sabato 24 maggio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Il Papa al congresso sulle Facoltà di comunicazione cattoliche
2) Conciliazioni - L’ottimismo che pervase il Vaticano II e la falsa opposizione tra verità e misericordia…
3) La difficile missione di Rose tra i poveri di Kampala
4) La deriva: in trent’anni dall’aborto all’eugenetica
5) Belgio Scontro sull’eutanasia per malati mentali e bimbi


Il Papa al congresso sulle Facoltà di comunicazione cattoliche
CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 23 maggio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo venerdì da Benedetto XVI nel ricevere in udienza i partecipanti al congresso organizzato presso la Pontificia Università Urbaniana di Roma dal Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali sul tema “Identità e missione di una facoltà di comunicazione di una università cattolica” (22-24 maggio).
***
Venerati Fratelli nell'Episcopato e nel Sacerdozio,
Illustri Signori, gentili Signore!
[In italiano]
Sono davvero lieto di porgere il mio benvenuto a tutti voi — accademici ed educatori delle istituzioni cattoliche di cultura superiore — riuniti a Roma per riflettere, insieme ai componenti del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, sull'identità e la missione delle Facoltà della comunicazione nelle Università Cattoliche. Attraverso voi, desidero salutare i vostri colleghi, i vostri studenti e tutti coloro che fanno parte delle Facoltà che voi rappresentate. Un ringraziamento particolare va al vostro Presidente, Mons. Claudio Maria Celli, per le gentili parole di omaggio che mi ha rivolto. Con lui saluto i Segretari ed il Sottosegretario del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali.
Le diverse forme di comunicazione — dialogo, preghiera, insegnamento, testimonianza, proclamazione — ed i loro diversi strumenti — stampa, elettronica, arti visive, musica, voce, gestualità e contatto — sono tutte manifestazioni della fondamentale natura della persona umana. È la comunicazione che rivela la persona, che crea rapporti autentici e comunità, e che permette agli esseri umani di maturare in conoscenza, saggezza e amore. La comunicazione, tuttavia, non è il semplice prodotto di un puro e fortuito caso o delle nostre umane capacità; alla luce del messaggio biblico, essa riflette piuttosto la nostra partecipazione al creativo, comunicativo ed unificante Amore trinitario che è il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Dio ci ha creati per essere uniti a Lui e ci ha dato il dono ed il compito della comunicazione, perché Egli vuole che noi otteniamo questa unione, non da soli, ma attraverso la nostra conoscenza, il nostro amore ed il nostro servizio a Lui e ai nostri fratelli e sorelle in un rapporto comunicativo e amorevole.
[In inglese]
È evidente che al centro di qualsiasi seria riflessione sulla natura e sullo scopo delle comunicazioni umane debba esserci un impegno con le questioni di verità. Un comunicatore può tentare di informare, educare, intrattenere, convincere, confortare, ma il valore finale di qualsiasi comunicazione risiede nella sua veridicità. In una delle prime riflessioni sulla natura della comunicazione, Platone evidenziò i pericoli di qualsiasi tipo di comunicazione che cerca di promuovere gli obiettivi e gli scopi senza considerare la verità di quanto viene comunicato. Vale anche la pena ricordare la saggia definizione di oratore data da Catone il Vecchio: vir bonus dicendi peritus, un uomo buono od onesto abile nel comunicare. L'arte della comunicazione è per sua natura legata a un valore etico, alle virtù che sono il fondamento della morale. Alla luce di quella definizione, vi incoraggio, quali educatori, ad alimentare e ricompensare la passione per la verità e la bontà che è sempre forte nei giovani. Aiutateli a dedicarsi pienamente alla passione per la verità! Tuttavia, insegnate loro che la propria passione per la verità, che può essere ben servita da un certo scetticismo metodologico, in particolare in questioni di pubblico interesse, non deve venire distorta e divenire un cinismo relativistico in cui tutte le istanze di verità e di bellezza vengono regolarmente rifiutate o ignorate.
[In francese]
Vi incoraggio a rivolgere maggiore attenzione ai programmi accademici nell'ambito dei mezzi di comunicazione sociale, in particolare alle dimensioni etiche della comunicazione fra le persone, in un periodo in cui il fenomeno della comunicazione sta occupando un posto sempre più grande nei contesti sociali. È importante che questa formazione non venga mai considerata come un semplice esercizio tecnico o come mero desiderio di dare informazioni; è opportuno che sia molto più un invito a promuovere la verità nell'informazione e a far riflettere i nostri contemporanei sugli eventi, al fine di essere educatori degli uomini di oggi e di edificare un mondo migliore. È altresì necessario promuovere la giustizia e la solidarietà, e rispettare in qualunque circostanza il valore e la dignità di ogni persona, che ha anche diritto a non essere ferita in ciò che concerne la sua vita privata.
