venerdì 23 maggio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Omelia del Papa al Laterano per la Solennità del Corpus Domini
2) DIMENTICARE LA 194, di Giuliano Ferrara
3) BORN IN THE UK
4) Se vogliamo la civile convivenza, il bene comune, l'interesse nazionale, dobbiamo sanzionare il reato d'immigrazione clandestina, di Magdi Cristiano Allam
5) Il Sessantotto che si racconta
6) Il rapporto tra movimento di contestazione e Chiesa cattolica nel '68
7) DOMANI GIORNATA DI PREGHIERA - PICCOLE VELE BIANCHE ALLA VOLTA DELL’AMATA CINA
8) UNDICI VITTIME IN KENYA NELLA CACCIA ALLE STREGHE - Spiazzati da storie d’Africa Ma è la solita voglia di morte


Omelia del Papa al Laterano per la Solennità del Corpus Domini
ROMA, giovedì, 22 maggio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo dell'omelia pronunciata questo giovedì da Benedetto XVI nel presiedere sul sagrato della Basilica di San Giovanni in Laterano la Messa per la Solennità del Corpus Domini, che in Italia e in altri Paesi sarà celebrata domenica prossima.
* * *
Cari fratelli e sorelle!
Dopo il tempo forte dell’anno liturgico, che incentrandosi sulla Pasqua si distende nell’arco di tre mesi – prima i quaranta giorni della Quaresima, poi i cinquanta giorni del Tempo pasquale –, la liturgia ci fa celebrare tre feste che hanno invece un carattere “sintetico”: la Santissima Trinità, quindi il Corpus Domini, e infine il Sacro Cuore di Gesù. Qual è il significato proprio della solennità odierna, del Corpo e Sangue di Cristo? Ce lo dice la celebrazione stessa che stiamo compiendo, nello svolgimento dei suoi gesti fondamentali: prima di tutto ci siamo radunati intorno all’altare del Signore, per stare insieme alla sua presenza; in secondo luogo ci sarà la processione, cioè il camminare con il Signore; e infine l’inginocchiarsi davanti al Signore, l’adorazione, che inizia già nella Messa e accompagna tutta la processione, ma culmina nel momento finale della benedizione eucaristica, quando tutti ci prostreremo davanti a Colui che si è chinato fino a noi e ha dato la vita per noi. Soffermiamoci brevemente su questi tre atteggiamenti, perché siano veramente espressione della nostra fede e della nostra vita.
Il primo atto, dunque, è quello di radunarsi alla presenza del Signore. E’ ciò che anticamente si chiamava “statio”. Immaginiamoci per un momento che in tutta Roma non vi sia che quest’unico altare, e che tutti i cristiani della città siano invitati a radunarsi qui, per celebrare il Salvatore morto e risorto. Questo ci dà l’idea di che cosa sia stata alle origini, a Roma e in tante altre città dove giungeva il messaggio evangelico, la celebrazione eucaristica: in ogni Chiesa particolare vi era un solo Vescovo e intorno a Lui, intorno all’Eucaristia da lui celebrata, si costituiva la Comunità, unica perché uno era il Calice benedetto e uno il Pane spezzato, come abbiamo ascoltato dalle parole dell’apostolo Paolo nella seconda Lettura (cfr 1 Cor 10,16-17). Viene alla mente quell’altra celebre espressione paolina: “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28). Tutti voi siete non solo una cosa ma uno! In queste parole si sente la verità e la forza della rivoluzione cristiana, la rivoluzione più profonda della storia umana, che si sperimenta proprio intorno all’Eucaristia: qui si radunano alla presenza del Signore persone diverse per età, sesso, condizione sociale, idee politiche. L’Eucaristia non può mai essere un fatto privato, riservato a persone che si sono scelte per affinità o amicizia. L’Eucaristia è un culto pubblico, che non ha nulla di esoterico, di esclusivo. Anche qui, stasera, non abbiamo scelto noi con chi incontrarci, siamo venuti e ci troviamo gli uni accanto agli altri, accomunati dalla fede e chiamati a diventare un unico corpo condividendo l’unico Pane che è Cristo. Siamo uniti al di là delle nostre differenze di nazionalità, di professione, di ceto sociale, di idee politiche: ci apriamo gli uni agli altri per diventare una cosa sola a partire da Lui. Questa fin dagli inizi è stata una caratteristica del cristianesimo realizzata visibilmente intorno all’Eucaristia, e occorre sempre vigilare perché le ricorrenti tentazioni di particolarismo, seppure in buona fede, non vadano di fatto in senso opposto. Pertanto, il Corpus Domini ci ricorda anzitutto questo: che essere cristiani vuol dire radunarsi da ogni parte per stare alla presenza dell’unico Signore e diventare uno con Lui e in Lui.
