Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI presenta la figura di Papa San Gregorio Magno - Intervento all'Udienza generale del mercoledì
2) Harry Wu: "L'Ue finge di non sapere che in Cina ci sono mille gulag"
3) L'eugenetica e il pensiero liberale - Il miraggio della perfezione
4) La Chiesa come contrappeso alla tentazione totalitaria dello stato
5) Il senso della rieducazione, oltre le definizioni normative
6) «Svuotiamo la domanda di aborto, ora è possibile»
Benedetto XVI presenta la figura di Papa San Gregorio Magno - Intervento all'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 28 maggio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo le parole pronunciate questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale in piazza San Pietro dove ha incontrato i pellegrini e i fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana il Papa, continuando il ciclo di catechesi sui Padri della Chiesa, si è soffermato sulla figura di Papa San Gregorio Magno.
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Cari fratelli e sorelle!
mercoledì scorso ho parlato di un Padre della Chiesa poco conosciuto in Occidente, Romano il Melode, oggi vorrei presentare la figura di uno dei più grandi Padri nella storia della Chiesa, uno dei quattro dottori dell’Occidente, il Papa san Gregorio, che fu Vescovo di Roma tra il 590 e il 604, e che meritò dalla tradizione il titolo di Magnus/Grande. Gregorio fu veramente un grande Papa e un grande Dottore della Chiesa! Nacque a Roma, intorno al 540, da una ricca famiglia patrizia della gens Anicia, che si distingueva non solo per la nobiltà del sangue, ma anche per l’attaccamento alla fede cristiana e per i servizi resi alla Sede Apostolica. Da tale famiglia erano usciti due Papi: Felice III (483-492), trisavolo di Gregorio, e Agapito (535-536). La casa in cui Gregorio crebbe sorgeva sul Clivus Scauri, circondata da solenni edifici che testimoniavano la grandezza della Roma antica e la forza spirituale del cristianesimo. Ad ispirargli alti sentimenti cristiani vi erano poi gli esempi dei genitori Gordiano e Silvia, ambedue venerati come santi, e quelli delle due zie paterne, Emiliana e Tarsilia, vissute nella propria casa quali vergini consacrate in un cammino condiviso di preghiera e di ascesi.
Gregorio entrò presto nella carriera amministrativa, che aveva seguito anche il padre, e nel 572 ne raggiunse il culmine, divenendo prefetto della città. Questa mansione, complicata dalla tristezza dei tempi, gli consentì di applicarsi su vasto raggio ad ogni genere di problemi amministrativi, traendone lumi per i futuri compiti. In particolare, gli rimase un profondo senso dell’ordine e della disciplina: divenuto Papa, suggerirà ai Vescovi di prendere a modello nella gestione degli affari ecclesiastici la diligenza e il rispetto delle leggi propri dei funzionari civili. Questa vita tuttavia non lo doveva soddisfare se, non molto dopo, decise di lasciare ogni carica civile, per ritirarsi nella sua casa ed iniziare la vita di monaco, trasformando la casa di famiglia nel monastero di Sant’Andrea al Celio. Di questo periodo di vita monastica, vita di dialogo permanente con il Signore nell’ascolto della sua parola, gli resterà una perenne nostalgia che sempre di nuovo e sempre di più appare nelle sue omelie: in mezzo agli assilli delle preoccupazioni pastorali, lo ricorderà più volte nei suoi scritti come un tempo felice di raccoglimento in Dio, di dedizione alla preghiera, di serena immersione nello studio. Poté così acquisire quella profonda conoscenza della Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa di cui si servì poi nelle sue opere.
Ma il ritiro claustrale di Gregorio non durò a lungo. La preziosa esperienza maturata nell’amministrazione civile in un periodo carico di gravi problemi, i rapporti avuti in questo ufficio con i bizantini, l’universale stima che si era acquistata, indussero Papa Pelagio a nominarlo diacono e ad inviarlo a Costantinopoli quale suo "apocrisario", oggi si direbbe "Nunzio Apostolico", per favorire il superamento degli ultimi strascichi della controversia monofisita e soprattutto per ottenere l’appoggio dell’imperatore nello sforzo di contenere la pressione longobarda. La permanenza a Costantinopoli, ove con un gruppo di monaci aveva ripreso la vita monastica, fu importantissima per Gregorio, poiché gli diede modo di acquisire diretta esperienza del mondo bizantino, come pure di accostare il problema dei Longobardi, che avrebbe poi messo a dura prova la sua abilità e la sua energia negli anni del Pontificato. Dopo alcuni anni fu richiamato a Roma dal Papa, che lo nominò suo segretario. Erano anni difficili: le continue piogge, lo straripare dei fiumi, la carestia affliggevano molte zone d’Italia e la stessa Roma. Alla fine scoppiò anche la peste, che fece numerose vittime, tra le quali anche il Papa Pelagio II. Il clero, il popolo e il senato furono unanimi nello scegliere quale suo successore sulla Sede di Pietro proprio lui, Gregorio. Egli cercò di resistere, tentando anche la fuga, ma non ci fu nulla da fare: alla fine dovette cedere. Era l’anno 590.
Riconoscendo in quanto era avvenuto la volontà di Dio, il nuovo Pontefice si mise subito con lena al lavoro. Fin dall’inizio rivelò una visione singolarmente lucida della realtà con cui doveva misurarsi, una straordinaria capacità di lavoro nell’affrontare gli affari tanto ecclesiastici quanto civili, un costante equilibrio nelle decisioni, anche coraggiose, che l’ufficio gli imponeva. Si conserva del suo governo un’ampia documentazione grazie al Registro delle sue lettere (circa 800), nelle quali si riflette il quotidiano confronto con i complessi interrogativi che affluivano sul suo tavolo. Erano questioni che gli venivano dai Vescovi, dagli Abati, dai clerici, e anche dalle autorità civili di ogni ordine e grado. Tra i problemi che affliggevano in quel tempo l’Italia e Roma ve n’era uno di particolare rilievo in ambito sia civile che ecclesiale: la questione longobarda. Ad essa il Papa dedicò ogni energia possibile in vista di una soluzione veramente pacificatrice. A differenza dell’Imperatore bizantino che partiva dal presupposto che i Longobardi fossero soltanto individui rozzi e predatori da sconfiggere o da sterminare, san Gregorio vedeva questa gente con gli occhi del buon pastore, preoccupato di annunciare loro la parola di salvezza, stabilendo con essi rapporti di fraternità in vista di una futura pace fondata sul rispetto reciproco e sulla serena convivenza tra italiani, imperiali e longobardi. Si preoccupò della conversione dei giovani popoli e del nuovo assetto civile dell’Europa: i Visigoti della Spagna, i Franchi, i Sassoni, gli immigrati in Britannia ed i Longobardi, furono i destinatari privilegiati della sua missione evangelizzatrice. Abbiamo celebrato ieri la memoria liturgica di sant’Agostino di Canterbury, il capo di un gruppo di monaci incaricati da Gregorio di andare in Britannia per evangelizzare l’Inghilterra.
Per ottenere una pace effettiva a Roma e in Italia, il Papa si impegnò a fondo - era un vero pacificatore - , intraprendendo una serrata trattativa col re longobardo Agilulfo. Tale negoziazione portò ad un periodo di tregua che durò per circa tre anni (598 – 601), dopo i quali fu possibile stipulare nel 603 un più stabile armistizio. Questo risultato positivo fu ottenuto anche grazie ai paralleli contatti che, nel frattempo, il Papa intratteneva con la regina Teodolinda, che era una principessa bavarese e, a differenza dei capi degli altri popoli germanici, era cattolica, profondamente cattolica. Si conserva una serie di lettere del Papa Gregorio a questa regina, nelle quali egli rivela dimostrano la sua stima e la sua amicizia per lei. Teodolinda riuscì man mano a guidare il re al cattolicesimo, preparando così la via alla pace. Il Papa si preoccupò anche di inviarle le reliquie per la basilica di S. Giovanni Battista da lei fatta erigere a Monza, né mancò di farle giungere espressioni di augurio e preziosi doni per la medesima cattedrale di Monza in occasione della nascita e del battesimo del figlio Adaloaldo. La vicenda di questa regina costituisce una bella testimonianza circa l’importanza delle donne nella storia della Chiesa. In fondo, gli obiettivi sui quali Gregorio puntò costantemente furono tre: contenere l’espansione dei Longobardi in Italia; sottrarre la regina Teodolinda all’influsso degli scismatici e rafforzarne la fede cattolica; mediare tra Longobardi e Bizantini in vista di un accordo che garantisse la pace nella penisola e in pari tempo consentisse di svolgere un’azione evangelizzatrice tra i Longobardi stessi. Duplice fu quindi il suo costante orientamento nella complessa vicenda: promuovere intese sul piano diplomatico-politico, diffondere l’annuncio della vera fede tra le popolazioni.
Accanto all’azione meramente spirituale e pastorale, Papa Gregorio si rese attivo protagonista anche di una multiforme attività sociale. Con le rendite del cospicuo patrimonio che la Sede romana possedeva in Italia, specialmente in Sicilia, comprò e distribuì grano, soccorse chi era nel bisogno, aiutò sacerdoti, monaci e monache che vivevano nell’indigenza, pagò riscatti di cittadini caduti prigionieri dei Longobardi, comperò armistizi e tregue. Inoltre svolse sia a Roma che in altre parti d’Italia un’attenta opera di riordino amministrativo, impartendo precise istruzioni affinché i beni della Chiesa, utili alla sua sussistenza e alla sua opera evangelizzatrice nel mondo, fossero gestiti con assoluta rettitudine e secondo le regole della giustizia e della misericordia. Esigeva che i coloni fossero protetti dalle prevaricazioni dei concessionari delle terre di proprietà della Chiesa e, in caso di frode, fossero prontamente risarciti, affinché non fosse inquinato con profitti disonesti il volto della Sposa di Cristo.
Questa intensa attività Gregorio la svolse nonostante la malferma salute, che lo costringeva spesso a restare a letto per lunghi giorni. I digiuni praticati durante gli anni della vita monastica gli avevano procurato seri disturbi all’apparato digerente. Inoltre, la sua voce era molto debole così che spesso era costretto ad affidare al diacono la lettura delle sue omelie, affinchè i fedeli presenti nelle basiliche romane potessero sentirlo. Faceva comunque il possibile per celebrare nei giorni di festa Missarum sollemnia, cioè la Messa solenne, e allora incontrava personalmente il popolo di Dio, che gli era molto affezionato, perché vedeva in lui il riferimento autorevole a cui attingere sicurezza: non a caso gli venne ben presto attribuito il titolo di consul Dei. Nonostante le condizioni difficilissime in cui si trovò ad operare, riuscì a conquistarsi, grazie alla santità della vita e alla ricca umanità, la fiducia dei fedeli, conseguendo per il suo tempo e per il futuro risultati veramente grandiosi. Era un uomo immerso in Dio: il desiderio di Dio era sempre vivo nel fondo della sua anima e proprio per questo egli era sempre molto vicino al prossimo, ai bisogni della gente del suo tempo. In un tempo disastroso, anzi disperato, seppe creare pace e dare speranza. Quest’uomo di Dio ci mostra dove sono le vere sorgenti della pace, da dove viene la vera speranza e diventa così una guida anche per noi oggi.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i sacerdoti del Pontificio Collegio San Paolo apostolo, che hanno terminato gli studi nelle diverse Università Pontificie e stanno per ritornare nei rispettivi loro Paesi. Cari sacerdoti, vi esorto a vivere sempre con fedeltà il ministero pastorale, facendo tesoro della formazione ricevuta in questi anni a Roma. Saluto poi gli insegnanti, gli alunni e i genitori che partecipano al pellegrinaggio delle Maestre Pie Filippini, in occasione del terzo centenario di apertura in Roma della prima scuola da parte di S. Lucia Filippini. Cari amici, e specialmente voi, care Suore, sull’esempio della vostra Fondatrice profittate di questa ricorrenza per contribuire, con rinnovato impegno, ad affrontare l’odierna emergenza educativa nella città di Roma, cuore della cristianità. Saluto inoltre i fedeli provenienti da Nola, accompagnati dal loro Pastore Mons. Beniamino Depalma. Cari fratelli e sorelle, vi invito a testimoniare quotidianamente il Vangelo della carità, sull’esempio del vostro patrono San Paolino da Nola.
