domenica 25 maggio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) La situazione generale della famiglia oggi, testo dell'intervento pronunciato da monsignor Grzegorz Kaszak, Segretario del Pontificio Consiglio per la Famiglia
2) Lettera dei Vescovi cattolici della Turchia su san Paolo
3) Bandito l'alcol al Grand Hyatt Hotel del Cairo: lo sceicco saudita vuole imporre l'albergo islamicamente corretto, di Magdi Cristiano Allam
4) Il cardinal Martini e le "buone idee" di Lutero per il Concilio
5) Quale salto all’indietro nella scelta eutanasica del Belgio


La situazione generale della famiglia oggi
CITTA' DEL VATICANO, sabato, 24 maggio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo dell'intervento pronunciato da monsignor Grzegorz Kaszak, Segretario del Pontificio Consiglio per la Famiglia, in occasione della Plenaria del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti (Città del Vaticano, 13-15 maggio) sul tema “La famiglia migrante e itinerante”.
* * *
Eminenze, Eccellenze
Reverendi Sacerdoti
Signore, Signori
Desidero porgere i miei ossequi, in modo particolare, a Sua Em.za il Sig. Card. Renato Raffaele Martino, Presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti.
Nel programma della Plenaria di questo importante Dicastero figurava il nome del compianto Presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia, il Cardinale Alfonso López Trujillo, venuto a mancare il 19 aprile 2008. S.E.R. Mons. Agostino Marchetto, anima e motore di questo Incontro, non ha voluto rinunciare ad un tema così importante come quello dell’istituzione familiare e mi ha invitato, come Segretario del Dicastero impegnato nella promozione della pastorale della famiglia, a presentare l’attuale situazione generale del focolare domestico. Sono grato per l’invito e per la collaborazione con il nostro Pontificio Consiglio.
Nella mia relazione ho cercato di raccogliere le idee che il Cardinale López Trujillo predilegeva e le nostre esperienze. Egli amava dire che siamo come un osservatorio di ciò che accade alla famiglia.
1) Definizione (concetto di famiglia)
Vorrei citare, all’inizio, le parole del Senatore Marcello Pera1 che, secondo me, introducono molto bene il tema in esame: «Il documento “Famiglia e procreazione umana” del Pontificio Consiglio per la Famiglia (2006) mette in evidenza che oggi, anziché parlare de la famiglia, si parla di modelli di famiglia: famiglia di fatto, famiglia di prova, famiglia omosessuale, famiglia lesbica, famiglia monoparentale, anche famiglia poligamica. Con molte varianti: con due o più genitori, con uno, con adozione, con fecondazione omologa, con fecondazione eterologa, con utero in affitto, o con qualunque altro strumento la tecnica riproduttiva moderna metta a disposizione di chi desidera figli. Alcuni di questi modelli sono già fissati da leggi, altri sono allo stato di rivendicazione. Alcuni sono accettati, altri sono tollerati. Alcuni si consolidano, altri fanno ancora scandalo. Ma in genere la strada sembra segnata: l’inconcepibile diventa pensabile, il pensabile possibile, il possibile realizzabile. Alla fine, ciò che un tempo sembrava contro la natura e contro la cultura diventa un fatto, e ciò che sembrava una bizzarria diventa un diritto». Potrebbe sembrare ripetitivo ribadire la definizione di famiglia, ma, di fronte alla confusione descritta dal Senatore Pera, risulta necessario.
Seguendo da vicino la Gaudium et Spes, la Familiaris Consortio considera la famiglia, fondata sul matrimonio, come comunità di vita e di amore (di tutta la vita, «totius vitae»), come totalità che è alla radice della reciproca donazione degli sposi, e che fa sì che la comunione dell’«io» con il «tu» sia una comunione aperta alla vita. La famiglia è comunità originale fondamentale, base della società, anteriore e superiore allo Stato.
Nel corso del II Incontro Mondiale delle Famiglie, nel contemplare la bellezza di Rio de Janeiro, Giovanni Paolo II aveva esclamato: «La famiglia è come questa città: architettura di Dio e architettura umana». La famiglia è architettura di Dio, piano di Dio, suo disegno, ed è perciò inviolabile; su di essa non si può negoziare o fare transazioni di alcuna natura, come vorrebbe invece un mondo secolarizzato. La famiglia è un’identità sacra, ma è, allo stesso tempo, anche architettura umana, compito e impegno dell’uomo. E’ un incontro tra Dio e l’uomo, che avviene in quella identità della famiglia e che dà origine alla realtà della sua missione, nella quale si gioca il futuro dell’umanità.
Il nostro compianto Presidente, il Cardinale Alfonso López Trujillo, amava sottolineare: «Questo dev’essere chiaro: se si tratta di diritti e di doveri ancorati alla natura dell’uomo, se è in gioco l’istituzione naturale, non un consenso sociale; se la verità non è mutabile, né la morale accomodabile, non solo il cristiano, ma ogni uomo, non può eludere queste questioni. La ragione stessa deve affrontarle. La fede dà maggiore profondità e luminosità, una maggiore sensibilità percettiva, e anche una maggiore responsabilità, però le questioni riguardanti la famiglia, il matrimonio e la vita non sono esclusive del credente o della Chiesa ».2 La Chiesa è molto aperta al dialogo sulla famiglia, però occorre la base sulla quale poter sviluppare tale dialogo.
Giovanni Paolo II affermava che la legge morale universale, scritta nel cuore dell'uomo, è quella sorta di «grammatica» che serve al mondo per affrontare questa discussione circa il suo stesso futuro».3
La grammatica iscritta nel cuore dell’uomo esige il pieno rispetto della dignità di ogni essere umano e corrisponde al rispetto della «legge naturale».4 Oggi, in molti luoghi, questa grammatica è assoggettata a ritocchi arbitrari di carattere esegetico e spesso all’ambiguità di un linguaggio attraverso il quale si intende manipolare, deformandoli, concetti come «famiglia», «matrimonio», «persona», «genere». Una falsa antropologia si rifugia nell’ambiguità che si infiltra nel discorso attraverso la manipolazione del linguaggio. Insinuando diversi significati, essa dà alle parole chiave un senso insufficiente, incompleto, che genera la crisi concettuale che conosciamo. E tale comportamento non è buono.
2) Contesto culturale oggi
Come risulta dai differenti contesti, la situazione della famiglia oggi è diversa. In generale, però, possiamo dire che i nuovi termini, coniati per l’etica globale, hanno danneggiato e danneggiano la famiglia. Termini come libertà culturale, educazione di qualità, gender, emancipazione della donna, omofobia, diritti sessuali e riproduttivi, democrazia partecipativa, ecc., sono penetrati nel nuovo modo di comprendere che la post-modernità influenza e vuole a tutti i costi diffondere sulla famiglia. Per alcuni risultano antiquati termini come padre, figlio, marito, sposo, e, di conseguenza, paternità/maternità, filiazione, fraternità, verità, morale, coscienza, fede, castità, servizio, autorità.
Tali sfide, molto più profonde di quanto a prima vista possano sembrare, presentano oggi un panorama appassionante per il lavoro e per il fondamento della verità e della nostra speranza (1Pt, 3,15s) e per dare risposte profonde e integrali alla società del racconto momentaneo e fugace.
