martedì 6 maggio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Un caso americano: dare o no la comunione ai politici cattolici pro aborto, di Sandro Magister
2) L'inferno vuoto di GIANDOMENICO MUCCI SI.
3) DUE INEDITI SU PADRE PIO…, di Antonio Socci
4) I piani di Stalin per conquistare il mondo
5) Lo statalismo non sta “ritornando”, anche perché non se n’è mai andato
6) L’emergenza ecologica è anche un’emergenza antropologica, di Mario Mauro
7) I RAGAZZI VERONESI E NOI - SEMI MALEDETTI DELL’IDEA VIOLENTA
8) Quello spottone gratis a un razzismo al contrario, di Davide Rondoni
9) Bimbo, declina il tuo Dna E ti ammetteremo nel nostro mondo, di Marina Corradi


Un caso americano: dare o no la comunione ai politici cattolici pro aborto
Negli Stati Uniti è esplosa la polemica per la comunione fatta durante le messe papali da Nancy Pelosi, John Kerry, Ted Kennedy e Rudy Giuliani. Duro rimprovero del cardinale Egan all'ex sindaco di New York. Le tesi di Joseph Ratzinger sulla questione
di Sandro Magister
ROMA, 2 maggio 2008 – Come avviene dopo ogni viaggio papale, Benedetto XVI ha dedicato la sua prima udienza pubblica dopo il ritorno a Roma a una riflessione sulla sua visita negli Stati Uniti .

Papa Joseph Ratzinger ha ripercorso momento per momento il suo viaggio, rinnovando un forte attestato di simpatia per il paese da lui visitato:
"... un grande paese che fin dagli albori è stato edificato sulla base di una felice coniugazione tra principi religiosi, etici e politici, e che tuttora costituisce un valido esempio di sana laicità, dove la dimensione religiosa, nella diversità delle sue espressioni, è non solo tollerata, ma valorizzata quale 'anima' della nazione e garanzia fondamentale dei diritti e dei doveri dell'uomo".
La riflessione di Benedetto XVI non è stata però l'unica coda del viaggio. Un contraccolpo rumoroso e inatteso è scoppiato negli Stati Uniti una settimana dopo il ritorno del papa a Roma.
Ne è stata causa la comunione eucaristica fatta durante le messe papali da alcuni importanti politici cattolici "pro choice", cioè fautori del libero aborto.
A Washington, alla messa al Nationals Park, hanno fatto la comunione la presidente della camera Nancy Pelosi e i senatori John Kerry, Edward Kennedy e Christopher Dodd, mentre a New York, alla messa nella cattedrale di San Patrizio, ha fatto la comunione l'ex sindaco della città Rudolph Giuliani. Il loro gesto è stato rilevato dai media anche perché alcuni di essi l'avevano preannunciato.
Per alcuni giorni la comunione dei politici cattolici "pro choice" non ha provocato particolari reazioni. Ma a rompere il silenzio è arrivato un commento sul "Washington Post" di lunedì 28 aprile, a firma di un battagliero columnist conservatore, Robert Novak.
Novak ha fatto notare che i cinque avevano ricevuto la comunione non dal papa ma dal nunzio apostolico negli Stati Uniti, l'arcivescovo Pietro Sambi. Ha ricordato che nel 2004 Ratzinger, da cardinale, aveva scritto che i politici cattolici "pro choice" non dovevano ricevere la comunione. Ha ribadito, citando anonime "fonti vaticane", che, da papa, non ha su questo cambiato opinione. E ha quindi concluso che il gesto dei cinque "rifletteva la disobbedienza a Benedetto XVI degli arcivescovi di New York e Washington", loro protettori.
Poche ore dopo l'uscita dell'articolo di Novak sul "Washington Post", uno dei due arcivescovi chiamati in causa, il cardinale di New York, Edward Egan, ha diffuso il seguente comunicato:
"La Chiesa cattolica insegna con chiarezza che l'aborto è un'offesa grave contro la volontà di Dio. Durante i miei anni come arcivescovo di New York ho ribadito questo insegnamento in sermoni, articoli, discorsi e interviste senza esitazioni o compromessi di alcun genere. Per questo motivo concordai con Rudolph Giuliani, quando io divenni arcivescovo di New York e lui era in carica come sindaco di New York, che egli non avrebbe ricevuto l'eucaristia per le sue note posizioni favorevoli all'aborto. Sono profondamente dispiaciuto che Giuliani abbia ricevuto l'eucaristia durante la visita papale qui a New York. Cercherò di incontrarlo e di insistere perché egli continui a rispettare il nostro accordo".
Al comunicato di Egan la portavoce di Giuliani, Sunny Mindel, ha così replicato poco dopo:
"Il sindaco Rudy Giuliani sicuramente desidera incontrare il cardinale Egan. Come ha detto in precedenza, la fede del sindaco Giuliani è una materia profondamente personale e deve restare confidenziale".
