venerdì 16 maggio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Tra aborti e divorzi la famiglia europea rischia di scomparire
2) Cattolici e politica: la storia insegna che l' "etichetta" non basta
3) Concili - Cattolico trentino aspetta ancora la “primavera della fede” annunciata dal Vaticano II…
4) Don Giussani e la “conoscenza per fede”: un metodo valido per tutti
5) POTER DEDURRE IL COSTO DI OGNI FIGLIO, di Marina Corradi
6) IMMEDESIMARSI NEI PICCOLISSIMI PER SAPER VEDERE LA VITA - Le fantastiche scoperte dall’angolo di visuale del feto
7) Pera: «La nostra è anche una crisi di relativismo Servono risposte concrete, dalla scuola alla bioetica»

Tra aborti e divorzi la famiglia europea rischia di scomparire
Presentata a Bruxelles la Relazione sulla “Evoluzione della Famiglia in Europa, 2008”

di Antonio Gaspari
ROMA, giovedì, 15 maggio 2008 (ZENIT.org).- Un aborto ogni 27 secondi. Un divorzio ogni 30 secondi. Quasi un milione di nascite in meno rispetto al 1980. L’aborto come principale causa di mortalità in Europa, insieme al cancro.
Sono solo alcuni dei dati raccolti dalla Rete Europea dell’Istituto di Politica Familiare (IPF) e contenuti nella Relazione sulla “Evoluzione della Famiglia in Europa, 2008”.
Il rapporto dell’IPF è stato presentato il 7 maggio scorso, al Parlamento Europeo, in concomitanza con le celebrazioni della Giornata dell’Europa e della Giornata Internazionale della Famiglia.
Alla presentazione hanno partecipato: Eduardo Hertfelder, Presidente della Federazione Internazionale dell'IPF; Lola Velarde, Presidente della Rete Europea dell’Istituto di Politica Familiare; Jaime Maggiore Oreja, Eurodeputato per la Spagna; Miroslav Mikolasik, Eurodeputato per la Slovacchia, e Jorge Cesar Dai Neves, Consigliere di Politica Europea della Commissione Europea.
L’evoluzione demografica dell’Europa vede una crescita di 14,2 milioni di persone tra il 2000 ed il 2007, ma di queste 12 milioni, cioè l’84% sono immigrati.
L’Italia ha crescita naturale negativa di -0,2 milioni, ma una immigrazione di 2,9 milioni di persone.
Tre nuovi immigrati su cinque va in Spagna o in Italia.
Le previsioni sono che, nonostante questa immissione di immigrati, dal 2025 la popolazione europea comincerà a scendere.
La percentuale di giovani sta calando in maniera enorme. I giovani minori di 14 anni erano 94 milioni nel 1980, e sono 74 milioni nel 2007. Con una perdita netta di 20 milioni di giovani.
Al contrario la popolazione di età superiore ai 65 anni era di 57 milioni nel 1980 ed era di 80 milioni nel 2007. Bulgaria, Germania, Slovenia e Italia sono i paesi con il minor numero di giovani.
Allo stesso tempo, Italia, Germania e Grecia sono i paesi con il maggior numero di anziani.
Drammatica la situazione delle nuove nascite: nel 2007 le nascite sono inferiori di circa un milione (920.089) a quelle del 1982.
In Europa, la fecondità è di 1,56 figli per donna, inferiore a quello di crescita zero che è di 2,1 figli per donna. In termini di confronto negli Stati Uniti la fecondità è di 2,09 bimbi per donna.
La Francia con 2, l’Irlanda con 1,93, la Svezia con 1,85 e il regno Unito con 1,84 sono i paesi a più alta fertilità.
Le spagnole (30,88 anni), le italiane (30,8) e le olandesi (30,58) sono le donne che mettono al mondo il primo figlio in età più tarda.