Il secondo aspetto costitutivo è il camminare con il Signore. E’ la realtà manifestata dalla processione, che vivremo insieme dopo la Santa Messa, quasi come un suo naturale prolungamento, muovendoci dietro Colui che è la Via, il Cammino. Con il dono di Se stesso nell’Eucaristia, il Signore Gesù ci libera dalle nostre “paralisi”, ci fa rialzare e ci fa “pro-cedere”, ci fa fare cioè un passo avanti, e poi un altro passo, e così ci mette in cammino, con la forza di questo Pane della vita. Come accadde al profeta Elia, che si era rifugiato nel deserto per paura dei suoi nemici, e aveva deciso di lasciarsi morire (cfr 1 Re 19,1-4). Ma Dio lo svegliò dal sonno e gli fece trovare lì accanto una focaccia appena cotta: “Alzati e mangia – gli disse – perché troppo lungo per te è il cammino” (1 Re 19, 5.7). La processione del Corpus Domini ci insegna che l’Eucaristia ci vuole liberare da ogni abbattimento e sconforto, ci vuole far rialzare, perché possiamo riprendere il cammino con la forza che Dio ci dà mediante Gesù Cristo. E’ l’esperienza del popolo d’Israele nell’esodo dall’Egitto, la lunga peregrinazione attraverso il deserto, di cui ci ha parlato la prima Lettura. Un’esperienza che per Israele è costitutiva, ma risulta esemplare per tutta l’umanità. Infatti l’espressione “l’uomo non vive soltanto di pane, ma … di quanto esce dalla bocca del Signore” (Dt 8,3) è un’affermazione universale, che si riferisce ad ogni uomo in quanto uomo. Ognuno può trovare la propria strada, se incontra Colui che è Parola e Pane di vita e si lascia guidare dalla sua amichevole presenza. Senza il Dio-con-noi, il Dio vicino, come possiamo sostenere il pellegrinaggio dell’esistenza, sia singolarmente che in quanto società e famiglia dei popoli? L’Eucaristia è il Sacramento del Dio che non ci lascia soli nel cammino, ma si pone al nostro fianco e ci indica la direzione. In effetti, non basta andare avanti, bisogna vedere verso dove si va! Non basta il “progresso”, se non ci sono dei criteri di riferimento. Anzi, se si corre fuori strada, si rischia di finire in un precipizio, o comunque di allontanarsi più rapidamente dalla meta. Dio ci ha creati liberi, ma non ci ha lasciati soli: si è fatto Lui stesso “via” ed è venuto a camminare insieme con noi, perché la nostra libertà abbia anche il criterio per discernere la strada giusta e percorrerla.
E a questo punto non si può non pensare all’inizio del “decalogo”, i dieci comandamenti, dove sta scritto: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dèi di fronte a me” (Es 20,2-3). Troviamo qui il senso del terzo elemento costitutivo del Corpus Domini: inginocchiarsi in adorazione di fronte al Signore. Adorare il Dio di Gesù Cristo, fattosi pane spezzato per amore, è il rimedio più valido e radicale contro le idolatrie di ieri e di oggi. Inginocchiarsi davanti all’Eucaristia è professione di libertà: chi si inchina a Gesù non può e non deve prostrarsi davanti a nessun potere terreno, per quanto forte. Noi cristiani ci inginocchiamo solo davanti a Dio, davanti al Santissimo Sacramento, perché in esso sappiamo e crediamo essere presente l’unico vero Dio, che ha creato il mondo e lo ha tanto amato da dare il suo Figlio unigenito (cfr Gv 3,16). Ci prostriamo dinanzi a un Dio che per primo si è chinato verso l’uomo, come Buon Samaritano, per soccorrerlo e ridargli vita, e si è inginocchiato davanti a noi per lavare i nostri piedi sporchi. Adorare il Corpo di Cristo vuol dire credere che lì, in quel pezzo di pane, c’è realmente Cristo, che dà vero senso alla vita, all’immenso universo come alla più piccola creatura, all’intera storia umana come alla più breve esistenza. L’adorazione è preghiera che prolunga la celebrazione e la comunione eucaristica e in cui l’anima continua a nutrirsi: si nutre di amore, di verità, di pace; si nutre di speranza, perché Colui al quale ci prostriamo non ci giudica, non ci schiaccia, ma ci libera e ci trasforma.
Ecco perché radunarci, camminare, adorare ci riempie di gioia. Facendo nostro l’atteggiamento adorante di Maria, che in questo mese di maggio ricordiamo particolarmente, preghiamo per noi e per tutti; preghiamo per ogni persona che vive in questa città, perché possa conoscere Te, o Padre, e Colui che Tu hai mandato, Gesù Cristo. E così avere la vita in abbondanza. Amen.
[Testo con aggiunte a braccio a cura di ZENIT
© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]


DIMENTICARE LA 194
Scritto da GIULIANO FERRARA Il 23/05/2008
GLI EDITORIALI – dal Blog la7
Apochi giorni dall’assassinio di un leader cattolico in un carcere del popolo, trent’anni fa un’Italia torva e malata approvò la legge 194 che autorizzava l’aborto in strutture pubbliche, a certe condizioni. Una legge che attribuisce allo stato e al suo sistema di “cura” il potere di eliminare esseri umani innocenti nel grembo delle loro madri ovviamente fa schifo come istituto di diritto e come gesto civile o etico. E’ indifendibile. Eppure la legge era inevitabile. Perseguire penalmente una donna che interrompa la gravidanza equivale a imporre il modello inaccettabile e oscurantista del parto forzoso, che viola l’integrità individuale di una persona e del suo corpo in nome, magari, dell’integrità della stirpe. Le tragedie sono poi questo, in sostanza: c’è una cosa orrenda che deve avvenire, tutti conoscono la sua mostruosità, ma è inevitabile che avvenga. Quando in rivolta contro la pratica dell’aborto clandestino, e in nome della salute e autonomia vitale delle donne in “cura” dalle mammane, fu sollevato il problema, quell’esito legislativo non poteva tardare, era l’ora dell’emersione dell’aborto in pubblico e della funzione del boia codificata per il medico. E fu una grande ondata che in modi diversi travolse l’intero occidente. Fu il decennio, gli anni Settanta della sentenza americana sull’aborto come privacy e delle legislazioni europee, in cui la vita umana cominciò in modo diffuso e chiaro, su grande scala, a essere considerata qualcosa da, appunto, “curare” con dosi massicce e volontarie di morte irrogata unilateralmente e dispoticamente: fu allora, come ha detto Joseph Ratzinger in una vecchia conferenza all’Accademia di Baviera, che “vennero dichiarati eretici amore e buonumore”.