Mi rivolgo, infine, ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Sta per terminare il mese di maggio, e il pensiero va a Maria Santissima, Stella luminosa del nostro cammino cristiano. A lei, facciamo costante riferimento, contando nella sua materna intercessione, e potremo così percorrere con gioia e speranza il nostro quotidiano pellegrinaggio verso la Patria eterna.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
Harry Wu: "L'Ue finge di non sapere che in Cina ci sono mille gulag"
Il più noto tra i dissidenti anti-comunisti: "Comprate merci prodotte da schiavi di Stato e finanziate la loro schiavitù". Tè, scarpe e luci di Natale: "Tutto viene dai campi di lavoro"…
Il professor Harry Wu è innanzitutto un sopravvissuto. Nel 1960 quando venne accusato di essere un controrivoluzionario era un semplice studente di geologia di 23 anni. Si ritrovò in un campo di lavoro e ci uscì solo 19 anni dopo. Gran parte dei suoi compagni di prigionia morirono di fame o stenti. Lui promise a se stesso di sopravvivere per raccontare quell’inferno. Liberato nel 1979 e fuggito negli Stati Uniti Harry Wu è oggi il più conosciuto dissidente cinese grazie alle campagne contro i campi di lavoro e alle denunce dei traffici di organi umani espiantati ai condannati a morte cinesi. Ma il 71enne professore Harry Wu, da ieri in Italia per un ciclo di conferenze, continua a non darsi pace e promette di continuare la sua battaglia fino a quando il termine «laogai» sarà entrato in tutti i dizionari del mondo. «I laogai - spiega Harry Wu - sono come i gulag sovietici, sono il simbolo del comunismo cinese. In Cina oggi chi critica il regime finisce laogai. I laogai sono il simbolo della mancanza di libertà».
Per molti italiani i “laogai” sono una reliquia del passato...
«Sbagliano. Oggi in Cina esistono oltre mille campi di lavoro. Nei laogai la rieducazione attraverso il lavoro punta a trasformare il detenuto in un perfetto comunista e a cancellarne tutti i tratti devianti, compresa la religione e l’aspirazione alla libertà individuale. E se non ti adegui a quelle regole la pena si estende. Il lavoro di quei detenuti viene utilizzato per produrre prodotti a basso prezzo molti dei quali arrivano nel vostro Paese. In Europa fingete di non saperlo, ma un terzo del tè cinese, la gran parte delle suole di gomma o delle luminarie di Natale vengono prodotti da migliaia di schiavi di Stato. E voi pagate la loro schiavitù».
Perché accusa l’Europa e non gli Stati Uniti?
«La dogana degli Stati Uniti possiede una lista di prodotti i cui componenti arrivano dal sistema dei laogai e blocca alla frontiera quei beni. I laogai sono un segreto di Stato e molto sfugge ai controlli, ma almeno negli Stati Uniti il principio e la regola esistono. L’Unione Europea non si è mai preoccupata di fare niente di simile».
In Europa il dibattito sul boicottaggio delle Olimpiadi è però molto vivace.
«Le Olimpiadi sono un fatto transitorio, dibattere sul boicottaggio è una stupenda forma d’ipocrisia. Fra tre mesi sarà tutto finito e la Cina tornerà quella di sempre. Fareste meglio ad appassionarvi meno alle Olimpiadi ed affrontare più seriamente il problema della violazione dei diritti umani. Le Olimpiadi passano, il comunismo resta».
Lei definisce comunista un Paese che commercia con tutto il mondo ed ha aperto le sue frontiere all’economia occidentale.
«Come definirebbe un Paese dove la proprietà della terra è solo dello Stato e dove qualsiasi forma di religione non è tollerata? In Cina lei può comprare un palazzo, ma non la terra su cui è costruito, quella resta allo Stato che incassa un affitto. In Cina puoi costruire una Chiesa, ma dentro quella chiesa non potrai mai propagandare la liberta di religione. Capitalismo e libertà in Cina restano mere finzioni».
Da dove incomincerebbe la battaglia in difesa dei diritti umani?
«Dalla legge sul controllo delle nascite. Quella legge è il simbolo dell’aberrazione perché toglie a donne e famiglie il diritto naturale alla procreazione. In Cina per mettere al mondo un bimbo bisogna ottenere il permesso dello Stato, ma quel diritto si esaurisce dopo il primo figlio. Per imporre questo sistema aberrante lo stato spinge all’aborto milioni di donne e ne condanna altrettante alla sterilizzazione. Non esiste nulla di simile sulla faccia della terra».
Lei denuncia anche l’utilizzo degli organi dei condannati a morte nei trapianti eseguiti dalle cliniche di Stato. Che prove ha?
«Nel 2006 le autorità cinesi hanno riconosciuto che il 95 per cento degli organi utilizzati per i 13mila trapianti di quell’anno arrivavano dalle esecuzioni capitali. Io ho raccolto e divulgato le testimonianze di medici cinesi coinvolti in quel traffico e di pazienti consapevoli di essersi salvati grazie ai reni o al cuore di un condannato. Le prove sono raccolte in Traffici di morte, il libro realizzato dalla mia fondazione».
In Cina le esecuzioni avvengono all’aperto con un colpo alla nuca, ma per espiantare un cuore il sangue deve ancora circolare, per un rene non possono passare più di 15 minuti dal decesso. Le sue affermazioni sembrano tecnicamente incompatibili...
«Leggete le testimonianze di medici e infermieri mandati con le ambulanze sui luoghi delle esecuzioni. Raccontano di corpi raccolti dieci secondi dopo gli spari, di condannati ancora in agonia espiantati in tutta fretta. Nel caso dei trapianti congiunti cuore polmone qualche condannato è stato ucciso in salette all’interno dell’ospedale. Gli ospedali cinesi sono statali e lavorano in stretta collaborazione con le autorità governative. Chi commina le pene capitali e chi cura i pazienti fa parte dello stesso sistema. I medici vanno a visitare i condannati, ne analizzano il sangue per determinare la compatibilità con i pazienti in attesa, archiviano i dati e attendono il momento dell’esecuzione. Ricordatevi che in Cina il numero delle esecuzioni capitali è uno dei segreti di Stato meglio custoditi, ma ricordate soprattutto che il comunismo non ha alcun rispetto per la dignità dell’essere umano. Tanto meno dopo morto».
di Gian Micalessin
Il Giornale n. 21 del 2008-05-26
L'eugenetica e il pensiero liberale - Il miraggio della perfezione
di Adriano Pessina
La questione della "casualità" dell'origine della vita umana è oggi riproposta dentro una nuova cornice teorica. La cosiddetta "lotteria genetica" che starebbe alla base del nostro venire al mondo, potrebbe essere in gran parte modificata da un progetto tecnologico che disporrebbe dei mezzi - il condizionale è sempre d'obbligo - per "perfezionare" la natura umana, annunciando, per così dire, una nuova stagione dell'evoluzione. Così oggi si presenta, con il richiamo persuasivo alla "perfezione", la questione eugenetica nel contesto del pensiero liberale: non più, quindi, l'imposizione di una selezione della razza, non più una discriminazione dei deboli e dei malati, secondo la triste e tragica pratica che ha condotto, nel Novecento, dal darwinismo sociale alle pratiche di sterminio nazista, ma una consapevole scelta che i genitori dovrebbero fare, ricorrendo alla fecondazione extracorporea, per dotare i propri figli di nuove qualità fisiche e psichiche. Questo argomento, che ormai ricorre in molte pagine della filosofia contemporanea, e che contrappone chi, come il filosofo inglese James Harris, sogna una nuova razza di superuomini, a chi, come il filosofo tedesco Jürgen Habermas, paventa la fine dell'uguaglianza e dell'autonomia degli uomini, ingabbiati nelle decisioni eteronome dei nuovi produttori dell'umano, trova oggi un ulteriore elemento di riflessione nelle pagine di un saggio del filosofo americano Michael J. Sandel, tradotto per i tipi di Vita e Pensiero con il titolo Contro la perfezione. L'etica nell'età dell'ingegneria genetica. I casi concreti descritti da Sandel, tratti dalla cronaca americana, sfociano in un'ipotesi di scuola, cioè in una finzione metodologica, che pone il problema dell'eugenetica come possibilità di perfezionare l'uomo senza dover passare attraverso la selezione e l'uccisione, che egli stesso giudica ingiusta e inaccettabile, degli embrioni e dei feti che portano nel loro corpo il segno dell'umana imperfezione, ma anche, aggiungerei, della loro appartenenza alla nostra concreta condizione umana. Che cosa ci sarebbe di male nel sostituire la lotteria genetica con il progetto biotecnologico? Questa domanda è il senso stesso del titolo originale del saggio, The Case against Perfection, che rende meglio l'idea della contrapposizione tra il modello della casualità dell'origine e quello della programmazione biotecnologica. Inoltre Sandel affronta altri due temi: quello dell'incremento, con mezzi biochimici, delle nostre prestazioni fisiche e psichiche - cioè di quello che chiamiamo doping - e quello della possibilità di usare gli embrioni umani per la ricerca sulle cellule staminali. Tra il "caso" e la "perfezione" indotta biologicamente, che cosa scegliere, e in nome di che cosa? Sandel ritiene che ci si debba astenere da tutto ciò in nome della categoria del "dono", mentre ritiene che si possa accettare l'uso degli embrioni umani per la ricerca sulle cellule staminali in nome del fatto che non si possa stabilire un criterio di demarcazione per il riconoscimento della dignità umana nello sviluppo dell'uomo: ciò che appare chiaramente nell'adulto non sarebbe evidente nell'embrione umano. Sandel ricorre alla nozione di dono per rimarcare una sorta di indisponibilità delle nostre doti naturali ad ogni forma di manipolazione tecnologica: soltanto preservando la categoria del dono - e quindi della casualità - gli uomini potrebbero continuare ad apprezzare le doti naturali di ciascuno, coltivare l'amore incondizionato per i propri figli, sviluppare quel senso della solidarietà che permette di accogliere anche chi è meno dotato. Ovviamente la categoria del dono non va intesa in chiave fatalistica: Sandel non contesta la dimensione terapeutica (cioè correttiva) della medicina, ma la pretesa "perfettiva", che trascende perciò la dimensione della cura e diventa progetto e padronanza della vita. E secondo Sandel questa idea del dono potrebbe essere accolta anche fuori da una prospettiva religiosa ed assunta in chiave puramente laica o, per così dire, mondana. La metafora del dono, per quanto affascinante, non sembra però risolutiva. In primo luogo perché è difficile mantenere la nozione di dono senza pronunciarsi sull'esistenza di chi è il donatore. Perché chiamare dono un semplice fatto, e cioè il possesso di qualità naturali, fisiche o psichiche, più o meno accentuate? In secondo luogo, perché non definire dono anche le qualità progettate dai genitori per i propri figli? Per chi riceve, se vale la nozione di dono, il dono resta tale anche se il donatore è Dio, il caso, la natura, o l'intervento biotecnologico indotto dai genitori. In fondo, l'indisponibilità delle proprie qualità originarie resta tale e quale anche per chi è stato progettato, per così dire, in laboratorio. A ciò si aggiunga che, almeno in linea di principio, non esiste alcuna contraddizione tra il progetto e l'amore incondizionato e accogliente, che potrebbe sussistere anche qualora il figlio fosse frutto di una modifica biotecnologica. Nel testo, tra l'altro, emerge, con discrezione, ma con chiarezza, il fatto che spesso il desiderio del figlio perfetto rischia di essere la copertura delle frustrazioni psicologiche e fisiche di chi è insoddisfatto della propria umanità e cerca un surrogato ai propri insuccessi.