A causa dell’aborto si perde ogni anno in Europa una popolazione equivalente a quella di Lussemburgo, Malta, Slovenia e Cipro. Uno ogni cinque bambini concepiti cioè il 20%, non vede la luce del giorno. Delle 6.390.014 gravidanze del 2006, 1.167.683 sono terminate in un aborto.
Gli aborti di Francia, Regno Unito, Romania, Italia, Germania e Spagna rappresentano il 77% del totale. La Spagna da sola ha raddoppiato il numero di aborti tra il 1996 ed il 2006.
I matrimoni sono in caduta vertiginosa: tra il 1980 ed il 2006 ci sono stati 737.752 matrimoni in meno. Gli europei si sposano poco e sempre più tardi. La media è di 31 anni per l’uomo e 29 per la donna.
Uno ogni tre bambini nasce fuori del matrimonio. Dei 5.209.942 nati nel 2006, 1.766.733 sono nati fuori dal matrimonio (33,9%).
Ci sono più di un milione di divorzi all’anno, con una cadenza di un divorzio ogni trenta secondi.
Dal 1996 al 2006 i divorzi sono stati circa 10,1 milioni, ed hanno coinvolto circa 15 milioni di bambini.
Belgio, Lussemburgo e Spagna i paesi con il maggior numero in percentuale di divorzi. Per ogni due matrimoni c’è un divorzio.
Le famiglie sono sempre meno numerose: ci sono 2,4 membri per coppia, mentre 54 milioni di persone vivono sole.
A fronte di questo quadro desolante, il rapporto dell’IPF rileva una scarsa attenzione alla famiglia delle istituzioni europee. Infatti, sebbene la Commissione Europea conti 5 Vicepresidenze e 21 Commissari, nessuno di questi è dedicato alla famiglia.
L’Osservatorio per le Politiche Familiari, creato nel 1989, venne dimesso nel 2004 e rimpiazzato dall’Osservatario per la Demografia e la Situazione sociale.
Dei 95 Libri Verdi scritti dal 1984 dalla Unione Europea, nessuno è stato dedicato alla famiglia.
Per questi motivi l’IPF chiede lo sviluppo di politiche pubbliche in sostegno delle famiglie, convertendo la famiglia in una priorità politica, incorporando la prospettiva famiglia in tutte le politiche e programmi della Ue, riconoscendo e sostenendo il diritto di famiglia in tutti gli ambiti specialmente nella procreazione, nel mantenimento e nell'educazione dei figli.
Nel rapporto dell’IPF si chiede inoltre: di creare un Istituto per la Famiglia nella Commissione europea; di invitare i paesi membri a istituire un Ministero per la Famiglia; di elaborare un Libro Verde sulla famiglia; di promuovere un Patto europeo per la famiglia, come raccomanda il Comitato Economie Sociale Europeo (423/2007).


Cattolici e politica: la storia insegna che l' "etichetta" non basta
Giorgio Vittadini16/05/2008
Autore(i): Giorgio Vittadini. Pubblicato il 16/05/2008 – IlSussidiario.net
Nel nuovo governo, accanto a nomi di spicco e di grande esperienza, vi sono persone con un curriculum e una personalità più modesta che lasciano preoccupati sulla loro effettiva capacità di affrontare alcuni dei gravi e urgenti problemi che attanagliano il nostro Paese. Sempre a proposito della composizione del nuovo governo, molti organi di stampa, in modo stranamente trasversale, hanno scatenato anche il tema della emarginazione dei cattolici dal governo. Cosa è condivisibile e cosa no di questa polemica? Per rispondere torna di attualità un’intervista a don Luigi Giussani di Pierluigi Battista, pubblicata per la prima volta su La Stampa il 4 gennaio 1996 e ripubblicata nel libro L’io, il potere, le opere. A un certo punto il giornalista chiede a don Giussani: «Ma lei si sente più garantito da un cristiano al governo?». E don Giussani risponde: «No. Il problema è la sincera dedizione al bene comune e una competenza reale e adeguata. Ci può essere un cristiano ingolfato nei problemi ecclesiastici la cui onestà naturale e la cui competenza possono lasciare dubbi. Preferisco che non sia così. Come, secondo me, non è così per De Gasperi, La Pira, Moro e Andreotti».
