opposizione, Hamal.
Questo atto ha fatto salire la tensione e Hezbollah ha vissuto quella decisione come atto ostile nei suoi confronti: sapete da anni – è come se avesse detto Hezbollah al governo – che noi abbiamo questa rete di sicurezza che ci garantisce di poter comunicare tra militanti della resistenza al riparo da Israele. Prima questa rete andava bene ma ora non più, perché avete subito le pressioni di Condoleeza Rice.
Questo è l’elemento che ha fatto scatenare una settimana fa le prime tensioni, fino a due giorni fa, quando sono scoppiati scontri violenti condotti anche con armi pesanti nei quartieri controllati dai Sunniti, che al 90% fanno riferimento a Hariri e quindi alla maggioranza di governo. Di conseguenza gli Hezbollah sciiti hanno preso le armi e sono andati a conquistare i quartieri a prevalenza sunniti nella parte sud e ovest di Beirut. Stamattina, 11 maggio, questi quartieri sono sotto il controllo di Hezbollah che sta lasciando all’esercito il compito. Dopo due giorni in cui ci sono stati decine di morti, centinaia di feriti e molti danni materiali, questa mattina a Beirut regna una calma apparente che sembra preludere a qualcosa di nuovo che potrebbe accadere, ma che nessuno sa dire cosa sarà.
Lei lavora per una Ong. Questi scontri hanno cambiato qualcosa per il lavoro delle Ong presenti sul territorio libanese?
Direi che due sono gli effetti di questa crisi: un effetto immediato, come quello che stiamo vivendo in questi giorni, cioè le attività si fermano e ci sono problemi di collegamento nel paese. In questo momento, per esempio, noi abbiamo delle attività avviate sia al sud del paese che nella valle della Bekaa, ma non possiamo andarci perché le strade sono chiuse e controllate dai miliziani di una o dell’altra parte, o dall’esercito, e comunque sono insicure. Come conseguenza i nostri uffici periferici hanno problemi di collegamento e di comunicazione e quindi di sicurezza. C’è poi un secondo effetto secondo me più importante. Credo che la grande sfida per noi in questo paese - in cui l’obiettivo delle giovani generazioni è di andare a lavorare all’estero o di lasciare il paese - sia quella di testimoniare con le nostre opere un’amicizia, una fiducia, una speranza possibile. Quando succedono fatti come quelli recenti ci troviamo di fronte a persone che ci dicono: ecco, vedete, voi qui fate progetti di sviluppo, lavorate in vista del domani etc. ma qui un futuro non c’è.
Ho già avuto modo di vivere questa situazione nel sud del Libano, al confine con Israele, dove su una piana incolta stiamo lavorando ad un sistema irriguo, che può funzionare solo se musulmani e cristiani collaborano nella gestione del sistema. È un’opera che richiede un lavoro strutturale e di management molto complesso e che coinvolge due comunità che fanno fatica a convivere. Per di più siamo in una zona al confine con Israele, dove circa 8 mesi fa ci fu un attentato contro un contingente dell’Unifil in cui morirono 6 militari spagnoli. I giorni successivi i contadini ci dicevano: vedete, voi fate tutto questo con grande sforzo ma le bombe o i carri armati di Israele possono superare in qualsiasi momento il confine e distruggere tutto. Cristiani o sciiti hezbollah possono prendere la supremazia nella zona ed ecco che tutto questo non serve più a nulla.
Ebbene, in un paese da così tanto tempo in guerra credo che sia questa la sfida più difficile: combattere questa perdita di fiducia. Trovo che tantissimi nostri colleghi, beneficiari o persone che hanno lo stesso nostro modo di vivere, abbiano perso la fiducia in un futuro normale. Lo conferma quello che sentiamo parlando con le persone in questi giorni e in queste ultime ore: che la politica è ben lontana dal bisogno della gente comune. Che chiede di poter vivere in un paese normale, in uno Stato con politiche che funzionano. Quello che non sta succedendo in Libano oggi.
Lei ha citato la missione Unifil. Le agenzie riportano che dove c’è Unifil la situazione è più vivibile: è così? Come si può portare avanti in un contesto così instabile una missione di cooperazione?
La presenza di Unifil è sicuramente importante ed è un fattore di stabilità, su questo non c’è dubbio. Nel sud del Libano grazie a Unifil – che è presente da Beirut fin verso Israele - a parte alcuni episodi il paese ha attraversato una fase di calma, un periodo di sicurezza. Non a caso in queste ore gli scontri principali avvengono nelle zone in cui Unifil non c’è. Questo è un indubbio merito di Unifil, a cui si aggiunge quello di aver creato un cuscinetto tra Israele e il Libano degli Hezbollah. È una missione che la gente vive positivamente e i militari sono ben voluti, al di là di particolari circostanze di tensione e crisi come è accaduto per i caschi blu spagnoli.
Per noi lavorare in questa situazione di crisi è una sfida quotidiana, con ragioni profonde. Questo paese è l’esempio storico di una convivenza possibile tra un mondo cristiano e un mondo musulmano e questo per noi è un valore assoluto, al quale val la pena di dedicare tutto il nostro impegno. Certo non è facile. Perché se al sud c’è Israele, con tutti i problemi storici che questo significa, in Libano vivono diverse comunità religiose che sono un valore ma che rappresentano anche un problema: per esempio il 10% della popolazione è fatto da rifugiati palestinesi che hanno uno status autonomo all’interno del paese. Poi il Libano si trova a fare da cuscinetto tra Sira e Israele perché a nord confina con la Siria, nemico storico dello Stato ebraico. È l’ultimo paese testimone di una convivenza possibile: oggi in Libano musulmani e cristiani vivono insieme. È una convivenza che purtroppo oggi viene minata da fatti gravi come quelli di questi giorni. Questo è il primo problema, ma è anche la ragione per cui vale la pena rimanere qui.
Si sa che sono stati evacuati italiani da Beirut ovest e il ministero degli Esteri parla di un ponte per agevolarne il rientro. È possibile, a suo avviso, che la situazione degeneri ulteriormente? Lei personalmente vive momenti di paura? Pensate di rientrare o di rimanere in Libano?
Io credo che la possibilità di rimanere ci sia e che questo vada fatto fino a che, naturalmente, non diventi una scelta incosciente. Cosa succederà nelle prossime ore non si può sapere. Gli Hezbollah sciiti controllano una zona della città che fino all’altro ieri era controllata dai musulmani sunniti; ora stiamo vivendo momenti di relativa calma, nonostante ci siano focolai di scontri un po’ ovunque nel paese, ma meno dei giorni scorsi. Come ho detto, è un momento di grande incertezza. È chiaro che nella complicata questione libanese contano molto anche i ministeri degli Esteri di altri paesi – Israele e la Siria e quindi Stati Uniti e Iran, per essere chiari. Se la situazione dovesse aggravarsi, prenderemo in considerazione l’ipotesi di lasciare il paese, cosa che per il momento ci sentiamo di escludere. Per quanto riguarda gli italiani che sono stati evacuati, abitavano nella zona in cui nelle ultime 48 ore ci sono stati gli scontri e sono stati portati in zone più sicure. È una situazione a macchia di leopardo. Noi viviamo in un quartiere cristiano e queste tensioni le conosciamo, anche se non siamo stati coinvolti direttamente.