Questa terminologia, appena accennata in alcune delle sue concretizzazioni, cerca di cambiare la realtà. Non ci sarebbe più una natura che ci viene data, ma siamo noi che, attraverso il linguaggio, rendiamo nuove le realtà e le cose.
Per fare due esempi concreti ed attuali, mi riferirò alla situazione legale, vera chiave della nuova rivelazione culturale, che pretende di modificare la famiglia oggi. In breve, a causa dell’assunzione, da parte della democrazia partecipativa, del consenso a tutti i livelli e del parossismo del positivismo giuridico, in alcune risoluzioni giuridiche, il delitto si trasforma in diritto. Così le donne hanno assicurati il diritto e i servizi riproduttivi, tra i quali spiccano la contraccezione e l’aborto. Questo esempio si collega al tenebroso orizzonte demografico del mondo occidentale, riguardo al quale gli esperti, da anni, parlano di collasso che produrrà in breve tempo l’inverno demografico. Non è questa la sede, né il momento di affrontare un fenomeno così complesso, però qualcosa ha a che vedere con la paura del figlio o il suo rifiuto, basato su un certo preconcetto della realtà e dell’uomo. I poteri pubblici dovranno favorire socialmente la maternità e, sicuramente, la donna, naturalmente chiamata ad essere madre, la quale potrà esercitare nella sua vita questa dimensione essenziale. Però, senza una chiara identità antropologica, ciò che, dal punto di vista congiunturale, può essere adatto a risolvere un problema sociale o economico, costituirà comunque una condotta pragmatica.
3. Attacchi alla famiglia oggi
Nel contesto attuale in cui viviamo, la famiglia è sottoposta, da più parti, a rischi e ad attacchi. La mancanza del principio di sussidiarietà diventa una minaccia per il focolare domestico.
Il Senatore Marcello Pera ha affermato al riguardo: «Qui da tempo è in corso un effetto paradosso: più lo Stato diventa paternalistico più minaccia la famiglia. La ragione sta in ciò. Lo Stato paternalistico non assiste la famiglia solo materialmente. Fissando regole ― ad esempio decidendo mediante leggi come fare figli, se sopprimere embrioni o feti, come procreare, quando porre termine ad una vita, eccetera ― esso la sostituisce moralmente, la prevarica, ne surroga l’autonomia (…) Se lo Stato paternalistico si occupa di questioni etiche, se lo fa solo per combinare interessi, e se l’etica che lo Stato impone per legge è senza Dio o senza verità, gli interventi dello Stato paternalistico sulla famiglia diventano inevitabilmente interventi contro la famiglia. L’etica dello Stato mette a rischio l’etica della famiglia».5
Attacchi alla famiglia sono:
— Equiparazione delle unioni di diverso tipo con la famiglia, garantendo le stesse leggi e privilegi, ad esempio, fiscali.
— Creazione della divisione tra la famiglia e la trasmissione della vita e la vita stessa.
— La vita non trasmessa nella famiglia, ma «prodotta» nei laboratori.
— La vita non formata ed educata nella famiglia, ma ad esempio nel contesto dell’asilo, del nido, oppure della scuola. Tali istituzioni devono aiutare la famiglia, non sostituirla.
— Altro problema grave è l’adozione dei bambini da parte di coppie omosessuali o lesbiche, oppure di una singola persona omosessuale o lesbica. Ad esempio in Francia, un giudice ha rifiutato l’adozione ad una lesbica e il tribunale europeo ha definito tale decisione come discriminante.
— Se la vita umana è strettamente connessa alla famiglia, allora l’aborto e l’eutanasia, in un certo senso, sono attacchi contro la famiglia. La novità è che essi ora passano attraverso i tribunali, la corte costituzionale, ecc.
Il Senatore Pera così ha continuato: «È la magistratura (la Corte suprema) che ha introdotto il diritto di aborto negli Stati Uniti, che garantisce l’eutanasia in Olanda, che autorizza le forme di matrimonio omosessuale dappertutto. È la magistratura che sempre più fissa ciò che è moralmente lecito. E che impropriamente legifera, come nel caso recente della Corte di giustizia europea in materia di pensione di reversibilità alle coppie gay. Diventati potere diffuso e dotatisi di una teoria ad hoc per esercitarlo (l’autonomia e l’indipendenza), i magistrati sono i veri protagonisti, decisori e arbitri, dei “nuovi diritti” o di tutti i “diritti di nuova generazione”, come sono definiti».6
— Il concetto di «gender» rappresenta un’altra sfida, a livello antropologico, nei confronti della famiglia. Dobbiamo tener presente che ci sono parecchi studi oggi (molti negli Stati Uniti, ma anche in Francia) su questa complessa e delicata questione.
Quando il concetto di «gender» è emerso nel contesto internazionale (in quello accademico era già presente negli Stati Uniti, fin dagli anni 70), in occasione della Conferenza sulla Donna, svoltasi a Pechino nel 1995, forse non se ne conosceva ancora tutta la pericolosità. Oggi si può meglio costatare che si tratta di un elemento strategico della ideologia del femminismo radicale, secondo la quale l’identità sessuale sarebbe un problema di impostazione, non a livello di natura, ma una scelta prodotta da pressioni o dal contesto culturale. Dunque, l’identità sessuale diventerebbe una scelta e quella scelta «libera», nella sua varietà, andrebbe rispettata. Secondo la nuova ideologia del «gender», se non è rispettata la scelta di una identità libera — ed è questa la strada per rendere possibili le unioni di fatto a carattere omosessuale — allora la società deve cambiare (tale scelta deve, ad ogni modo, rifiutare l’immagine della donna come schiava della famiglia, della maternità e dell’uomo, ma anche di una sessualità che non sia totalmente libera).
Il nostro Dicastero avverte la necessità di essere presente nella lotta che si profila riguardo al «gender». La natura umana in questo concetto di «gender» non è contemplata, non c’è una verità al riguardo. L’identità sessuale sarebbe un prodotto dovuto ad imposizioni, al consenso sociologico e alla cultura. In un mondo che tende sempre più verso la libertà, anche la scelta di un’identità sessuale deve diventare libera. Questo è un aspetto che ci riporta alla grave e forte sfida antropologica in corso, e alla rottura del legame tra libertà e verità. La conseguenza più immediata di tutto questo, anche a livello sociale, è l’inverno demografico.
Quaranta anni fa si era nel pieno del mito demografico della sovrappopolazione, secondo le note forme del neomaltusianismo.7 Il fatto che il nostro pianeta sia sovrappopolato in maniera pericolosa, e minacciato dalla fame, si considerava come uno dei fattori della «mentalità contraria alla vita», di «un certo panico derivato dagli studi degli ecologi e dei futurologi sulla demografia, che a volte esagerano il pericolo dell'incremento demografico per la qualità della vita» (FC, 30).
Per limitarmi soltanto ad alcune riflessioni, mi sembra importante sottolineare il cambiamento notevole che le previsioni hanno fornito e che mostrano le evidenti variazioni di tendenza manifestatesi negli ultimi anni. Relativamente alle proiezioni di più di un lustro fa, per l’anno 2025 si osserva già una differenza tra quello che allora si annunciava, e quello che si prevede oggi, approssimativamente di 3 bilioni. E ciò non è poco se si tiene conto che oggi la popolazione non raggiunge i 6 miliardi e mezzo (secondo un calcolo generoso). Istituzioni come l’ONU e alcuni studiosi riducono ancor più le proiezioni per l’anno 2050: mi sembra che non superino i 9 miliardi (ed altri le restringono maggiormente).