[In spagnolo]
Sarebbe una tragedia per il futuro dell'umanità se i nuovi strumenti di comunicazione, che permettono di condividere la conoscenza e l'informazione in modo più rapido ed efficace, non fossero accessibili a quanti già sono emarginati economicamente e socialmente, o se contribuissero solo ad accrescere la distanza che separa queste persone dalle nuove reti che si stanno sviluppando al servizio della socializzazione umana, dell'informazione e dell'apprendimento. D'altro canto, sarebbe parimenti grave se la tendenza globalizzante nel mondo delle comunicazioni indebolisse o eliminasse i costumi tradizionali e le culture locali, in modo particolare quelle che sono riuscite a rafforzare i valori familiari e sociali, l'amore, la solidarietà e il rispetto della vita. In questo contesto, desidero esprimere la mia stima a quelle comunità religiose che, nonostante gli alti oneri finanziari o le innumerevoli risorse umane, hanno aperto Università cattoliche nei Paesi in via di sviluppo e sono lieto che molte di queste istituzioni siano oggi qui rappresentate. I loro sforzi assicureranno ai Paesi dove si trovano il beneficio della collaborazione di uomini e di donne giovani che ricevono una formazione professionale profonda, ispirata all'etica cristiana, che promuove l'educazione e l'insegnamento come un servizio a tutta la comunità. Apprezzo in maniera particolare il loro impegno per offrire un'accurata educazione a tutti, indipendentemente dalla razza, dalla condizione sociale o dal credo, il che costituisce la missione dell'Università cattolica.
[In italiano]
In questi giorni voi esaminate insieme la questione dell'identità di un'Università o di una Scuola cattolica. Al riguardo, vorrei ricordare che tale identità non è semplicemente una questione di numero di studenti cattolici; è soprattutto una questione di convinzione: si tratta cioè di credere veramente che solo nel mistero del Verbo fatto carne diventa chiaro il mistero dell'uomo. La conseguenza è che l'identità cattolica sta in primo luogo nella decisione di affidare se stessi — intelletto e volontà, mente e cuore — a Dio. Come esperti nella teoria e nella pratica della comunicazione e come educatori che stanno formando una nuova generazione di comunicatori, voi avete un ruolo privilegiato non solo nella vita dei vostri studenti, ma anche nella missione delle vostre Chiese locali e dei loro Pastori per far conoscere la Buona Novella dell'amore di Dio a tutte le genti.
Carissimi, nel confermare il mio apprezzamento per questo vostro suggestivo incontro che apre il cuore alla speranza, desidero assicurarvi che seguo la vostra preziosa attività con la preghiera e l'accompagno con una speciale Benedizione Apostolica, che estendo di cuore a tutte le persone che vi sono care.
[Traduzione del testo plurilingue a cura de L'Osservatore Romano]


Conciliazioni - L’ottimismo che pervase il Vaticano II e la falsa opposizione tra verità e misericordia…
di Francesco Agnoli
Si è visto la volta scorsa come il Concilio Vaticano II sia stato concepito come un concilio pastorale, e non dogmatico, teso a rinnovare la forma, i modi della comunicazione e dell’evangelizzazione, non la sostanza dei dogmi e del depositum fidei. Un concilio, quindi, che non costituisce, come ricordò Ratzinger, un “superdogma” e che non impose “insegnamenti definitivi, vincolanti per tutti”. “Un concilio, per dirla col Cardinal Lercaro, che non definisce nuove dottrine, un concilio che non condanna, ma un concilio che cerca un linguaggio” nuovo. Rileggendo soprattutto i primi discorsi di Giovanni XXIII si scorge chiaramente che l’idea di fondo che accompagnò l’apertura dei lavori, fu l’ottimismo: ottimismo rispetto ai tempi, all’umanità in generale, al mondo dei non credenti e delle altre religioni, alla condizione interna della chiesa. “Una nuova e luminosa Pentecoste… una vera e propria Epifania” (Esortazione Sacrae Laudis, 1962), secondo le parole di Giovanni XXIII, era sul punto di nascere, perché si potevano scorgere “non pochi indizi di un’epoca migliore per il genere mano”, di uomini contemporanei “più inclini a recepire gli ammonimenti della chiesa” (Costituzione Humanae salutis, 1962). Si prendevano poi le distanze, nella celebre Allocutio, dai “profeti di sventura”, distanziandosi così dalla visione di san Pio X, che aveva ipotizzato addirittura che l’Anticristo potesse essere già nato, di Pio XII, che aveva denunciato lo smarrimento dei tempi presenti, e di tanti autorevoli vescovi e cardinali. Questo ottimismo sarebbe comparso qua e là, con sfumature diverse, a volte anfibologiche, in alcuni documenti conciliari. Basti pensare all’incipit della Dignitatis humanae: “Nell’età contemporanea gli esseri umani divengono sempre più consapevoli della propria dignità di persone”. Non immaginavano certo, i padri conciliari, che di lì a poco, proprio nei paesi cattolici, sarebbero dilagati pornografia, divorzio, aborto, e si sarebbe giunti a togliere la qualifica di persone ad embrioni, feti, anziani, malati terminali…
Niente condanne