Quella tragedia va compresa, ricordata come stiamo cercando di fare da mesi, va riconsiderata e rigiudicata, ma va anche paradossalmente “dimenticata” o rimossa. Quella legge va cancellata dal nostro orizzonte mentale. C’è, esiste, opera ogni giorno, è un tabù, è una soluzione di welfare comoda e gratuita alla quale nessuno intende rinunciare come eventualità, come scappatoia dai guai dell’esistenza, come procedura semplice ed egocentrata di benessere e di libertà di comportamento. Nessuno vuole rinunciarvi, non i maschi giovani, non i padri preoccupati, non le ragazze, non le donne e le madri, nessuno, nemmeno tanti preti e suore, nemmeno tanto personale sanitario cattolico. La gerarchia cattolica poi la sa lunga, e non ci pensa nemmeno di andare oltre la petizione di principio, la condanna virtuale, non ci pensa nemmeno a replicare l’ordalia del referendum perduto nel 1981. La gerarchia mostra, ma tremando, e lo si capisce, di aver scelto la strada di un compromesso in cui la legge si rispetta ma si applica, si interpreta, si curva a una mentalità antiabortista. E intanto qualche progressista buontempone le attribuisce addirittura la magica capacità di far diminuire gli aborti, giocando con i numeri e con la confusione tra il post hoc e il propter hoc, una generica successione e una concatenazione causale. Il problema però è che quella legge, la sua vigenza, non impedisce a nessuno di comportarsi rettamente, di essere intelligente e generoso, fantasioso e semplice. Non impedisce a nessuno di guardare in faccia la realtà di questi trent’anni, il maltrattamento generalizzato della vita umana a cui siamo approdati, la società dell’esclusione dalla città umana per ragioni biologiche, la società della selezione eugenetica, la messa fuori legge morale dei malati sfuggiti alla diagnosi di annientamento prenatale, la medicalizzazione del corpo della donna, l’estensione dell’aborto dalla pancia femminile alla neutra provetta, la confezione autorizzata di un figlio che faccia da strumento per la cura di altri bambini, la convivenza con la pianificazione familiare omicida e sessista delle tirannidi asiatiche in forte crescita economica e politica, e anche della grande e tragica democrazia indiana.
Insomma: la 194, legge fatta o comunque autorizzata e promulgata da cattolici e da comunisti contro libertari e radicali, non deve essere e non può essere l’alibi per girare intorno all’aborto, per sottilizzare pro o contro, per perdersi nei dettagli, per ideologizzare, la 194 può essere virtualmente cancellata, nel momento in cui la si rispetta e la si applica, e la si sottrae al tradimento delle sue premesse di “tutela sociale della maternità”. Ma in pari tempo si può e si deve, trent’anni dopo, mancare di rispetto all’aborto. Questo è il problema. L’aborto è un fenomeno mondiale miliardario, un tratto di disperazione capace di avvilire e oscurare il senso di un’intera epoca della storia umana. Chi l’ha detto che mettere un argine all’aborto clandestino, che autorizzare a certe condizioni (disattese ampiamente) l’esercizio di una facoltà liminare e d’emergenza, cioè interrompere volontariamente una gravidanza, vuol dire accettare l’aborto, la sua logica, la cultura eugenetica, la selezione della razza, la rinuncia alla cura e alla ricerca per la cura, chi l’ha detto che l’aborto è un diritto, quando molto chiaramente è una spaventosa tragedia collettiva e individuale?
Dare nome e sepoltura ai “rifiuti speciali ospedalieri”, cioè ai figli rigettati nelle discariche asettiche della nostra mentalità omicida. Risorse per un “piano nazionale per la vita”, come abbiamo detto noi e ha detto il premier in Parlamento. Combattere le cause materiali dell’aborto, intanto accertando perché si abortisce, individuando la vera natura del fenomeno senza l’ipocrita appello alla privacy, e di tutto questo sembrerebbe essersi convinto il capo dello stato dopo la lettera di risposta a Sandra, la precaria di Napoli che ha esposto il dramma molto diffuso dell’aborto per penuria e ansia e solitudine sociale. Le misure ci sono. Ormai le parole per la guerra culturale necessaria ci sono. L’aborto è primitivo, arcaico, barbarico, è indegno del nostro concetto di libertà individuale e di vita. Va combattuto e vinto, trent’anni dopo. La 194 non c’entra.



BORN IN THE UK
Ora nel Regno Unito le regole sulla fecondazione assistita sono semplici: non ci sono più regole...