I paesi più colpiti da questo fenomeno sono l’Italia, la Spagna e anche la Polonia, tuttavia la tendenza si riscontra in tutto il continente europeo. C’è, per esempio, chi calcola che nell’anno 2025 la popolazione italiana sarà di 40 milioni di abitanti! Si tratta della «peste bianca».8
Quale sarà il futuro della Chiesa, secondo la nostra più familiare pastoralità, se non ci saranno più famiglie? Questa è una domanda senza precedenti nella storia della Chiesa. Quale catechesi potrà essere svolta senza la presenza delle famiglie, quali vocazioni potranno fiorire? Ecco perché crediamo che la sfida più radicale sia soprattutto in Europa. Se si è consapevoli della centralità di questo problema, ci si rende conto che è veramente in gioco il futuro all’interno della Chiesa. Famiglia e vita hanno un futuro? Esse sono intimamente unite, sono ambedue la base della società, ed anche della vita e della vitalità ecclesiale. Il riconoscimento di questo problema ha un’importanza eccezionale.
Il Servo di Dio Giovanni Paolo II ci ha lasciato, nei suoi numerosi documenti sulla famiglia, un magistero carico di attualità. La famiglia deve essere riconosciuta come un bene comune fondamentale, per ogni popolo e per tutta l’umanità! Oggi si comprende molto di più che la famiglia adempie una funzione insostituibile nella Chiesa e nella società.
Le sintesi offerteci dal magistero dei Pontefici sono allo stesso tempo uno stimolo per il cammino, per la pastorale che cresce e si irrobustisce in mezzo alle difficoltà. Si tratta di una forte proclamazione che apre alla speranza. Di fronte ad una tale certezza, bisogna abbandonare ogni tentazione che porta alla stanchezza, alla pigrizia o al pessimismo. E’ la «stupenda novità» che non possiamo seppellire, ma sbandierare ai quattro venti come un vessillo di dignità, di liberazione, come ci insegna Benedetto XVI nei suoi magistrali interventi.
Per ultimo, come non dire una parola sull’enorme influsso dei mass media nella formazione dell’opinione e anche degli stili di vita? Come non renderci conto di tante forme ed espressioni di cinema o di teleromanzi che deformano addirittura il carattere dell’amore umano, della famiglia e talvolta della vita umana? Appare all’orizzonte un’altra sfida grande: formare persone che trasmettano quei valori familiari che servono veramente al bene comune e alla persona. Esistono speranze in questo campo, ma forse la strada da percorre diventa più lunga e più urgente.
Conclusione
Oggi i campi che interessano l’istituzione familiare sono molto ampi, da quello legislativo e politico — nel quale la presenza ecclesiale cerca di essere più incisiva ed armonica — a quello educativo e formativo.
Oltre a quanto esposto fin qui, aggiungo che il secolarismo e la nuova rivoluzione culturale sono penetrati anche in alcuni ambienti e vocabolari della stessa Chiesa. Occorre affrontare le cose e chiamarle con il loro nome. Potremo vincere il secolarismo invadente e idolatrico, che illude l’uomo, solamente con l’annuncio di Cristo, del Crocifisso, secondo ciò che proclamò San Paolo. Solo così, uniti alla vite — come ama ripetere Benedetto XVI —, siamo sicuri che l’Umanità e la Famiglia hanno un nuovo futuro, quello di Colui che, credendo nel suo Nome, fa nuove tutte le cose (cf. Ap. 21,1-5).
Per questo penso che, per parlare dell’uomo come ente familiare, nulla è più opportuno e valido che riproporre il ricchissimo patrimonio della Chiesa quale esperta in umanità. Si tratta di un annuncio coerente tra creazione e natura, un annuncio esplicito sul fatto che la legalità non può trovare altro posto che nella moralità oggettiva delle azioni razionali e libere degli uomini; un annuncio che considera come la libertà è unita alla verità, anzi esiste per essa. Potremo così accogliere la verità integrale che ci viene dall’alto, che ci dà vita e che ci rende liberi. Soltanto a partire da questa libertà nella verità l’uomo potrà creare un mondo nuovo, poiché egli è nuovo, poiché egli è figlio di un Padre che desidera condividere la sua felicità in modo comunitario, cioè in famiglia. Il mistero di Dio è famiglia. L’uomo, per incontrarsi e gioire, deve essere famiglia, vivere come famiglia e morire in famiglia. Così, nel paradigma della famiglia, l’uomo è chiamato a partecipare al mistero di Dio intimamente e totalmente. Soltanto in tal senso l’uomo potrà colmare la sua ansia d’infinito. Questo è quanto la Chiesa, in mezzo alle turbolenze della storia, non fa che annunciare. In maniera diversa, ma con la stessa «Buona Notizia» ricevuta duemila anni fa, essa proclama che la Vita ha vinto e che il Vangelo della Famiglia e della Vita deve essere annunciato, affinché il mondo e gli uomini raggiungano in pienezza la vera vita.
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1 Intervento del Senatore Marcello Pera alla XVIII Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio per la Famiglia, 3 aprile 2008.
2 Cardinale Alfonso López Trujillo, Incontro con i politici e legislatori dell’America Latina, Rio de Janeiro, 29-31 agosto 1993.
3 Giovanni Paolo II, Discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 5 ottobre 1995.
4 Giovanni Paolo II, Enciclica Veritatis Splendor, nn. 42-45.
5 Sen. Marcello Pera, Intervento alla XVIII Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio per la Famiglia.
6 Sen. Marcello Pera, Intervento alla XVIII Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio per la Famiglia.
7 Il Pontificio Consiglio per la Famiglia ha dedicato alle questioni demografiche, oltre al documento «Evoluzioni demografiche: dimensioni etiche e pastorali», diversi Congressi continentali in America Latina, Asia ed Europa.
8 La peste blanche è il libro di Pierre Chaunu e Georges Suffert. Comment éviter le suicide de l’occident, Gallimard, 1976.


Lettera dei Vescovi cattolici della Turchia su san Paolo
ANKARA, sabato, 24 maggio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la lettera pastorale che i Vescovi cattolici della Turchia hanno voluto indirizzare ai loro fedeli in occasione dell'Anno paolino indetto da Papa Benedetto XVI dal 28 giugno 2008 al 29 giugno 2009.
Si intitola “Paolo, testimone ed apostolo dell'identitá cristiana” e reca la data del 25 gennaio 2008, giorno in cui la Chiesa cattolica ricorda la conversione dell'Apostolo delle genti.
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Cari fratelli e sorelle,
«grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo». Vi salutiamo con questo augurio che l'apostolo Paolo rivolgeva ai cristiani della Chiesa di Roma.
Come saprete, il Santo Padre Benedetto XVI ha annunciato che dal 28 giugno 2008 sino al 29 giugno 2009 la Chiesa cattolica celebrerà il bimillenario della nascita di San Paolo.