Con questo botta e risposta tra il cardinale e l'ex sindaco di New York, è dunque tornata in primo piano una questione che da anni assilla la Chiesa cattolica americana, e che ebbe il suo picco nell'estate del 2004, anno delle ultime elezioni presidenziali.
Quell'anno, il candidato alla Casa Bianca per i democratici era il cattolico "pro choice" Kerry. L'arcivescovo di St. Louis, Raymond Burke, rifiutò di dargli la comunione, mentre altri vescovi si comportarono diversamente.
Ai primi di giugno del 2004, da Roma, l'allora cardinale Ratzinger inviò al cardinale Theodore E. McCarrick, arcivescovo di Washington e capo della commissione per la "domestic policy" della conferenza episcopale degli Stati Uniti, una nota con precise indicazioni sulla questione.
La nota era riservata, ma www.chiesa ne diffuse il testo integrale.
Quella nota di Ratzinger è di nuovo riprodotta qui sotto. La sua tesi è inequivocabile: niente comunione eucaristica ai politici cattolici che fanno campagna sistematica per l'aborto.
Ma i vescovi degli Stati Uniti, riuniti in assemblea generale, deliberarono a maggioranza che spettasse a ogni singolo vescovo decidere se dare o no a comunione ai politici cattolici abortisti. Ratzinger non si oppose a questo modo di applicare la norma. Anzi, scrisse che riteneva tale delibera "very much in harmony" con le sue indicazioni.
Rieletto George W. Bush alla Casa Bianca, la questione rientrò nell'ombra. E non è riemersa neppure nel corso della attuale campagna per le nuove elezioni presidenziali, data l'assenza di candidati cattolici.
Ora però che è riesplosa, l'impressione è che tra i vescovi degli Stati Uniti si stia imponendo una linea più severa. Ha fatto colpo che il cardinale Egan non si sia limitato a richiamare dei principi generali, ma abbia criticato direttamente un famoso uomo politico, per di più accusandolo d'aver violato un accordo riservatamente preso con lui.
In Europa e in Italia questioni simili non si pongono nemmeno. Il fatto che dei politici cattolici "pro choice" facciano la comunione non solleva particolari reazioni. La loro scelta è rimessa alla coscienza personale.
Il fatto che negli Stati Uniti, invece, la questione sia così infiammabile è un altro segno della diversità dei paesaggi politico-religiosi di qua e di là dell'Atlantico: una diversità più volte sottolineata da Benedetto XVI nel corso del suo viaggio e nell'udienza consuntiva di mercoledì 30 aprile.
Negli Stati Uniti la religione è un fatto pubblico molto più e diversamente che in Europa. Con le conseguenze che ne derivano.
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Essere degni di ricevere la santa comunione. Principi generali
di Joseph Ratzinger, giugno 2004
1. Presentarsi a ricevere la santa comunione dovrebbe essere una decisione consapevole, fondata su un giudizio ragionato riguardante il proprio essere degni a farla, secondo i criteri oggettivi della Chiesa, ponendo domande del tipo: "Sono in piena comunione con la Chiesa cattolica? Sono colpevole di peccato grave? Sono incorso in pene (ad esempio scomunica, interdetto) che mi proibiscono di ricevere la santa comunione? Mi sono preparato digiunando almeno da un ora?". La pratica di presentarsi indiscriminatamente a ricevere la santa comunione, semplicemente come conseguenza dell'essere presente alla messa, è un abuso che deve essere corretto (cf. l'istruzione "Redemptionis Sacramentum", nn. 81, 83).
2. La Chiesa insegna che l'aborto o l'eutanasia è un peccato grave. La lettera enciclica "Evangelium Vitae", con riferimento a decisioni giudiziarie o a leggi civili che autorizzano o promuovono l'aborto o l'eutanasia, stabilisce che c'è un "grave e preciso obbligo di opporsi ad esse mediante obiezione di coscienza. [...] Nel caso di una legge intrinsecamente ingiusta, come è quella che ammette l'aborto o l'eutanasia, non è mai lecito conformarsi ad essa, 'né partecipare ad una campagna di opinione in favore di una legge siffatta, né dare ad essa il suffragio del proprio voto'" (n. 73). I cristiani "sono chiamati, per un grave dovere di coscienza, a non prestare la loro collaborazione formale a quelle pratiche che, pur ammesse dalla legislazione civile, sono in contrasto con la legge di Dio. Infatti, dal punto di vista morale, non è mai lecito cooperare formalmente al male. [...] Questa cooperazione non può mai essere giustificata né invocando il rispetto della libertà altrui, né facendo leva sul fatto che la legge civile la prevede e la richiede" (n. 74).