La risposta di don Giussani ci suggerisce che una certa difesa della presenza cattolica in politica può essere semplicemente la difesa di un tentativo di egemonia con contenuti fondamentalmente “non cattolici”. Basti ricordare quando, dagli anni ’50 in poi, i “dossettiani” della Dc, vincenti, si discostarono progressivamente dalla concezione sussidiaria della politica, tesa alla difesa e allo sviluppo delle realtà sociali ed economiche di base, allora sostenuta da De Gasperi e Sturzo, nell’illusione che bastasse, come cattolici, gestire lo Stato perché lo statalismo diventasse “buono”. Tale concezione, come si è visto fin nell’ultimo governo, è all’origine della gran parte dei mali attuali del nostro Paese. Perciò, una presenza di cattolici negli organi di governo è utile e doverosa solo se ha a cuore e richiama tutti a perseguire contenuti quali la difesa della vita, una sussidiarietà realizzata nell’ottica della solidarietà, la libertà di educazione in una scuola competitiva, la libertà di scelta in un welfare efficiente. Chi si dichiara preoccupato della scarsa presenza cattolica nelle istituzioni dovrebbe incalzare il governo su questi temi, come fa ad esempio il manifesto in 10 punti della Regione Lombardia. Ma ci si sbaglierebbe, da cattolici, se ci si sentisse appagati in politica da un governo che si ispirasse astrattamente a valori cristiani. Come dice ancora don Giussani nella stessa intervista, per un cristiano lo scopo ultimo di tutta la storia è «nella costruzione, nella storia stessa, della gloria umana di Cristo attraverso non egemonie ricercate a ogni costo, ma la potenza enigmatica di Dio». Passare dall’egemonia alla presenza e alla testimonianza, nella vita personale e sociale, per sperimentare da subito una novità di vita: questo è il passo che è chiesto innanzitutto a ciascuno di noi se vogliamo che nei tempi che saranno necessari, il nostro essere cristiani sia per noi stessi, per la vita del popolo e per il potere foriero di duraturi cambiamenti.


Concili - Cattolico trentino aspetta ancora la “primavera della fede” annunciata dal Vaticano II…
di Francesco Agnoli
Sono nato diversi anni dopo, non ho mai assistito a nessuna “primavera della fede”, eppure, nella mia vita di cattolico ho sempre e solo sentito parlare di Concilio Vaticano II. Per tutti è uno spartiacque, un evento che ha cambiato, in meglio, la vita di credenti e non. A destra e a sinistra, per i cattolici e per i laicisti, per Enzo Bianchi e per Marco Pannella. E’ difficile capire cosa sia stato questo concilio, senza averlo vissuto, senza aver conosciuto la vita della chiesa prima di esso; è arduo capire certo entusiasmo, facendo la fatica che si fa ogni giorno a mantenere vivo il lucignolo della fede. Ma una prima considerazione mi allarma: possibile che non si citino che di rado, nell’orbe cattolico, encicliche e concili precedenti al Vaticano II? Possibile che la storia della fede in Cristo, di una fede pura e vera, parta da lì, oltre millenovecentosessanta anni dopo la sua venuta, come non pochi iconoclasti vorrebbero? Nelle sue memorie il cardinal Giacomo Biffi scrive che “Giovanni XXIII vagheggiava un concilio che ottenesse il rinnovamento della chiesa non con le condanne ma con la ‘medicina della misericordia’. Astenendosi dal riprovare gli errori, il concilio per ciò stesso avrebbe evitato di formulare insegnamenti definitivi, vincolanti per tutti. E di fatto ci si attenne a questa indicazione di partenza”. Non più anatemi, come in passato, non più risposte intransigenti alle insidie del mondo, non più simboli della fede, come a Nicea, sintetici, nitidi, ma un rinnovamento dolce, capace di trovare il favore del mondo. “L’intenzione – continua Biffi – era quella di mettere a tema lo studio dei modi migliori e dei mezzi più efficaci per raggiungere il cuore dell’uomo”: una nuova pedagogia, insomma, per un concilio che