L’effetto più immediato di questo ottimismo, ribaltato più volte nel post concilio dal giudizio di Paolo VI, fu la decisione di non emettere condanne: “Sempre la chiesa si è opposta a questi errori; spesso li ha anche condannati con la massima severità. Ma ora la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia piuttosto che la severità” (Allocutio di Giovanni XXIII). Si noti: “Sempre… ma ora…”: c’è una inversione di rotta, che contiene implicitamente una sorta di condanna, questa sì, nei confronti degli atteggiamenti della chiesa del passato. Il Concilio vuole affermare uno spirito nuovo, vuole coniugare giustizia e misericordia, impresa difficile ma necessaria, però a tutto vantaggio della seconda. Vi è, a mio modo di vedere, in questo atteggiamento, almeno col senno di poi, un certo utopismo, che sfocerà poi nel post concilio in tanti errori politici e dottrinali: dalla collaborazione col comunismo di moltissimi “cattolici del dissenso”, all’aggiornamento inteso come tradimento, all’idea della salvezza universale, espressa nell’idea che l’inferno, se c’è, è vuoto, sino ad un certo buonismo irrealistico che spesso ha reso insipido il sale della fede. Il filosofo Romano Amerio, nel suo celebre studio “Iota unum”, ripreso e approfondito recentemente, dal filosofo Paolo Pasqualucci, scrive a questo proposito: “Questo annuncio del principio della misericordia contrapposto a quello della severità sorvola il fatto che, nella mente della chiesa, la condanna stessa dell’errore è opera di misericordia, perché trafiggendo l’errore si corregge l’errante e si preserva altrui dall’errore. Inoltre verso l’errore non può esservi propriamente misericordia o severità perché queste sono virtù morali aventi per oggetto il prossimo, mentre all’errore l’intelletto repugna con un atto logico che si oppone a un giudizio falso”. In altre parole: la condanna dell’errore è sempre stata per la chiesa il bastone offerto a chi ha gambe malferme, volontà debole e intelletto oscurato: l’uomo dopo il peccato originale. L’esempio più eclatante di questo atteggiamento fu la volontà del Concilio di non condannare apertamente il comunismo, nonostante circa cinquecento padri conciliari lo avessero richiesto, e nonostante giacessero allora, sotto questa terribile ideologia, ben più un miliardo di persone. L’ottimismo, fondato sui segni dei tempi, finiva così per trascurare il “più evidente e mostruoso segno dei tempi”. Anche nel campo della morale si volle, in alcune occasioni, accordare il pensiero della chiesa a quello del mondo. Molti padri cercarono di dimenticare le passate condanne e di proporre aperture nel campo della pillola, degli anticoncettivi e della limitazione delle nascite. La spaccatura su questi temi portò a rimandare la questione a una commissione su cui Paolo VI dovrà poi imporsi, nel 1968, promulgando l’Humanae vitae: l’enciclica che proprio in alcuni leader concilari, da Suenens a Doepfner, avrebbe trovato i più risoluti oppositori. In quest’ottica di “misericordia” fu inoltre eliminato il Sant’Ufficio, il garante per secoli dell’ortodossia. Ma il risultato di tutto ciò non fu, nel post concilio, una “vera e propria Epifania” della fede, ma l’“autodemolizione” della chiesa (Paolo VI), la proliferazione di dottrine eterodosse sostenute con superbia da tanti teologi, la divisione nel senso stesso della chiesa e dei cattolici. “Basta con il dissenso interiore alla chiesa… basta con la disobbedienza qualificata come libertà” avrebbe infatti affermato, nel 1975, Paolo VI.
Il Foglio 21 maggio2008


Cannes premia Rose, una vita con i malati di Aids nel cuore dell'Africa
Redazione24/05/2008
Autore(i): Redazione. Pubblicato il 24/05/2008 – IlSussidiario.net
Rose ha il volto scavato dalla fatica, ma lo sguardo lieto di chi ha speranza. Le sue parole, i suoi sorrisi, i suoi gesti ci introducono nella vita delle donne e dei bambini di Kampala, toccati da quel male che in Africa assume sempre più i connotati di una strage, l'HIV.
Ma è lei, "zia" Rose, "mamma" Rose, come la chiamano nel villaggio, la vera protagonista di "Greater-Defeating HIV", il documentario scritto e diretto da Emmanuel Exitu, vincitore a Cannes del premio Babelgum (premiato in persona da Spike Lee).
Un protagonismo discreto, deciso ma mai autoreferenziale, una donna conscia dell'importanza del suo ruolo come fondatrice del Meeting Point, ma anche del fatto che, come lei stessa dice, la felicità per queste persone è oltre l'orizzonte dell'aiuto che l'associazione può dare. Un aiuto che è innanzitutto un'educazione che porta addirittura queste donne e questi bambini, che a agli occhi del mondo sono solo i "poveri" da "compiangere" e da "aiutare", a farsi donatori a loro volta quando, è il momento più toccante del film, lavorano per sostenere i superstiti dell'uragano Katrina, a New Orleans, dall'altra parte del mondo.
Un esempio, il loro, che diventa insegnamento per noi che, come conclude Rose, possiamo "imparare a commuoverci" da queste misere e imponenti vite.
ilsussidiario.net ha raggiunto e intervistato il regista del film-documentario Emmanuel Exitu
Partiamo dalla vittoria del suo documentario al Babelgum Online Film Festival, premiato da Spike Lee: una bella sodisfazione...
Assolutamente. Si tratta di un concorso cui hanno partecipato più di 1.000 lavori da 86 paesi. La selezione è stata veramente dura, dal momento che c'è stata una prima scrematura dei video maggiormente apprezzati dal pubblico e il mio è stato il più visto e votato.
I primi dieci sono stati sottoposti poi all'attenzione di una giuria selezionata di esperti che ne ha scelti tre. Poi tra i finalisti Spike Lee ha scelto il vincitore, e ha secelto il mio, Greater. Mi ha detto che ho fatto un grande film e mi ha fatto i complimenti, ha tenuto addosso tutta sera la collana che gli ho portato dall'Uganda, fatta dalle donne di Kampala e mi ha detto di portare i miei saluti a Rose.
Il documentario si chiama Greater. Pechè questo titolo?
Perchè il messaggio fondamentale del film sta in una piccola domanda che Rose ha fatto a una di queste donne malate. Quando stava malissimo le ha detto: «Non sai che il valore in te è più grande del valore della tua malattia?».