3. Non tutte le questioni morali hanno lo stesso peso morale dell'aborto e dell'eutanasia. Per esempio, se un cattolico fosse in disaccordo col Santo Padre sull'applicazione della pena capitale o sulla decisione di fare una guerra, egli non sarebbe da considerarsi per questa ragione indegno di presentarsi a ricevere la santa comunione. Mentre la Chiesa esorta le autorità civili a perseguire la pace, non la guerra, e ad esercitare discrezione e misericordia nell'applicare una pena a criminali, può tuttavia essere consentito prendere le armi per respingere un aggressore, o fare ricorso alla pena capitale. Ci può essere una legittima diversità di opinione anche tra i cattolici sul fare la guerra e sull'applicare la pena di morte, non però in alcun modo riguardo all'aborto e all'eutanasia.
4. A parte il giudizio di ciascuno sulla propria dignità a presentarsi a ricevere la santa eucaristia, il ministro della santa comunione può trovarsi nella situazione in cui deve rifiutare di distribuire la santa comunione a qualcuno, come nei casi di scomunica dichiarata, di interdetto dichiarato, o di persistenza ostinata in un peccato grave manifesto (cf. can. 915).
5. Riguardo al peccato grave dell'aborto o dell'eutanasia, quando la formale cooperazione di una persona diventa manifesta (da intendersi, nel caso di un politico cattolico, il suo far sistematica campagna e il votare per leggi permissive sull'aborto e l'eutanasia), il suo pastore dovrebbe incontrarlo, istruirlo sull'insegnamento della Chiesa, informarlo che non si deve presentare per la santa comunione fino a che non avrà posto termine all'oggettiva situazione di peccato, e avvertirlo che altrimenti gli sarà negata l'eucaristia.
6. Qualora "queste misure preventive non avessero avuto il loro effetto o non fossero state possibili", e la persona in questione, con persistenza ostinata, si presentasse comunque a ricevere la santa eucaristia, "il ministro della santa comunione deve rifiutare di distribuirla" (cf. la dichiarazione del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, "Santa comunione e cattolici divorziati e risposati civilmente", 2000, nn. 3-4). Questa decisione, propriamente parlando, non è una sanzione o una pena. Né il ministro della santa comunione formula un giudizio sulla colpa soggettiva della persona; piuttosto egli reagisce alla pubblica indegnità di quella persona a ricevere la santa comunione, dovuta a un'oggettiva situazione di peccato.
7. [N.B. Un cattolico sarebbe colpevole di formale cooperazione al male, e quindi indegno di presentarsi per la santa comunione, se egli deliberatamente votasse per un candidato precisamente a motivo delle posizioni permissive del candidato sull'aborto e/o sull'eutanasia. Quando un cattolico non condivide la posizione di un candidato a favore dell'aborto e/o dell'eutanasia, ma vota per quel candidato per altre ragioni, questa è considerata una cooperazione materiale remota, che può essere permessa in presenza di ragioni proporzionate.]


L'inferno vuoto di GIANDOMENICO MUCCI SI.
L'INFERNO VUOTO
L'uomo non può rinunciare a porsi, almeno una volta nella vita, la domanda sul perché dell'esistenza e a tentare una risposta, per chiarire e giustificare a se stesso il valore dell'esistenza. E una esigenza connaturata alla natura pensante dell'uomo. Sulla grande stampa italiana domina la risposta atea o agnostica. Scrittori e giornalisti, toccando o sfiorando i mille problemi di vario genere legati a quella domanda, suonano, un giorno sì un giorno no, la stessa musica. Non sarebbe possibile penetrare o eludere l'imperscrutabile decreto del Fato che ha posto l'uomo sulla terra per vivere, soffrire e morire, senza poter sperare in spazi più alti. L'impotenza paralizzerebbe l'uomo quando pretendesse di squarciare il mistero di quel decreto. Unico conforto è la vita stessa nella sua preziosa fragilità e con le cose belle che produce. Roberto Gervaso consiglia anche la lettura di Zenone, Seneca, Marco Aurelio e Montaigne (1). Figurarsi!
La risposta agnostica, sebbene molto pubblicizzata, è lungi dal convincere tutti. E di moda, da parte laicista, ironizzare sul «ritorno delle religioni», ma non pochi osservatori, anche non credenti, ne accettano il fatto. Più seria è l'obiezione che nasce da quella che Gian Enrico Rusconi chiama la «de-teologizzazione dell'atteggiamento religioso» (2). Essa constata o contesta alla Chiesa il cambiamento che si pretende sia avvenuto nel suo discorso pubblico: non più l'insistenza sui riferimenti dogmatici, ma la rivendicazione del monopolio dell'etica. I dogmi del peccato originale, della redenzione, della salvezza sarebbero oggi taciuti o proposti senza la forza di un tempo e, comunque, non costituirebbero più l'ossatura della dottrina morale della Chiesa. La dottrina millenaria della natura decaduta con il peccato sarebbe ormai divenuta obsoleta e sostituita da una sorta di «bio-teologismo» impegnato a risacralizzare la natura avversando le scienze biologiche e le teorie dell'evoluzione.