si volle, per questo, pastorale, e non dogmatico. Non verità nuove da insegnare, ma formule più atte ai tempi, per ridire le verità di sempre. Lo affermò chiaramente Giovanni XXIII, in apertura, allorché spiegò che il “punctum saliens di questo concilio non è la discussione di questo o quel tema della dottrina fondamentale della chiesa”, ma la “formulazione del rivestimento” dell’“antica dottrina del depositum fidei”, per trasmetterlo integro, ma “in forma più efficace”, “in modo sempre più alto e suadente”, come avrebbe ribadito anche Paolo VI. Svariati anni dopo, Joseph Ratzinger, allora prefetto della congregazione della Fede, avrebbe dichiarato alla Conferenza episcopale cilena, nel 1988, che “questo particolare concilio (il Vaticano II, ndr) non ha affatto definito alcun dogma e ha deliberatamente scelto di rimanere su un livello modesto, come concilio soltanto pastorale; ma molti lo trattano come se si sia trasformato in una specie di superdogma”. Non si sbagliava: il concilio, che non aveva voluto imporre “insegnamenti definitivi, vincolanti per tutti”, era divenuto per molti, come ebbe a dire un cardinale, il “1789 della chiesa”, una rivoluzione, un “superdogma” in base a cui tutto giudicare. Ma, così facendo, si finiva per dimenticare che i “mezzi” e i “modi” “più efficaci”, il “rivestimento” diverso, sono, in quanto tali, opinabili, sottoposti, loro sì, al contrario dei dogmi, alla verifica del tempo, sul campo della storia, in relazione ai frutti ottenuti. Non esiste infatti una unitas pastorale, né sincronica né diacronica, ma necessita senza dubbio una unitas nell’essenza della fede.
Divo Barsotti e le ubriacature teologiche
La verità è che lo stesso giudizio sul concilio è assai più complicato di quanto spesso si creda: basti pensare alla dura lotta che si consumò al suo interno, tra novatori come Suenens e Liénart, e conservatori come Ottaviani, Ruffini e tanti altri. Uomini santi, stimati dai papi, come don Divo Barsotti, provarono confusione, smarrimento, in quegli anni, non senza motivo: “Senso di rivolta che mi agita e mi solleva fin dal profondo contro la facile ubriacatura dei teologi acclamanti al concilio… Tutto il cristiano deve compiere in ‘trepidazione e timore’; al contrario qui il trionfalismo che si accusava come stile della curia (cioè dei conservatori alla Ottaviani, ndr), diviene l’unico carattere di ogni celebrazione, di ogni interpretazione dell’avvenimento. Del resto io sono perplesso nei riguardi del concilio, la pletora dei documenti, la loro lunghezza, spesso il loro linguaggio, mi fanno paura. Sono documenti che rendono testimonianza di una sicurezza tutta umana più che di una fermezza semplice di fede… Crederò a questi teologi quando li vedrò veramente bruciati, consumati dallo zelo per la salvezza del mondo… Tutto il resto è retorica… Solo i santi salvano la chiesa. E i santi dove sono? Nessuno sembra crederci più”. Anche Paolo VI fu convinto del “balzo in avanti”, della “primavera” ventura, della “nuova Pentecoste”, del “giorno foriero di luce splendidissima” di cui aveva parlato Giovanni XXIII, o, come disse lui stesso, del “ringiovanimento”, del “rinnovamento” rappresentato dal concilio, ma in diverse occasioni, più tardi, espresse anche forti perplessità, parlando di “autodemolizione della chiesa”, della sensazione “che da qualche parte sia entrato il fumo di Satana nel Tempio di Dio”. “Si credeva, dirà, che dopo il concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della chiesa. E’ venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio”. E nel 1973, quasi contraddicendo un suo celebre discorso conciliare sul dialogo tra chiesa e modernità, ebbe a dire che “l’apertura al mondo fu una vera invasione del pensiero mondano nella chiesa”; e ancora: “Noi siamo forse stati troppo deboli e imprudenti”. La faccenda, insomma, è interessante e complessa: ci ritorneremo.