Questo evento riguarda tutte le comunità cristiane, dal momento che Paolo è maestro per tutti i discepoli di Cristo, ma riguarda particolarmente noi viventi in Turchia, l'apostolo delle genti è figlio di questa terra ed è in essa che egli ha svolto prevalentemente il suo ministero. Fu qui che egli percorse, in meno di trent'anni, la più parte delle 10.000 miglia dei suoi viaggi. Soprattutto qui sperimentò ostilità, pericoli mortali, carcere, battiture, privazioni di ogni genere, pur di annunciare Gesù Cristo ed il suo vangelo.
Divenuto membro della Chiesa di Antiochia, partì da questa comunità per i suoi viaggi missionari percorrendo in lungo e in largo l'attuale Turchia: Seleucia, Iconio, Listra, Derbe, Antiochia di Pisidia, Efeso, Mileto, Antalia, Perge, Troade sono soltanto alcuni nomi delle località dell'attuale Turchia nelle quali si recò quale testimone di Cristo. Ma sappiamo che molti altri luoghi della nostra terra hanno conosciuto il suo zelo di apostolo. Là dove egli non arrivò personalmente giunsero però le sue lettere. La lettera ai cristiani della Galazia, quella agli Efesini, ai Colossesi, al cristiano Filemone di Colossi ci mettono al corrente di un'attività che non si limita all'annuncio orale, ma si estende all'esortazione scritta. Paolo fa di tutto e si fa veramente tutto a tutti (1Co 9,22) purché «Cristo sia annunciato» (Fil 1,18) Dalla città di Efeso, nella quale l'apostolo rimane per circa tre anni, egli compose la lettera ai Galati, ai Filippesi e la prima lettera ai Corinti.
Ma chi era questo «giudeo di Tarso di Cilicia» (At 21,39) che oggi ricordiamo come il grande «apostolo dei gentili»? Nacque a Tarso, presumibilmente tra il 7 e il 10 d.C., e nella città natale trascorse l'infanzia. Per proseguire la sua formazione fu inviato a Gerusalemme, alla scuola di Gamaliele che lo educò «secondo le più rigide norme della legge paterna» (At 22,3). Questa sua adesione alla legge ed alla tradizione ebraica lo oppose ben presto al primo gruppo cristiano che prese a perseguitare (Gal 1,13-14). L'evangelista Luca ci racconta che era tra i più zelanti nel ricercare i cristiani provenienti dal giudaismo per metterli in carcere (At 9,1-3). Ancora da Luca apprendiamo che Paolo fu tra coloro che approvarono l'uccisione di Stefano (At 8,1). Tale era il suo odio per la prima comunità dei discepoli di Gesù!
Eppure, nei pressi di Damasco, un evento mutò radicalmente questo nemico dei cristiani in un amante appassionato di Cristo e della sua Chiesa. Cristo irrompe fulmineamente nella vita di questo fanatico zelante della Legge e lo trasforma in apostolo del Vangelo. L'onestà e la totale dedizione con la quale Paolo osservava la Legge sino a perseguitare i cristiani, ora è messa in questione dall'incontro con Cristo che lo acceca per ridargli una nuova visione della realtà. Come scrisse Giovanni Crisostomo: «poiché vedeva male, Dio lo rese cieco a fin di bene... eppure non furono le tenebre ad accecarlo, ma fu un eccesso di luce che l'accecò» (Panegirico IV su Paolo 2)
A Damasco Paolo avvertì che la scrupolosa osservanza della Legge non basta a salvare. La Legge senza amore è come un corpo morto, tanto più se in nome di questa Legge, si arriva a perseguitare e uccidere chi non la osserva.
Questo episodio ci fa capire che è l'incontro con Cristo a salvare e non la sola scrupolosa osservanza dei comandamenti. Dinanzi ad una tendenza legalistica sempre presente che trasforma Dio in un idolo e il rapporto con Lui in un contratto senza adesione del cuore, Paolo con la sua esperienza di Damasco ci ripete ancor oggi: l'autore della tua salvezza è Cristo. È Lui «il compimento della legge» (Rom 10,4). Pensare di costruirsi con le sole forze umane una propria santità è un fallimento.
Dopo Damasco la vita di Paolo segna un totale cambio di rotta. Battezzato ed istruito nella fede cristiana a Damasco dal cristiano Anania (At 9,10ss) egli si mise a predicare quanto aveva «visto ed udito» (At 22,15). È dunque l'esperienza del Cristo risorto che lo rende testimone, proprio come aveva reso testimoni gli apostoli («venite e vedete») e l'incredulo Tommaso («guarda le mie mani, metti la tua mano nel mio costato...» (Gv 20,27). Per la crescente ostilità dei suoi correligionari dovette fuggire in Arabia (Gal 1,17). Ritornato a Damasco, Paolo si attirò le antipatie dello sceicco che governava e dei giudei ivi residenti, delusi delle sua trasformazione da fervente fariseo in missionario cristiano. La sua vita era ormai in costante pericolo, per questo alcuni amici lo calarono in un cesto dalle mura cittadine, dal momento che le porte della città erano sorvegliate (At 9,23-25).
È in questo tempo che egli si recò a Gerusalemme per incontrare gli apostoli, ma - come riferisce Luca - «tutti avevano paura di lui, non credendo ancora che fosse un discepolo» (At. 9,26). Fu Barnaba a presentarlo agli apostoli ed alla comunità, parlando loro della esperienza di Damasco. Rimasto per qualche tempo a Gerusalemme, Paolo continuò anche qui ad annunciare il Signore, ma il tentativo di ucciderlo messo in atto da parte di alcuni ebrei, lo costrinse a fuggire a Tarso (At 9,30).
Nella sua città natale rimase circa quattro anni, sino a quando, cioè, Barnaba venne a cercarlo per chiedere il suo aiuto nell'evangelizzazione di Antiochia (At 11,25). D'ora innanzi la comunità antiochena sarà per Paolo la Chiesa di appartenenza. Infatti è da qui che egli parte la prima volta in missione con Barnaba (At 13,2-3) e vi fa ritorno (At 14,26-28); lo stesso avverrà per il suo secondo viaggio (At 15,36-40. 18,18-22) e da qui inizierà ancora il terzo (At 18,23).
Ad Antiochia Paolo e Barnaba non avevano imposto la circoncisione ai pagani convertiti, mentre alcuni giudeo cristiani venuti dalla Palestina ne sostenevano la necessità. La discussione che ne seguì originò il cosiddetto «concilio apostolico di Gerusalemme» (circa 49 d.C.) in cui si diede ragione a Paolo e a Barnaba, dichiarando i convertiti dal paganesimo esenti dalla legge mosaica (At 15,5-29). Con questa decisione la prima comunità cristiana prese atto che il cristianesimo non andava inteso come la forma più perfetta della religione giudaica, ma come una realtà radicalmente nuova. E a questa decisione Paolo concorse in modo decisivo. Anche il confronto che ad Antiochia lo oppose a Pietro era da lui inteso come un modo di salvaguardare la nuova identità cristiana da compromessi o arretramenti (Gal 2,11-14).
I viaggi che portarono Paolo ad attraversare ripetutamente la nostra terra di Turchia sino alla Grecia sono registrati dall'evangelista Luca negli Atti degli Apostoli e sarebbe bene che ciascuno di voi riprendesse in mano questo testo per rendersi conto delle fatiche sostenute dall'apostolo nell'annuncio del Vangelo Noi ci limitiamo a ricordare la presenza di Paolo ad Antiochia di Pisidia, l'odierna Yalvac e ad Efeso (Selcuk).
