venerdì 9 maggio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) La moratoria di Sandra e gli altri prigionieri, di Giuliano Ferrara
2) Fiducia di Paolo VI nella persona di fronte alla “liberalizzazione sessuale”
3) Pentecoste sul Monte Athos, di Sandro Magister
4) Incontriamoci a Torino domenica 11 maggio per conoscerci e per la presentazione del mio "Grazie Gesù", Magdi Cristiano Allam
5) La voce bassa del Paese vero bussola per i governanti, di Davide Rondoni


La moratoria di Sandra e gli altri prigionieri
Scritto da GIULIANO FERRARA Il 06/05/2008 18:20
GLI EDITORIALI – Blog La76
Siamo contenti. Ora ci sono migliaia di bracci della morte da aprire
Sono contento, siamo contenti, che la rispettabilità sociale dell’aborto sia in calo. Contenti che Sandra abbia imposto a se stessa, con l’aiuto di suo marito, una piccola moratoria di valore assoluto. Contenti, noi che all’aborto abbiamo mancato di rispetto, ma contenti fino a un certo punto. Repubblica si conferma un giornale serio, reattivo. Ci mette a conoscenza della storia di Sandra, la ragazza sposata, che concepisce e ama l’idea di avere un figlio, ma guadagna poco e pensa di non poterselo permettere, dunque fissa la data dell’aborto presso un ospedale dell’area Vesuviana cioè dell’altra Gomorra, poi scrive a Napolitano e va sui giornali chiedendo aiuto, denunciando la sua situazione, infine decide per il meglio, si commuove perché durante un’analisi sente l’infinitamente piccolo respirare all’unisono con lei, rinuncia ad abortire la sua creatura, incassa una vasta solidarietà, rinuncia ai talk show e rientra nel privato. Contenti, ma fino a un certo punto. La storia di Sandra infatti non è privata e non è singolare. E’ la storia di alcune decine di migliaia di aborti praticati in Italia, di milioni di aborti praticati nel mondo. “E’ una pura pazzia – ha scritto Adriano Sofri – che la difesa della scelta personale di abortire non vada assieme all’impegno strenuo di sostenere la scelta di non abortire”. E’ la parola d’ordine della nostra campagna sulla moratoria, fortunata, è la parola d’ordine della nostra campagna elettorale, strafortunata e presa a pernacchie in un clima di strano vitalismo prepolitico o antipolitico e di anarchia etica, per dirla con Berlusconi. Ma questo “impegno strenuo di sostenere la scelta di non abortire” chi deve prenderlo, chi deve essere sollecitato a prenderlo? E che cosa comporta? Sembrerebbe semplice. Per prima cosa il nuovo ministro della Salute, i presidenti delle Regioni, cioè i titolari dei poteri pubblici in materia di applicazione della legge 194/1978, votata trent’anni fa di questi tempi, devono ripristinare una lettura autentica delle norme sull’interruzione di gravidanza. Devono ritirare le linee guida sulla legge 40, piccolo e ipocrita capolavoro di logica abortista in vitro, e varare linee guida sulla 194 che consentano davvero di applicarla. Bisogna riconoscere che se Sandra avesse deciso altrimenti da come ha felicemente deciso ovvero per la soppressione del concepito, si sarebbe comminata una pena d’aborto equivalente a una pena di morte da giustizia tribale. L’aborto è sempre una pena di morte, ma in questo caso sarebbe stato anche illegale. La legge non prevede aborti intesi come pianificazione familiare, il “partorirò un’altra volta perché adesso non posso permettermelo economicamente”. La legge prende in carico a spese e sotto la responsabilità pubblica, per elevare un sacrosanto argine contro il commercio clandestino degli aborti o l’anarchia privata degli aborti, le interruzioni volontarie di gravidanza. E stabilisce che esse sono possibili, legali, quando è pregiudicata la salute fisica o psichica di una donna. Il concetto è ambiguo, si presta ad abusi, e sono stati compiuti milioni