Che in taluni settori della Chiesa si ecceda forse con le tematiche sociali ed etico-pragmatiche è un fatto noto anche agli analisti cattolici. Già parecchi anni or sono, un fine letterato, Italo Alighiero Chiusano, metteva in luce la sproporzione tra l'impegno sociale e la predicazione delle verità della fede (3). Ma qui valga soltanto aver accennato a questi problemi. Ci interessa ora quell'altro fenomeno di de-teologizzazione, portato avanti dagli scrittori atei e agnostici, che consiste principalmente nel parlare con disinvolta ignoranza di argomenti capitali della dottrina cristiana, non nel senso con cui li intende la Chiesa, ma nell'ottica dell'immanenza laicista. Il risultato è il ridicolo gettato a piene mani su ciò che o non si conosce nei suoi veri termini o si stravolge per confondere i cattolici. La formuletta dell'«inferno vuoto» è uno di questi casi più frequenti. Usata da quegli scrittori, la formuletta significa che la Chiesa contemporanea ha mutato la sua fede nell'inferno che prima era «pieno», mentre ora è «vuoto». Si risente in questi autori l'eco del sarcasmo di Voltaire che, in una pagina antisemita, giudicava la dottrina cattolica dell'inferno cosa da domestiche e da sarti (4). Perché, si sa, «il più comune rimprovero che si fa oggidì alla religione si è che essa conduca a sentimenti bassi, volgari» (5). Vorremmo mostrare a eventuali cattolici disorientati che le cose non stanno così.
L'equivoco
È diventato un luogo comune in Italia citare Hans Urs von Balthasar come il teologo che ha detto che l'inferno esiste, ma è vuoto. L'equivoco nacque, o fu fatto nascere, nel 1984 dopo il Convegno romano sulla figura e sul pensiero di Adrienne von Speyr, durante il quale il teologo svizzero riprese la sua riflessione escatologica che già nel 1981 aveva suscitato aspre critiche nell'area teologica di lingua tedesca e ancora nel 1987 costringeva il suo autore a difenderla (6). La tesi di von Balthasar afferma che sperare la salvezza eterna di tutti gli uomini non è contrario alla fede. Essa si avvale dell'autorità di alcuni Padri della Chiesa, tra i quali Origene e Gregorio Nisseno, ed è condivisa da non pochi teologi contemporanei, tra i quali Guardini e Daniélou, de Lubac, Ratzinger e Kasper, e da scrittori cattolici come Claudel, Marcel e Bloy.
Ai suoi critici von Balthasar replicava: «La soluzione da me proposta, secondo la quale Dio non condanna alcuno, ma è l'uomo, che si rifiuta in maniera definitiva all'amore, a condannare se stesso, non fu affatto presa in considerazione. Avevo anche rilevato che la Sacra Scrittura, accanto a tante minacce, contiene pure molte parole di speranza per tutti e che, se noi trasformiamo le prime in fatti oggettivi, le seconde perdono ogni senso e ogni forza: ma neppure di questo si è tenuto conto nella polemica. Invece sono state ripetutamente travisate le mie parole nel senso che, chi spera la salvezza per tutti i suoi fratelli e tutte le sue sorelle, "spera l'inferno vuoto" (che razza di espressione!). Oppure nel senso che chi manifesta una simile speranza, insegna la "redenzione di tutti" (apokatastasis) condannata dalla Chiesa, cosa che io ho espressamente respinto: noi stiamo pienamente sotto il giudizio e non abbiamo alcun diritto e alcuna possibilità di conoscere in anticipo la sentenza del giudice. Com'è possibile identificare speranza e conoscenza? Spero che il mio amico guarirà dalla sua grave malattia - ma per questo forse lo so?» (7). Basti questo testo a quanti ripetono per abitudine la formuletta dell'«inferno vuoto» della quale sono responsabili le «fin troppo grossolane deformazioni sui giornali» (8).
Chiesa e teologi
Chi conosce la dottrina della Chiesa sa bene che essa si distingue dalle interpretazioni dei teologi.
Soltanto la dottrina fa parte, a vario titolo, del Magistero della Chiesa. La Commediaè Dante. Altra cosa sono i commenti dei dantisti. «Il popolo cristiano crede per buone ragioni, ma lascia ai teologi la cura di dimostrare che quelle ragioni sono buone», disse il card. Dechamps, arcivescovo di Malines, durante la celebrazione del Concilio Vaticano I. Gli scrittori laici e i giornalisti non sono abituati a queste distinzioni e fors'anche le giudicano furbeschi cavilli ecclesiastici. Questo può spiegare la disavventura capitata al pensiero di von Balthasar, l'invenzione giornalistica della formuletta a lui attribuita, il nessun valore di ciò che significa. Quegli scrittori poi mostrano un interesse morboso per l'inferno, o sia per paure inconsce non del tutto sopite o sia perché considerano l'inferno (peraltro banalizzato dal linguaggio corrente) come argomento fertile per deridere la fede della Chiesa. Essi ignorano che questa fede guarda escatologicamente al fine ultimo salvifico della vita cristiana, alla realtà positiva che è il Signore, e medita l'inferno soltanto come «il retro della medaglia», la sorte di chi in terra manca il fine ultimo (9).