Ad Antiochia di Pisidia Paolo giunse intorno all'anno 47 provenendo da Perge (At 13,14-52). Nella sinagoga locale Paolo, percorrendo le tappe salienti della storia della salvezza, dall'Antico Testamento fino a Giovanni Battista, egli giunge sino alla proclamazione di Gesù, Messia e Figlio di Dio. Questa storia della salvezza è suggellata proprio dalla resurrezione del Signore, nella quale Paolo vede realizzate tutte le promesse messianiche. C'è dunque un filo unico che sta sotto la storia dell'umanità. Dio non ha creato il mondo e l'uomo per poi abbandonarli a se stessi, ma persegue un disegno di amore che trova in Cristo la piena manifestazione. Credere in Cristo significa credere nell'amore di Dio che è da sempre ed è per tutti. Questo l'annuncio fatto dall'apostolo che troverà alcuni pronti ad accoglierlo ed altri contrari al punto da costringerlo a fuggire da Antiochia (At 13,50-52).
Altra tappa significativa dei viaggi di Paolo fu la città di Efeso nella quale Paolo soggiornò per circa 3 anni (54-57 ca.) svolgendo un'ampia e difficile opera di evangelizzazione che lo contrappose sia ai giudei che ai pagani locali. Accennando alle abbondanti sofferenze di questo periodo, egli stesso ricorderà di «aver combattuto ad Efeso contro le belve» (1Co 15,32). Nella seconda lettera ai Corinti (1,8-9) parla di una «tribolazione che ci è capitata in Asia e che ci ha colpito oltre misura, al di là delle nostre forze, così da dubitare anche della vita. Abbiamo addirittura ricevuto su di noi la sentenza di morte... Da quella morte però Egli ci ha liberato». Infine nella lettera ai Romani allude ad una prigionia, presumibilmente subita proprio ad Efeso (Rom 16,3.7).
Cari fratelli, annunciare Gesù Cristo per Paolo è stata una necessità che nasceva dall'amore per Lui. Ciò significa che chi incontra Cristo non può fare a meno di annunciarlo, sia con la vita che con le parole. Come disse dell'apostolo un altro figlio della nostra terra, Giovanni Crisostomo, «è in virtù dell'amore che Paolo è diventato quello che è stato. Non venirmi a parlare dei morti che ha risuscitato, né dei lebbrosi che ha sanato; Dio non ti chiederà niente di questo. Procurati l'amore di Paolo e avrai la corona perfetta» (Panegirico III su Paolo 10).
Il sangue che l'apostolo versò a Roma intorno al 67 d.C. sotto l'imperatore Nerone, non fu altro che il naturale epilogo di una vita spesa per Cristo e per i propri fratelli. Tempo prima ai cristiani di Filippi aveva scritto: «Anche se il mio sangue deve essere versato in libagione sul sacrificio e sull'offerta della vostra fede, sono contento e ne godo con tutti voi» (2,17).
Fratelli e sorelle di Turchia, Paolo è patrimonio di tutti i discepoli di Cristo, ma lo è particolarmente di noi che siamo figli di questa terra che lo ha visto nascere, predicare Cristo senza sosta e testimoniarlo in tante prove. Eppure questo nostro legittimo vanto sarebbe sterile se non si traducesse in un maggiore impegno di imitazione. Guardiamo al persecutore divenuto messaggero del vangelo e comprendiamo che Dio può trasformare anche noi, purché lo vogliamo. Con la sua vita da cristiano, Paolo ci ricorda che Dio non può nulla se noi non collaboriamo con la sua grazia. Come ci ricorda ancora Giovanni Crisostomo «Niente ci impedirà di diventare come Paolo se lo vogliamo veramente. Egli divenne così non soltanto in virtù della grazia, ma anche dell'impegno personale» (Panegirico V su Paolo 2-3). Qual è il messaggio che oggi l'apostolo consegna a noi, cristiani di Turchia?
Noi vescovi pensiamo che dalla miniera delle sue lettere alcuni elementi possano essere particolarmente utili alle nostre comunità che vivono in una situazione di minoranza religiosa. Siamo immersi in un mondo musulmano dove la fede in Dio è ancora ben presente, sia nei suoi aspetti tradizionali che nell'affermarsi di nuove organizzazioni religiose islamiche. Proprio questa situazione, per alcuni aspetti simile a quella delle prime comunità viventi in diaspora, ci impone una più chiara coscienza della nostra identità. Paolo ci richiama all'elemento fondativo di questa nostra identità cristiana che non riguarda la fede in Dio, comune con i fratelli musulmani e con tanti altri uomini, ma la fede in Cristo come «Signore» (1Co 12,3), colui che «Dio ha risuscitato dai morti» (Rom 10,9). Nelle Lettera ai Colossesi l'apostolo scrive addirittura che «in Cristo (...) abita corporalmente tutta la pienezza della divinità» ( 2,9). L'espressione è inequivocabile e ci ricorda che non possiamo incontrare Dio se non attraverso Cristo. Egli è la porta e il ponte tra il Padre e noi. «Uno solo - leggiamo nella prima Lettera a Timoteo (2,5) - è il mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Gesù Cristo che ha dato se stesso in riscatto per tutti».
Paolo ha avvertito tutta la difficoltà di annunciare Cristo, Dio-uomo, che ci salva attraverso la sua incarnazione e la sua morte in croce. Questa è ancora oggi la vera porta stretta di cui parla il vangelo. La porta stretta non sono, dunque, l'accettazione dei precetti morali della Chiesa e neppure la pesantezza umana delle sue strutture, ma quello scandalo della croce che ai non cristiani appare ancor oggi «follia e stoltezza», ma che Paolo annuncia come componente essenziale ed ineliminabile della fede cristiana e anzi espressione della potenza di Dio (1Co 1,18).
Questa accondiscendenza di Dio, che in Cristo si rende presente tra di noi fino a morire in croce, va interpretata come manifestazione di quella carità che costituisce l'essenza di Dio ineffabile, la cui trascendenza non va misurata soltanto con il metro dell'essere, come ha fatto la filosofia, ma con quello dell'amore. Non dimentichiamo forse che all'onnipotenza dell'essere corrisponde un'onnipotenza nell'amore? L'amore non è un attributo di Dio, ma è la sua essenza. Quello che Paolo, pertanto, ci ricorda è che non dobbiamo porre limiti «umani» a questo amore per noi. Questo è il paradosso della fede cristiana confermato dall'incarnazione e morte di Cristo.
Eppure l'apostolo che con l'esempio e la parola ci rafforza nell'identità cristiana, è anche l'uomo del dialogo. Abituato ad incontrare uomini di etnie e tradizioni religiose diverse, Paolo ha compreso che lo Spirito di Cristo non è soltanto presente nella Chiesa, ma la precede ed agisce anche fuori di essa. Come ebbe ad affermare ad Atene: «Dio ha creato tutto... perché gli uomini lo cerchino e si sforzino di trovarlo, anche a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi» (At 17,26-28).