di abusi in trent’anni. Questi abusi sono la tribalizzazione dell’aborto, la sua accettazione moralmente indifferente da parte della società e dello stato, che lo considerano una soluzione anticoncezionale alla stregua dei preservativi e di quelle tonnellate di pillole del giorno dopo di cui si cibano irriflessivamente le povere ragazze costrette a martoriare il proprio corpo e la propria cultura dalla mentalità antinatalista e antivita legata all’idolo della libertà sessuale senza ragione e senza verità; ma è appena ovvio che agli abusi non si può rispondere obbligando Sandra a partorire o imponendole una pena legale se abortisca. E allora, come si risponde? Si risponde rimuovendo drasticamente le cause materiali dell’aborto. Stanziando cifre congrue per sostenere la maternità. Promuovendo con un piano per la vita con risorse di almeno lo 0,5 del Pil tutto quel che occorre per considerare una donna in gravidanza un soggetto sociale privilegiato, nel rispetto della sacralità della vita che è nel suo grembo e nel rispetto dell’interesse sociale diffuso all’inversione dell’attuale denatalità. Si risponde sostenendo i volontari della vita, e legando strettamente le interruzioni di gravidanza a un processo in cui lo scambio sociale, la discussione e la ricognizione privata e discreta delle cause dell’aborto diventino la regola. Lo scandalo nello scandalo è che noi, salvo l’indagine volontaristica e benemerita di un Matteo Crotti a Modena, non siamo in grado di sapere perché si abortisce. Non vogliamo saperlo. E’ troppo imbarazzante. E da trent’anni facciamo in modo di non saperlo evitando di domandare e domandarci semplicemente: perché? Da trent’anni rilasciamo certificati di aborto voltandoci dall’altra parte, alludendo a un “diritto” che la legge non prevede. In Italia non esiste il diritto di aborto, ma la presa in carico di un aborto da parte dello stato, a certe condizioni. Lo “strenuo impegno” a sostenere la scelta di non abortire deve nutrirsi anche di altro. Se Sandra avesse deciso diversamente da come ha felicemente deciso, quel puntino che respira all’unisono con lei, a un certo stadio della sua evoluzione, sarebbe stato sradicato chirurgicamente dal suo corpo, o chimicamente, e gettato via come un “rifiuto speciale ospedaliero”. Lo aveva notato Sofri nel suo pamphlet antiabortista (sottolineo: antiabortista) che aveva paradossalmente intitolato “Contro Giuliano”. Questa situazione deve cambiare. L’inganno sociale di cui sono vittime donne e bambini deve finire. Difendo in mancanza di soluzioni migliori la tua facoltà di abortire senza conseguenze penali che ti porterebbero ad abortire clandestinamente, ma difendo anche il diritto dell’essere umano concepito e soppresso a essere sepolto con dignità a spese dello stato. Il giro di frase e la sua sostanza sono puro Voltaire. Sono un eccesso di razionalismo che prescinde dalle discussioni sul battesimo e sull’anima. Sono il riconoscimento laico del sacro, del separato, dell’intoccabile, del non negoziabile. Sono la moratoria della menzogna, la sua soppressione da cui tutto può ripartire. Insomma. Noi vi abbiamo scritto in dodici punti dettagliati di un programma elettorale qualsiasi quel che c’è da fare, invece di raccogliere voti laici dei cattolici e voti cristiani dei laici abbiamo raccolto pomodori, uova e linciaggi idolatrici, materiali e a mezzo stampa. Ora fate quel che vi abbiamo detto, amici filistei di destra e di sinistra, vincenti e perdenti. Fatelo, e fatelo in fretta. Per un braccio della morte da cui un concepito è evaso, e una madre lo ha riacciuffato per i capelli con sovrana pietà, ci sono migliaia di altri prigionieri da liberare. Siate intelligenti e pietosi, cari credenti e non credenti e diversamente credenti. Credete.