In Gran Bretagna l’Embryo Bill, il progetto di legge su fecondazione assistita e ricerca sugli embrioni, è legge. Un verdetto scontato, visto che già prima del voto il quotidiano The Guardian aveva condotto un sondaggio tra 109 deputati di tutti gli schieramenti (53 laburisti, 37 conservatori, 17 libdem e 2 di partiti minori) ottenendo un quadro decisamente pragmatico della situazione: sui tre temi più caldi in discussione, tutti approvati, la maggioranza al testo del governo era infatti garantita a livello bipartisan. Per quanto riguarda la creazione di embrioni ibridi 63 deputati si sono detti favorevoli e solo 26 contrari. Sull’accesso alle tecniche della fecondazione in vitro anche per le coppie lesbiche il risultato si è discostato di poco: 56 favorevoli contro 26 contrari. Anche per quanto riguarda i cosiddetti “saviour siblings” (bimbi creati e selezionati in provetta allo scopo di “aiutare” un fratellino malato, ad esempio attraverso il prelevamento dei tessuti) la maggioranza è stata netta: 56 per il sì, 21 per il no. Di più, a proposito del tema dell’accesso alla fecondazione in vitro per le coppie omosessuali era stato presentato un emendamento che includeva nel progetto la necessità di una figura maschile (una sorta di “papà di Stato”) che vigilasse sulla crescita del bambino: bocciato perché si sarebbe configurato come «una violazione dei diritti umani e civili delle lesbiche». Complimenti quindi a Gordon Brown per questo capolavoro politico. Ma, soprattutto, alle industrie farmaceutiche e ai centri di ricerca per il colpaccio.
Tempionline


Se vogliamo la civile convivenza, il bene comune, l'interesse nazionale, dobbiamo sanzionare il reato d'immigrazione clandestina
Il varo di un disegno di legge da parte di Berlusconi non garantisce l'approvazione da parte del Parlamento e conferma l'assenza della cultura della legalità e del senso dello Stato

Dal sito amici di Magdi Cristiano Allam
autore: Magdi Cristiano Allam
Cari amici,
Se un estraneo dovesse irrompere in casa nostra senza autorizzazione, qualunque fossero le sue intenzioni, non avremmo il minimo dubbio che si tratta di una flagrante violazione della legalità, ci affretteremmo a chiamare le forze dell’ordine per tutelare la nostra sicurezza, assumeremmo tutte le misure atte a salvaguardare la nostra incolumità fisica e, una volta arrestato il fuorilegge, ci attenderemmo che la magistratura sanzioni in modo esemplare il reato di violazione di domicilio e, eventualmente, altri reati commessi.
Ma se tutto ciò avviene nella nostra casa comune, nella nostra città o nella nostra Italia, chissà perché si tende con troppa ingenuità e con un eccesso di buonismo a condonare la violazione della legge da parte di coloro che irrompono senza autorizzazione introducendosi illegalmente all’interno della frontiera nazionale o dell’area metropolitana.
Ecco perché trovo del tutto assurdo e controproducente, in quanto palesemente lesivo della legalità, del bene comune e dell’interesse nazionale, il fatto che a tutt’oggi la classe politica italiana non trovi l’accordo sull’introduzione del reato di immigrazione clandestina. Anche il fatto che l’attuale governo sia stato costretto a presentare questa opzione sotto forma di disegno di legge, che non garantisce affatto la definitiva commutazione in legge dato il prevedibile iter parlamentare conflittuale e il probabile scontro che infiammerà le piazze aizzate dalla demagogia ideologica della sinistra, è un segno di debolezza da parte di Berlusconi, di fatto è come ammainare il vessillo della legalità al fine di scaricare la responsabilità del fallimento sugli stessi alleati di governo e sull’opposizione che si sono detti contrari.
Mi preoccupa il persistere in Italia del sostanziale rifiuto della cultura della legalità e, di conseguenza, a sottostare alla cultura dell’illegalità. Mi preoccupa che a tutt’oggi non si comprenda ancora che se gli italiani non sono in grado di affermare il primato della legge, facendola rispettare e sanzionando chi eventualmente la viola, continueremo a incentivare la cultura dell’illegalità. Se non saremo in grado di diventare un modello di adesione alla legalità, non potremo mai assicurare che anche gli altri rispettino la legge.
Mi preoccupa che in Italia, non solo la classe politica ma anche tanta gente comune non abbiano ancora fatta propria la cultura delle regole, quelle regole che rappresentando il punto d’incontro e di sintesi tra i diritti e i doveri, garantiscono il bene comune e l’interesse nazionale. Mi preoccupa che si continui a immaginare che per fare il bene altrui, che è un autentico sentimento cristiano e che si lega a una nobile tradizione italiana, ci si debba limitare a dare tutto ciò che gli altri richiedono, ovvero libertà e diritti, senza chiedere loro in cambio doveri e regole.
Mi preoccupa che gli italiani non siano stati ancora in grado di codificare sul piano giuridico e di attuare sul piano politico un modello di convivenza sociale fondato sul primato della legge, la condivisione dei valori non negoziabili che sostanziano la nostra civiltà e il rispetto delle regole inviolabili. Mi preoccupa che l’Italia sia distante dal concepire che il modello di civile convivenza è il presupposto imprescindibile per garantire il bene comune e l’interesse collettivo, degli italiani e degli immigrati.
Per l’insieme di queste ragioni considero che l’incapacità del governo Berlusconi, a causa dei contrasti interni, a varare un decreto legge sul reato di immigrazione clandestina, rilanciando la patata bollente al Parlamento sotto forma di disegno di legge, sia una nuova pesante sconfitta della cultura della legalità, del senso dello Stato, del bene comune e dell’interesse nazionale.
Cari amici, andiamo avanti insieme da Protagonisti per l’Italia dei diritti e dei doveri sulla via della Verità, della Vita e della Libertà, per una rinascita etica della persona, della famiglia, della società e delle istituzioni pubbliche affermando la centralità del bene comune e dell’interesse nazionale, con i miei migliori auguri di successo e di ogni bene.