Sandel, purtroppo, sfiora soltanto la questione più radicale, e cioè quella del significato stesso di perfezione. In che modo tutte le possibili modifiche e trasformazioni biochimiche corrispondono al concetto di perfezione? Se si resta sul piano delle biotecnologie non è affatto chiaro in che cosa consista la perfezione dell'uomo e quale sia il termine di un progetto di perfezionamento per un essere contingente e finito come l'uomo stesso, in linea di principio sempre ulteriormente modificabile e trasformabile. Qual è il modello umano in base al quale perfezionare e perfezionarci? Possiamo davvero pensare in termini di perfezione senza rispondere alla domanda "chi è l'uomo?". Come diceva Agostino, noi siamo problema a noi stessi. Inoltre Sandel sembra dimenticare che ricorrere alla provetta per progettare l'umano perfetto significa trasformare l'origine come relazione tra persone che comunicano, anche nella finitezza dei loro corpi, la loro storia, con la procedura impersonale di una tecnica che fa cadere la barriera tra zootecnia e procreazione, segnando irrimediabilmente il senso della convivenza umana. Nell'epilogo, forse per rimarcare l'idea che un contro è essere contro la perfezione e un altro rinunciare al progresso terapeutico, Sandel tenta di coniugare la sua tesi del dono con la difesa della ricerca sulle cellule staminali embrionali - che pure ne comportano la distruzione. Ma l'argomento a cui ricorre non risulta adeguato - mentre son ben descritte le ragioni contro l'uso degli embrioni umani per la ricerca. Egli ricorre alla celebre figura sofistica del sorite (dal greco sòros: cumulo) per affermare che non c'è contraddizione tra il negare che l'embrione umano sia una persona umana con piena dignità e sostenere, nel contempo, che invece l'adulto lo è. Il paradosso del sorite è noto e Sandel lo ricorda così: quando posso stabilire che c'è un mucchio di grano, visto che non bastano uno o due chicchi di grano per fare un mucchio? Quanti ce ne vogliono allora? Il fatto che non esiste un numero arbitrario di chicchi per stabilire quando c'è un mucchio di grano non significa che non esista una differenza tra un chicco e un mucchio, ma basta per dire che il chicco non è un mucchio. Così, secondo Sandel, la "continuità evolutiva dalla blastocisti all'embrione impiantato, al feto, al neonato, non significa che il bambino e la blastocisti siano, moralmente parlando la stessa cosa". Perciò, riassumiamo, secondo Sandel, così come il chicco non è un mucchio di grano, l'embrione umano non è una persona, mentre lo è l'adulto. Ora, al di là di altre considerazioni di contenuto, al celebre filosofo sfugge l'inconsistenza totale dell'analogia a cui ricorre. Nel paradosso del sorite la continuità non è altro che la giustapposizione nello spazio di molti enti - in questo caso dei chicchi di grano - mentre nel caso dell'embrione abbiamo il medesimo ente che si sviluppa nel tempo e nello spazio. Non comprendere la differenza tra lo sviluppo del medesimo organismo e l'accostamento di molti enti significa precludersi la comprensione tra una definizione che riguarda la struttura di un ente - essere persona umana - e la definizione che riguarda l'unità numerica di una pluralità di enti identici - il mucchio di chicchi, o una classe di studenti. Il testo di Sandel resta comunque molto interessante e ricco di spunti, ma conferma il convincimento che se si vuole governare seriamente il nostro accresciuto potere tecnologico dobbiamo osare di più in termini di pensiero e uscire dal piano delle metafore per affrontare in termini razionali le questioni ultime dell'esistenza, anche sfidando il dogmatismo antimetafisico e antireligioso che ci impedisce di cogliere la bellezza della stessa finitezza umana, chiamata a perfezioni che resistono al fascino dell'immediato.
(©L'Osservatore Romano - 29 maggio 2008)
La Chiesa come contrappeso alla tentazione totalitaria dello stato
Sante Maletta29/05/2008
Autore(i): Sante Maletta. Pubblicato il 29/05/2008 – IlSussidiario.net
Non occorre essere degli inguaribili ottimisti per notare un elemento positivo nell’attuale dibattito italiano sulla questione della laicità dello stato. Chi riesce, magari con l’aiuto di un buon machete, a passare attraverso il fitto intrico di polemiche occasionali spesso strumentali, si accorge che qualcosa si muove e il dibattito non è più tra sordi. A ciò ha contribuito non poco l’eco del dialogo che a Monaco di Baviera nel 2004 vide protagonisti il grande filosofo tedesco Jürgen Habermas (punto di riferimento imprescindibile di ogni pensiero progressista) e l’allora cardinal Joseph Ratzinger. Circola da allora in maniera sempre più insistente il cosiddetto Dilemma di Böckenförde: Lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non può garantire.
Il punto essenziale di tale nuovo clima culturale sta nella sempre più diffusa consapevolezza che lo stato laico liberal-democratico occidentale, lungi dall’essere l’esito ovvio della modernizzazione, costituisce il punto di arrivo tanto sorprendente quanto fragile di una peculiare evoluzione storica. Un’evoluzione che trova le proprie radici nella graduale de-sacralizzazione del potere politico che s’è compiuta nell’Europa cristiana medievale, di cui lo stato laico moderno è il prodotto preterintenzionale.
Da questo punto di vista la decisione dei cristiani del tempo di S. Ambrogio di non lasciare confinare la propria religione nell’ambito del diritto privato (visto che il diritto pubblico era di origine divina) ha stabilito un equilibrio instabile tra potere politico e potere spirituale foriero certo di pericolose involuzioni in senso teocratico o secolarista, ma pure di un dinamismo capace di fecondare in maniera più unica che rara la vita sociale e culturale dei paesi europei. Se questo è vero, la speranza di risolvere una volta per tutte tale tensione in un senso o nell’altro costituisce una tentazione tanto comprensibile quanto deleteria.
Se pensiamo al periodo delle cosiddette Guerre di religione a cavallo tra Cinque e Seicento, ci rendiamo conto di quanto l’esistenza di un potere statale laico abbia contribuito a salvare le chiese cristiane dalla propria tentazione integralistica. Ma se consideriamo la storia contemporanea, è giusto rilevare che l’intransigenza di cui le chiese cristiane sono state a volte capaci nei confronti delle pretese totalitarie del potere politico ha restituito a questo il senso autentico della propria laicità. E ciò è stato possibile solo nei limiti in cui le chiese sono state capaci di difendere attraverso i martiri la coscienza individuale come luogo di rilevanza pubblica assoluta che supera lo stato e si legittima anche in base a una pretesa divina.
In definita la laicità, intesa come ciò che rende possibile la convivenza nella città, è l’esito di un rapporto tra stato e chiesa in cui entrambi non tradiscono il rapporto con la verità della propria origine, in quanto l’essere vero in questo senso implica l’accoglienza e la difesa dell’identità dell’altro.
Il senso della rieducazione, oltre le definizioni normative
Redazione29/05/2008
Autore(i): Redazione. Pubblicato il 29/05/2008 – IlSussidiario.net
L’art 27, 3° comma, della Costituzione recita che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Già il noto giurista Carnelutti affermava in quei tempi che il processo penale avrebbe fallito il suo scopo se anche con l’irrogazione della giusta pena non si fosse raggiunto l’obiettivo del riabbraccio ultimo tra la società e il reo.
Tralascio - dandone per scontata la conoscenza - la citazione di tutti gli sviluppi legislativi e giurisprudenziali (in primis della Corte Costituzionale) che, dando concreta attuazione al predetto dettato fondativo, hanno contribuito nel corso degli anni all’individuazione degli strumenti concreti per corrispondere sempre più al bisogno di un recupero delle devianze.
Ma cosa si può intendere per “rieducazione”, visto che né il legislatore, né la giurisprudenza, né gli operatori, offrono una definizione e soprattutto dei contenuti a questo concetto? A cosa deve essere rieducato il condannato, attraverso il lavoro, il trattamento (pur necessario), a quale modello di società? Si dice infatti che l’obiettivo è il reinserimento sociale. Ma anche questa espressione è ambigua e, nella concretezza dei problemi che solitamente incontra il detenuto una volta uscito dal carcere, spesso inefficace.
Vanno infatti sottolineati alcuni ordini di problemi rilevabili dal quotidiano:
1. gli educatori che fanno parte delle equipe dei carceri sono pochissimi, e a volte impreparati ad affrontare complesse problematiche, bisogni diversissimi, in relazione a tipi di reato e di autore del tutto eterogenei. E come si fa poi ad impostare un trattamento mirante alla risocializzazione di un extracomunitario che proviene da una realtà sociale completamente diversa dalla nostra, con valori, cultura, religione diverse, con un diverso senso dello Stato e della società? (e i detenuti extracomunitari costituiscono ora una grossa fetta della popolazione carceraria). E per i detenuti malati, sia fisici che psichici?
2. Anche se il detenuto, attraverso il lavoro, riesce ad uscire dall’ozio che la vita detentiva impone (anche per lunghissimi anni) ed impara ad esprimersi nel lavoro, cosa accade poi, quando uscito, si ritrova all’interno di contesti devianti e, soprattutto non trova una rete di supporto che gli consenta di mettere a frutto quello che ha imparato nel carcere? Vi è difficoltà a trovare lavoro per i giovani liberi, figuriamoci per persone magari non più giovani con il marchio del certificato penale macchiato da reati. È facile il riproporsi in questi casi di atteggiamenti nuovamente espulsivi che ributtano il detenuto nel circuito della devianza.
3. Ma poi questa società contemporanea - a detta degli stessi detenuti - non è a sua volta spesso permeata da logiche di sfruttamento e di profitto, non propone essa stessa come unici obiettivi dell’uomo, la ricchezza, il benessere e il potere? È a questa società, a questi modelli che i detenuti devono essere rieducati?
4. Le dinamiche inter-relazionali fra i diversi operatori che si occupano di esecuzione penale (magistrati, assistenti sociali, psicologi, operatori penitenziari, educatori, ecc..), sono spesso scollegate tra loro, non perseguono degli orientamenti univoci e sono appesantite da un enorme eccesso di burocrazia.
Queste obiezioni rivelano che il problema della rieducazione (è per me però preferibile parlare di rapporto educativo) è più complesso o, meglio, più profondo, rispetto ai modelli scientifici, sociologici, criminologici, come sono attualmente spesso proposti. Nella mia pratica di magistrato ho potuto constatare che l’esperienza educativa può passare solo attraverso il rapporto tra un io e un tu: se non c’è innanzitutto un rapporto, non c’è presa di consapevolezza da parte del detenuto della propria identità, è congelato in una definizione criminologico-giuridica (sono un terrorista, un sex-offender, un tossico, ecc.) e quindi non viene disvelata fino in fondo la sua dignità di persona che è sempre più del reato che ha commesso.
L’educazione deve quindi fondarsi a mio parere su una nuova concezione antropologica-relazionale dell’uomo che ha come categoria essenziale quella dell’incontro personale tra un io e un tu capaci di apertura all’altro fino al livello delle domande ultime, della sua esperienza elementare (vale a dire di quel complesso di esigenze ed evidenze che identificano il cuore dell’uomo in tutte le culture).
Ma questo richiede il chiarimento di un presupposto fondamentale:
L’uomo (il detenuto, l’internato), qualunque uomo, è persona. Secondo la linea di pensiero che si è più consolidata nel personalismo tedesco, da Max Sheler, a Edith Stein, sino Romano Guardini, essere persona significa anzitutto auto appartenenza nel numerico: «Sono uno, sono solo uno, non posso essere raddoppiato. Essere persona significa ancora appartenenza nel qualitativo: sono costui; sono solo questa persona. Non posso essere imitato; di me non può essere fatto un “caso”. (singolarità e irripetibilità). La persona è inoltre autoappartenenza in coscienza, libertà ed azione. Conoscere, decidere ed agire non sono per sé ancora persona; lo sono solo per il fatto che io mi appartengo nel sapere, nel decidere e nell’agire. La persona è infine auto appartenenza in interiorità e dignità. Interiorità significa che io, essendo persona, sono in me, presso di me, e, invero, esclusivamente. Significa che nessuno può “entrare”, se non gli apro questa interiorità. Anzi da un certo punto in avanti non la posso ulteriormente aprire anche se volessi. Qui comincia l’intima solitudine, a cui solo Dio ha accesso (persona come mistero). Nell’interiorità la persona è al nascosto e al sicuro. Tutto ciò che viene dall’esterno: osservazione, calcolo, violenza, analisi psicologica e suggestione, non arrivano qui dentro. L’aspetto per così dire “trascendente” di questa interiorità, è la dignità. La persona sta essenzialmente al di sopra del contesto naturale delle cose e del loro operare; è elevata. È tale da richiedere profondo rispetto. Appunto in ciò è sottratta ad ogni elemento di violenza, ad ogni calcolo, ad ogni classificazione usurpante. Ecco dunque, cos’è la persona. Essere-uomo vuol dire essere-persona. Non lo è per il talento o perfino per la genialità. Anche il più semplice è persona. Il bambino, che non è ancora diventato padrone di se stesso e il minorato, che non lo diventerà mai, portano il carattere di persona, in modo sopito, latente. Ciò va detto di fronte ad ogni tentativo di equiparare la particolare qualità dell’elemento personale con il talento o con altre simili qualità. L’uomo non diventa persona neanche per un suo atteggiamento o convinzione di tipo etico-religioso. Una tale concezione (v. Kierkegaard), scambia il carattere ontico della persona con il carattere etico-religioso della personalità affermata e compiuta, o quello assiologico della personalità piena di valore e ricca. Anche chi è immorale e irreligioso è persona. L’uomo è persona per essenza. Così essa resta ineliminabile. L’uomo può diventare indegno; può condurre una vita indegna di essa, la può reprimere affinché non si faccia valere. Allora egli sarà forse privo di valore e di salvezza: ma eliminare la persona non può. Tutti i tentativi di concepire la persona come puro dinamismo, come atto, in modo da farla scomparire se l’uomo non compie alcun atto, quando non pensa e non è attivo, o tutti i tentativi di collocare la persona in una sfera assiologia, nel valore e nella qualità, così da farla scomparire quando l’uomo perde valore; ebbene, tutte queste concezioni secondo le quali l’uomo può cessare di essere persona, sono necessariamente errate, La persona è qualità imperitura, volto indistruttibile; ineliminabile possibilità di dire “io” e “tu”, di pronunciare la “parola” e di percepire la “parola”». (Cfr. Romano Guardini Persona e personalità. Ed. Morcelliana. Pgg. 29-34).