Fiducia di Paolo VI nella persona di fronte alla “liberalizzazione sessuale”
Lo testimonia l'Enciclica Humanae vitae, spiega Lucetta Scaraffia
di Marta Lago
ROMA, giovedì, 8 maggio 2008 (ZENIT.org).- Quando l'“utopia della liberazione sessuale” si avvicinava al culmine, l'Enciclica Humanae vitae di Paolo VI – accolta tra le critiche – ha mostrato fiducia nell'autentica libertà dell'essere umano e soprattutto nella “capacità dei cattolici di prendere una distanza critica” da quell'epoca; è il rimprovero che si può muovere all'allora Pontefice, ha ironizzato la storica Lucetta Scaraffia.
Con il tema “Custodi e interpreti della vita”, la Pontificia Università Lateranense di Roma celebra un congresso l'8 e il 9 maggio per sottolineare l'attualità del testo di Papa Giovanni Battista Montini 40 anni dopo la sua pubblicazione.
Chiave della lettura del documento è “lo scenario culturale: la rivoluzione sessuale e i progressi scientifici”, intervento con cui Scaraffia – docente di Storia contemporanea presso l'Università di Roma La Sapienza – ha ricordato questo giovedì che negli anni Sessanta era nato un processo culturale che si proponeva di “liberare il comportamento sessuale dalle regole morali che lo avevano imbrigliato, per restituirlo ad una mitica naturalità” che “che avrebbe finalmente reso felici gli esseri umani”.
Questo cammino era iniziato alla fine del secolo XVIII, con il processo di secolarizzazione che “non solo mette in discussione la morale sessuale cristiana, ma addirittura la stessa legittimità della Chiesa a parlare di sesso, legittimità riconosciuta solo al discorso scientifico, soprattutto se medico”, ha spiegato la storica.
Con il passare degli anni, “l'utopia della liberazione sessuale non ha convinto solo gli antropologi”; anche Freud centrò sulla sessualità la sua teoria psicoanalitica “minando una delle basi della moralità cattolica – osserva –, cioè la fiducia nelle capacità dell'essere umano di combattere le tentazioni sessuali”.
Un impulso decisivo alla rivoluzione sessuale è arrivato dal biologo Alfred Kinsey (1896-1956), con il quale “il comportamento sessuale si scinde completamente dalla sfera emotiva e da quella morale, per essere considerato solo dal punto di vista fisico”.
“In un certo senso, questa visione della sessualità – che si impone nelle società occidentali – ripropone, rovesciata, l'eresia gnostica che separava corpo e spirito”; “qui si dà invece al corpo e alla sessualità il massimo dell'importanza” come elemento che determina il comportamento, “in totale contrapposizione all'unione inscindibile fra corpo e spirito sempre sostenuta dalla tradizione cristiana”, avverte Scaraffia.
“Kinsey si rivela un ottimo ausilio per la psicanalisi, legittimando la confessione di desideri e pratiche trasgressive per la morale corrente”, conferma; e il successo di questa “ideologia rivoluzionaria” che separa sessualità e procreazione arriva dal fattore demografico.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, grazie ai progressi medici, crebbe la popolazione, “per la prima volta nella storia anche nei paesi del Terzo mondo”, ha segnalato Lucetta Scaraffia; nacquero allora “previsioni catastrofiste” sugli squilibri tra la crescita demografica e le risorse del pianeta, come si è detto nella conferenza mondiale della popolazione, celebrata a Roma nel 1954 sotto il patrocinio dell'ONU.
“Nei decenni seguenti – prosegue – le organizzazioni internazionali fanno proprio il punto di vista occidentale, secondo il quale i Paesi ricchi sarebbero in pericolo, perché assediati da una crescente folla di poveri che si moltiplicano rischiando di consumare troppe risorse”.
“Pianificazione familiare” è il nome che negli anni Sessanti assunse il “controllo delle nascite”, tutto questo sulla scia della propaganda – “eugenetica 'psicologica'”, dice Scaraffia – a favore dell'idea che “i bambini desiderati e voluti diventeranno esseri umani migliori, più sani e più intelligenti, ma anche più equilibrati e più felici di quelli nati 'per caso'”.
Dal 1960 fu messo in commercio l'anticoncezionale del dottor Pincus, “la pillola che inibisce l'ovulazione”, un farmaco che “apre nuove prospettive” “che permettono di realizzare le nuove e più avanzate teorie di liberazione sessuale, che negli anni Sessanta dilagano in tutto il mondo occidentale”.
Si apriva una “nuova stagione per la pratica della sessualità”, cosa che pone interrogativi inediti alla Chiesa; ma la scoperta di questo anticoncezionale è anche “dovuta ad esponenti di un filone ideologico che la Chiesa conosce e combatte da molti anni, quello dell'eugenetica neomalthusiana”.
Ad ogni modo, con la pillola anticoncezionale si impone rapidamente come bene di massa il controllo della natalità, soprattutto come “strumento di liberazione per le donne” in quanto viene permesso “di comportarsi dal punto di vista sessuale come gli uomini”, spiega Scaraffia: “possono essere le sole a decidere se concepire un figlio”, “possono anche separare definitivamente” “la sessualità dall'amore e dalla famiglia”.
Sono “trasformazioni culturali” che “contagiano anche i cattolici”, ricorda; il dibattito sui fini del matrimonio si vede fortemente influenzato dalle trasformazioni culturali occidentali; “il matrimonio viene percepito pertanto sempre più come una istituzione umana, con finalità umane e sociali, cioè il raggiungimento di una realizzazione affettiva e sessuale individuale, e come tale esposto alla fragilità dei desideri umani”.
Da ciò deriva la preoccupazione della Chiesa, “che vede in pericolo l'irreversibilità del vincolo, ma soprattutto scorge” “una vera e propria cancellazione di Dio dal rapporto fra gli sposi, se pure credenti”.
“La seconda rivoluzione sessuale non solo separerà definitivamente la sessualità dalla procreazione, ma anche dal matrimonio e dall'amore, per legittimarla come semplice ricerca di piacere individuale”, sintetizza.
E' questo, a grandi tratti, l'itinerario della rivoluzione sessuale e della contraccezione, che diventano, “soprattutto a partire dagli anni Sessanta, una delle questioni più calde nel cattolicesimo contemporaneo”.
La professoressa Scaraffia ha sottolineato la ragione principale “della difficile ricezione dell'enciclica anche all'interno del mondo cattolico”; viene dalla penna di Joseph Razinger nel 1995: “Se si volesse fare un rimprovero al Papa [Paolo VI], non potrebbe essere quello del naturalismo, ma al massimo quello che egli ha un'idea troppo grande dell'essere umano, della capacità della sua libertà nell'ambito del rapporto spirito-corpo”.
Quanto agli ultimi decenni, “il clima riguardo alla liberazione sessuale è mutato”, sottolinea la storica, “perché non siamo più ansiosi di introdurla nelle nostre società, ma anzi oggi – che ormai è stabilmente diffusa – siamo pronti a guardarla con uno sguardo critico, consapevoli che il mito della felicità a portata di mano non si è realizzato neppure questa volta”.