Il Magistero della Chiesa sull'inferno insegna tre cose. La prima: esiste dopo la morte terrena uno stato, non un luogo, che spetta a chi è morto nel peccato grave e ha perduto la grazia santificante con un atto personale. E la cosiddetta retribuzione dell'empio. La seconda: questo stato comporta la privazione dolorosa della visione di Dio (pena dal danno). La terza: in questo stato c'è un elemento che, con espressione neotest amentaria, è descritto come «fuoco» (pena del senso). Le due pene, e quindi anche l'inferno, sono eterne. Il lettore che vorrà conoscere la secolare documentazione dogmatica potrà consultare un qualsiasi trattato teologico di escatologia (10).
Esistono i dannati?
Per comprendere in qualche modo l'inferno bisognerebbe penetrare il senso e la gravità del peccato mortale. E il peccato è un mistero come la sua sanzione. E il mistero di una creatura che rigetta la fonte e il fine del suo essere. L'agonia spirituale dell'inferno è il termine orribile delle tendenze peccatrici maturate dall'anima lungo la vita terrena, volontariamente sviluppate e non approdate a una sincera conversione. Ciò significa che il peccatore si è egoisticamente preferito a Dio, e Dio ha ratificato la libera volontà del dannato. Sotto un certo aspetto, l'inferno è il peccatore riuscito, il peccatore che è riuscito a fare perfettamente ciò che ha voluto e iniziato a fare sulla terra. Perciò l'inferno è opera dell'uomo del quale Dio rispetta la volontà. L'uomo ottiene nell'inferno ciò che ha voluto ottenere (11).
Tutto questo si oppone alla bontà divina? «La concreta possibilità della dannazione è necessaria, se si vuol continuare ad ammettere la libertà creata nella sua vera essenza. La libertà dell'uomo non può ridursi alla possibilità di scegliere tra un luogo e l'altro di villeggiatura o tra una cravatta a righe e una cravatta a pois; e neppure di scegliere la moglie o il partito politico: la nostra libertà, nel suo significato più profondo, è la spaventosa e stupenda prerogativa di poter costruire il nostro destino eterno. Per non essere puramente nominale, questa prerogativa deve necessariamente includere la reale e concreta possibilità di decidere per la perdizione. Come si vede, il mistero della dannazione è essenzialmente connesso col mistero della libertà, che è forse l'unico vero mistero dell'universo creato» (12).
Sono due, dunque, i punti fermi. Esiste la possibilità di un fallimento eterno se l'uomo rifiuta la salvezza offertagli da Dio. E un pericolo contro il quale la Scrittura e la Tradizione della Chiesa, fino ai nostri tempi, ci mettono in guardia affinché non alimentiamo certezze assolute. Si deve alimentare la speranza nella salvezza di tutti gli uomini per la misericordia di Dio e il sacrificio di Cristo. Ma «la speranza è ben diversa dalla sicurezza» (13).
Esistono i dannati? Si è mai dannato qualcuno? Per quanto riguarda gli uomini, non ci sono argomenti incontrovertibili per affermarlo. Il dogma cristiano ci impegna a credere che l'inferno è lo stato eterno di chi lascia questa vita in peccato mortale, ma non ci impegna a credere che qualcuno sia morto, o muoia, in peccato mortale. Perciò, educata dalla Scrittura (1 Tim 2,4; 2 Pt 3,9), la Chiesa non cessa di pregare affinché tutti gli uomini si salvino. Né sono pochi i cristiani che sanno bene che la salvezza è condizionata alla libera cooperazione dell'uomo con la grazia e tuttavia sperano nella potenza del sacrificio della Croce. Ma neppure esistono argomenti per affermare o presumere che nessuno mai si dannerà (14). Chiunque può vedere, alla luce di quanto siamo venuti dicendo, come sia perfettamente ortodosso il pensiero di von Balthasar su questa materia e quanto fuorviante, e sostanzialmente erronea, la formuletta dell'«inferno vuoto».
Un teologo speciale
Nel 1977, l'anno stesso nel quale fu elevato all'episcopato, l'allora card. J. Ratzinger pubblicava un compendio di escatologia che «è, assieme all'ecclesiologia, il trattato che ho esposto più frequentemente nelle mie lezioni» (15). Le quattro pagine dedicate all'inferno formano una bella sintesi dei due temi principali che esauriscono, per così dire, la comprensione della materia: l'inferno nella sua relazione con la libertà umana e con la speranza cristiana.
«Che cosa rimane dunque? In primo luogo la costatazione dell'assoluto rispetto che Dio mostra di avere per la libertà della sua creatura. L'amore è un dono che l'uomo riceve; è la conseguente trasformazione di ogni sua miseria, di ogni sua insufficienza; neppure il "sì" a tale amore scaturisce dall'uomo stesso, ma è provocato dalla forza di questo amore. Ma la libertà di rifiutarsi alla maturazione di questo "sì", di non accettarlo come qualcosa di proprio, questa libertà rimane. [...].