L’uomo è persona. Il detenuto è persona, irripetibile nella sua unicità, interiorità e personalità. Questo offre già un primo spunto per evidenziare come concetti quali “trattamento”, “osservazione scientifica della personalità”, siano espressivi di un approccio positivistico, riduttivo della persona. L’io non può essere solo “studiato” e neppure “benevolmente trattato”, bensì amato, cioè affermato, valorizzato, rispettato, qualunque sia l’uso che egli ha fatto e fa del proprio io personalissimo.
Guardarlo come “caso” all’interno di un’ottica di mera osservazione bio-psicologica o comportamentale, influire su di lui attraverso “tecniche” pedagogiche, può tradursi, se è l’unica modalità relazionale, anche in una surretizia forma di violenza. La persona non è definita dal reato che ha commesso e il reato non può quindi diventare mera categoria criminologica definitoria dell’individuo.
Questa dinamica riduttiva è già ineludibilmente presente nella fase processuale, dove tutta la vita di un gesto, tutto il corredo personalissimo di un’identità, tutto il malessere e l’istinto cattivo, la speranza e la rabbia di un momento o di anni, tutto un universo, vengono stretti dentro la fredda astrattezza di un’imputazione. L’io non c’è più, al suo posto un fatto estratto dalla persona, studiato, analizzato, compreso, anche con attenta competenza e saggezza, ma l’io non c’è più. Così è per la condanna. Molti detenuti la percepiscono come astrattamente giusta, perché retributiva di una cattiva azione, ma come ultimamente estranea, come se non fosse la “loro”. E’ la conseguenza della mancanza di relazione tra un io e un tu. A volte quindi la doverosa imparzialità del giudice può tradursi in una gelida estraneità. La punizione deve “accadere” o svilupparsi dentro un rapporto umano, assicurato da una presenza che, mentre castiga, valorizza, riaccoglie. Perché la persona non appartiene allo Stato.
Per capire questo bisogna rifarsi alle esperienze elementari: un padre punisce il figlio per una cattiva azione, ma cos’è che provoca reale dolore nel figlio per lo sbaglio commesso? La permanenza del rapporto col padre. Il padre punisce ma c’è, non rompe il rapporto col figlio. Ciò rende possibile per il bambino passare dall’esperienza della colpa-dolore per lo sbaglio commesso (punizione), alla gioia del perdono assicurato dalla presenza del padre (io ci sono, sarò sempre con te, non me ne vado, tu sei mio figlio e con ciò riaffermo, dopo lo sbaglio, la totalità della tua identità).
Il carcere, nonostante la sua natura costrittiva e segregazionista, può essere un luogo dove può riemergere questa speranza.
Con ciò non intendo affatto stigmatizzare tutte le validissime e positive iniziative trattamentali che si stanno sviluppando sempre più all’interno delle carceri: ne ho viste moltissime che hanno suscitato ammirazione, merito anche della genialità e dell’attenzione dei direttori e operatori delle carceri.
Intendo solo affermare che c’è un “prima”, che deve attraversare tutte queste iniziative. Questo “prima” è nello sguardo, nel rapporto, nel dire “tu per me vali”, anche se non aderisci al trattamento che ho predisposto per te. E’ questa restituzione dell’io ferito alla consapevolezza della sua dignità, che può far poi capire al detenuto il significato del lavoro, non solo un’eventuale opportunità per il futuro, ma espressione potente e creativa dell’io nell’oggi.
Se manca questo, infatti, il trattamento carcerario rischia di ridursi ad una logica dentro-fuori, cioè il trattamento, gli educatori, gli assistenti, gli psichiatri lavorano sul detenuto per un domani, per un possibile “fuori” (cosa giusta ma riduttiva). Infatti come vive il detenuto l’”hic et nunc” della privazione di libertà? Solo in funzione del riacquisto della libertà un domani? E che senso ha l’oggi? In una simile logica è facile il diffondersi di atteggiamenti simulatori. Il detenuto che non incontra alcuna autentica proposta autorevole di vita nuova, tende a conformare sì il suo comportamento a ciò che gli è richiesto, ma in prospettiva di uscire, non perché è umanamente cambiato. E in questa logica prevalgono spesso i più forti. All’interno del carcere ci sono soggetti che non sanno simulare o sono fuori dalle “protezioni” dei più forti e per questo vengono esclusi da percorsi. E gli extracomunitari che spesso non hanno all’esterno riferimenti abitativi o lavorativi costituiscono una sacca ormai numericamente importante di esclusione dal processo di risocializzazione.
Secondo me, quindi, l’opera di risocializzazione, (meglio direi di comprensione di sé e del proprio esistere nel mondo), può solo cominciare da un rapporto significativo con un tu. Il rapporto con un tu che guardi al soggetto senza giudicarlo, senza congelarlo nel gesto criminoso, nel fatto che ha commesso, ma che, senza giustificare nulla (occorre dire pane al pane e vino al vino), guardi al detenuto come uomo degno di stima e che quindi ha una dignità prima di dimostrarsi di nuovo “utile “ per la società, prima che abbia un lavoro, un’istruzione e sia quindi nei termini politicamente corretti per essere considerato “riabilitato”.
Questo rapporto, poi, anche attraverso gli strumenti del lavoro (sempre positivi), e delle altre opportunità che vengono offerte, deve aiutare il detenuto a scoprire a chi appartiene, dentro una solidarietà, un’amicizia, che non viene meno anche dopo la scarcerazione.
Ed è per questo che lo Stato deve abbandonare una politica meramente “segregativa-assistenzialistica” del detenuto, lasciando al privato-sociale il compito di un intervento fattivo che non sia solo l’etica della pacca sulla spalla o dei vestiti smessi, ma di un’opera fatta di imprese che possano investire in modo costruttivo sui detenuti, attraverso una politica di detassazione, di sgravi fiscali che faciliti l’inclusione lavorativa del condannato a livelli di eccellenza e di autentica competitività sul mercato.
Così come lo Stato deve impegnarsi in una politica di sostegno delle famiglie (primo ambito di appartenenza del detenuto, cd. rete primaria), spesso doppiamente punite (per la carcerazione del congiunto e per la conseguente deprivazione del sostegno economico) e l’assistenza sociale sul territorio deve impegnarsi (invece che a meri colloqui periodici) a favorire forme di aggregazione sociale ( cd. reti secondarie) tra realtà famigliari in un tessuto connettivo sano che possa sostenerle anche nelle difficoltà e nei disagi di ordine morale e dei comportamenti interpersonali.
Guido Brambilla - Magistrato di sorveglianza Milano
«Svuotiamo la domanda di aborto, ora è possibile»
« Nessuna donna, certo, desidera abortire come si può desiderare un gelato o una Porsche. Vuole l’aborto come un animale preso in trappola desidera strapparsi la zampa». È uno degli slogan del gruppo di femministe americane Feminists for life, adottato anche dall’associazione «Il dono».
Una frase scioccante: eppure quelle locandine non vengono tirate fuori da un vecchio ripostiglio e srotolate solo in occasione di qualche marcia di attivisti provita. Alcune campeggiano nelle bacheche di diversi consultori pubblici d’Italia. Strutture che collaborano attivamente con il mondo del volontariato sociale dove non sempre – come invece spesso accade – l’unica via d’uscita prospettata è quella di abortire. Già, perché ancora prima e a prescindere dalla discussione sull’opportunità e fattibilità di cambiare anche solo una virgola dell’inossidabile 194, uguale a se stessa da trent’anni, c’è qualcuno che si è già dato da fare per mettere in campo tutti gli strumenti a disposizione per raggiungere il traguardo – in questo momento largamente condiviso – di portare la domanda di aborto il più vicino possibile allo zero.
Ne è un esempio l’associazione «Il dono» (www.il-dono.it), che si rivolge sia alle donne in difficoltà a causa di una gravidanza imprevista sia a quelle che hanno già abortito e necessitano di un sostegno post-aborto, offerto attraverso l’esperienza di chi ha già vissuto questa terribile esperienza e ora si dedica ad aiutare le altre: «Dobbiamo smetterla di parlare dell’aborto come di un diritto. L’anno scorso – racconta la presidente Serena Taccari – ho seguito circa 450 donne, quasi tutte italiane, che si sono rivolte alla nostra associazione per avere un sostegno postaborto. Posso assicurare che nessuna di queste scegliendo di abortire ritiene di aver usufruito di un diritto. Molte sono disperate, e rimpiangono di non aver avuto prima la possibilità di parlarne con qualcuno».
Solo partendo da questo presupposto sarà possibile mettere in campo tutte le forze: «Siamo circa un centinaio di volontari sparsi in tutta Italia – prosegue Taccari – e mai avremmo immaginato di poter lavorare fianco a fianco degli operatori del consultorio pubblico. Eppure ci hanno cercate loro, chiedendoci espressamente di mettere a disposizione la nostra esperienza per un servizio paraconsultoriale, oggi attivo in alcuni consultori della Sicilia, in sei strutture di Roma e, in fase di avvio, a Piacenza e Milano. In questo modo il consultorio può diventare davvero un luogo in cui oltre all’interruzione di gravidanza si offre una reale alternativa. Pannolini e latte sono l’offerta minima: cerchiamo di dare condivisione, vicinanza, spesso da parte di donne che in passato hanno abortito e sanno cosa significa».
Una sinergia che alla Mangiagalli di Milano funziona bene da diversi anni, visto che la sede del Centro di aiuto alla vita è proprio accanto alla sala operatoria.
Una presenza professionale e costante, che nel 2007 ha portato i volontari del Cav ad aiutare 900 mamme in difficoltà. Ma anche a spendere 1 milione e 750 mila euro.
«L’ente pubblico latita, non ha risorse e lascia esclusivamente a noi il compito di assolvere quello che la legge prescrive – sbotta la presidente Paola Marozzi Bonzi –. Dobbiamo applicare tutte le parti della legge 194, e invece talvolta ho il sospetto che nel titolo si parli di 'Norme per la tutela sociale della maternità' solo per rendere accettabile l’intera norma. In realtà si tratta di un inganno, perché lo Stato non fa nulla per disincentivare l’aborto. Il compito di attuare la parte positiva della legge non può essere delegato dallo Stato alle associazioni di volontariato: deve farlo anche e soprattutto il pubblico. Trovo profondamente ingiusto – prosegue la presidente del Cav – lasciare alle associazioni il compito di reperire i fondi per aiutare le donne, mentre il pubblico non ha risorse per questo. Noi siamo i primi a voler applicare interamente la legge e a voler lavorare insieme alle strutture pubbliche».
E intanto c’è chi anche nelle strutture pubbliche si rende conto delle potenzialità che queste hanno, come ci spiega Maria Pia Caretto, psicologa al consultorio di Parabiago, alle porte di Milano: «Il nostro ruolo, e quello di tutti i consultori, dovrebbe essere quello di aiutare la donna che si rivolge a noi per una Ivg a riflettere, a fermarsi e pensare a ciò che la sua scelta significa, sui motivi, sulle conseguenze. Mi sembra importante non sottovalutare questo spetto perché noto che spesso scatta un meccanismo di difesa e di negazione: 'Ho già deciso, di cosa dobbiamo parlare?'.
È quello che dicono molte donne quando arrivano da noi. Eppure mi rendo conto che spesso non hanno riflettuto sulle conseguenze che questa scelta porta con sé, e che si manifesteranno non solo nella loro vita di donne ma anche nella loro vita di coppia, nella loro vita di madri, se già lo sono. Spesso ci chiedendo di abortire senza averne parlato con qualcuno, o comunque non con persone che per la loro esperienza e professionalità possano aiutarle a vedere aspetti che in quel momento non riescono a vedere».
Nell’assolvere questo compito dettato dalla legge è fondamentale la formazione degli operatori:« Il colloquio previsto prima di accedere all’aborto – afferma la psicologa – non è mai neutro; moltissimo dipende da chi lo fa, non solo da cosa dici ma anche da come lo dici, da come guardi la persona che hai di fronte». Per quanto riguarda la collaborazione pubblico-privato «c’è ancora molto da fare – conclude – anche se la Regione Lombardia cerca di favorirla. La nostra Asl ha da poco organizzato una giornata di studio con gli operatori sia del pubblico che del privato: un modo per conoscersi e cercare di collaborare per ridurre la domanda di aborto».