Pentecoste sul Monte Athos
Viaggio sulla santa montagna della Chiesa ortodossa. Compiuto e raccontato la prima volta nel 1997. Cioè ora, quest'anno. Perché sull'Athos i tempi della terra fanno tutt'uno con l'oggi eterno del cielo
di Sandro Magister
MONTE ATHOS – Fermate gli orologi, quando dai vapori del Mar Egeo vedete sbucare la cima dell'Athos. Perchè lì sono cose d'altri tempi. Il calendario è il giuliano, in ritardo di 13 giorni su quello latino che ha invaso il resto del mondo. Le ore non si contano a partire da mezzanotte, ma dal tramonto del sole. E non è sotto il sole meridiano, ma nel buio notturno che l'Athos più vive e più palpita. Di canti, di luci, di misteri.

Il Monte Athos è vera terra santa, che incute timor di Dio. Non è per tutti. Intanto non è per le donne, che già sono una buona metà degli umani. L'ultima pellegrina autorizzata vi ha messo piede sedici secoli fa. Si chiamava Galla Placidia, quella dei mosaici blu e oro di una chiesa di Ravenna a lei intitolata. A nulla le valse d'esser figlia del grande Teodosio, imperatore cristiano di Roma e Costantinopoli. Entrata in un monastero dell'Athos, un'icona della Vergine le ordinò: férmati! e le ingiunse di lasciar la montagna. Che doveva restare da lì in poi inviolata da donna. Dal secolo XI – dicono – neanche gli animali femmina, vacche, capre, coniglie, osano più salire impunemente il santo monte.

URANÚPOLIS
Uranúpolis, città del cielo, ultimo villaggio greco prima del sacro confine, è posto di frontiera specialissimo. Cartelli di ferro smaltato vi avvertono fino all'ultimo che non la passerete liscia se siete donna travestita da uomo o se vi scoveranno senza i giusti permessi. La sacra epistassía, il governo dei monaci, vi consegnerà a un tribunale di Grecia. Il quale è sempre severo nel tutelare l'extraterritorialità dell'Athos e le sue leggi di autonoma teocrazia, sancite nella costituzione ellenica e forti di riconoscimento internazionale.

Sudati monaci in tonaca e cappello a cilindro tengono a freno la calca dei viaggiatori in cerca d'un lasciapassare. Molti i chiamati ma pochi gli eletti, dice il Vangelo. E pochissimi sono i visti d'ingresso timbrati ogni mattina col sigillo della Vergine. Chi finalmente riceve la similpergamena che autorizza la visita corre al molo d'imbarco. Perché nell'Athos si entra solo via mare, su navigli che hanno nomi di santi.

Lo sbarco è un porticciolo a metà penisola che si chiama Dafne, come la ninfa di Apollo. Ma il lontano Olimpo, che da lì si scorge nelle giornate ventose, dimenticàtelo. Un vecchio autobus panciuto, del color della terra anche nei finestrini, arranca sulla salita fino a Kariès, ombelico amministrativo dell'Athos, sede dalla sacra epistassìa.

KARIÈS
A Kariès ci sono la gendarmeria, un paio di viuzze con botteghe che vendono semi di farro, icone, grani d'incenso e tonache monacali; ci sono il finecorsa dell'autobus e una trattoria. C'è anche un telefono pubblico, che ha tutta l'aria d'essere il primo e l'ultimo.