Da dove nasce l'idea di scegliere questa storia come soggetto per il suo documentario?
È nata da un progetto chiamato Vento Project.com, che è una specie di piattaforma editoriale che coinvolge internet, una rivista e i video, il cui direttore è Daniele Mingucci che mi ha dato una grossa mano per la realizzazione e il sostegno nell'affrontare questo lavoro e a cui sono molto riconoscente.
Il nostro obiettivo era di raccontare la speranza, e l'idea di andare in Uganda è nata dal rapporto con Arturo Alberti, il presidente dell'Avsi, che ringrazio molto. Io avevo già avuto modo di conoscere Rose al Meeting di Rimini. Mi sono presentato, le ho descritto la mia idea e abbiamo legato subito, anche se lei non è una che si lascia convincere facilmente.
Io l'avevo già sentita parlare in un incontro durante il periodo universitario: non ricordo nulla di quello che disse, ma mi ricordo che sono uscito piangendo: mi aveva commosso e anche al Meeting sono scese tante lacrime perchè è proprio bello quello che racconta. Sono lacrime non di compatimento per queste persone, sono lacrime per cose belle.
Il documentario parla delle donne e dei bambini ugandesi afflitti dalla piaga dell'Aids. Ci si aspetterebbe di vedere raccontata nel dettaglio la loro situazione, la loro sofferenza, invece sembra emergere Rose come protagonista.
Io faccio questo mestiere da 10 anni, lavoro nella fiction, ho fatto lo sceneggiatore freelance, ho fatto un film per la Rai e questo lavoro mi piace. Ma il desiderio che ho è raccontare la speranza. È troppo facile fare documentari di denuncia, anche perchè mi basta uscire di casa, girare l'angolo per incontrare drammi e cose brutte. Non ci vuole niente.
Il problema è andare a vedere chi cambia il mondo, chi non si lascia spaventare dal male, lo affronta e lo batte. Che segreto hanno queste persone? Mi interessano loro, cosa sta dietro il loro agire. Nel mio blog ho riportato una citazione del celebre regista americano John Ford. Lui ha detto delle cose incredibili, sostenendo che quello che vale è il volto umano. Io infatti sono un "drogato" dei primi piani, perchè dentro il volto umano c'è l'universo.
Una volta un'intervistatrice americana mi ha chiesto se i film possono cambiare il mondo. Sono rimasto allibito, è una domanda assurda, senza senso. Infatti mi sono scaldato e le ho risposto «ABSOLUTLEY NOT!». L'unica speranza per il mondo è incontrare e seguire gente come la Rose, tutto il resto non conta.
Un'altra cosa che mi sembra emergere è come l'interesse di questa donna non si soffermi sui problemi della gente, in generale. La sua attenzione è data ad ogni singolo.
A lei non interessano i progetti, ma chi ha di fronte. Nel giro di due ore siamo diventati amici, e io ero una "bomba nucleare", perchè lei ha questo modo di fare che ti fa sentire importante e diventare una "bomba".
Com'è stata la sua esperienza in Uganda?
Tra sopraluoghi, riprese sono stato lì due settimane. La cosa fantastica è stata questa. Io sono gasato perchè Spike Lee mi ha detto che il mio è un gran film (tanto che io gli ho risposto di non ripeterlo altrimenti mi mettevo a piangere!). Non faccio questo preambolo per autocelebrarmi, ma è importante per quello che sto per dire. Io ho in mente questo tipo di stile registico che non è uno stile normale, convenzionale e non sapevo se avrebbe funzionato riprendere con due camere, girare sempre, adottando lo stile del reportage di guerra, che prevede il non rifare niente, non bloccare mai nessuno. La dinamica era questa: arrivava Rose e io le dicevo: «Ok, cosa facciamo oggi? Dove andiamo?». E poi le andavo dietro. Questo perchè ho un'estrema fiducia nel fatto che la realtà parli. Questo tipo di linguaggio funziona molto per raccontare le cose che emergono dalla realtà, non è agiografico.
Un'altra cosa più importante è stata questa: quando ho proposto il progetto a Rose, lei ha ascoltato quello che le dicevo e poi mi ha detto: «Ok, Emmanuel vieni, mi fido del tuo cuore. Sento che a te interessa la stessa cosa che interessa me».
Il vostro rapporto personale è stato quindi molto fondamentale, al di là di questo film...
Sì, ho in mente un altro episodio a questo proposito. Deve sapere che questo video ha già vinto un'altro premio, quello del pubblico al New York Aids Film Festival. Ed è una cosa strana, dal momento che il mio era l'unico documentario sull'Aids in cui non si parlava del preservativo!
Quando comunicai a Rose la mia intenzione di portare il documentario a New York, ero molto contento, soprattutto per la pubblicità e la promozione che avrei potuto svolgere. Lei mi guardò, con quel suo modo che sembra quasi si vergogni, poi guardò a terra e di nuovo alla mia faccia dandomi una "frustata" con gli occhi, e mi disse: «Ma no Emmanuel, non preoccuparti di queste cose, tu sei più grande, non devi aver paura. La vita non è un soffio che viene, tu sei più grande di queste cose».
A livello professionale, continuerà a battere questa strada, realizzando altri documentari?
Io ho diversi contatti, anche con la Fox, ma per fare come dico io ho bisogno di soldi, perchè per dare maggiore ricchezza di racconto uso due camere, e i costi raddoppiano. Quindi gli sponsor sono i benvenuti.