Magdi Cristiano Allam


Il Sessantotto che si racconta
Giovanni Cominelli 23/05/2008
Autore(i): Giovanni Cominelli. Pubblicato il 23/05/2008 – IlSussidiario.net
Il ’68 è stata una rottura nella storia d’Italia. Su questa affermazione convergono mitologi pro e mitologi versus ’68. I mito-pro parlano di “rivoluzione tradita” e di “occasione perduta” per la grande metamorfosi del Paese. I mito-versus trovano nel ’68 la madre di tutte le aberrazioni del presente. Non voglio nascondermi dietro Salomone, ma solo far notare che ciò che affiora dalle autobiografie e dalla storiografia è un’immagine più complessa delle semplificazioni ideologiche. Sono molteplici i fattori di complessità.
Intanto, non esiste propriamente una generazione del ’68, di cui si possa dire che è “formidabile” oppure “povera”. Nel crogiolo del ’68 arrivano i nati del 1953, che incominciano a frequentare la prima superiore nell’anno scolastico 1967-68. E lì nel Movimento incontrano i trentenni e quelli delle generazioni successive, che si distendono lungo un quindicennio che parte dai nati del 1937 fino al 1952. Io avevo già 24 anni. I quindicenni arrivano con desideri e domande appena vagamente configurati nel corso degli anni ’60, i più “anziani” hanno già costruito delle risposte, hanno già attraversato gli anni ’60. E’ la generazione dei venticinque-trentenni quella che tenta di definire canali di egemonia, dentro cui catturare le giovani generazioni che affluiscono nelle scuole e nelle università. Ovvio che queste generazioni portano responsabilità differenziate, nel bene e nel male.
E neppure l’ideologia del ’68 è riducibile ad unum, come qualcuno tenta oggi di fare artificiosamente. I filoni? Il primo, perché è il più forte, non è quello marxiano, ma quello cattolico. Quasi ignorato dalla vulgata successiva, è quello che influisce di più, con episodi clamorosi, quali il contro-quaresimale di Trento, l’occupazione del Duomo di Parma, l’occupazione del Duomo di Milano, l’occupazione dell’Università cattolica il 16 novembre del 1967. Sullo sfondo stanno interpretazioni radicali delle conclusioni del Concilio Vaticano II, la teologia della morte di Dio, la nascente teologia della liberazione di Padre Gutierrez, Don Milani, Padre Girardi con il suo “Marxismo e Cristianesimo”, l’Isolotto di Firenze. Gutierrez, il teologo peruviano, a Firenze affermerà, con espressione non proprio teologica: “Una Chiesa che non si fa merda (che non diventa povera tra i poveri del mondo, NdR) è una merda di Chiesa”. Dietro si staglia la teologia rivoluzionaria della storia di Gioachino da Fiore. E poi ci sono i marxisti. Ma non certo il marxismo di Togliatti. Piuttosto gli eretici del “marxismo caldo”, che si rifanno a Lukacs e a Ernst Bloch e a Rosa Luxembourg. No al partito leninista, sì ai Consigli degli operai e degli studenti. Per molti che vengono dal cristianesimo rivoluzionario è facilissimo scivolare in questo marxismo all’apparenza libertario. Potere operaio, Lotta continua, Autonomia operaia si innestano su questo ibrido. Anche Comunione e liberazione si spacca, parte vi confluisce. Poi ci sono i marxisti-leninisti, che accusano di revisionismo il Pci togliattiano, e si rifanno alla Cina e alla sua rivoluzione culturale. Quelli del Manifesto la presentano come una grande rivoluzione libertaria dal basso, masse di studenti in Occidente sfilano con il libretto rosso. Solo dopo si scoprirà che è stata un bagno di sangue, un esperimento di feroce comunismo mongolo. Ma c’è anche il marxismo vetero-resistenziale: quello della Resistenza tradita e del fascismo di nuovo incombente. Finirà per fare parzialmente da base alle prime Br. Al partito armato della seconda metà degli anni ’70 farà invece da base ideologica la teoria del marxismo rivoluzionario circa la maturità del comunismo.
Provate a mettere un ventenne in un simile melting pot e ne vedrete di belle. E infatti… Abbiate, giovani o anziani di oggi, un po’ di indulgenza!