Kariès è uno strano paesetto senza abitanti. Quei pochi che compaiono sono tutti provvisori: monaci itineranti, gendarmi, operai di giornata, viaggiatori smarriti. Da lì in avanti si procede a piedi, ore di marcia su strade sterrate, senz'ombra, in nuvole di polvere impalpabile come cacao. Oppure su camionette prese a nolo da un altro degli strani greci provvisori. Oppure saltando su jeep di passaggio, di proprietà dei monasteri più ammodernati.

Ma sempre con grande supplizio corporeo. L'Athos è per tempre forti, ascetiche. Da subito vi torchia. Ogni giorno di visita avrà la sua via crucis di polvere e sassi e precipizi: perchè sul prezioso vostro permesso c'è scritto che non potete fermarvi più di una notte in un monastero e tra l'uno e l'altro ci sono ore di cammino. Il pellegrinare è d'obbligo.

GRANDE LAVRA
Ma quando arrivate esausti in uno dei venti grandi monasteri, che paradiso. La Grande Lavra, il primo nella gerarchia dei venti, vi accoglie tra le sue mura sospese tra terra e cielo, verso la punta della penisola proprio sotto la santa montagna. Compare un giovane monaco e vi ritira pergamena e passaporto. Ricompare come l'angelo dell'Apocalisse dopo un silenzio in cielo di circa mezz'ora, ristorandovi con un bicchier d'acqua fresca, un bicchierino di liquor d'anice, una zolletta di gelatina di frutta e un caffè alla turca, speziato. È il segno che siete stato ammesso tra gli ospiti. Vi tocca un letto in una camera a sei tra mura vecchie di secoli, con le lenzuola fresche di bucato e l'asciugamano. Da lì in avanti farete vita da monaci.
Ossia farete come vi pare. I monasteri dell'Athos non sono come quelli d'Occidente, cittadelle murate dove ogni mossa, ogni parola sono sotto regola collettiva. Sull'Athos c'è di tutto e per tutti. C'è l'eremita solitario sullo strapiombo di roccia, cui mandano su il cibo di tanto in tanto con una cesta. Ci sono gli anacoreti nelle loro casupole sperdute tra ginestre e corbezzoli, sulla costa della montagna. Ci sono i senza fissa dimora, sempre in cammino e sempre irrequieti. Ci sono i solenni cenobi di vita comune retti da un abate, che qui si chiama igúmeno. Ci sono i monasteri villaggio dove ciascun monaco fa un po' a ritmo suo.

La Grande Lavra è uno di questi. Dentro le sue mura ci sono piazze, stradine, chiese, pergole, fontane, mulini. Le celle fanno blocco come in una kasbah orientale. Spiccano gli intonaci azzurri, mentre il rosso è il sacro colore delle chiese. Quando suona il richiamo della preghiera, con campane dai sette suoni e con il martellare dei legni, i monaci s'avviano al katholikón, la chiesa centrale. Ma se qualcuno vuol pregare o mangiare in solitudine, niente gli vieta di restare nella sua cella. Anche per il visitatore è così, salvo che lui di alternative ne ha proprio poche. Al vespero accorre impaziente. Alla preghiera notturna ci prova, presto indotto a ripiegare dal sonno. Alla liturgia mattutina ci riprova, vagamente stordito.

O inebriato? C'è profumo d'Oriente, di Bisanzio, nella Grande Lavra. C'è aroma di cipresso e d'incenso, fragranza di cera d'api, di reliquie, di antichità misteriosamente prossime. Perchè i monaci dell'Athos non patiscono il tempo. Vi parlano dei loro santi, di quel sant'Atanasio che ha piantato i due cipressi al centro della Lavra, che ha costruito con forza erculea il katholikón, che ha plasmato il monachesimo athonita, come se non fosse morto nell'anno 1000 ma appena ieri, come se l'avessero incontrato di persona e da poco.

Santi, secoli, imperi, città terrene e celesti, tutto par che oscilli e fluisca senza più distanza. Ai visitatori sono offerti in venerazione, al centro della navata, i tesori del monastero: scrigni d'oro e d'argento con zaffiri e rubini, che incastonano la cintura della Vergine, il cranio di san Basilio Magno, la mano destra di san Giovanni Crisostomo. La luce del tramonto li accende, li fa vibrare. E s'accendono anche gli affreschi di Teofane, maestro della scuola cretese del primo Cinquecento, le maioliche azzurre alle pareti, le madreperle dell'iconostasi, del leggio, della cattedra.