Su questa base siamo invitati ad intensificare il dialogo con il mondo musulmano: il dialogo della vita, dove si convive e si condivide; il dialogo delle opere, dove cristiani e musulmani operano insieme «in vista dello sviluppo integrale e della liberazione della gente»; il dialogo dell'esperienza religiosa, dove si compartecipano le ricchezze spirituali, per esempio «per ciò che riguarda la preghiera e la contemplazione, la fede e le vie della ricerca di Dio o dell'Assoluto» (Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, Dialogo e annuncio, n. 42). Infine il dialogo degli scambi teologici, dove ci si sforza di meglio conoscersi in vista di un maggiore rispetto reciproco. Questo dialogo non significa mettere da parte le proprie convinzioni religiose. Si dialoga veramente quando ciascuno rimane se stesso, mantenendo intatta la propria identità di fede, non tacendo mai, per nessuna ragione, quanto potrebbe apparire difficile da capire per chi non è cristiano. Come scriveva un antico Padre della Chiesa, Ilario vescovo di Poitiers «per il fatto che i sapienti del mondo non capiscono certe cose ed anzi appaiono stolte, forse che anche per noi lo sono?... Allora non gloriamoci della croce di Cristo, perché è scandalo per il mondo; e neppure predichiamo la morte del Dio vivente, perché non sembri agli empi che Dio è morto» (Liber de Synodis 27,85). A questo annuncio Paolo è rimasto fedele, senza cercare di addolcirlo e senza restrizioni mentali. Anzi quello che per il mondo è stato scandalo e stoltezza, per lui è la prova sconvolgente dell'amore di Dio per l'uomo e lascia il posto ad un profondo senso di riconoscenza. Infatti, quanto meno queste cose convengono alla maestà di Dio e tanto più dobbiamo sentirci obbligati nei suoi confronti (Ilario di Poitiers).
Se in questo incontro con il mondo non cristiano l'apostolo ci è maestro, nei rapporti tra comunità cristiane differenti egli è maestro e fondamento di unità. Come ricordava Benedetto XVI, indicendo l'anno paolino, «l'Apostolo delle genti, particolarmente impegnato a portare la Buona Novella a tutti i popoli, si è totalmente prodigato per l'unità e la concordia di tutti i cristiani».
Ancora oggi egli invita tutti noi a puntare lo sguardo su Cristo, superando non soltanto eventuali resistenze, ma anche il disinteresse per chi non appartiene alla «nostra» Chiesa. L'apostolo che sperimentò la difficoltà dell'annuncio del Vangelo, anche da parte dei fratelli di fede, ci ricorda come quello che conta è che Cristo «venga annunciato» (Fil 1,8), ma ci richiama pure alla nostra comune responsabilità nei confronti di quanti non sono cristiani. Prima di essere cattolici, ortodossi, siriani, armeni, caldei, protestanti, siamo cristiani. Su questa base si fonda il nostro dovere di essere testimoni. Non lasciamo che le nostre differenze generino diffidenze e vadano a scapito dell'unità di fede; non permettiamo che chi non è cristiano s'allontani da Cristo a motivo delle nostre divisioni.
Tertulliano, parlando dei cristiani, coglieva l'ammirazione di certi pagani con queste semplici parole: «Guarda come si amano!» (Apologetico 39). Il mondo musulmano che ci circonda può dirlo oggi di noi? Lo potrà dire se tradurremo in gesti concreti la nostra consapevolezza di essere «stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo» (1Cor 12,13). L'esistenza di questo fondamento non può essere smentita da tutte le diversità dell'organizzazione locale e da tutta la differenziazione nell'espressione dottrinale-teologica. Ogni comunità cristiana già dalla sua costituzione si edifica unitariamente sul «fondamento degli apostoli e dei profeti» e raccoglie tutti i membri e gruppi nell'edificio di cui la pietra angolare e chiave di volta è Cristo (Ef 2,20).
Cari fratelli, quanto vi abbiamo scritto è poca cosa rispetto al tesoro di suggestioni e di consigli che ci provengono dalle lettere di Paolo. Questi suoi scritti, lungo la storia, sono sempre stati stimolo ed anche esame di coscienza sul modo di essere cristiani. Contro i sempre ricorrenti tentativi di rendere la fede cristiana un fenomeno religioso che non esige conversione, Paolo è sempre pronto a ricordarci che «cristiani non si nasce, ma si diventa».
Pertanto, in preparazione dell'anno paolino, vi esortiamo a leggere personalmente le sue lettere, a farne motivo di studio all'interno delle parrocchie, a coltivare iniziative ecumeniche. Da parte nostra vi invitiamo a recarvi da pellegrini in luoghi di memoria paolina che abbiamo il privilegio di possedere nella nostra terra: Tarso, Antiochia, Efeso.
In quanto Chiesa cattolica di Turchia terremo un pellegrinaggio nazionale a Tarso-Antiochia. Altre iniziative, assieme ai nostri fratelli ortodossi e protestanti, vi verranno proposte nei prossimi mesi.
Cari fratelli, alimentiamo in noi la certezza che avvicinandoci a Paolo ci avvicineremo di più a Cristo. La fede dell'apostolo nel Cristo risorto, la sua speranza contro ogni speranza umana, la sua carità nel farsi tutto a tutti siano la misura del nostro essere cristiani in questa amata terra di Turchia.
Il Signore vi benedica


I vostri vescovi,
+ Mons. Luigi Padovese
vicario apostolico dell'Anatolia
presidente della Conferenza episcopale di Turchia
+ Mons. Georges Khazoum
vescovo ausiliare degli armeni cattolici di Turchia
vicepresidente della Conferenza episcopale di Turchia
+ Mons. Hovhannes Tcholakian
arcivescovo degli armeni cattolici di Turchia
+ Mons. Ruggero Franceschini
arcivescovo e metropolita di Izmir
+ Mons. Louis Pelâtre
vicario apostolico di Istanbul e Ankara
+ Corepiscopo Mons. Yusuf Sağ
vicario patriarcale dei siriani cattolici di Turchia
+ Mons. François Yakan
vicario patriarcale dei caldei di Turchia


Bandito l'alcol al Grand Hyatt Hotel del Cairo: lo sceicco saudita vuole imporre l'albergo islamicamente corretto, di Magdi Cristiano Allam
Dal sito Amici di Magdi Allam
L'offensiva degli integralisti islamici mette a rischio l'industria del turismo in Egitto. Le autorità locali insorgono. Già nel dicembre 2006 questo paladino del puritanesimo islamico fu allontanato dalla Tunisia dopo un'analoga iniziativa
autore: Magdi Cristiano Allam(Corriere della Sera,25-5-08)
In un impeto di furore puritano, lo sceicco saudita Abdul Aziz Bin Ibrahim Al Ibrahimi, parente del re Abdallah, ha ordinato di distruggere migliaia di bottiglie di alcolici custodite nel suo lussuosissimo Grand Hyatt Hotel del Cairo, buttando nelle acque del Nilo l’equivalente di circa due milioni di dollari. Il suo sogno è che il suo gioiello, costatogli 380 milioni di dollari al momento dell’inaugurazione nel 2003, corrisponda in tutto e per tutto alle prescrizione della sharia, la legge di Allah. Ci aveva già provato con il Grand Hyatt Tunis ma fu costretto, dopo essersi scontrato con il governo tunisino, a venderlo nel dicembre 2006. Ed ora sono le autorità egiziane a insorgere per il timore che possa danneggiare l’industria del turismo che costituisce la locomotiva trainante dell’economia nazionale.