Il Foglio 15 maggio 2008


Don Giussani e la “conoscenza per fede”: un metodo valido per tutti
Giorgio Israel16/05/2008
Autore(i): Giorgio Israel. Pubblicato il 16/05/2008 – IlSussidiario.net
Tempo fa, quando sono stato invitato a presentare a Cesena Si può vivere così? di don Giussani, mi sono chiesto che cosa avessi da dire io, ebreo e attaccato alla mia fede, su un libro dedicato a un approccio all’esistenza cristiana. Allora l’ho letto, per capire se avessi qualcosa da dire, e mi sono incontrato con alcuni temi che mi hanno colpito e su cui ho trovato piena consonanza.
Accennerò ad uno soltanto di essi, che però è il principale del libro, quello con cui si apre, ovvero il tema della “conoscenza per fede”, della conoscenza attraverso l’altro, che è necessariamente indiretta e deve quindi basarsi sulla fiducia, sull’affidabilità della persona che mi comunica qualcosa. Dice don Giussani che sulla conoscenza per fede si fonda sia la convivenza umana che la cultura e la storia.
Ecco allora la prima riflessione che mi è venuta alla mente e che riguarda proprio il mio rapporto di ebreo con il mondo cristiano. Mi sono chiesto: che cosa ho pensato quando ho deciso di ritenere che il ripristino di parte della preghiera per gli ebrei nella messa latina non fosse offensivo? In fondo, un tempo questa preghiera - certo, in una forma radicalmente diversa da quella attuale - era una profonda ferita per gli ebrei. E oggi qualcuno potrebbe ritenere che il suo ripristino, per quanto parziale, segnali una cattiva intenzione. Ho deciso che non era così perché ho fatto riferimento al contesto, perché ho percepito in questo contesto - in tutto quanto è stato detto e fatto negli ultimi 30 anni e in questi ultimi tempi in particolare da Benedetto XVI - una affidabilità che mi è parsa indubbia. Non c’è esame testuale delle parole che basti, è necessario qualcosa di più, e questo qualcosa ritengo di averlo trovato, come l’hanno trovato quegli ebrei che hanno accolto con tanto calore il Papa a New York: la fiducia.
La seconda riflessione riguarda un tema che mi sta molto a cuore in questi tempi, il tema dell’educazione. Dice don Giussani che se si toglie la conoscenza per mediazione (cioè attraverso un testimone) «dovete togliere tutta la cultura umana, tutta, perché tutta la cultura umana si basa sul fatto che uno incomincia da quello che ha scoperto l’altro e va avanti. Se non si potesse fare così, l’estrema esponenza della ragione, che è la cultura, non potrebbe esserci». Senza la conoscenza per testimonianza «ci si saprebbe muovere in un metro quadrato». «La cultura, la storia e la convivenza umana, si fondano su questo tipo di conoscenza che si chiama fede, conoscenza per fede, conoscenza indiretta, conoscenza di una realtà attraverso la mediazione di un testimone».
Insomma, l’educazione ha bisogno di maestri, di figure in cui riporre la fiducia, di testimoni che presentano al giovane il mondo, la storia passata, la conoscenza passata e gliela consegnano. E il giovane, l’allievo ha bisogno di un maestro, di un testimone in cui credere e cui affidarsi.