Nella giuria c'era Sandra Ruch, executive director dell' International Documentary Association di Los Angeles, un'organizzazione molto grande, che mi ha invitato in America, stupita del fatto che questo fosse il mio primo documentario. «One shot, one kill», ho sottolineato io, come dicono i cecchini.
Ma quello che mi piacerebbe fare è una serie di video su persone come Rose, in cui raccontare la speranza. Quello che voglio è che la gente, vedendo i miei lavori, abbia una sola e semplice reazione: che gli batta il cuore.


La difficile missione di Rose tra i poveri di Kampala
Redazione24/05/2008
Autore(i): Redazione. Pubblicato il 24/05/2008 – IlSussidiario.net
Alfred Memo è un ragazzino ugandese che ha visto davanti a sé i propri genitori uccisi e i loro corpi tagliati come carne da macello. Che idea della vita può farsi un bambino come lui? Che cosa può aspettarsi dal futuro? «Le prime volte che gli abbiamo chiesto che cosa avrebbe voluto fare da grande, ci ha detto che voleva fare il soldato, per ammazzare, come era stato ammazzato suo padre». A raccontare la storia di Memo è Rose Busingye, direttrice del Meeting Point International di Kampala, un centro dove vengono accolti e curati oltre duemila orfani per guerra o malattia, e altrettanti adulti, per lo più donne, molte delle quali malate di Aids.
«Il nostro primo lavoro è far capire a ciascuno di questi ragazzi che la vita ha un valore, che c`è qualcuno che li ama, e, banalmente, che vivere è meglio che farsi ammazzare». Non vale infatti, di fronte a Memo, l`obiezione che andando a fare il soldato rischia di essere ucciso per primo; a questo risponde dicendo «e allora?». «Quello di Memo sembrava veramente un caso disperato, e io stessa ero convinta di averlo perso. Invece sono andata avanti, continuavo ad andare a trovarlo, a scuola, a casa, per fargli vedere che c`ero, che veramente mi stava a cuore. Non si può dire una volta sola che la vita ha un valore, se poi non si affronta la fatica e il lavoro di continuare a far vedere che questo è vero. E io insistevo, ripetevo a Memo che adesso aveva una nuova famiglia, in cui era voluto bene». Ora Memo non parla più di fare il soldato; poco tempo fa in un disegno ha espresso quello che vuole fare in futuro: ha disegnato una casa grande, per i bambini che hanno perso i genitori come lui. «Un giorno - racconta ancora Rose - ho organizzato una gita al Nilo per i bambini, e avevo portato delle pentole per cucinare. Quando siamo arrivati, i ragazzi si sono buttati tutti in acqua: continuavano a giocare e divertirsi, e non volevano mangiare. Alla fine ho chiesto loro: “e adesso cosa facciamo con tutto questo cibo?”. È stato Memo a rispondere: “non sprechiamolo. Adesso telefono a casa e ci organizziamo per portarlo ai bambini che non hanno da mangiare”. Questo è Memo, quello che diceva di volerne ammazzare almeno dieci, come era stato ammazzato suo padre».
Anche la vita di molte donne malate di Aids è cambiata al Meeting Point International. Tra di esse c`è Vicky, autrice di una lettera bellissima, che l`associazione Avsi, di cui il Meeting Point è partner per l`Uganda, ha scelto come testo per lanciare lo scorso anno la campagna “Tende di Natale”, una raccolta di fondi che l`Avsi organizza ogni anno per sostenere le proprie opere nel mondo. In questa lettera racconta la propria storia di malata di Aids, abbandonata dal marito, sola e con i figli che non potevano più andare a scuola: «Non avevamo amore da nessuna parte del mondo. Non sapevo più se Dio esisteva davvero» racconta Vicky. «Nel 2001 qualcuno mi ha indirizzato al Meeting Point, dove ho trovate donne che facevo fatica a credere potessero vivere in quel modo pur essendo malate di Aids, tale era la gioia che portavano sul viso». Ora Vicky sta meglio, è volontaria al Meeting Point, e i suoi figli hanno ripreso ad andare a scuola.
«Di storie come quella di Vicky cene sono molte altre», racconta ancora Rose. «Sono storie di donne rinate, e anche di donne coraggiose. Come ad esempio Jovine, una donna di quarantasei anni. Una volta c`era qui un gruppo di giornalisti, che dopo avere visto queste donne rimasero molto colpiti e commossi, e pensarono di fare un gesto per aiutarle: comprarono cinque scatole di preservativi. Jovine prese in mano quelle scatole e disse: “c`è a casa mio marito che sta morendo, cosa me ne faccio di queste? I miei figli non hanno da mangiare, a cosa mi servono queste scatole?”. Li affrontò con un coraggio che nemmeno io avrei avuto». E qui c`è il segreto del “metodo” di Rose: non c`è nessuna risposta preconfezionata al dramma di queste persone. L`unica strada è quella di voler bene, di educare al valore della vita, e di responsabilizzare. Senza questa educazione, non c`è nulla che valga. «Anche il discorso della prevenzione» spiega Rose «non ha senso, se non li aiuti a scoprire il valore della vita. Altrimenti i nostri ragazzi - che hanno storie simili a quella di Memo - quando parliamo loro di prevenzione ci dicono: “e perché? Come noi siamo stati infettati, così anche noi infettiamo gli altri”. Partono da una considerazione della vita che è assolutamente pari a zero, sia la loro che quella degli altri».