Dopo il vespero si esce in processione dal katholikón e si entra, dirimpetto sulla piazza, nel refettorio, che ha anch'esso l'architettura di una chiesa ed è anch'esso tutto affrescato dal grande Teofane. È la stessa liturgia che continua. L'igúmeno prende posto al centro dell'abside. Dal pulpito un monaco legge, quasi cantando, storie di santi. Si mangia cibo benedetto, zuppe ed ortaggi in antiche stoviglie di ferro, nelle feste si beve del vino color ambra, su spesse tavole di marmo scolpite a corolla, a loro volta poggianti su sostegni marmorei: vecchie di mille anni ma che evocano i dolmen della preistoria. Anche l'uscita avviene in processione. Un monaco porge a ciascuno del pane santificato. Un altro lo incensa con tale arte che anche in bocca ve ne resta a lungo il profumo.

VATOPÉDI
Dopo la Grande Lavra, nella gerarchia dei venti monasteri, viene Vatopédi. Sorge sul mare tra dolci colline vagamente toscane. Lì, raccontano, si salvò il naufrago Arcadio, figlio di Teodosio. E lì dovette riprendere il largo la sorella, Galla Placidia, la prima delle donne interdette dall'Athos.

Come la Lavra è rustica, così Vatopédi è raffinato. E lo fu sin troppo, in qualche tratto della sua storia passata: opulento e decadente. Ancora non molti anni fa albergava monaci sodomiti, disonore dell'Athos. Ma poi è venuta la sferza purificatrice d'un manipolo di monaci rigoristi giunti da Cipro, che hanno messo al bando i reprobi e imposto la regola cenobitica. Oggi Vatopédi è tornato monastero tra i più fiorenti. Accoglie giovani novizi fin dalla lontana America, figli di ortodossi emigrati.

Vatopédi è l'aristocrazia dell'Athos. Dice solenne l'igúmeno Efrem, barba color rame, occhi chiari e voce melodiosa: "L'Athos è unico. È il solo Stato monastico al mondo". Ma se è città del cielo sulla terra, allora tutto lì dev'essere sublime. Come le liturgie, che a Vatopédi sublimi lo sono per davvero. Specie nelle grandi feste: Pasqua, Epifania, Pentecoste. Il pellegrino vinca il sonno e non perda, per niente al mondo, i suoi meravigliosi uffici notturni.
Già la chiesa è di grande suggestione: è a croce greca come tutte le chiese dell'Athos, mirabilmente affrescata dai maestri macedoni del Trecento, con un'iconostasi fulgentissima d'ori e d'icone. Ma è il canto che a tutto dà vita: canto a più voci, maschio, senza strumenti, che fluisce ininterrotto anche per sette, dieci ore di fila, perché più la festa è grande e più si prolunga nella notte, canto ora robusto ora sussurrato come marea che cresce e si ritrae.
I cori guida sono due: grappoli di monaci raccolti attorno al leggio a colonna del rispettivo transetto, con il maestro cantore che intona la strofa e il coro che ne coglie il motivo e lo fa fiorire in melodie e in accordi. E quando il maestro cantore si sposta dal primo al secondo coro e traversa la navata a passi veloci, il suo leggero mantello dalle pieghe minute si gonfia a formare due ali maestose. Sembra volare, come le note.
E poi le luci. C'è elettricità nel monastero, ma non nella chiesa. Qui le luci sono solo di fuoco: miriadi di piccoli ceri il cui accendersi e spegnersi e muoversi è anch'esso parte del rito. In ogni katholikón dell'Athos pende dalla cupola centrale, tenuto da lunghe catene, un lampadario a forma di corona regale, di circonferenza pari alla cupola stessa. La corona è di rame, di bronzo, di ottone scintillanti, alterna ceri e icone, reca appese uova giganti che sono simbolo di risurrezione. Scende molto in basso, fin quasi a esser sfiorato, proprio davanti all'iconostasi che delimita il sancta sanctorum. Altri fastosi lampadari dorati scendono dalle volte dei transetti.
Ebbene, nelle liturgie solenni c'è il momento in cui tutte le luci vengono accese: quelle dei lampadari e quelle della corona centrale; e poi i primi sono fatti ampiamente oscillare, mentre la grande corona viene fatta ruotare attorno al suo asse. Almeno un'ora dura la danza di luce, prima che pian piano si plachi. Il palpito delle mille fiammelle, il brillare degli ori, il tintinnio dei metalli, il trascolorare delle icone, l'onda sonora del coro che accompagna queste galassie di stelle rotanti come sfere celesti: tutto fa balenare la vera essenza dell'Athos. Il suo affacciarsi sui sovrumani misteri.
Quali liturgie occidentali, cattoliche, sono oggi capaci d'iniziare a simili misteri e d'infiammare di cose celesti i cuori semplici? Joseph Ratzinger, ieri da cardinale e oggi da papa, coglie nel segno quando individua nella volgarizzazione della liturgia il punto critico del cattolicesimo d'oggi. All'Athos la diagnosi è ancor più radicale: a forza d'umanizzare Dio, le Chiese d'Occidente lo fanno sparire. "Il nostro non è il Dio dello scolasticismo occidentale", sentenzia Gheorghios, igúmeno del monastero athonita di Grigoríu. "Un Dio che non deifichi l'uomo non può avere alcun interesse, che esista o meno. È in questo cristianesimo funzionale, accessorio, che stanno gran parte delle ragioni dell'ondata di ateismo in Occidente".
Gli fa eco Vassilios, igúmeno dell'altro monastero di Ivíron: "In Occidente comanda l'azione, ci chiedono come possiamo rimanere per così tante ore in chiesa senza far nulla. Rispondo: cosa fa l'embrione nel grembo materno? Niente, ma poiché è nel ventre di sua madre si sviluppa e cresce. Così il monaco. Custodisce lo spazio santo in cui si trova ed è custodito, plasmato da questo stesso spazio. È qui il miracolo: stiamo entrando in paradiso, qui e ora. Siamo nel cuore della comunione dei santi".