Il rapporto tra movimento di contestazione e Chiesa cattolica nel '68
Paolo Gheda 23/05/2008
Autore(i): Paolo Gheda. Pubblicato il 23/05/2008 – IlSussidiario.net
Un aspetto sinora poco indagato nella storia del Sessantotto, peraltro appena sviluppata dagli studiosi, è il rapporto tra il movimento della contestazione e la Chiesa cattolica. In effetti, tra i chiaroscuri più sorprendenti di quello scorcio degli anni Sessanta, vi fu il rapido passaggio della società italiana da un’impostazione morale nel suo complesso ancora di carattere confessionale (e quindi improntata nei comportamenti sociali ai dettami del magistero), ad una fase di laicizzazione critica che auspicava l’affermazione di un’etica naturale, “positiva”, dove a contare maggiormente sarebbero dovuti essere i diritti individuali. Se in questo processo, che avrebbe condotto di lì a pochi anni alle sofferte prove referendarie sul divorzio e sull’aborto, dovette giocare un ruolo fondamentale la campagna sessantottina di rivendicazione dei diritti delle donne e della loro autonomia decisionale, una delle premesse di tale movimento si potrebbe individuare nella riflessione a livello pastorale e teologico-dogmatico che la Chiesa aveva intrapreso durante il Concilio Vaticano II, proprio sul tema dell’autorità ecclesiastica. Nonostante nell’assise conciliare fosse stata ribadita un'impostazione etica complessivamente fedele alla tradizione, i media – che per la prima volta diedero una diffusione popolare dell’evento – trasmisero all’opinione pubblica l'immagine di una Chiesa “nuova”, enfatizzando (e spesso volgarizzando) alcuni temi delicati discussi dai Padri, quali il sacerdozio universale, la pari dignità di salvezza per tutti i credenti (che poneva in discussione la tradizionale gerarchizzazione tra gli stati di vita) e l’affermazione della libertà religiosa. Tra le discussioni dogmatiche conciliari, quella forse più sofferta riguardò poi il primato petrino: da essa sarebbe scaturita una rivalutazione della capacità di orientamento ed influsso, a livello pastorale, della collegialità episcopale, secondo una sensibilità già maturata nelle Chiese nazionali, in particolare quella francese e quella tedesca. Tali complesse riflessioni dogmatiche avrebbero di lì a poco trovato una rigorosa definizione nelle costituzioni dogmatiche Dei Verbum e Gaudium et Spes, costituendo il vero novum del Vaticano II. A livello popolare, invece, i quotidiani (soprattutto con l’emergere nel giornalismo di una nuova figura professionale, quella del “vaticanista”) produssero da subito una volgarizzazione di contenuti dibattuti nell’Assise, diffondendo la convinzione che le istituzioni ecclesiastiche, per una sorta di “progressismo”, stessero imboccando al loro interno un cammino di ripensamento della propria struttura gerarchica, quasi alla stregua di un partito politico; si impose così un’immagine di Chiesa più “democratica” – idea in realtà frutto della semplificazione dei mezzi di informazione – che concorse all’attestazione di quella critica generalizzata dell’autorità che fu alla base del pensiero sessantottino, peraltro sollecitata a livello civile anche da questioni di carattere internazionale, in particolare le rivendicazioni della popolazione di colore negli USA.
Nella società italiana questi sviluppi costituirono un indubbio fattore di crisi, e misero in discussione l’autorevolezza sino allora goduta dalla gerarchia – ovvero la sua capacità di far recepire le direttive pastorali – intaccando la capacità della Chiesa nell’orientare le coscienze in ambito di scelte morali e civili. Fu, in particolare, la crisi del movimento cattolico tradizionale – che d’altra parte sollecitò la nascita e lo sviluppo dei nuovi gruppi ecclesiali, molto sensibili alla contemporaneità –, accompagnata da alcune difficoltà del clero nell’interpretazione degli stimoli pastorali del Concilio, a porre il mondo cattolico, nel suo complesso, in una condizione difensiva di fronte alle profonde modificazioni sociopolitiche del paese. In un clima culturale crescentemente materialistico, condizionato da una visione ideologica del progresso scientifico quale nuovo principio orientante della realtà, si vollero disancorare dal cristianesimo fondamenti morali come il diritto alla vita e la famiglia, spesso per farne oggetto di rivendicazioni libertarie (si pensi a tutta l’esperienza politica di Marco Pannella e del movimento dei Radicali). Anche all’interno dello stesso mondo cattolico si diversificarono le prospettive sull'etica, in alcuni casi enfatizzando l’esigenza di trovare mediazioni con le posizioni “laiciste”, come nel caso dei due referendum relativi all’aborto e al divorzio che provocarono all’interno della Chiesa una discussione sul proprio diritto di indirizzare le coscienze, quando una parte dei cattolici sembrò mostrare una maggiore comprensione per le ragioni dei sostenitori delle nuove leggi (che trovarono, ad esempio, l’appoggio più o meno esplicito di alcuni gruppi di studenti universitari appartenenti alla FUCI, entrando così in rotta di collisione con la posizione ufficiale della gerarchia). Si registrò, in senso opposto, l'attestazione su posizioni radicali di quei cristiani che si avvertivano chiamati a ribadire in termini assoluti la pastorale sociale della Chiesa, allineandosi, anche in chiave difensiva, all'indirizzo bioetico presente nell'enciclica Humane vitae – promulgata da papa Montini nello stesso 1968 – specialmente sui temi della paternità responsabile, e dell'inscindibilità tra dimensione unitiva e procreativa.
Furono anni in cui anche il clero venne attraversato da profonde tensioni di rinnovamento, che mettevano in discussione l'impostazione tradizionale del sacerdozio; emergeva un nuovo ruolo del prete nella società, la tendenza a ripensare le sue funzioni (la “specializzazione” delle competenze pastorali) ed il suo status di celibe: complessivamente si avvertiva un “livellamento” nel rapporto tra mondo ecclesiastico e comunità che poneva ai sacerdoti la necessità di rimotivare la scelta di vita consacrata sulla base di nuovi schemi. Nella contestazione del 1968 furono coinvolti in particolare i sacerdoti del Nord, soprattutto quelli che per compiti di assistenza spirituale si erano trovati a stretto contatto con il mondo del lavoro e delle università.
In questo quadro di mutamenti profondi, a partire dalla seconda metà degli anni '70, la Chiesa maturò – a livello universale e, in particolare, in Italia – la consapevolezza di dover intraprendere un cammino di dialogo con la società da impostare nei termini di una vera e propria “ri-evangelizzazione”. Questo nuovo indirizzo dovette anche fronteggiare la progressiva riemergenza del senso di “sacro”, che invece di incanalarsi naturalmente nelle tradizionali vie ecclesiali di partecipazione liturgica e comunitaria tendeva allora a dirigersi verso forme estemporanee di spiritualità, subendo una superficiale fascinazione di filosofie e religioni orientali, in un clima comunque ancorato ai principi del materialismo. Di contro, l’esigenza di un ritorno alla ortodossia del sentimento religioso favorì l’affermazione di un nuovo movimentismo, fondato prevalentemente sulla radicalità dell'esperienza cristiana e favorevole a intensificare la dimensione comunitaria, mentre sul fronte associazionistico tradizionale si dovette registrare il progressivo declino delle scuole di formazione.