Il metodo di Rose è vincente, anche dal punto di vista medico. Se ne sono accorti anche negli ospedali di Kampala. «Un po` di tempo fa - racconta Rose - l`ospedale di Stato sperimentò gratuitamente alcuni farmaci contro l`Aids, e presero un po` di persone da vari centri. Da me presero solo cinque persone, tra cui anche Jovine. Ebbene, le mie cinque persone furono le uniche a guarire. Allora dall`ospedale mi chiesero altre persone, e anche queste miglioravano. Non capivano il perché, e pensavano che, essendo io amica degli italiani, mi arrivassero alcune cure speciali dall`Italia. Io ho provato a spiegare che il punto è dare un motivo per cui valga la pena lottare contro la malattia. Loro mi dicevano: “sì, è molto bello”, ma come se fosse qualcosa di marginale. Volevano numeri per fare uno schema da applicare: tanti medicinali, tanti preservativi etc. Ma da noi non c`è uno schema».
I malati al Meeting Point, dunque, trovano un motivo per cui valga la pena guarire. Perché questo accada vengono organizzati gruppi di dieci pazienti, che si ritrovano per affrontare insieme le cure. Se una volta ce n`è uno stanco, che non vorrebbe andare avanti col trattamento, gli altri lo sostengono e lo incoraggiano. Oppure c`è chi inizia la cura e ha effetti collaterali pesanti: altri lo aiutano, anche semplicemente dicendo «è successo anche a me, poi è passato». «E una catena di aiuto, in cui sono i malati stessi ad essere responsabilizzati - spiega Rose - non puoi dar loro solo le medicine, anche perché spesso non le prendono».
E la responsabilità che matura in queste persone può raggiungere punte veramente commoventi. Come per Memo, che vuol dar da mangiare agli altri bambini e costruire una casa per gli orfani.
O come accadde ai tempi dell`uragano Katrina. Allora Rose parlò di questo evento con i malati del Meeting Point, leggendo un testo e facendo con loro un minuto di silenzio. «Ma un malato, che pesava circa trenta chili, si alzò dal fondo e mi disse: "con me non avete fatto solo un minuto di silenzio, mi avete anche aiutato concretamente". Allora decisero di raccogliere un po` di soldi, e in quattro settimane misero da parte circa mille euro. C`era un giornalista scandalizzato che disse di non mandare negli Usa quei soldi, che servivano più a loro. Gli rispose una delle nostre donne, dicendo: “noi vogliamo amare come siamo stati amati, e il cuore è internazionale”. E da questa frase, tra l`altro, che è nata l`idea di chiamare il nostro centro Meeting Point International». Un punto d`incontro nel centro dell`Africa, dove si rinasce, e da dove si può addirittura decidere di mandare un po` di soldi negli Stati Uniti d`America.


Vivere col matto in casa
L’odissea delle famiglie con i malati di mente: solitudine e impotenza

Avvenire, 24 maggio 2008
DI MARINA CORRADI
S ua figlia aveva 18 anni quan­do si ammalò, nel 1981. La si­gnora Laura Zardini bussò al­le porte di non sa più quanti Di­partimenti di salute mentale. 'Si­gnora, ce la porti', era la risposta invariabile. Ma la figlia da uno psi­chiatra non voleva assolutamente andare. Un giorno partì per Lon­dra, finì in una banda di squatters in una casa occupata. Il giorno che in un locale si mostrò agitata la ri­coverarono in ospedale. «Soltanto a Londra, a 4 anni dall’esordio del­la malattia, mia figlia ebbe una dia­gnosi: schizofrenia. Nessuno ce l’a­veva detto, perché nessun medico l’aveva mai visitata».
La signora Zardini oggi ha 82 anni. Ventisette li ha passati cercando di curare sua figlia. Ha fondato l’Arap, Associazione per la riforma della assistenza psichiatrica, 2000 soci. Sua figlia oggi vive nel Nord E­st, e quando prende i farmaci sta meglio. Ma spesso, dice, li inter­rompe, e allora il Dipartimento di salute mentale ( Dsm) non interviene. «Ho chiesto che facciano almeno una telefonata per control­lare se si cura. Niente. Le danno appuntamento, come farebbe un dentista. Se ci va, bene, altrimenti sono fatti suoi. Qui all’associazione – continua la signora– io ricevo ogni giorno telefonate di famiglie che non sanno più che fare. Come ieri, una coppia di ottantenni con un figlio schizofrenico, una lunga serie di ricoveri alle spalle, che ha rotto a botte il setto nasale alla ma­dre. Disperati, quei due poveretti si sono decisi a denunciarlo ai ca­rabinieri. Ma lei immagina cosa sia per due genitori denunciare un fi­glio malato?» La presidente dell’Arap parla con pacatezza. Non c’è niente di ideo­logico nella sua denuncia. «Noi non vogliamo tornare ai manicomi, vo­gliamo che i nostri cari siano cura­ti', dice. «Anche quelli più difficili - tanto più si è malati, tanto meno lo si riconosce. Ci sono dei bravi operatori nei Dsm italiani. Ma quan­to è difficile farli venire a casa per una visita. Quanta gente se ne resta seduta dietro una scrivania, mentre le famiglie restano sole».