[Dio] non tratta gli uomini come esseri minorenni, i quali, in fondo, non possano essere ritenuti responsabili del proprio destino, bensì il suo cielo si fonda sulla libertà che lascia anche al perduto il diritto di volere lui stesso la propria perdizione. La particolarità del cristianesimo emerge qui nella affermazione della grandezza dell'uomo: la sua vita è un caso di estrema serietà [...]» (16). Contro la «terrificante realtà dell'inferno» c'è solamente «la speranza che può nascere soltanto nel condividere la sofferenza di quella notte con Colui che è venuto a trasformare con la sua sofferenza la notte di tutti noi» (17).
Trent'anni dopo, l'Autore di queste pagine, divenuto Benedetto XVI, ha ripreso il grave problema con accorata sensibilità pastorale nella enciclica Spe salvi. Sensibilità pastorale e disincantato realismo. «Possono esserci [ma il testo latino recita: Sunt quidam] persone che hanno distrutto totalmente in se stesse il desiderio della verità e la disponibilità all'amore. Persone in cui tutto è divenuto menzogna; persone che hanno vissuto per l'odio e hanno calpestato in se stesse l'amore. E questa una prospettiva terribile, ma alcune figure della stessa nostra storia lasciano discernere in modo spaventoso profili di tal genere. In simili individui non ci sarebbe più niente di rimediabile [ma il testo latino recita: nihil sanabile invenias]e la distruzione del bene sarebbe irrevocabile: è questo che si indica con la parola inferno» (18).
Ma forse non è questo «il caso normale dell'esistenza umana. Nella gran parte degli uomini – così possiamo supporre rimane presente nel più profondo della loro essenza un'ultima apertura interiore per la verità, per l'amore, per Dio. Nelle concrete scelte di vita, però, essa è ricoperta da sempre nuovi compromessi col male - molta sporcizia copre la purezza, di cui, tuttavia, è rimasta la sete e che, ciononostante, riemerge sempre di nuovo da tutta la bassezza e rimane presente nell'anima» (19). «Il nostro modo di vivere non è irrilevante, ma la nostra sporcizia non ci macchia eternamente, se almeno siamo rimasti protesi verso Cristo, verso la verità e verso l'amore» (20). Riecheggia in questi testi l'avvertimento della Chiesa a non dimenticare la possibilità dell'esito fallimentare di una vita centrata sul peccato. E vi riecheggia, con la fede nella misericordia salvatrice, la speranza che ad essa tutti possano un giorno accedere. Quia pius es.
Note:
1) Cfr R. GERVASO, «Per chi suona la campana?», in Il Messaggero, 19 gennaio 2007, 8.
2) G. E. RUSCONI, «Se tra cattolici e laici il dialogo è una finzione», in la Repubblica, 7 dicembre 2007, 46.
3) Cfr I. A. CHIUSANO, «Un incontro con i "Novissimi"», in Oss. Rom., 15 luglio 1993, 3.
4) Cfr VOLTAIRE, «Inferno», in Id., Dizionario filosofico, vol. I, Milano, Bur, 19913, 281.
5) A. MANZONI, «Osservazioni sulla morale cattolica», II, 2, in ID., Tutte le Opere, vol. II, Firenze, Sansoni, 1973, 1.481.
6) Nel 1981 e nel 1987, l'autore pubblicò due volumetti sulla sua opinione e la disputa che ne seguì.
Ultima edizione italiana: H. U. VON BALITIASAR, Sperare per tutti. Breve discorso sull'inferno, Milano, Jaca Book, 1997. Cfr M. PARADISO, «Von Balthasar e l'inferno», in Avvenire, 22 novembre 1995, 24.
7) H. U. VON BALTHASAR, Sperare per tutti. Breve discorso sull'inferno, cit., 123.
8) Ivi, 14.
9) Cfr A. RUDONI, Escatologia, Torino, Marietti, 1972, 9, nota 1.
10) Cfr C. POZO, Teologia dell'aldilà, Roma, Ed. Paoline, 19722, 255-260.
11) Cfr R. W. GLEASON, Le monde à venir. Théologie des fins dernières, Paris, Lethielleux, 1960, 130-144.
12) G. BIFFI, Linee di escatologia cristiana, Milano, Jaca Book, 1984, 67 s.
13) E-J. NOCKE, Escatologia, Brescia, Queriniana, 1984, 143.
14) Cfr A. RUDONI, Escatologia, cit., 170 s; G. BIFFI, Linee di escatologia cristiana, cit., 68.
15) J. RATZINGER, Escatologia. Morte e vita eterna, Assisi (Pg), Cittadella, 20054, 21.
16) Ivi, 225 s.
17) Ivi, 227.
18) BENEDETTO XVI, «Lettera enciclica Spe salvi», n. 45, in Civ. Catt. 2007 IV 588 s.
19) Ivi, n. 46, p. 589.
20) Ivi, n. 47, p. 590.