1) Benedetto XVI presenta la figura di Papa San Gregorio Magno - Intervento all'Udienza generale del mercoledì
2) Harry Wu: "L'Ue finge di non sapere che in Cina ci sono mille gulag"
3) L'eugenetica e il pensiero liberale - Il miraggio della perfezione
4) La Chiesa come contrappeso alla tentazione totalitaria dello stato
5) Il senso della rieducazione, oltre le definizioni normative
6) «Svuotiamo la domanda di aborto, ora è possibile»
Benedetto XVI presenta la figura di Papa San Gregorio Magno - Intervento all'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 28 maggio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo le parole pronunciate questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale in piazza San Pietro dove ha incontrato i pellegrini e i fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana il Papa, continuando il ciclo di catechesi sui Padri della Chiesa, si è soffermato sulla figura di Papa San Gregorio Magno.
* * *
Cari fratelli e sorelle!
mercoledì scorso ho parlato di un Padre della Chiesa poco conosciuto in Occidente, Romano il Melode, oggi vorrei presentare la figura di uno dei più grandi Padri nella storia della Chiesa, uno dei quattro dottori dell’Occidente, il Papa san Gregorio, che fu Vescovo di Roma tra il 590 e il 604, e che meritò dalla tradizione il titolo di Magnus/Grande. Gregorio fu veramente un grande Papa e un grande Dottore della Chiesa! Nacque a Roma, intorno al 540, da una ricca famiglia patrizia della gens Anicia, che si distingueva non solo per la nobiltà del sangue, ma anche per l’attaccamento alla fede cristiana e per i servizi resi alla Sede Apostolica. Da tale famiglia erano usciti due Papi: Felice III (483-492), trisavolo di Gregorio, e Agapito (535-536). La casa in cui Gregorio crebbe sorgeva sul Clivus Scauri, circondata da solenni edifici che testimoniavano la grandezza della Roma antica e la forza spirituale del cristianesimo. Ad ispirargli alti sentimenti cristiani vi erano poi gli esempi dei genitori Gordiano e Silvia, ambedue venerati come santi, e quelli delle due zie paterne, Emiliana e Tarsilia, vissute nella propria casa quali vergini consacrate in un cammino condiviso di preghiera e di ascesi.
Gregorio entrò presto nella carriera amministrativa, che aveva seguito anche il padre, e nel 572 ne raggiunse il culmine, divenendo prefetto della città. Questa mansione, complicata dalla tristezza dei tempi, gli consentì di applicarsi su vasto raggio ad ogni genere di problemi amministrativi, traendone lumi per i futuri compiti. In particolare, gli rimase un profondo senso dell’ordine e della disciplina: divenuto Papa, suggerirà ai Vescovi di prendere a modello nella gestione degli affari ecclesiastici la diligenza e il rispetto delle leggi propri dei funzionari civili. Questa vita tuttavia non lo doveva soddisfare se, non molto dopo, decise di lasciare ogni carica civile, per ritirarsi nella sua casa ed iniziare la vita di monaco, trasformando la casa di famiglia nel monastero di Sant’Andrea al Celio. Di questo periodo di vita monastica, vita di dialogo permanente con il Signore nell’ascolto della sua parola, gli resterà una perenne nostalgia che sempre di nuovo e sempre di più appare nelle sue omelie: in mezzo agli assilli delle preoccupazioni pastorali, lo ricorderà più volte nei suoi scritti come un tempo felice di raccoglimento in Dio, di dedizione alla preghiera, di serena immersione nello studio. Poté così acquisire quella profonda conoscenza della Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa di cui si servì poi nelle sue opere.
Ma il ritiro claustrale di Gregorio non durò a lungo. La preziosa esperienza maturata nell’amministrazione civile in un periodo carico di gravi problemi, i rapporti avuti in questo ufficio con i bizantini, l’universale stima che si era acquistata, indussero Papa Pelagio a nominarlo diacono e ad inviarlo a Costantinopoli quale suo "apocrisario", oggi si direbbe "Nunzio Apostolico", per favorire il superamento degli ultimi strascichi della controversia monofisita e soprattutto per ottenere l’appoggio dell’imperatore nello sforzo di contenere la pressione longobarda. La permanenza a Costantinopoli, ove con un gruppo di monaci aveva ripreso la vita monastica, fu importantissima per Gregorio, poiché gli diede modo di acquisire diretta esperienza del mondo bizantino, come pure di accostare il problema dei Longobardi, che avrebbe poi messo a dura prova la sua abilità e la sua energia negli anni del Pontificato. Dopo alcuni anni fu richiamato a Roma dal Papa, che lo nominò suo segretario. Erano anni difficili: le continue piogge, lo straripare dei fiumi, la carestia affliggevano molte zone d’Italia e la stessa Roma. Alla fine scoppiò anche la peste, che fece numerose vittime, tra le quali anche il Papa Pelagio II. Il clero, il popolo e il senato furono unanimi nello scegliere quale suo successore sulla Sede di Pietro proprio lui, Gregorio. Egli cercò di resistere, tentando anche la fuga, ma non ci fu nulla da fare: alla fine dovette cedere. Era l’anno 590.
Riconoscendo in quanto era avvenuto la volontà di Dio, il nuovo Pontefice si mise subito con lena al lavoro. Fin dall’inizio rivelò una visione singolarmente lucida della realtà con cui doveva misurarsi, una straordinaria capacità di lavoro nell’affrontare gli affari tanto ecclesiastici quanto civili, un costante equilibrio nelle decisioni, anche coraggiose, che l’ufficio gli imponeva. Si conserva del suo governo un’ampia documentazione grazie al Registro delle sue lettere (circa 800), nelle quali si riflette il quotidiano confronto con i complessi interrogativi che affluivano sul suo tavolo. Erano questioni che gli venivano dai Vescovi, dagli Abati, dai clerici, e anche dalle autorità civili di ogni ordine e grado. Tra i problemi che affliggevano in quel tempo l’Italia e Roma ve n’era uno di particolare rilievo in ambito sia civile che ecclesiale: la questione longobarda. Ad essa il Papa dedicò ogni energia possibile in vista di una soluzione veramente pacificatrice. A differenza dell’Imperatore bizantino che partiva dal presupposto che i Longobardi fossero soltanto individui rozzi e predatori da sconfiggere o da sterminare, san Gregorio vedeva questa gente con gli occhi del buon pastore, preoccupato di annunciare loro la parola di salvezza, stabilendo con essi rapporti di fraternità in vista di una futura pace fondata sul rispetto reciproco e sulla serena convivenza tra italiani, imperiali e longobardi. Si preoccupò della conversione dei giovani popoli e del nuovo assetto civile dell’Europa: i Visigoti della Spagna, i Franchi, i Sassoni, gli immigrati in Britannia ed i Longobardi, furono i destinatari privilegiati della sua missione evangelizzatrice. Abbiamo celebrato ieri la memoria liturgica di sant’Agostino di Canterbury, il capo di un gruppo di monaci incaricati da Gregorio di andare in Britannia per evangelizzare l’Inghilterra.
Per ottenere una pace effettiva a Roma e in Italia, il Papa si impegnò a fondo - era un vero pacificatore - , intraprendendo una serrata trattativa col re longobardo Agilulfo. Tale negoziazione portò ad un periodo di tregua che durò per circa tre anni (598 – 601), dopo i quali fu possibile stipulare nel 603 un più stabile armistizio. Questo risultato positivo fu ottenuto anche grazie ai paralleli contatti che, nel frattempo, il Papa intratteneva con la regina Teodolinda, che era una principessa bavarese e, a differenza dei capi degli altri popoli germanici, era cattolica, profondamente cattolica. Si conserva una serie di lettere del Papa Gregorio a questa regina, nelle quali egli rivela dimostrano la sua stima e la sua amicizia per lei. Teodolinda riuscì man mano a guidare il re al cattolicesimo, preparando così la via alla pace. Il Papa si preoccupò anche di inviarle le reliquie per la basilica di S. Giovanni Battista da lei fatta erigere a Monza, né mancò di farle giungere espressioni di augurio e preziosi doni per la medesima cattedrale di Monza in occasione della nascita e del battesimo del figlio Adaloaldo. La vicenda di questa regina costituisce una bella testimonianza circa l’importanza delle donne nella storia della Chiesa. In fondo, gli obiettivi sui quali Gregorio puntò costantemente furono tre: contenere l’espansione dei Longobardi in Italia; sottrarre la regina Teodolinda all’influsso degli scismatici e rafforzarne la fede cattolica; mediare tra Longobardi e Bizantini in vista di un accordo che garantisse la pace nella penisola e in pari tempo consentisse di svolgere un’azione evangelizzatrice tra i Longobardi stessi. Duplice fu quindi il suo costante orientamento nella complessa vicenda: promuovere intese sul piano diplomatico-politico, diffondere l’annuncio della vera fede tra le popolazioni.
Accanto all’azione meramente spirituale e pastorale, Papa Gregorio si rese attivo protagonista anche di una multiforme attività sociale. Con le rendite del cospicuo patrimonio che la Sede romana possedeva in Italia, specialmente in Sicilia, comprò e distribuì grano, soccorse chi era nel bisogno, aiutò sacerdoti, monaci e monache che vivevano nell’indigenza, pagò riscatti di cittadini caduti prigionieri dei Longobardi, comperò armistizi e tregue. Inoltre svolse sia a Roma che in altre parti d’Italia un’attenta opera di riordino amministrativo, impartendo precise istruzioni affinché i beni della Chiesa, utili alla sua sussistenza e alla sua opera evangelizzatrice nel mondo, fossero gestiti con assoluta rettitudine e secondo le regole della giustizia e della misericordia. Esigeva che i coloni fossero protetti dalle prevaricazioni dei concessionari delle terre di proprietà della Chiesa e, in caso di frode, fossero prontamente risarciti, affinché non fosse inquinato con profitti disonesti il volto della Sposa di Cristo.
Questa intensa attività Gregorio la svolse nonostante la malferma salute, che lo costringeva spesso a restare a letto per lunghi giorni. I digiuni praticati durante gli anni della vita monastica gli avevano procurato seri disturbi all’apparato digerente. Inoltre, la sua voce era molto debole così che spesso era costretto ad affidare al diacono la lettura delle sue omelie, affinchè i fedeli presenti nelle basiliche romane potessero sentirlo. Faceva comunque il possibile per celebrare nei giorni di festa Missarum sollemnia, cioè la Messa solenne, e allora incontrava personalmente il popolo di Dio, che gli era molto affezionato, perché vedeva in lui il riferimento autorevole a cui attingere sicurezza: non a caso gli venne ben presto attribuito il titolo di consul Dei. Nonostante le condizioni difficilissime in cui si trovò ad operare, riuscì a conquistarsi, grazie alla santità della vita e alla ricca umanità, la fiducia dei fedeli, conseguendo per il suo tempo e per il futuro risultati veramente grandiosi. Era un uomo immerso in Dio: il desiderio di Dio era sempre vivo nel fondo della sua anima e proprio per questo egli era sempre molto vicino al prossimo, ai bisogni della gente del suo tempo. In un tempo disastroso, anzi disperato, seppe creare pace e dare speranza. Quest’uomo di Dio ci mostra dove sono le vere sorgenti della pace, da dove viene la vera speranza e diventa così una guida anche per noi oggi.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i sacerdoti del Pontificio Collegio San Paolo apostolo, che hanno terminato gli studi nelle diverse Università Pontificie e stanno per ritornare nei rispettivi loro Paesi. Cari sacerdoti, vi esorto a vivere sempre con fedeltà il ministero pastorale, facendo tesoro della formazione ricevuta in questi anni a Roma. Saluto poi gli insegnanti, gli alunni e i genitori che partecipano al pellegrinaggio delle Maestre Pie Filippini, in occasione del terzo centenario di apertura in Roma della prima scuola da parte di S. Lucia Filippini. Cari amici, e specialmente voi, care Suore, sull’esempio della vostra Fondatrice profittate di questa ricorrenza per contribuire, con rinnovato impegno, ad affrontare l’odierna emergenza educativa nella città di Roma, cuore della cristianità. Saluto inoltre i fedeli provenienti da Nola, accompagnati dal loro Pastore Mons. Beniamino Depalma. Cari fratelli e sorelle, vi invito a testimoniare quotidianamente il Vangelo della carità, sull’esempio del vostro patrono San Paolino da Nola.