In Arabia Saudita, una monarchia assoluta che ha eretto il Corano come propria Costituzione, il divieto dell’alcol è assoluto sia nei luoghi pubblici sia in quelli privati. Anche se poi molti sauditi partono nel fine settimana a Manama o Dubai, o d’estate a Londra o Parigi, dove bevono come pochi e si lasciano andare a ogni sorta di dissolutezza. L’ideologia oscurantista del wahhabismo che ispira lo sceicco Al Ibrahimi, vorrebbe far abbattere la scure dell’islamicamente corretto sui grandi alberghi internazionali nei paesi a maggioranza musulmana. Di fatto, dopo aver imposto il marchio “halal”, il coranicamente lecito, dalle macellerie ai ristoranti, dall’abbigliamento alle banche, si è scatenata l’offensiva integralista per sottomettere il simbolo del turismo, l’hotel a cinque stelle, ai dettami indiscutibili del verbo di Allah.
La catena internazionale Hyatt, di proprietà americana, ha preannunciato che farà causa allo sceicco saudita. “Sono sconcertato dalla decisione dello sceicco Al Ibrahimi, perché sin dall’inizio ha accettato che sia Hyatt a dirigerlo. Aveva detto di non voler incassare un solo centesimo dai proventi degli alcolici venduti nell’albergo. Di ciò si occupa interamente la direzione della società di gestione”, dice Naghi Eriane, membro della Camera egiziana degli hotel, “lo sceicco non è libero di fare ciò che vuole perché si tratta di un albergo non di casa sua. Il suo comportamento è contrario all’etica alberghiera che è sinonimo di ospitalità e l’ospitalità risiede principalmente nel soddisfare le richieste dei clienti fintantoché sono legittime. Se lui ritiene che ciò sia contrario alla religione, che investa in qualsiasi altro settore diverso dal turismo”.
Ed è proprio questo il punto: per lo sceicco saudita il consumo di alcolici non sarebbe lecito perché l’unica legge che lui rispetta è quella islamica, non quella dello Stato. Anche se per la verità il Corano si presta a differenti interpretazioni circa la liceità dell' alcol. Il versetto 67 della sura XVI lo esalta: «E dei frutti delle palme e delle viti vi fate bevanda inebriante e buon alimento; e certo è ben questo un segno per gente che sa ragionare». Per contro il versetto 219 della sura II lo sconsiglia: «Ti domanderanno ancora del vino e del maysir (il gioco d' azzardo, ndr). Rispondi: "C' è peccato grave e ci sono vantaggi per gli uomini in ambo le cose: ma il peccato è più grande del vantaggio"».
Ma ciò che è soprattutto vero è che l’alcol è da sempre parte integrante della cultura gastronomica e della tradizione sociale dell’insieme delle popolazioni che s’affacciano a Sud e a Est del Mediterraneo. La birra in Egitto esiste dall’epoca dei faraoni, così come la produzione del vino è un’attività da sempre presente in Marocco, Algeria, Tunisia, Turchia, Libano e Siria. Dopo un drastico calo dei consumi a causa dell’involuzione islamica, favorita proprio dai petrodollari sauditi, dopo la sconfitta del panarabismo nella guerra contro Israele del 1967, oggi il livello delle vendite della birra è tornato ai livelli di mezzo secolo fa. In barba ai sedicenti custodi dell’ortodossia islamica che vorrebbero annullare millenni di storia e di cultura, ma che risultano del tutto screditati dalla loro ostentata opulenza e dalla loro recondita ipocrisia.
Magdi Cristiano Allam


25 maggio 2008
Il cardinal Martini e le "buone idee" di Lutero per il Concilio
La chiesa contemporanea "se ne è lasciata ispirare per dar corso al processo di rinnovamento del Vaticano II"

Roma. Il cuore della notte è l’inizio del giorno, e il cardinal Carlo Maria Martini ha trovato un bellissimo titolo per il suo ultimo libro; “Jerusalemer Nachtgespräche” (“Colloqui notturni gerosolimitani”, sottotitolo: “Sul rischio di credere”. Scritto a quattro mani col gesuita viennese Georg Sporschill, per l’editore tedesco Herder, è una riflessione a tutto campo sul cristianesimo e il senso della vita, sulla missione della chiesa e il celibato ecclesiastico, su come recuperare l’energia dei giovani, in una società minata dall’indifferenza e dal materialismo. La forma è quella di un’intensa e sofferta intervista, dove la biografia insegue la teologia, la dottrina della chiesa rincorre le sacre scritture.
E infatti, il riformatore di Santa Romana Chiesa, il gesuita già cardinale di Milano, da molti considerato l’antipapa, strizza l’occhio al principe della Riforma protestante, Martin Lutero, invocando un rinnovamento ecumenico a sfondo biblico. Martini, infatti, è innanzitutto l’esperto biblista che dopo aver scelto di finire i suoi giorni a Gerusalemme, patria dello spirito, “per ritrovare le orme di Gesù”, e aver scelto Parigi per presentare le sue glosse al “Gesù di Nazaret” di Papa Ratzinger, sceglie adesso il tedesco per consegnarci il suo testamento spirituale. In tedesco parla di Lutero, “il più grande riformatore, cui l’amore per le Sacre Scritture ispirò buone idee”; e anche se considera “problematico” il fatto che Lutero abbia “tratto da riforme e ideali necessari un sistema proprio”, Martini riconosce che la chiesa contemporanea “se ne è lasciata ispirare per dar corso al processo di rinnovamento del Concilio Vaticano II, dischiudendo per la prima volta ai cattolici il tesoro della Bibbia su basi più larghe”. E insiste sul nuovo rapporto col mondo, giudicando “il movimento ecumenico una conseguenza della Riforma” sino a rivendicare l’esegesi biblica come elemento chiave della rievangelizzazione che la chiesa è chiamata ad affrontare. Parla infatti di David e Betsabea, di Saul e di re Salomone, ma anche di Luca e di Giovanni, per suffragare il coraggio della fede in Dio e della divina missione umana redentrice, mettendo sullo stesso piano Vecchio e Nuovo Testamento. E dal Vecchio riesuma la vicenda del re che sconfitto Golia, ruba la moglie del suo amico, e viene punito da Dio, con la nascita di un primo figlio nato morto, salvo poi imparare dai propri errori, ravvedersi dalle proprie debolezze, superando le sconfitte, le avversità della vita, senza badare alle ferite sofferte, pur di adempiere alla missione divina.
Così come non separa nettamente tra Vecchio e Nuovo Testamento, Martini non scava trincee nemmeno tra giudaismo, cristianesimo e islam. La Bibbia infatti insegna che “Dio è uno solo, e ama i nemici, soccorre i deboli, e vuole che noi aiutiamo e serviamo tutti gli uomini, anche se lo fa attraverso percorsi diversi”. Il cardinale dunque predica la grandezza del Dio unico, e “l’apertura” del mondo cattolico, e parla di conflitto di civiltà, ma solo per insistere sulla possibilità di neutralizzarlo. “Molti dicono che i musulamani sono per la guerra Santa e vorrebbero chi più chi meno convertirci tutti con la forza, ma nel Corano di questo non c’è traccia”. E ancora, insiste Martini: “Dio non riconosce i limiti e le divisioni costruite dagli uomini, è molto più grande, non se ne lascia addomesticare e nemmeno condizionare”.