Ho pensato allora che questo insegnamento è un grande vaccino contro uno dei cavalli di Troia più insidiosi del relativismo contemporaneo: le teorie pedagogiche dell’autoapprendimento che predicano che il giovane impara da sé, in quel metro quadrato e l’insegnante è ridotto a un “facilitatore” che si limita ad accompagnarlo in quell’area ristretta, astenendosi accuratamente dal trasmettergli alcunché esterno ad essa.
Ho pensato quindi anche che chi si ispira pienamente a un siffatto insegnamento riceve gli anticorpi per resistere a quella drammatica crisi dell’educazione che sta devastando la nostra società e che ha come causa principale la perdita di fiducia nel rapporto con l’altro, lo smarrimento dell’idea che l’educazione e la cultura è soprattutto rapporto tra persone.


APPELLO ALLE ISTITUZIONI
POTER DEDURRE IL COSTO DI OGNI FIGLIO
Avvenire, 16 maggio 2008
MARINA CORRADI
Un milione e 71 mila firme, raccol­te in tutta Italia in 50mila ore di la­voro, depositate al Quirinale. Una pe­tizione massiccia per chiedere qualco­sa di autenticamente popolare: un si­stema fiscale che non castighi la fami­glia. Parrebbe una cosa ovvia, che il fi­sco debba tener conto anche del cari­co familiare dei cittadini. In Italia non lo è. Chi è solo paga, a parità di reddi­to, le stesse tasse del padre di tre figli. Infatti la gran parte dei poveri appar­tiene a famiglie numerose; e la maggior parte degli italiani evita quel terzo figlio, che è un serio fattore di rischio povertà. Sono cose di cui in Italia si discute, fra proteste e promesse, da molti anni. Ma quel milione di firme del Forum delle Associazioni familiari dice una cosa nuova: la famiglia italiana, storica­mente ammortizzatore muto e pa­ziente, 'sussidiario' in ogni disagio so­ciale, pretende ora di avere voce pub­blica, e di farsi interlocutore del Go­verno. Era già accaduto nel Family day, riaccade oggi. Con una richiesta ragio­nevole, pacata. Semplicemente, in so­stanza, si vuole un’equità autentica e non fasulla, che non ignori il numero e il costo di quei figli che oggi sempre meno nascono, perché paiono un lus­so (può capitare, girando per Milano con tre ragazzini, di sentirsi dire: bea­ta lei, che se li può permettere. E di av­vertire allora il peso di una taciuta in­giustizia: i figli no, non devono essere un lusso).
Quando scorri i dati tedeschi o france­si delle aliquote fiscali, ti meravigli: le tasse per una famiglia con due figli in Germania sono la metà, in Francia un ottavo. Allora è realizzabile un fisco che non punisca la famiglia; perché da noi non si può fare? La petizione del Fo­rum punta come primo passo al 'basic income' – deduzioni del costo di man­tenimento di ogni familiare a carico – per andare poi verso il quoziente fami­liare. Sarebbe già un passo. Sarebbe, so­prattutto, un segno. Perché prima an­cora che fiscale, o di bilancio, la que­stione oggi è più che mai culturale e an­che ideologica. La famiglia viene nega­ta come soggetto contributivo; è trat­tata alla pari dei singoli. E invece, e più che mai in un contesto di crisi demo­grafica come quello che l’Italia cono­sce, la famiglia è il primo investimento sociale. Produce un capitale insostitui­bile: uomini, che cresceranno, studie­ranno, manterranno i vecchi, conti­nueranno la nostra storia. Che un sin­gle con 30 mila euro di reddito sia qua­si un benestante, e una famiglia con le stesse entrate e tre figli si affanni a fron­teggiare il carovita, è una di quelle mio­pie tipicamente italiane per cui si evi­ta – in troppe altre faccende affaccen­dati – di pensare al domani. E, anche, il marchio di una politica più attenta ai diritti di chi c’è già, e può alzare la vo­ce, piuttosto che di chi sta per nascere, o è bambino, o vecchio, e non ha di­mestichezza con piazze e cortei, e dun­que sta zitto.