Mi rivolgo, infine, ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Sta per terminare il mese di maggio, e il pensiero va a Maria Santissima, Stella luminosa del nostro cammino cristiano. A lei, facciamo costante riferimento, contando nella sua materna intercessione, e potremo così percorrere con gioia e speranza il nostro quotidiano pellegrinaggio verso la Patria eterna.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
Harry Wu: "L'Ue finge di non sapere che in Cina ci sono mille gulag"
Il più noto tra i dissidenti anti-comunisti: "Comprate merci prodotte da schiavi di Stato e finanziate la loro schiavitù". Tè, scarpe e luci di Natale: "Tutto viene dai campi di lavoro"…
Il professor Harry Wu è innanzitutto un sopravvissuto. Nel 1960 quando venne accusato di essere un controrivoluzionario era un semplice studente di geologia di 23 anni. Si ritrovò in un campo di lavoro e ci uscì solo 19 anni dopo. Gran parte dei suoi compagni di prigionia morirono di fame o stenti. Lui promise a se stesso di sopravvivere per raccontare quell’inferno. Liberato nel 1979 e fuggito negli Stati Uniti Harry Wu è oggi il più conosciuto dissidente cinese grazie alle campagne contro i campi di lavoro e alle denunce dei traffici di organi umani espiantati ai condannati a morte cinesi. Ma il 71enne professore Harry Wu, da ieri in Italia per un ciclo di conferenze, continua a non darsi pace e promette di continuare la sua battaglia fino a quando il termine «laogai» sarà entrato in tutti i dizionari del mondo. «I laogai - spiega Harry Wu - sono come i gulag sovietici, sono il simbolo del comunismo cinese. In Cina oggi chi critica il regime finisce laogai. I laogai sono il simbolo della mancanza di libertà».
Per molti italiani i “laogai” sono una reliquia del passato...
«Sbagliano. Oggi in Cina esistono oltre mille campi di lavoro. Nei laogai la rieducazione attraverso il lavoro punta a trasformare il detenuto in un perfetto comunista e a cancellarne tutti i tratti devianti, compresa la religione e l’aspirazione alla libertà individuale. E se non ti adegui a quelle regole la pena si estende. Il lavoro di quei detenuti viene utilizzato per produrre prodotti a basso prezzo molti dei quali arrivano nel vostro Paese. In Europa fingete di non saperlo, ma un terzo del tè cinese, la gran parte delle suole di gomma o delle luminarie di Natale vengono prodotti da migliaia di schiavi di Stato. E voi pagate la loro schiavitù».
Perché accusa l’Europa e non gli Stati Uniti?
«La dogana degli Stati Uniti possiede una lista di prodotti i cui componenti arrivano dal sistema dei laogai e blocca alla frontiera quei beni. I laogai sono un segreto di Stato e molto sfugge ai controlli, ma almeno negli Stati Uniti il principio e la regola esistono. L’Unione Europea non si è mai preoccupata di fare niente di simile».
In Europa il dibattito sul boicottaggio delle Olimpiadi è però molto vivace.
«Le Olimpiadi sono un fatto transitorio, dibattere sul boicottaggio è una stupenda forma d’ipocrisia. Fra tre mesi sarà tutto finito e la Cina tornerà quella di sempre. Fareste meglio ad appassionarvi meno alle Olimpiadi ed affrontare più seriamente il problema della violazione dei diritti umani. Le Olimpiadi passano, il comunismo resta».
Lei definisce comunista un Paese che commercia con tutto il mondo ed ha aperto le sue frontiere all’economia occidentale.
«Come definirebbe un Paese dove la proprietà della terra è solo dello Stato e dove qualsiasi forma di religione non è tollerata? In Cina lei può comprare un palazzo, ma non la terra su cui è costruito, quella resta allo Stato che incassa un affitto. In Cina puoi costruire una Chiesa, ma dentro quella chiesa non potrai mai propagandare la liberta di religione. Capitalismo e libertà in Cina restano mere finzioni».
Da dove incomincerebbe la battaglia in difesa dei diritti umani?
«Dalla legge sul controllo delle nascite. Quella legge è il simbolo dell’aberrazione perché toglie a donne e famiglie il diritto naturale alla procreazione. In Cina per mettere al mondo un bimbo bisogna ottenere il permesso dello Stato, ma quel diritto si esaurisce dopo il primo figlio. Per imporre questo sistema aberrante lo stato spinge all’aborto milioni di donne e ne condanna altrettante alla sterilizzazione. Non esiste nulla di simile sulla faccia della terra».
Lei denuncia anche l’utilizzo degli organi dei condannati a morte nei trapianti eseguiti dalle cliniche di Stato. Che prove ha?
«Nel 2006 le autorità cinesi hanno riconosciuto che il 95 per cento degli organi utilizzati per i 13mila trapianti di quell’anno arrivavano dalle esecuzioni capitali. Io ho raccolto e divulgato le testimonianze di medici cinesi coinvolti in quel traffico e di pazienti consapevoli di essersi salvati grazie ai reni o al cuore di un condannato. Le prove sono raccolte in Traffici di morte, il libro realizzato dalla mia fondazione».
In Cina le esecuzioni avvengono all’aperto con un colpo alla nuca, ma per espiantare un cuore il sangue deve ancora circolare, per un rene non possono passare più di 15 minuti dal decesso. Le sue affermazioni sembrano tecnicamente incompatibili...
«Leggete le testimonianze di medici e infermieri mandati con le ambulanze sui luoghi delle esecuzioni. Raccontano di corpi raccolti dieci secondi dopo gli spari, di condannati ancora in agonia espiantati in tutta fretta. Nel caso dei trapianti congiunti cuore polmone qualche condannato è stato ucciso in salette all’interno dell’ospedale. Gli ospedali cinesi sono statali e lavorano in stretta collaborazione con le autorità governative. Chi commina le pene capitali e chi cura i pazienti fa parte dello stesso sistema. I medici vanno a visitare i condannati, ne analizzano il sangue per determinare la compatibilità con i pazienti in attesa, archiviano i dati e attendono il momento dell’esecuzione. Ricordatevi che in Cina il numero delle esecuzioni capitali è uno dei segreti di Stato meglio custoditi, ma ricordate soprattutto che il comunismo non ha alcun rispetto per la dignità dell’essere umano. Tanto meno dopo morto».
di Gian Micalessin
Il Giornale n. 21 del 2008-05-26
L'eugenetica e il pensiero liberale - Il miraggio della perfezione
di Adriano Pessina
La questione della "casualità" dell'origine della vita umana è oggi riproposta dentro una nuova cornice teorica. La cosiddetta "lotteria genetica" che starebbe alla base del nostro venire al mondo, potrebbe essere in gran parte modificata da un progetto tecnologico che disporrebbe dei mezzi - il condizionale è sempre d'obbligo - per "perfezionare" la natura umana, annunciando, per così dire, una nuova stagione dell'evoluzione. Così oggi si presenta, con il richiamo persuasivo alla "perfezione", la questione eugenetica nel contesto del pensiero liberale: non più, quindi, l'imposizione di una selezione della razza, non più una discriminazione dei deboli e dei malati, secondo la triste e tragica pratica che ha condotto, nel Novecento, dal darwinismo sociale alle pratiche di sterminio nazista, ma una consapevole scelta che i genitori dovrebbero fare, ricorrendo alla fecondazione extracorporea, per dotare i propri figli di nuove qualità fisiche e psichiche. Questo argomento, che ormai ricorre in molte pagine della filosofia contemporanea, e che contrappone chi, come il filosofo inglese James Harris, sogna una nuova razza di superuomini, a chi, come il filosofo tedesco Jürgen Habermas, paventa la fine dell'uguaglianza e dell'autonomia degli uomini, ingabbiati nelle decisioni eteronome dei nuovi produttori dell'umano, trova oggi un ulteriore elemento di riflessione nelle pagine di un saggio del filosofo americano Michael J. Sandel, tradotto per i tipi di Vita e Pensiero con il titolo Contro la perfezione. L'etica nell'età dell'ingegneria genetica. I casi concreti descritti da Sandel, tratti dalla cronaca americana, sfociano in un'ipotesi di scuola, cioè in una finzione metodologica, che pone il problema dell'eugenetica come possibilità di perfezionare l'uomo senza dover passare attraverso la selezione e l'uccisione, che egli stesso giudica ingiusta e inaccettabile, degli embrioni e dei feti che portano nel loro corpo il segno dell'umana imperfezione, ma anche, aggiungerei, della loro appartenenza alla nostra concreta condizione umana. Che cosa ci sarebbe di male nel sostituire la lotteria genetica con il progetto biotecnologico? Questa domanda è il senso stesso del titolo originale del saggio, The Case against Perfection, che rende meglio l'idea della contrapposizione tra il modello della casualità dell'origine e quello della programmazione biotecnologica. Inoltre Sandel affronta altri due temi: quello dell'incremento, con mezzi biochimici, delle nostre prestazioni fisiche e psichiche - cioè di quello che chiamiamo doping - e quello della possibilità di usare gli embrioni umani per la ricerca sulle cellule staminali. Tra il "caso" e la "perfezione" indotta biologicamente, che cosa scegliere, e in nome di che cosa? Sandel ritiene che ci si debba astenere da tutto ciò in nome della categoria del "dono", mentre ritiene che si possa accettare l'uso degli embrioni umani per la ricerca sulle cellule staminali in nome del fatto che non si possa stabilire un criterio di demarcazione per il riconoscimento della dignità umana nello sviluppo dell'uomo: ciò che appare chiaramente nell'adulto non sarebbe evidente nell'embrione umano. Sandel ricorre alla nozione di dono per rimarcare una sorta di indisponibilità delle nostre doti naturali ad ogni forma di manipolazione tecnologica: soltanto preservando la categoria del dono - e quindi della casualità - gli uomini potrebbero continuare ad apprezzare le doti naturali di ciascuno, coltivare l'amore incondizionato per i propri figli, sviluppare quel senso della solidarietà che permette di accogliere anche chi è meno dotato. Ovviamente la categoria del dono non va intesa in chiave fatalistica: Sandel non contesta la dimensione terapeutica (cioè correttiva) della medicina, ma la pretesa "perfettiva", che trascende perciò la dimensione della cura e diventa progetto e padronanza della vita. E secondo Sandel questa idea del dono potrebbe essere accolta anche fuori da una prospettiva religiosa ed assunta in chiave puramente laica o, per così dire, mondana. La metafora del dono, per quanto affascinante, non sembra però risolutiva. In primo luogo perché è difficile mantenere la nozione di dono senza pronunciarsi sull'esistenza di chi è il donatore. Perché chiamare dono un semplice fatto, e cioè il possesso di qualità naturali, fisiche o psichiche, più o meno accentuate? In secondo luogo, perché non definire dono anche le qualità progettate dai genitori per i propri figli? Per chi riceve, se vale la nozione di dono, il dono resta tale anche se il donatore è Dio, il caso, la natura, o l'intervento biotecnologico indotto dai genitori. In fondo, l'indisponibilità delle proprie qualità originarie resta tale e quale anche per chi è stato progettato, per così dire, in laboratorio. A ciò si aggiunga che, almeno in linea di principio, non esiste alcuna contraddizione tra il progetto e l'amore incondizionato e accogliente, che potrebbe sussistere anche qualora il figlio fosse frutto di una modifica biotecnologica. Nel testo, tra l'altro, emerge, con discrezione, ma con chiarezza, il fatto che spesso il desiderio del figlio perfetto rischia di essere la copertura delle frustrazioni psicologiche e fisiche di chi è insoddisfatto della propria umanità e cerca un surrogato ai propri insuccessi.