DUE INEDITI SU PADRE PIO…
La scoperta del vero volto del Padre…
Due preziosi inediti, uno di padre Pio, l’altro su di lui, con notizie nuove sul frate di Pietrelcina,
emergono dagli archivi proprio in queste ore nelle quali – per l’esposizione del corpo – i media di tutto il mondo parlano del santo. Ma – prima di vedere i due documenti – devo fare una premessa.
Per sottolinearne l’importanza.
Mi è capitato nei giorni scorsi di dare un’intervista su padre Pio al “New York Times” e mi ha colpito la reazione sbigottita di Ian Fisher. Il collega del giornale americano mi aveva chiesto il motivo di questa grande devozione popolare. Quando gli ho spiegato che è il primo (e unico) sacerdote stigmatizzato dopo Gesù Cristo, gli ho descritto i suoi carismi, ho accennato ai fatti straordinari e agli innumerevoli miracoli dovuti alla sua intercessione, mi sono reso conto della difficoltà di raccontare un mistero come padre Pio al pubblico liberal newyorkese.
Per far cogliere, nel tempo di internet, l’evidenza del soprannaturale e la meraviglia dell’esperienza mistica, occorrerebbero grandi ingegni che vi si sono affacciati come Henri Bergson e Jean Guitton (o bisognerebbe conoscere la religiosità di un Einstein, che non a caso ha scardinato lo scientismo ottocentesco). I giornali fanno fatica a ricordare che padre Pio è un contemporaneo, coetaneo di Einstein, e morì nel “mitico” ’68, un anno dopo Che Guevara.
Il pubblico liberal americano magari si fa ammaliare dalle superstizioni buddiste o dai cristalli della new age, crede in fanfaluche come la reincarnazione e il karma, ma storce il naso – trattandosi di cattolicesimo - di fronte ai casi reali di guarigioni miracolose, constatate dalla scienza, documentate e studiate da fior di medici e specialisti. O di fronte ai fenomeni di bilocazione, di scrutazione dei cuori e di profezia di padre Pio.
Eppure con padre Pio, per mezzo secolo, il “soprannaturale” è stato letteralmente sotto la lente d’ingrandimento della scienza, a cominciare dalle sue stimmate su cui hanno scritto saggi importanti dei medici che le visitarono accuratamente. Tuttavia è vero che l’attenzione esclusiva su questi carismi straordinari rischia di far perdere di vista la persona, splendida e consolante, di padre Pio e rischia di farlo divorare e stravolgere dal circo barnum dei mass media. Ecco perché appaiono provvidenziali i due inediti sopra annunciati.
A renderli noti è don Francesco Castelli che insegna “Storia della Chiesa moderna e contemporanea” a Taranto e lavora a Roma nella postulazione della causa di Giovanni Paolo II.
Proprio don Castelli, che qualche mese fa ha reso nota una nuova lettera del 1963 di monsignor Wojtyla a padre Pio, un documento molto importante sul profondo legame che unì i due, oggi anticipa a “Libero” ciò che pubblica sulla rivista “Servi della Sofferenza” (IV, 2008).
I documenti di cui parliamo sono emersi dalla causa di beatificazione di un altro religioso, padre Pio Giocondo Lorgna, domenicano vissuto fra il 1870 e il 1928, che fu un dotto predicatore e fondò vari istituti di vita religiosa e di preghiera con opere di carità per l’infanzia povera.
Nel 1922 si ammalò una terziaria domenicana, Maria Bassi, che lo aveva aiutato in una di queste opere. Così padre Lorgna scrive a padre Pio raccomandandogli questa sorella la cui opera è preziosa per tante anime: gli chiede preghiere per ottenere la grazia della guarigione. Siamo nei primissimi anni della “vita pubblica” di padre Pio che ha ricevuto le stimmate visibili il 20 settembre 1918: nel 1919 i giornali hanno cominciato a parlare di lui e tanti pellegrini salgono sul Gargano per incontrare il giovane frate stimmatizzato. Già è avvenuto il viaggio di padre Gemelli con cui iniziano a scanenarsi varie ostilità contro il santo.
Dunque il trentenne padre Pio, sempre disponibile con tutti, il 3 gennaio 1923 risponde a padre Lorgna: “Carissimo Padre , pregherò secondo le sue sante intenzioni. Il Signore voglia confortare le Anime che Lei mi ha raccomandato. Speriamo sempre nella sua Divina Misericordia. In quanto a Lei ringrazio la Sua bontà nel pregare per me. Anche Lei chieda per me al Signore quanto io prometto di chiedere per Lei. Sempre Dev. Mo in G. C. P. Pio Capp.”.
Questa lettera – ritrovata dal domenicano padre Francesco Maria Ricci, postulatore della causa di padre Lorgna, nel suo archivio – è inedita, come pure – proveniente dallo stesso archivio - una
pagina del Diario di padre Lorgna, datata 5 gennaio 1923 dove egli riferisce di un confratello che ha fatto visita a padre Pio.