Quest’ultima circostanza pesò sul quadro politico, provocando un’interruzione del ricambio generazionale nella Democrazia Cristiana: il fallimento delle scuole di sociopolitica lasciò spazio nel partito cattolico ad una nuova classe dirigente, più sensibile alla realizzazione di obiettivi parziali e meno agli ideali di fondo, dimostratasi in molti casi piuttosto confusa sulla natura dell'apporto cattolico alla edificazione della società civile. D'altro canto, la crisi di figure e valori andò a toccare l'insieme dei partiti dell’arco costituzionale, costituendo le basi per la crisi definitiva della “prima Repubblica”. Ciò, a sua volta, fissò un punto di non ritorno nella partecipazione della Chiesa alla vita politica: finita l’unità di rappresentanza, le diverse anime dei cattolici – affermatesi nei decenni precedenti all'interno della DC – si trovarono liberate dalla necessità di ricercare il consenso attraverso una sola etichetta elettorale; esse si distribuirono nelle forze vecchie e nuove del sistema politico italiano, portando quindi i cattolici a trovarsi spesso divisi tra loro in posizioni di governo ed opposizione. Una diversificazione politica che poggiava – e poggia tutt’oggi – principalmente su modelli ecclesiologici che presentano aspetti tra loro diversi e talvolta di difficile composizione, se non nel superiore richiamo all’unicità della testimonianza cristiana. Ciò conferma, in sede di analisi storica, come anche il modo cattolico italiano abbia percorso dopo il Concilio un suo Sessantotto, che ne ha mutato ed anzi articolato le propensioni e le modalità di intendere il rapporto Chiesa-mondo. La società italiana nel suo complesso, d’altra parte, ha indubbiamente risentito (durante e dopo la stagione contestataria), dei nuovi orientamenti ecclesiali, la cui considerazione appare pertanto indispensabile per la comprensione di una stagione delicata che ancora oggi ci interroga.


DOMANI GIORNATA DI PREGHIERA - PICCOLE VELE BIANCHE ALLA VOLTA DELL’AMATA CINA
Avvenire, 23 maggio 2008
BERNARDO CERVELLERA
Charles Péguy, il poeta francese con­vertito dal socialismo alla fede cat­tolica, è stato fra i più devoti alla Madon­na. Per ben tre volte ha compiuto a piedi il pellegrinaggio da Parigi a Chartres. Nel 'Portico del mistero della seconda virtù', dedicato alla speranza, dice che le Ave Maria sono come piccole navi dalle vele bianche, al cui assalto il cuore di Dio non riesce a resistere. Le piccole Ave Maria vi si insinuano e riescono a slegare le brac­cia del Padre in un abbraccio di miseri­cordia.
Benedetto XVI, nel lanciare la Giornata di preghiera per la Chiesa in Cina, avrà fat­to affidamento sulla stessa efficacia. Do­mani tutte le Chiese del mondo avvolge­ranno di misericordia i cristiani e il po­polo cinese chiedendo unità per la Chie­sa e il bene per la nazione. Il Partito co­munista ha sempre avuto paura dell’«or­ganizzazione internazionale» dei cattoli­ci, nel timore che essi cospirino contro la Cina. Ha sempre temuto Giovanni Paolo II, che con la caduta del comunismo in Europa, era considerato il «nemico nu­mero 1». Invece l’abbraccio dei cattolici, è amorevole pro­prio verso la Cina. In questi giorni, da moltissime diocesi del mondo parto­no aiuti e preghie­re per la popola­zione del Sichuan, prostrata dal terre­moto, e in questi anni la coopera­zione dei cattolici allo sviluppo di vil­laggi, l’alfabetizza­zione dei contadi­ni, l’ospitalità ver­so migranti e handicappati ha strappato la gratitudine perfino dai governi locali di quel grande Paese.
Il Papa chiede alla Madonna di Sheshan, patrona della Cina che si festeggia il 24 maggio, la grazia dell’unità per la Chiesa cinese. Già Giovanni Paolo II aveva chie­sto ai cattolici sotterranei di essere mise­ricordiosi verso quelli ufficiali, che tal­volta sembrano più compromessi col po­tere. A questi ultimi aveva domandato di avere più coraggio nel manifestare l’u­nità con il successore di Pietro. Benedet­to XVI fa la stessa richiesta. Ma i segni del­l’unità sono già percepibili: ormai tutti i vescovi ufficiali, tranne quelli ordinati in modo illecito due anni fa, sono in comu­nione con lui, e in molte diocesi vescovi sotterranei e ufficiali collaborano nella pastorale e nella missione; vescovi sot­terranei in prigione ricevono il soccorso della Chiesa ufficiale. Ha contribuito a questa unità anche una dose di tolleran­za da parte del governo centrale che ne­gli ultimi anni ha accettato di fatto i can­didati vaticani a sedi episcopali impor­tanti, quali Pechino, Xian, Shanghai, Can­ton. I segni di distensione e una vaga vo­lontà di dialogo, almeno fra membri del ministero degli Esteri, non mancano. A questi la Santa Sede sta offrendo la mag­giore apertura possibile e soprattutto sta manifestando un atteggiamento positivo, che guarda al bene della Cina stessa. Nel­la Lettera ai cattolici cinesi il Papa spiega con molta dolcezza e precisione che la Chiesa non pretende di «entrare nella bat­taglia politica», ma chiede uno spazio di libertà religiosa per «risvegliare le forze spirituali» della società, senza cui non vi è giustizia. Che la Cina abbia bisogno di questo «risveglio spirituale» lo si vede da tutti gli appelli di Hu Jintao e di Wen Jia­bao in questi giorni per spingere alla so­lidarietà e frenare la corruzione. Davan­ti al terremoto sono moltissimi i cinesi che offrono denaro, tempo, solidarietà. Ma sono anche tanti, soprattutto i più ric­chi, a guardare solo al loro interesse. Il terremoto in Cina sta facendo emergere pericolose divisioni sociali che solo una riconciliazione spirituale potrà sanare.