Sandel, purtroppo, sfiora soltanto la questione più radicale, e cioè quella del significato stesso di perfezione. In che modo tutte le possibili modifiche e trasformazioni biochimiche corrispondono al concetto di perfezione? Se si resta sul piano delle biotecnologie non è affatto chiaro in che cosa consista la perfezione dell'uomo e quale sia il termine di un progetto di perfezionamento per un essere contingente e finito come l'uomo stesso, in linea di principio sempre ulteriormente modificabile e trasformabile. Qual è il modello umano in base al quale perfezionare e perfezionarci? Possiamo davvero pensare in termini di perfezione senza rispondere alla domanda "chi è l'uomo?". Come diceva Agostino, noi siamo problema a noi stessi. Inoltre Sandel sembra dimenticare che ricorrere alla provetta per progettare l'umano perfetto significa trasformare l'origine come relazione tra persone che comunicano, anche nella finitezza dei loro corpi, la loro storia, con la procedura impersonale di una tecnica che fa cadere la barriera tra zootecnia e procreazione, segnando irrimediabilmente il senso della convivenza umana. Nell'epilogo, forse per rimarcare l'idea che un contro è essere contro la perfezione e un altro rinunciare al progresso terapeutico, Sandel tenta di coniugare la sua tesi del dono con la difesa della ricerca sulle cellule staminali embrionali - che pure ne comportano la distruzione. Ma l'argomento a cui ricorre non risulta adeguato - mentre son ben descritte le ragioni contro l'uso degli embrioni umani per la ricerca. Egli ricorre alla celebre figura sofistica del sorite (dal greco sòros: cumulo) per affermare che non c'è contraddizione tra il negare che l'embrione umano sia una persona umana con piena dignità e sostenere, nel contempo, che invece l'adulto lo è. Il paradosso del sorite è noto e Sandel lo ricorda così: quando posso stabilire che c'è un mucchio di grano, visto che non bastano uno o due chicchi di grano per fare un mucchio? Quanti ce ne vogliono allora? Il fatto che non esiste un numero arbitrario di chicchi per stabilire quando c'è un mucchio di grano non significa che non esista una differenza tra un chicco e un mucchio, ma basta per dire che il chicco non è un mucchio. Così, secondo Sandel, la "continuità evolutiva dalla blastocisti all'embrione impiantato, al feto, al neonato, non significa che il bambino e la blastocisti siano, moralmente parlando la stessa cosa". Perciò, riassumiamo, secondo Sandel, così come il chicco non è un mucchio di grano, l'embrione umano non è una persona, mentre lo è l'adulto. Ora, al di là di altre considerazioni di contenuto, al celebre filosofo sfugge l'inconsistenza totale dell'analogia a cui ricorre. Nel paradosso del sorite la continuità non è altro che la giustapposizione nello spazio di molti enti - in questo caso dei chicchi di grano - mentre nel caso dell'embrione abbiamo il medesimo ente che si sviluppa nel tempo e nello spazio. Non comprendere la differenza tra lo sviluppo del medesimo organismo e l'accostamento di molti enti significa precludersi la comprensione tra una definizione che riguarda la struttura di un ente - essere persona umana - e la definizione che riguarda l'unità numerica di una pluralità di enti identici - il mucchio di chicchi, o una classe di studenti. Il testo di Sandel resta comunque molto interessante e ricco di spunti, ma conferma il convincimento che se si vuole governare seriamente il nostro accresciuto potere tecnologico dobbiamo osare di più in termini di pensiero e uscire dal piano delle metafore per affrontare in termini razionali le questioni ultime dell'esistenza, anche sfidando il dogmatismo antimetafisico e antireligioso che ci impedisce di cogliere la bellezza della stessa finitezza umana, chiamata a perfezioni che resistono al fascino dell'immediato.
(©L'Osservatore Romano - 29 maggio 2008)
La Chiesa come contrappeso alla tentazione totalitaria dello stato
Sante Maletta29/05/2008
Autore(i): Sante Maletta. Pubblicato il 29/05/2008 – IlSussidiario.net
Non occorre essere degli inguaribili ottimisti per notare un elemento positivo nell’attuale dibattito italiano sulla questione della laicità dello stato. Chi riesce, magari con l’aiuto di un buon machete, a passare attraverso il fitto intrico di polemiche occasionali spesso strumentali, si accorge che qualcosa si muove e il dibattito non è più tra sordi. A ciò ha contribuito non poco l’eco del dialogo che a Monaco di Baviera nel 2004 vide protagonisti il grande filosofo tedesco Jürgen Habermas (punto di riferimento imprescindibile di ogni pensiero progressista) e l’allora cardinal Joseph Ratzinger. Circola da allora in maniera sempre più insistente il cosiddetto Dilemma di Böckenförde: Lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non può garantire.
Il punto essenziale di tale nuovo clima culturale sta nella sempre più diffusa consapevolezza che lo stato laico liberal-democratico occidentale, lungi dall’essere l’esito ovvio della modernizzazione, costituisce il punto di arrivo tanto sorprendente quanto fragile di una peculiare evoluzione storica. Un’evoluzione che trova le proprie radici nella graduale de-sacralizzazione del potere politico che s’è compiuta nell’Europa cristiana medievale, di cui lo stato laico moderno è il prodotto preterintenzionale.
Da questo punto di vista la decisione dei cristiani del tempo di S. Ambrogio di non lasciare confinare la propria religione nell’ambito del diritto privato (visto che il diritto pubblico era di origine divina) ha stabilito un equilibrio instabile tra potere politico e potere spirituale foriero certo di pericolose involuzioni in senso teocratico o secolarista, ma pure di un dinamismo capace di fecondare in maniera più unica che rara la vita sociale e culturale dei paesi europei. Se questo è vero, la speranza di risolvere una volta per tutte tale tensione in un senso o nell’altro costituisce una tentazione tanto comprensibile quanto deleteria.
Se pensiamo al periodo delle cosiddette Guerre di religione a cavallo tra Cinque e Seicento, ci rendiamo conto di quanto l’esistenza di un potere statale laico abbia contribuito a salvare le chiese cristiane dalla propria tentazione integralistica. Ma se consideriamo la storia contemporanea, è giusto rilevare che l’intransigenza di cui le chiese cristiane sono state a volte capaci nei confronti delle pretese totalitarie del potere politico ha restituito a questo il senso autentico della propria laicità. E ciò è stato possibile solo nei limiti in cui le chiese sono state capaci di difendere attraverso i martiri la coscienza individuale come luogo di rilevanza pubblica assoluta che supera lo stato e si legittima anche in base a una pretesa divina.
In definita la laicità, intesa come ciò che rende possibile la convivenza nella città, è l’esito di un rapporto tra stato e chiesa in cui entrambi non tradiscono il rapporto con la verità della propria origine, in quanto l’essere vero in questo senso implica l’accoglienza e la difesa dell’identità dell’altro.
Il senso della rieducazione, oltre le definizioni normative
Redazione29/05/2008
Autore(i): Redazione. Pubblicato il 29/05/2008 – IlSussidiario.net
L’art 27, 3° comma, della Costituzione recita che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Già il noto giurista Carnelutti affermava in quei tempi che il processo penale avrebbe fallito il suo scopo se anche con l’irrogazione della giusta pena non si fosse raggiunto l’obiettivo del riabbraccio ultimo tra la società e il reo.
Tralascio - dandone per scontata la conoscenza - la citazione di tutti gli sviluppi legislativi e giurisprudenziali (in primis della Corte Costituzionale) che, dando concreta attuazione al predetto dettato fondativo, hanno contribuito nel corso degli anni all’individuazione degli strumenti concreti per corrispondere sempre più al bisogno di un recupero delle devianze.
Ma cosa si può intendere per “rieducazione”, visto che né il legislatore, né la giurisprudenza, né gli operatori, offrono una definizione e soprattutto dei contenuti a questo concetto? A cosa deve essere rieducato il condannato, attraverso il lavoro, il trattamento (pur necessario), a quale modello di società? Si dice infatti che l’obiettivo è il reinserimento sociale. Ma anche questa espressione è ambigua e, nella concretezza dei problemi che solitamente incontra il detenuto una volta uscito dal carcere, spesso inefficace.
Vanno infatti sottolineati alcuni ordini di problemi rilevabili dal quotidiano:
1. gli educatori che fanno parte delle equipe dei carceri sono pochissimi, e a volte impreparati ad affrontare complesse problematiche, bisogni diversissimi, in relazione a tipi di reato e di autore del tutto eterogenei. E come si fa poi ad impostare un trattamento mirante alla risocializzazione di un extracomunitario che proviene da una realtà sociale completamente diversa dalla nostra, con valori, cultura, religione diverse, con un diverso senso dello Stato e della società? (e i detenuti extracomunitari costituiscono ora una grossa fetta della popolazione carceraria). E per i detenuti malati, sia fisici che psichici?
2. Anche se il detenuto, attraverso il lavoro, riesce ad uscire dall’ozio che la vita detentiva impone (anche per lunghissimi anni) ed impara ad esprimersi nel lavoro, cosa accade poi, quando uscito, si ritrova all’interno di contesti devianti e, soprattutto non trova una rete di supporto che gli consenta di mettere a frutto quello che ha imparato nel carcere? Vi è difficoltà a trovare lavoro per i giovani liberi, figuriamoci per persone magari non più giovani con il marchio del certificato penale macchiato da reati. È facile il riproporsi in questi casi di atteggiamenti nuovamente espulsivi che ributtano il detenuto nel circuito della devianza.
3. Ma poi questa società contemporanea - a detta degli stessi detenuti - non è a sua volta spesso permeata da logiche di sfruttamento e di profitto, non propone essa stessa come unici obiettivi dell’uomo, la ricchezza, il benessere e il potere? È a questa società, a questi modelli che i detenuti devono essere rieducati?
4. Le dinamiche inter-relazionali fra i diversi operatori che si occupano di esecuzione penale (magistrati, assistenti sociali, psicologi, operatori penitenziari, educatori, ecc..), sono spesso scollegate tra loro, non perseguono degli orientamenti univoci e sono appesantite da un enorme eccesso di burocrazia.
Queste obiezioni rivelano che il problema della rieducazione (è per me però preferibile parlare di rapporto educativo) è più complesso o, meglio, più profondo, rispetto ai modelli scientifici, sociologici, criminologici, come sono attualmente spesso proposti. Nella mia pratica di magistrato ho potuto constatare che l’esperienza educativa può passare solo attraverso il rapporto tra un io e un tu: se non c’è innanzitutto un rapporto, non c’è presa di consapevolezza da parte del detenuto della propria identità, è congelato in una definizione criminologico-giuridica (sono un terrorista, un sex-offender, un tossico, ecc.) e quindi non viene disvelata fino in fondo la sua dignità di persona che è sempre più del reato che ha commesso.
L’educazione deve quindi fondarsi a mio parere su una nuova concezione antropologica-relazionale dell’uomo che ha come categoria essenziale quella dell’incontro personale tra un io e un tu capaci di apertura all’altro fino al livello delle domande ultime, della sua esperienza elementare (vale a dire di quel complesso di esigenze ed evidenze che identificano il cuore dell’uomo in tutte le culture).
Ma questo richiede il chiarimento di un presupposto fondamentale:
L’uomo (il detenuto, l’internato), qualunque uomo, è persona. Secondo la linea di pensiero che si è più consolidata nel personalismo tedesco, da Max Sheler, a Edith Stein, sino Romano Guardini, essere persona significa anzitutto auto appartenenza nel numerico: «Sono uno, sono solo uno, non posso essere raddoppiato. Essere persona significa ancora appartenenza nel qualitativo: sono costui; sono solo questa persona. Non posso essere imitato; di me non può essere fatto un “caso”. (singolarità e irripetibilità). La persona è inoltre autoappartenenza in coscienza, libertà ed azione. Conoscere, decidere ed agire non sono per sé ancora persona; lo sono solo per il fatto che io mi appartengo nel sapere, nel decidere e nell’agire. La persona è infine auto appartenenza in interiorità e dignità. Interiorità significa che io, essendo persona, sono in me, presso di me, e, invero, esclusivamente. Significa che nessuno può “entrare”, se non gli apro questa interiorità. Anzi da un certo punto in avanti non la posso ulteriormente aprire anche se volessi. Qui comincia l’intima solitudine, a cui solo Dio ha accesso (persona come mistero). Nell’interiorità la persona è al nascosto e al sicuro. Tutto ciò che viene dall’esterno: osservazione, calcolo, violenza, analisi psicologica e suggestione, non arrivano qui dentro. L’aspetto per così dire “trascendente” di questa interiorità, è la dignità. La persona sta essenzialmente al di sopra del contesto naturale delle cose e del loro operare; è elevata. È tale da richiedere profondo rispetto. Appunto in ciò è sottratta ad ogni elemento di violenza, ad ogni calcolo, ad ogni classificazione usurpante. Ecco dunque, cos’è la persona. Essere-uomo vuol dire essere-persona. Non lo è per il talento o perfino per la genialità. Anche il più semplice è persona. Il bambino, che non è ancora diventato padrone di se stesso e il minorato, che non lo diventerà mai, portano il carattere di persona, in modo sopito, latente. Ciò va detto di fronte ad ogni tentativo di equiparare la particolare qualità dell’elemento personale con il talento o con altre simili qualità. L’uomo non diventa persona neanche per un suo atteggiamento o convinzione di tipo etico-religioso. Una tale concezione (v. Kierkegaard), scambia il carattere ontico della persona con il carattere etico-religioso della personalità affermata e compiuta, o quello assiologico della personalità piena di valore e ricca. Anche chi è immorale e irreligioso è persona. L’uomo è persona per essenza. Così essa resta ineliminabile. L’uomo può diventare indegno; può condurre una vita indegna di essa, la può reprimere affinché non si faccia valere. Allora egli sarà forse privo di valore e di salvezza: ma eliminare la persona non può. Tutti i tentativi di concepire la persona come puro dinamismo, come atto, in modo da farla scomparire se l’uomo non compie alcun atto, quando non pensa e non è attivo, o tutti i tentativi di collocare la persona in una sfera assiologia, nel valore e nella qualità, così da farla scomparire quando l’uomo perde valore; ebbene, tutte queste concezioni secondo le quali l’uomo può cessare di essere persona, sono necessariamente errate, La persona è qualità imperitura, volto indistruttibile; ineliminabile possibilità di dire “io” e “tu”, di pronunciare la “parola” e di percepire la “parola”». (Cfr. Romano Guardini Persona e personalità. Ed. Morcelliana. Pgg. 29-34).