SIMONOS PETRA
Simonos Petra è un altro dei monasteri che sono alla testa della rinascita athonita. Si erge su uno sperone di roccia, tra la vetta dell'Athos e il mare, coi terrazzi a vertigine sul precipizio. Eliseo, l'igúmeno, è appena tornato da un viaggio tra i monasteri di Francia. Apprezza Solesmes, baluardo del canto gregoriano. Ma giudica la Chiesa occidentale troppo "prigioniera di un sistema", troppo "istituzionale".

L'Athos invece – dice – è spazio degli spiriti liberi, dei grandi carismatici. All'Athos "il logos si sposa alla praxis", la parola ai fatti. "Il monaco deve mostrare che le verità sono realtà. Vivere il Vangelo in modo perfetto. Per questo la presenza del monaco è così essenziale per il mondo. Scriveva san Giovanni Climaco: luce per i monaci sono gli angeli, luce per gli uomini sono i monaci".

Simonos Petra fa scuola, anche fuori dei confini dell'Athos. Ha dato vita a un monastero per monache, un'ottantina, nel cuore della penisola Calcidica. Un altro ne ha fatto sorgere vicino al confine tra Grecia e Bulgaria. E ha aperto tre altri suoi nuclei monastici persino in Francia. È un monastero colto, dotato d'una ricca biblioteca. A notte alta i suoi ottanta monaci, prima della liturgia antelucana, vegliano in cella da tre a cinque ore leggendo e meditando i libri dei Padri.

Athos insonne. Senza tempo che non sia quello delle sfere angeliche. Lasciarlo è una dura scossa anche per il visitatore più disincantato. A Dafne si risale sul traghetto. Il cadenzato ronfare dei motori vi rimette in pari con gli orologi mondani. La ragazza greca, la prima, che a Uranúpolis vi serve il caffé, vi viene incontro come un'apparizione. Con la folgorante bellezza d'una Nike di Samotracia.


Proposta agli iscritti dell’Associazione “Amici di Magdi Cristiano Allam”: incontriamoci a Torino domenica 11 maggio per conoscerci e per la presentazione del mio "Grazie Gesù"
Chi fosse interessato a partecipare all'incontro, lo comunichi tramite una mail entro la mattinata di venerdì 9 maggio: l'obiettivo è di rilanciare la Associazione "Amici di Magdi Cristiano Allam"
Di Magdi Cristiano Allam
Cari amici,
Il mio nuovo libro “Grazie Gesù. La mia conversione dall’islam al cattolicesimo” sarà in libreria a partire da venerdì 9 maggio. La prima presentazione avverrà alla Fiera del Libro di Torino domenica 11 maggio, alla Sala dei 500, alle ore 15.30. Sarà necessario ritirare un biglietto gratuito per potervi accedere. Coloro che, tra gli iscritti al sito dell’Associazione “Amici di Magdi Cristiano Allam” desiderassero parteciparvi, saranno agevolati assicurando loro dei posti prenotati. Inoltre li riceverò con piacere in un incontro privato che si terrà a Torino dalle ore 11 alle ore 12,30. Al fine di realizzare nel migliore dei modi possibili il nostro incontro e la vostra partecipazione alla presentazione del libro, vi prego di comunicare la vostra presenza alla mail segreteria@magdiallam.it, lasciando oltre il nome e il cognome anche il numero del vostro cellulare per consentire una tempestiva comunicazione. La comunicazione dovrà pervenire entro la mattinata di venerdì 9 maggio. All'incontro potranno partecipare solo le persone autorizzate. E’ un segno del destino che nell’anno in cui si celebra il sessantesimo della fondazione dello Stato ebraico e dopo aver dato alle stampe il mio “Viva Israele”, il tema della sacralità della vita, del diritto alla libertà di fede e dell’impegno primario per una concezione etica della vita si ripropone in modo assolutamente innovativo con il mio “Grazie Gesù”. Di tutto ciò avrò piacere di parlare insieme a voi.