La sua, dunque, è una riflessione affidata a domande ficcanti e risposte spesso sconcertanti, dove la ricerca di Dio si confonde spesso nel mistero della sua assenza o della sua indifferenza; e l’esercizio della pratica religiosa lascia volentieri spazio all’autobiografia – memorabili le pagine sul giovane allievo al collegio dei gesuiti di Torino e le virtù spirituali degli Esercizi di Sant’Ignazio di Loyala – come canone di una giusta pedagogia. Suddiviso in sette capitoli, come i giorni della creazione, nel libro il cardinal Martini risponde all’amico viennese parlando a ruota libera di senso della vita e di coraggio, di conquista dell’amicizia e di cultura dell’amore, di unicità di un legame sprituale e liberazione sessuale, ma anche di celibato ecclesiastico e dottrina cattolica in materia di anticoncezionali.
Il tutto s’apre con una doppia avvertenza. Il cardinale racconta l’incontro con padre Sporschill, fondatore di una rete di solidarietà per i ragazzi di strada in Romania e Moldavia, di cui aveva sentito parlare da anni e conosceva il saggio sulle risposte ai giovani tratte dalla teologia di Karl Rahner, il gesuita successore nella cattedra di Romano Guardini alla Ludwig Maximillians Universität di Monaco (la stessa tenuta oggi dal francese Rémi Brague) e protagonista con le sue tesi progressiste della salvezza universale, e dei “cristiani anonimi” del rinnovamento che portò al Concilio Vaticano II. Sporschill, dal canto suo, evoca la natura accidentale del progetto. “Me ne stavo seduto sotto le palme nel giardino dell’Istituto biblico, per scrivere una Guida alla Bibbia per i leader, e ogni giorno incontravo l’ex cardinale, che lavorava al commento del libro del Papa su Gesù. Scoprimmo di trovarci sullo stesso fronte nella battaglia contro l’ingiustizia, pronti a dialogare sui percorsi della fede nell’epoca dell’incertezza”. Da qui l’idea di un libro a partire da domande elementari: come si rivolge a chi non crede? “Gli chiedo quali sono i suoi valori, i suoi ideali” risponde il cardinale. E perché lei crede in Dio? “Perché è buono ed è la cosa più facile e importante della vita,” replica Martini, “anche se a lungo mi son chiesto perché abbia fatto soffrire Cristo suo figlio, facendolo morire sulla croce”. La risposta, l’ha trovata molto dopo. “Senza il dolore, senza la morte, non saremmo in grado di affidarci a Dio, di nutrire la speranza”. E allora, insiste Sporschill, cosa chiederebbe a Gesù, se avesse la possibilità? “Una volta gli avrei chiesto idee migliori, un amore più forte, un coraggio più grande. Adesso gli chiederei solo di accogliermi, di tenermi per mano, di aiutarmi a superare la paura, e non lasciarmi solo”.
di Marina Valensise


Quale salto all’indietro nella scelta eutanasica del Belgio
Avvenire, 25 maggio 2008
CARLO CARDIA
D al Belgio si annunciano, dunque, altri piccoli grandi passi verso la cultura della morte. Per quanti sono colpiti da malattie mentali si propone che, o per volontà espressa precedentemente, o per volontà di altri (familiari, medici) venga disposta la soppressione fisica. Qualcosa del genere già avviene in Olanda, e la voglia di adeguarsi si estende. Non v’è pietà per i deboli e i malati, non v’è misericordia nel venir loro incontro, non ci saranno lacrime per le loro sofferenze. Trionfa il desiderio di liberare la società della loro presenza, con la scusa che la decisione di morte per il malato mentale è presa per il suo bene. Si supera così un’altra soglia di quell’abbandono di umanità che sta avvelenando la nostra epoca, e si raggiunge un altro traguardo di un egoismo che può essere senza fine. Dietro quelle proposte si afferma, ormai senza ritegno, che vogliamo attorno a noi persone sane, che stiano bene, che non soffrano troppo, perché la malattia, la sofferenza, il patimento, disturbano, ci impegnano oltre misura, ci pongono problemi esistenziali che non vogliamo avere. C’è da sperare che qualcuno non torni a dirci che una legge del genere non obbligherebbe nessuno a praticare l’eutanasia, ma legittimerebbe soltanto coloro che liberamente vogliono porre fine alle sofferenze del malato mentale, e che quindi per motivi di laicità andrebbe accettata. C’è da sperare che non venga mai usato questo argomento perché da strumento di libertà la laicità verrebbe degradata a strumento di morte, e conoscerebbe la fine. C’è gran polemica in Belgio se dietro la proposta di legge vi sia una mentalità nazista, ed è una polemica sempre sgradevole. È vero che i medici del Reich giustificavano i loro provvedimenti di morte proprio sulla 'volontà di un tempo' dei malati e sul fatto che «se il malato fosse consapevole dello stato in cui si trova, chiederebbe egli stesso di abbreviarne la durata». Ma, francamente, la ripulsa verso il nazismo non è l’unica motivazione per respingere l’idea che si fa avanti in Belgio, anche perché si troverà sempre qualche cavillo per sostenere che ciò che si propone non è la riedizione del programma di eutanasia deciso con Biglietto autografo di Hitler del 1 settembre 1939. La ragione più vera che ripudia queste proposte è connaturata nel nostro essere uomini, chiamati a vivere insieme e soccorrerci reciprocamente. Essa sta in quella profondità dell’animo che ci dice di non essere mai causa di violenza, o di morte, verso il nostro simile, che ci spinge ad amare gli altri ancor più quando soffrono, e che sta all’origine di tanti eroismi compiuti da uomini e donne per salvare altri uomini e donne, così come sono non come vorremmo che fossero. San Paolo e altri apostoli cambiarono i costumi degli antichi che alla vita non davano grande valore, che respingevano o sopprimevano gli infermi o i malati di mente, che partecipavano e gioivano nel vedere uomini che si combattevano e si davano la morte reciprocamente. Quella svolta fu possibile perché Gesù aveva proposto il rovesciamento della mentalità dell’epoca, aveva chiesto di sostituire alla violenza l’amore, alla sopraffazione la misericordia, all’egoismo il sacrificio di sé. Furono poste lì le basi di quell’umanesimo che piano piano nella storia ha prodotto libertà, solidarietà per i più deboli, accoglienza per i bisognosi, impegno contro lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. È questo, quindi, il salto indietro nella storia e nelle idealità più grandi che la progettata eutanasia fa compiere a tutti noi. Si selezionano le persone per ciò che valgono agli occhi degli altri, non per ciò che sono in sé, e si subordina il loro diritto ad esistere a tante condizioni, a quanti giorni di vita hanno, alle loro malattie, alla loro sanità di mente, a quanto gravano sulla società, e via di seguito. Si dovrà presto fare un nuovo elenco degli ultimi della terra, di coloro che non hanno voce, non hanno salute, non hanno capacità di difesa, e che per ciò stesso rischiano di essere ignorati, emarginati, forse eliminati. È un elenco che già oggi parla alla nostra coscienza e ci indica l’utopia più grande che possiamo contrapporre alla cultura della morte, l’utopia predicata dalla religione dell’amore, dell’aiuto e del sostegno agli altri, del gioie e patire con loro per una vita fatta di tante cose. È un’utopia più ricca di buon senso e di realismo di tanti progetti che sviliscono l’essere umano.