Cosa modificherebbe, potendo, nella legge 180? «Uno dei punti fon­damentali è la brevità del Tso, il trat­tamento sanitario obbligatorio. Po­chi giorni e un malato, anche ag­gressivo, torna a casa. Occorre qualche forma di struttura, in cui gli psicotici possano essere osservati almeno per un mese. Il paradosso invece è che in quei pochi giorni in reparto non osservano la patologia così come si manifesta, ma sedano i malati; poi li dimettono, e loro tor­nano a casa esattamente come pri­ma. Certo obbligare a curarsi è dif­ficile, ma esiste la possibilità di per­suadere, se si crea un rapporto col medico. Il fatto è che dopo il Tso un malato va seguito a casa sua, non abbandonato. Noi dell’Arap nel no­stro piccolo abbiamo organizzato un principio di assistenza domici­liare. Ma è un compito che spetta al Servizio sanita­rio ».
Negli anni Ottanta, alcune associazioni familiari fra cui l’A­rap raccolsero 50mila firme per la riforma della 180. 'Le portammo alla Camera. Una vali­gia piena di firme. Mai più saputo niente. Attorno al­la legge Basaglia c’è una questione politica. La Sinistra da trent’anni sostiene che è una legge bellissima, parla al massimo di mancanza di fondi. I fondi dedicati alla legge, in effetti, non sono mai stati dichia­rati. Ancora oggi, quando conte­stiamo le carenze del servizio, ci sentiamo rispondere invariabil­mente: mancano i fondi. Ma, pri­ma ancora, il problema della legge è ideologico. Sta nella pretesa che la malattia psichiatrica sia una ma­lattia sociale. Lei faccia un esperi­mento, vada in un Dsm e racconti di avere una sorella schizofrenica. Le diranno, «Signora, se non vuol venire qui, non c’è niente da fare». A Milano hanno creato perfino un’associazione, ’Vittime della 180’. Ci sono stati dei morti. Eppure da quasi trent’anni non ascoltiamo che parole. Come le ultime 'linee guida' del Ministero, due mesi fa. 32 pagine, cose anche belle. Ma so­lo parole, le stesse che ascoltiamo dagli anni Ottanta».
L’anziana combattente della 180 confessa di avere anche pensato di cambiare paese, per curare sua fi­glia. C’è qualcosa, domandiamo, che chiederebbe oggi alla politica? «Ho qui sulla scrivania tutti i pro­getti di modifica di questi anni. Il progetto Burani Procaccini, e l’ul­timo, il Calderoli, che prevede strutture, e fondi in bilancio. Sa­rebbe una riforma ragionevole. Un senatore di Forza Italia ci ha pro­messo di aiutarci. Speriamo. Per­ché, mi creda, i più abbandonati in Italia sono i malati di mente. Per­ché non hanno alcuna voce. Ma quanti, curati, potrebbero tornare a vivere».


La deriva: in trent’anni dall’aborto all’eugenetica
D’Agostino: siamo all’erosione dell’identità femminile

Avvenire, 24 maggio 2008
DA ROMA
GIANNI SANTAMARIA
N egli anni Cinquanta un film di Ingmar Bergman, che solo accennava a una donna che aveva cercato di abortire, in I­talia non poté circolare. Di re­cente si è potuto vedere nel­le sale il premiato Quattro mesi, tre settimane e due gior­ni
del romeno Cristian Mun­giu. Ma ciò non significa che l’aborto, pur uscito dall’om­bra, abbia ricevuto da noi u­na «elaborazione simbolica». E, nonostante i filtri dell’i­deologia, ha prodotto e pro­duce danni all’identità stessa della donna.
Il precedente del cineasta svedese lo cita – a margine del IV incontro delle associazio­ni locali di Scienza & Vita, dal titolo 30 anni dopo: dall’a­borto all’eugenetica la gior­nalista de Il Foglio Nicoletta Tiliacos. E ren­de bene l’idea. Ma è il filosofo del diritto Francesco D’Agostino, a fornire – nel­l’aula del cen­tro congressi Villa Aurelia di Roma, la stes­sa in cui si svolgono i Fo­rum del Pro­getto culturale – una pro­spettiva nuova sul tema. Ad ascoltare, i rappresentanti delle 90 articolazioni locali del sodalizio. E anche i parla­mentari del Pd Paola Binetti ed Enzo Carra, Domenico Di Virgilio (Pdl) e Luisa Santoli­ni (Udc). Fanno gli onori di casa i presidenti Maria Luisa Di Pietro e Bruno Dallapic- cola, il quale – da genetista – considera fallimentari in par­tenza i propositi di chi voles­se applicare l’eugenetica, vi­sto che siamo tutti diversi, ir­riducibili all’appiattimento programmato.
Irriducibile è per D’Agostino la ferita rappresentata dall’a­borto. Al quale guarda con u­na visuale inedita, che dap­prima spiazza l’uditorio, poi lo conquista. Non esistono miti, favole, leggende, canti popolari sul tema aborto vo­lontario. Dalla «totale assen­za nell’esperienza antropo­logica » di una sua «elabora­zione simbolica» l’ex presi­dente del Comitato naziona­le di bioetica conclude che «la contraddizione tra funzione generativa del sesso femmi­nile e interruzione volontaria di gravidanza è sempre stata ritenuta evidentemente non sanabile nell’inconscio col­lettivo ». A legittimarla sono intervenute sì le ideologie. Ma l’effetto deflagrante c’è stato. Ha imposto alle donne una «riformulazione» del senso della maternità. Ha svuotato il ruolo maschile. Ha scaricato sulla donna, trami­te le politiche eugenetiche, la «responsabilità di un con­trollo, storicamente inedito, sulle nuove generazioni». Fi­no ad arrivare all’«erosione interna della stessa identità femminile». Possibile preda delle teorie del cosiddetto
gender.