Abbiamo sentito in questi anni il gran rumore di chi pretende il riconosci­mento di rispettabili ma numerica­mente marginali minoranze, e ha tro­vato nei grandi media liberal il suo me­gafono. Abbiamo visto i voti di questo radicalismo elitario precipitare nelle urne – quasi che il supposto consenso delle masse fosse in realtà immagina­rio. Oggi quel milione di firme al Qui­rinale assume la caratura di un’Italia popolare davvero, che chiede e pre­tende ciò che è giusto. È un limpido se­gnale al Governo appena nato. Perché in realtà di destra, di sinistra, di ideo­logia e anche di politica, almeno così com’è, agli italiani oggi non importa molto. Forse ci vuole qualcosa di con­creto per tornare a crederci: iniziare a dire che i figli sono un patrimonio co­mune, da riconoscere e sostenere. Da­re coraggio, a chi trova il coraggio di a­vere figli. Ricominciare, in quest’Italia stanca, dai bambini: o, almeno, dalla libertà di averne.


IMMEDESIMARSI NEI PICCOLISSIMI PER SAPER VEDERE LA VITA - Le fantastiche scoperte dall’angolo di visuale del feto
Avvenire, 16 maggio 2008
CARLO BELLIENI
E sistono campi della ricerca medica e scientifica che sembrano tabù: e in genere si tratta di quelli che hanno a che fare con ciò che invece dovrebbe costituire il punto di partenza, ovvero il versante umano. Noi medici abbiamo tra le mani ogni giorno pazienti, cioè persone, e mentre cerchiamo di salvare vite pensiamo anche a come garantire una 'vivibilità' della malattia.
Un pensiero che può svilupparsi in mille maniere, studiando la memoria, le reazioni e dunque il benessere di colui che viene curato, anche quando si tratta di un feto o un neonato, soggetto che sente dolore, dialoga con un suo linguaggio, interagisce con l’ambiente dove vive. Pratica medica e ricerca scientifica devono cercare un modo di rapportarsi con questi piccoli pazienti che non parlano, talvolta nemmeno si vedono, nascosti come sono nell’utero materno.
Sono testimone con altri colleghi del fatto che concedere fiducia alla consapevolezza tanto semplice quanto trascurata che 'un bambino è un bambino' può portare a conclusioni e risultati scientificamente eclatanti, generando anche forme di collaborazione basate su un comune interesse per l’uomo, spesso incontrando come compagni di strada medici o studiosi di culture apparentemente distanti. Avere osservato a lungo le risposte del neonato prematuro alle stimolazioni del primo ambiente di vita costituito dall’incubatrice, collocandomi dal suo punto di vista per condurre un lavoro di ricerca, è stato fonte di stupore e motivo di riflessioni che vorrei condividere con voi. Sì, perché è necessario far uscire il dibattito sulle prime età della vita dalle ristrettezze cui lo si è condannato, cioè la sterile discussione su 'chi è meritevole di vivere', portandolo invece alla dignità di ricerca del benessere di chi non è nelle condizioni di reclamarlo.
In altre parole, occorre immedesimarsi proprio con questi piccolissimi, in un tentativo di domandarsi cosa provano e cosa proveremmo noi se fossimo al loro posto. Sembra un’osservazione persino ovvia, ma nel mondo medico-scientifico così ovvia non è. Così come non è ovvia la conoscenza al pubblico di queste scoperte, almeno in Italia.