L’uomo è persona. Il detenuto è persona, irripetibile nella sua unicità, interiorità e personalità. Questo offre già un primo spunto per evidenziare come concetti quali “trattamento”, “osservazione scientifica della personalità”, siano espressivi di un approccio positivistico, riduttivo della persona. L’io non può essere solo “studiato” e neppure “benevolmente trattato”, bensì amato, cioè affermato, valorizzato, rispettato, qualunque sia l’uso che egli ha fatto e fa del proprio io personalissimo.
Guardarlo come “caso” all’interno di un’ottica di mera osservazione bio-psicologica o comportamentale, influire su di lui attraverso “tecniche” pedagogiche, può tradursi, se è l’unica modalità relazionale, anche in una surretizia forma di violenza. La persona non è definita dal reato che ha commesso e il reato non può quindi diventare mera categoria criminologica definitoria dell’individuo.
Questa dinamica riduttiva è già ineludibilmente presente nella fase processuale, dove tutta la vita di un gesto, tutto il corredo personalissimo di un’identità, tutto il malessere e l’istinto cattivo, la speranza e la rabbia di un momento o di anni, tutto un universo, vengono stretti dentro la fredda astrattezza di un’imputazione. L’io non c’è più, al suo posto un fatto estratto dalla persona, studiato, analizzato, compreso, anche con attenta competenza e saggezza, ma l’io non c’è più. Così è per la condanna. Molti detenuti la percepiscono come astrattamente giusta, perché retributiva di una cattiva azione, ma come ultimamente estranea, come se non fosse la “loro”. E’ la conseguenza della mancanza di relazione tra un io e un tu. A volte quindi la doverosa imparzialità del giudice può tradursi in una gelida estraneità. La punizione deve “accadere” o svilupparsi dentro un rapporto umano, assicurato da una presenza che, mentre castiga, valorizza, riaccoglie. Perché la persona non appartiene allo Stato.
Per capire questo bisogna rifarsi alle esperienze elementari: un padre punisce il figlio per una cattiva azione, ma cos’è che provoca reale dolore nel figlio per lo sbaglio commesso? La permanenza del rapporto col padre. Il padre punisce ma c’è, non rompe il rapporto col figlio. Ciò rende possibile per il bambino passare dall’esperienza della colpa-dolore per lo sbaglio commesso (punizione), alla gioia del perdono assicurato dalla presenza del padre (io ci sono, sarò sempre con te, non me ne vado, tu sei mio figlio e con ciò riaffermo, dopo lo sbaglio, la totalità della tua identità).
Il carcere, nonostante la sua natura costrittiva e segregazionista, può essere un luogo dove può riemergere questa speranza.
Con ciò non intendo affatto stigmatizzare tutte le validissime e positive iniziative trattamentali che si stanno sviluppando sempre più all’interno delle carceri: ne ho viste moltissime che hanno suscitato ammirazione, merito anche della genialità e dell’attenzione dei direttori e operatori delle carceri.
Intendo solo affermare che c’è un “prima”, che deve attraversare tutte queste iniziative. Questo “prima” è nello sguardo, nel rapporto, nel dire “tu per me vali”, anche se non aderisci al trattamento che ho predisposto per te. E’ questa restituzione dell’io ferito alla consapevolezza della sua dignità, che può far poi capire al detenuto il significato del lavoro, non solo un’eventuale opportunità per il futuro, ma espressione potente e creativa dell’io nell’oggi.
Se manca questo, infatti, il trattamento carcerario rischia di ridursi ad una logica dentro-fuori, cioè il trattamento, gli educatori, gli assistenti, gli psichiatri lavorano sul detenuto per un domani, per un possibile “fuori” (cosa giusta ma riduttiva). Infatti come vive il detenuto l’”hic et nunc” della privazione di libertà? Solo in funzione del riacquisto della libertà un domani? E che senso ha l’oggi? In una simile logica è facile il diffondersi di atteggiamenti simulatori. Il detenuto che non incontra alcuna autentica proposta autorevole di vita nuova, tende a conformare sì il suo comportamento a ciò che gli è richiesto, ma in prospettiva di uscire, non perché è umanamente cambiato. E in questa logica prevalgono spesso i più forti. All’interno del carcere ci sono soggetti che non sanno simulare o sono fuori dalle “protezioni” dei più forti e per questo vengono esclusi da percorsi. E gli extracomunitari che spesso non hanno all’esterno riferimenti abitativi o lavorativi costituiscono una sacca ormai numericamente importante di esclusione dal processo di risocializzazione.
Secondo me, quindi, l’opera di risocializzazione, (meglio direi di comprensione di sé e del proprio esistere nel mondo), può solo cominciare da un rapporto significativo con un tu. Il rapporto con un tu che guardi al soggetto senza giudicarlo, senza congelarlo nel gesto criminoso, nel fatto che ha commesso, ma che, senza giustificare nulla (occorre dire pane al pane e vino al vino), guardi al detenuto come uomo degno di stima e che quindi ha una dignità prima di dimostrarsi di nuovo “utile “ per la società, prima che abbia un lavoro, un’istruzione e sia quindi nei termini politicamente corretti per essere considerato “riabilitato”.
Questo rapporto, poi, anche attraverso gli strumenti del lavoro (sempre positivi), e delle altre opportunità che vengono offerte, deve aiutare il detenuto a scoprire a chi appartiene, dentro una solidarietà, un’amicizia, che non viene meno anche dopo la scarcerazione.
Ed è per questo che lo Stato deve abbandonare una politica meramente “segregativa-assistenzialistica” del detenuto, lasciando al privato-sociale il compito di un intervento fattivo che non sia solo l’etica della pacca sulla spalla o dei vestiti smessi, ma di un’opera fatta di imprese che possano investire in modo costruttivo sui detenuti, attraverso una politica di detassazione, di sgravi fiscali che faciliti l’inclusione lavorativa del condannato a livelli di eccellenza e di autentica competitività sul mercato.
Così come lo Stato deve impegnarsi in una politica di sostegno delle famiglie (primo ambito di appartenenza del detenuto, cd. rete primaria), spesso doppiamente punite (per la carcerazione del congiunto e per la conseguente deprivazione del sostegno economico) e l’assistenza sociale sul territorio deve impegnarsi (invece che a meri colloqui periodici) a favorire forme di aggregazione sociale ( cd. reti secondarie) tra realtà famigliari in un tessuto connettivo sano che possa sostenerle anche nelle difficoltà e nei disagi di ordine morale e dei comportamenti interpersonali.
Guido Brambilla - Magistrato di sorveglianza Milano
«Svuotiamo la domanda di aborto, ora è possibile»
« Nessuna donna, certo, desidera abortire come si può desiderare un gelato o una Porsche. Vuole l’aborto come un animale preso in trappola desidera strapparsi la zampa». È uno degli slogan del gruppo di femministe americane Feminists for life, adottato anche dall’associazione «Il dono».
Una frase scioccante: eppure quelle locandine non vengono tirate fuori da un vecchio ripostiglio e srotolate solo in occasione di qualche marcia di attivisti provita. Alcune campeggiano nelle bacheche di diversi consultori pubblici d’Italia. Strutture che collaborano attivamente con il mondo del volontariato sociale dove non sempre – come invece spesso accade – l’unica via d’uscita prospettata è quella di abortire. Già, perché ancora prima e a prescindere dalla discussione sull’opportunità e fattibilità di cambiare anche solo una virgola dell’inossidabile 194, uguale a se stessa da trent’anni, c’è qualcuno che si è già dato da fare per mettere in campo tutti gli strumenti a disposizione per raggiungere il traguardo – in questo momento largamente condiviso – di portare la domanda di aborto il più vicino possibile allo zero.
Ne è un esempio l’associazione «Il dono» (www.il-dono.it), che si rivolge sia alle donne in difficoltà a causa di una gravidanza imprevista sia a quelle che hanno già abortito e necessitano di un sostegno post-aborto, offerto attraverso l’esperienza di chi ha già vissuto questa terribile esperienza e ora si dedica ad aiutare le altre: «Dobbiamo smetterla di parlare dell’aborto come di un diritto. L’anno scorso – racconta la presidente Serena Taccari – ho seguito circa 450 donne, quasi tutte italiane, che si sono rivolte alla nostra associazione per avere un sostegno postaborto. Posso assicurare che nessuna di queste scegliendo di abortire ritiene di aver usufruito di un diritto. Molte sono disperate, e rimpiangono di non aver avuto prima la possibilità di parlarne con qualcuno».
Solo partendo da questo presupposto sarà possibile mettere in campo tutte le forze: «Siamo circa un centinaio di volontari sparsi in tutta Italia – prosegue Taccari – e mai avremmo immaginato di poter lavorare fianco a fianco degli operatori del consultorio pubblico. Eppure ci hanno cercate loro, chiedendoci espressamente di mettere a disposizione la nostra esperienza per un servizio paraconsultoriale, oggi attivo in alcuni consultori della Sicilia, in sei strutture di Roma e, in fase di avvio, a Piacenza e Milano. In questo modo il consultorio può diventare davvero un luogo in cui oltre all’interruzione di gravidanza si offre una reale alternativa. Pannolini e latte sono l’offerta minima: cerchiamo di dare condivisione, vicinanza, spesso da parte di donne che in passato hanno abortito e sanno cosa significa».
Una sinergia che alla Mangiagalli di Milano funziona bene da diversi anni, visto che la sede del Centro di aiuto alla vita è proprio accanto alla sala operatoria.
Una presenza professionale e costante, che nel 2007 ha portato i volontari del Cav ad aiutare 900 mamme in difficoltà. Ma anche a spendere 1 milione e 750 mila euro.
«L’ente pubblico latita, non ha risorse e lascia esclusivamente a noi il compito di assolvere quello che la legge prescrive – sbotta la presidente Paola Marozzi Bonzi –. Dobbiamo applicare tutte le parti della legge 194, e invece talvolta ho il sospetto che nel titolo si parli di 'Norme per la tutela sociale della maternità' solo per rendere accettabile l’intera norma. In realtà si tratta di un inganno, perché lo Stato non fa nulla per disincentivare l’aborto. Il compito di attuare la parte positiva della legge non può essere delegato dallo Stato alle associazioni di volontariato: deve farlo anche e soprattutto il pubblico. Trovo profondamente ingiusto – prosegue la presidente del Cav – lasciare alle associazioni il compito di reperire i fondi per aiutare le donne, mentre il pubblico non ha risorse per questo. Noi siamo i primi a voler applicare interamente la legge e a voler lavorare insieme alle strutture pubbliche».
E intanto c’è chi anche nelle strutture pubbliche si rende conto delle potenzialità che queste hanno, come ci spiega Maria Pia Caretto, psicologa al consultorio di Parabiago, alle porte di Milano: «Il nostro ruolo, e quello di tutti i consultori, dovrebbe essere quello di aiutare la donna che si rivolge a noi per una Ivg a riflettere, a fermarsi e pensare a ciò che la sua scelta significa, sui motivi, sulle conseguenze. Mi sembra importante non sottovalutare questo spetto perché noto che spesso scatta un meccanismo di difesa e di negazione: 'Ho già deciso, di cosa dobbiamo parlare?'.
È quello che dicono molte donne quando arrivano da noi. Eppure mi rendo conto che spesso non hanno riflettuto sulle conseguenze che questa scelta porta con sé, e che si manifesteranno non solo nella loro vita di donne ma anche nella loro vita di coppia, nella loro vita di madri, se già lo sono. Spesso ci chiedendo di abortire senza averne parlato con qualcuno, o comunque non con persone che per la loro esperienza e professionalità possano aiutarle a vedere aspetti che in quel momento non riescono a vedere».
Nell’assolvere questo compito dettato dalla legge è fondamentale la formazione degli operatori:« Il colloquio previsto prima di accedere all’aborto – afferma la psicologa – non è mai neutro; moltissimo dipende da chi lo fa, non solo da cosa dici ma anche da come lo dici, da come guardi la persona che hai di fronte». Per quanto riguarda la collaborazione pubblico-privato «c’è ancora molto da fare – conclude – anche se la Regione Lombardia cerca di favorirla. La nostra Asl ha da poco organizzato una giornata di studio con gli operatori sia del pubblico che del privato: un modo per conoscersi e cercare di collaborare per ridurre la domanda di aborto».