Il caso italiano, comunque, è fortunatamente anomalo nel panorama mondiale. Certo i 127mila aborti riportati dalla relazione annuale sono sem­pre «di troppo», ha detto la docente di chimica e pubbli­cista Assuntina Morresi. «Quando è stata introdotta la legge non c’è stato un calo della natalità, gli aborti sono diminuiti. Ma la contracce­zione è al minimo. Quindi non è questa a contrastare l’a­borto – spiega –. D’altra par­te la natalità è bassa, quandi c’è stato un controllo delle nascite. A mio avviso a fare da argine parziale c’è stata la te­nuta della famiglia». Anche se la legge ha prodotto una «legittimazione forte dell’a­borto ». Del versante infor­mativo – giornalistico, ma an­che medico – si è occupata la Tiliacos. Vanno date deluci­dazioni riguardo «alla dia­gnosi prenatale, un vero bu­siness che porta a fare le a­nalisi più incredibili senza certezze e accompagnamen­to. E alla pillola Ru486, che viene spacciata come chan­ce di libertà, tenendo nasco­sti i danni. Infine, è falso che dove c’è offerta di servizi a­bortivi avanzati ci sia anche una migliore condizione femminile».
Oggi i lavori proseguono met­tendo al centro l’obiezione di coscienza e le attività asso­ciative. Intanto ieri sera i par­tecipanti hanno discusso dei temi della maternità a parti­re da un film. Né Bergman, né Mungiu, però. Un più di­stensivo
Nine months (Nove
mesi) con Hugh Grant.
Morresi: la 194 ha prodotto una legittimazione dell’interruzione di gravidanza, ma in Italia la tenuta della famiglia ha fatto da argine


Belgio Scontro sull’eutanasia per malati mentali e bimbi
Avvenire, 24 maggio 2008
DA BRUXELLES
U na «proposta molto pericolosa». Un’arma potente «contro il di­ritto alla vita». Eric de Beukelaer, portavoce della Conferenza episcopale belga francofona, commenta con ama­rezza l’iniziativa avanzata lo scorso mar­tedì dal partito liberaldemocratico del Belgio Open-Vld di estendere il diritto all’eutanasia anche ai malati mentali e ai minorenni.
Un progetto che ha scatenato una nuo­va, profonda divisione nel piccolo regno già lacerato dalla questione etnico-lin­guistica e che ha riacceso il dibattito tra il mondo cattolico e il fronte a sostegno della “dolce morte”. «La proposta spa­venta il mondo cattolico – ha spiegato de Beukelaer – è un principio che conside­riamo inaccettabile».
Fautore dei quattro progetti presentati martedì, che mirano a legalizzare il di­ritto alla «morte assistita», ovvero l’«uc­cisione », tramite una semplice iniezio­ne, anche dei pazienti «mentalmente in­capacitati » e dei minorenni affetti da ma­lattie incurabili – come già avviene in O­landa – è il partito dell’ex premier fiam­mingo Guy Verhofstadt, che ha trovato la sponda dei socialisti. I due gruppi vo­gliono estendere la legge che nel 2002 ha legalizzato l’eutanasia in Belgio, se­condo Paese al mondo, dopo l’Olanda, ad aver consentito la pratica.
La legge attuale pretende che il pazien­te sia in possesso di «piene capacità mentali» e sia cosciente nel momento in cui avanza la domanda di ricorso al­l’eutanasia, e chiede che la richiesta sia avanzata in modo «volontario e ripetu­to ». Al medico spetta la verifica che la malattia sia grave ed incurabile, e che rappresenti una sofferenza fisica co­stante e insopportabile. L’estensione del diritto ai disabili mentali e ai minoren­ni ha scatenato le polemiche, anche per­ché il progetto di legge non chiarisce co­me il portatore di handicap o il minore possano esprimere la richiesta in modo «cosciente».
Anche a causa delle lacune normative presenti nel testo, la conferenza episco­pale vallona è convinta che l’iniziativa non verrà mai approvata. Il pro­getto, secondo gli esper­ti cattolici, non ha alcun futuro politico dato che solo due partiti hanno annunciato il sostegno all’iniziativa mentre tut­ti gli altri sono contrari e per questo la proposta è destinata a non essere ap­provata. I sostenitori del progetto sono convinti che chi è affetto da un male in­curabile abbia diritto a liberare i familiari «dalla sofferenza e dal carico di una ma­­lattia a cui è impossibile porre rimedio». Benché nel piccolo regno l’eutanasia sia legale, non sono molti i pazienti che, fi­no ad oggi, hanno fatto ricorso alla pra­tica: si parla dello 0,5% del totale dei de­cessi del 2007. Le richieste, tuttavia, sono aumentate notevolmente negli ultimi due mesi, conseguenza diretta, se­condo molti osservatori belgi, della drammatica scelta del poeta e scrit­tore fiammingo Hugo Claus, che lo scorso mar­zo ha scelto la “dolce morte” per porre fine al­la sofferenza provocata­gli dall’Alzehimer. Alcuni quotidiani bel­ga, denunciando il raddoppio, nel solo mese di aprile delle richieste per la pra­tica della “dolce morte”, hanno ribattez­zato il triste fenomeno come “Effetto Claus”.
Silvia Bernardi