La voce bassa del Paese vero bussola per i governanti
Avvenire, 9 maggio 2008
DAVIDE RONDONI
S i dice che la politica deve ascoltare la gente. Si dice che vince in politica chi ascolta di più il Paese reale. E oggi il governo che inizia il suo mestiere dovrà dare segno di aver ascoltato il paese per decidere cosa fare. Ma ascoltare è interpretare. Se non si interpretano i segni, si finisce magari per ascoltare e dare peso a chi fa la voce grossa, agli schiamazzi che si accendono e muoiono intorno a fatti effimeri. Per ascoltare veramente bisogna aver un orecchio allenato a cogliere anche i fruscii più discreti e sfuggenti. Come ad esempio quello che ha accompagnato nelle fogne di Pavia la morte di un piccolo feto di 5 mesi. O i tonfi sordi e il fiato rotto di un demente pestaggio nel centro della magnifica Verona. O il silenzioso digitare di una ragazzina che invia sul telefonino le proprie foto intime. O ancora il silenzio dei ragazzi intimoriti a scuola dalle stranezze dei compagni. Sono tutti fatti di questi giorni.
Alcuni hanno suscitato clamore altri meno, e come questi tantissimi ne avvengono. Devono tendere l’orecchio, i nuovi ministri, i nuovi capi dell’Italia, per sentire veramente cosa dice il Paese, quali oscuri dialetti, quali grida soffocate e quali mute richieste d’aiuto. Non ascoltino solo le parole sparate su tv e sui giornali, i titoli ad effetto ma spesso vuoti, o superficiali. Ci sono voci e slogan che conquistano il primo piano perché sono le più 'innocue', meno inquietanti, o le più sguaiate e facili da afferrare. Ma ascoltare significa affinare l’orecchio, tenderlo dove parla magari a bassa voce la vita della gente. E dove senza fare troppo schiamazzo ci sono persone che si danno da fare, operano in favore degli altri, nei campi senza clamore dell’educazione, del recupero, del sostegno. Lo abbiamo constatato anche nella recente campagna elettorale. Molti di coloro che hanno voce pubblica, che riempiono i giornali, firmano manifesti, riempiono le librerie e i festival che dovrebbero esprimere la cultura del paese in realtà ne sono sempre più lontani. Non sono né i loro articoli né i loro libri ben pagati a dare voce all’Italia reale. Altre sono le voci reali, i sussurri e i magoni, gli splendori reali.
E ha vinto chi ha usato in campagna elettorale lo slogan: Rialzati Italia. Per rialzarci il governo deve ascoltare e interpretare i fruscii delle cose più orrende, le digitazioni su tastiere di solitudine, i silenzi rappresi di ragazzi senza più impeto. Deve ascoltare l’orrore che soffia per le vie d’Italia. E ascoltare le voci di chi è impegnato a ridare forza al tessuto educativo. Di chi non ha rivendicazioni per un interesse immediato, ma per poter seminare.
Per chi lavora sul medio periodo. Non si rialza l’Italia agganciandola con tiranti alle opportunità di una ripresa del vento economico internazionale, o con operazioni di lifting. E nemmeno le diete e i sacrifici servono se intanto non si lavora a corroborare i muscoli, ad allenare la parti che dovranno in futuro sorreggerla, cioè la sua gente.
Quel che chiamano il suo capitale umano, come dice chi ha capito la centralità anche economica del problema educativo. Se invece di ascoltare gli inquietanti fruscii, gli smarriti silenzi, e il discreto operare degli educatori, i nostri nuovi governanti avranno orecchio solo per il can-can dei tromboni, le grancasse e le fanfare dei soliti noti, allora l’Italia si accascerà di più, altro che rialzarsi!
O ne alzeranno l’ennesimo sempre più orribile fantoccio. Per ascoltare tutto questo occorre avere non due ma mille orecchie, che non si ottundano l’udito con le cicale, i muschi e i funghi del sottobosco. E l’ascolto è la virtù dei liberi.
Per ascoltare occorre avere mille orecchie E l’ascolto è la virtù dei liberi