Per questa rivoluzione dello Spirito la Chiesa è la migliore alleata della Cina e del suo futuro. La Giornata di preghiera ser­ve anche perché se ne accorga chi ne o­stacola il cammino.


UNDICI VITTIME IN KENYA NELLA CACCIA ALLE STREGHE - Spiazzati da storie d’Africa Ma è la solita voglia di morte
Avvenire, 23 maggio 2008
MARINA CORRADI
N on c’erano telecamere nei villaggi della regione di Kisii, nel Kenya occidentale, a riprendere il massacro della notte di martedì scorso. Scarni lanci di agenzie di stampa straniere riferiscono i rapporti della polizia kenyota: ronde inferocite hanno percorso la campagna, a caccia di streghe. Otto donne e tre uomini di età compresa fra i settanta e i novant’anni, bruciati vivi. Un rogo di vecchi.
Se qualcuno avesse ripreso la mattanza – i branchi di giustizieri che piombavano nei villaggi, i colpi che squassavano le porte fragili delle capanne, le vittime tirate fuori a forza, inermi, tra le urla dei figli e dei nipoti – quello spettacolo ci avrebbe ammutolito. Perché siamo abituati a un’Africa straziata da guerre e guerriglie e faide etniche; a un’Africa affamata, devastata dall’Aids, rapinata dagli interessi dell’Occidente o dalla corruzione dei suoi stessi governanti.
Ma la caccia di popolo alla strega, il linciaggio, la morte data come un rito catartico tra la folla plaudente, sono cose che l’Occidente non conosce più, e a cui ripensa con spavento e vergogna.
Possibile, ci chiediamo, che accada ancora? Come se un male oscuro che si credeva debellato tornasse a affiorare.
Eppure il missionario di lungo corso che interpelli, non si meraviglia. Queste cose, dice, accadono ancora. La malattia nei culti animisti non è un 'guasto' del corpo, ma l’effetto di una forza negativa: così nasce la caccia all’untore. Accadeva lo stesso da noi, ai tempi della peste manzoniana. Solo che noi Occidentali amiamo credere che queste siano storie di secoli bui. Che gli uomini, siano cambiati.
Invece ancora in Congo decine di migliaia di bambini handicappati sono considerati maledetti: innocenti 'stregoni' abbandonati da padre e madre per paura delle rappresaglie dei vicini. Bambini, donne, vecchi: capri espiatori di un collettivo confuso rancore. Che può esplodere, in un bagliore sinistro di primitiva violenza, come l’altra notte a Kisii. E altre volte ancora. Padre Gheddo ha raccontato la notte allucinante di un amico missionario in Senegal, che in un villaggio assistette impotente e sbalordito alla pubblica esecuzione di sventurati 'fattucchieri'.
E noi ascoltiamo con sbalordimento – ma anche con un confuso imbarazzo.
Qualcosa in queste storie ci spiazza.
Ben disposti a fare mea culpa
dei roghi dell’Inquisizione, avvertiamo in questi sbocchi di furia collettiva nelle savane l’eco di un dubbio che fatichiamo a spiegarci. Il mito rousseauviano del 'buon selvaggio', cardine della cultura moderna, viene messo in crisi. Perché per una volta le multinazionali, l’America, il traffico d’armi non c’entrano. Il male di Kisii è una faccenda più fondamentale, ancestrale. Qualcosa di anteriore. È il rabbioso bisogno di trovare, delle malattie e della morte, un responsabile: un capro espiatorio, che paghi. Un bambino deforme, una vecchia decrepita danno alla vittima le sgraziate sembianze di portatore del male. Su di loro si scatena la furia della vendetta. E noi giriamo in fretta la pagina, dicendo: per fortuna, da noi queste cose non succedono più.
Ma, davvero? Quei tre a Verona che hanno ammazzato senza una ragione un ragazzo di un 'giro' diverso, cosa cercavano, se non un nemico immaginario, un capro espiatorio cui 'dare una lezione'? L’Africa delle streghe bruciate ridesta in noi civili borghesi un non confessato spavento.
La violenza mirata alla 'purificazione' dal male, in fondo l’abbiamo vista scientificamente applicata appena sessant’anni fa. E se non è 'buono' il contadino della savana, non siamo buoni neanche noi, beneducati, che fingiamo meglio. Che una radice di violenza originaria ci sia scritta addosso, anche se abbiamo smesso di chiamarla per nome? A Kisii semplicemente si è mostrata nuda: maligna, adunca ad afferrare le vittime, come prede.