Chinarsi con gli strumenti della scienza sul dolore, sull’analisi del pianto, sulla memoria e sulla sensibilità del feto e sullo stress ambientale del neonato prematuro costituisce un approccio che suscita attenzione fuori dai nostri confini, con echi impensati anche sui mass media stranieri, e poco su quelli nostrani. Ed è proprio questo fatto che fa pensare. Forse in Italia l’attenzione è ancora ferma a ciò che 'fa notizia' in negativo, oppure da noi la vita prenatale appartiene ancora al mondo dell’indicibile. Sta di fatto che – come disse il premio Nobel Alexis Carrel – per la ricerca il primo passo è la pura osservazione, suo nemico è il troppo ragionare senza osservare. Chi osserva vede, e chi vede ha l’opportunità di trarre conseguenze. Ora, osservare (bene) vuol dire non avere preconcetti, o comunque essere pronti ad accettare il dato della realtà: ad esempio, che un bambino non ancora nato è davvero un bambino, e dunque ci si può accostare a lui/lei per scoprirne le sensazioni come se fosse già venuto al mondo. Tirare le conseguenze di questa premessa di metodo non è un passo azzardato ma è già inscritto in ciò che si vede: un paziente, per quanto piccolo e silenzioso, vale come un altro che ha la capacità di reclamare e di farsi valere.
Sono tanti gli studiosi che si dedicano alle cure di chi non è nato, ai sentimenti dei genitori dei piccolissimi, alle terapie intensive per salvare la vita dei prematuri... Ma è come se su questo ambito della ricerca e della medicina ci fosse un cono d’ombra. Eppure si aprono di continuo nuove e interessanti strade terapeutiche, e ciò accade se si dà credito ai segni che giorno dopo giorno la pratica clinica consente di incontrare: un bambino che piange, un embrione che cresce, un’incubatrice dentro la quale vale la pena di guardare. Per scoprire che c’è un altro punto di vista.


Pera: «La nostra è anche una crisi di relativismo Servono risposte concrete, dalla scuola alla bioetica»
Avvenire, 16 maggio 2008
ROMA. «Sconfiggere una crisi che da tempo attraversa il nostro Paese». Marcello Pera, da 'soldato semplice ' si ritaglia un ruolo nel dibattito in aula, che gli vale anche l’apprezzamento, nella replica, di Silvio Berlusconi. Crisi istituzionale, innanzitutto, e l’ex presidente del Senato dà atto ai leader dei due principali partiti di aver posto le basi per voltare pagina. Ma, rileva, «c’è un’altra crisi, morale o etico­civile », che riguarda «l’identità, chi siamo noi, in che cosa crediamo noi», e quei principi, «per usare l’espressione cara al Papa Benedetto XVI, non negoziabili». Parla di una una cultura imperante, sebbene ci sia una «maggioranza di italiani che non la accetta, ma che è costretta a subirla sui giornali e sulle televisioni anche pubbliche, nelle scuole, nelle università, nelle case editrici». Una cultura che «predica il relativismo dei valori». Attraverso un «laicismo arrogante e dogmatico al punto di accusare la Chiesa di interferire con lo Stato, perché parla da Chiesa, o di impedire al Papa Benedetto XVI di tenere una lezione in una università italiana perché pubblica e laica».
Per Pera sono queste «le fonti della crisi morale o etico­civile dell’Italia e non solo di essa, perché l’Europa intera è investita dallo stesso clima». Ricorda anche Giovanni Paolo II, che «ci mise in guardia dai rischi della alleanza tra relativismo e democrazia» e dalla pretesa «di mettere ai voti gli assi portanti della nostra tradizione, considerando, come anche in quest’aula si è sentito dire, conquiste civili l’aborto, l’eugenetica, l’eutanasia e la sperimentazione sugli embrioni». Ma così, avverte Pera, «seppelliamo il nostro futuro perché nascondiamo i valori del nostro passato. Questa crisi morale provoca disagio, incertezza, insicurezza, ansia e anche paura». Su questo, rileva, «la Chiesa cattolica dà una risposta. E non dovremmo lasciarla sola – auspica – con l’argomento che la religione è separata dalla politica». E cita tanti settori, dalla scuola alla famiglia, dalla bioetica alla cultura, in cui interventi adeguati «possono aiutarci a superare questa crisi e che – conclude rivolgendosi al premier – sono nella sua disponibilità». (A.Pic.)