Padre Lorgna trascrive le informazioni ricevute che risultano oggi molto interessanti. Eccole: “Di ritorno dal P. Pio – L’incontrò nel corridoio e gli disse della mia lettera facendo il mio nome e subito disse: gli ho risposto un’altra volta – È affabilissimo – umilissimo – cordialissimo – due occhi luminosi – un sorriso più che angelico – divino – ubbidientissimo – dai 16 anni in su sempre ammalato – ha guarito altri domandando per sé l’infermità – mangia solo a pranzo un po’ di erbe cotte e minestranulla [sic] al mattino e la sera, se vi è un pomo crudo – ebbe le stimmate 3 anni or sono [in realtà sono passati più di 4 anni] dopo un digiuno di 40 giorni [informazione completamente sconosciuta sinora] solo prendendo l’Eucaristia – l’ebbe in settembre nel giorno anniversario di S. Francesco – getta continuamente sangue dal costato – un po’ dai piedi – nulla dalle mani = gioca alle palle – ride facilmente – è allegro in conversazione – fin da fanciullo piangeva al racconto della passione di Gesù, tanto che si temeva perdesse la vista al troppo pianto.
La febbre talvolta l’assale e non lo lascia per 5 o 6 giorni arriva fino a 48 gradi. Prende la pensione di guerra di L. 10 al giorno quale tubercolotico – celebrando fissa prima il tabernacolo e poi l’Osita – fa la comunione dall’altare per risparmiargli [legg. “risparmiarsi”] il dolore dei gradini [cioè il dolore che gli provocava salire e scendere i gradini a causa delle stimmate ai piedi] = è al secondo piano del convento e scende continuamente senza lamentarsi e per cose futili [cioè anche per motivi non rilevanti è disposto a sentire il dolore del camminare, del salire e scendere le scale]”.
I commenti e le precisazioni fra parentesi sono di don Castelli che sottolinea altri aspetti importanti di questo documento. Intanto queste righe demoliscono l’idea di padre Pio come “frate burbero”, quindi ci “danno la notizia di un digiuno di 40 giorni che avrebbe preceduto la stigmatizzazione di P. Pio”. E “da questa vicenda inedita, in definitiva, emerge il ruolo importante che P. Pio ebbe durante la sua vita per non pochi santi e fondatori”. C’è un’altra notizia che questo documento conferma: “ha guarito altri domandando per sé l’infermità”. La compassione di padre Pio lo spingeva a prendere su di sé le sofferenze degli altri, per poterli sollevare (cosa sconosciuta ai più).
E questo avveniva normalmente. Ora resta da approfondire la nuova notizia del digiuno che precedette le stimmate del 20 settembre 1918. Perché ci rimanda al suo rapporto con Francesco d’Assisi.
Finora era nota una coincidenza temporale. Anche Francesco aveva ricevuto le stimmate alla Verna attorno al 20 settembre (del 1224). Accadde mentre faceva un digiuno di 40 giorni in onore dell’Arcangelo San Michele. Entrambi erano devotissimi a San Michele Arcangelo, difensore della Chiesa, il cui santuario sorge proprio sul Gargano, a due passi da San Giovanni Rotondo e fu visitato da Francesco d’Assisi. Adesso scopriamo che anche padre Pio, il cui nome di battesimo era Francesco, stava facendo lo stesso digiuno del poverello di cui portava il saio e che chiamava “padre”. Uno fu il primo stimmatizzato della storia. L’altro il primo sacerdote stimmatizzato. Di ognuno è stato detto che fu “alter Christus”, un altro Gesù.
Antonio Socci


I piani di Stalin per conquistare il mondo
In Germania è uscito un nuovo saggio di Bogdan Musial nel quale viene spiegata la strategia di Stalin di utilizzare la guerra per promuovere una rivoluzione planetaria…
Non è raro accada in Germania, che per mettere in discussione tabù storici altrimenti indiscutibili si debba attendere il coraggio e l’intraprendenza di storici di altra nazionalità.
E’ di questi giorni la pubblicazione di un nuovo saggio di Bogdan Musial (“Kampfplatz Deutschland, Stalins Kriegspläne gegen den Westen”, Propyläen Verlag, Berlin 2008), polacco, che nel 1985 ricevette asilo politico dalla Repubblica Federale, per poi diventare naturalizzato tedesco nel 1992. Specializzatosi nel 1998 con un dottorato sulla condizione degli ebrei nei territori polacchi durante la Seconda Guerra Mondiale, da quello stesso anno Musial ha all’attivo una lunga collaborazione con l’Istituto Storico Tedesco di Varsavia, grazie alla quale ha potuto studiare i documenti, prima inaccessibili, relativi ai crimini compiuti dai sovietici in Polonia attraverso il N. K. V. D. Inutile aggiungere che il suo lavoro di verifica dei fatti attraverso i documenti lo espone alla facile e superficiale accusa di “revisionismo”.
Fin dall’introduzione s’intende quale fosse l’obiettivo dello storico: dimostrare come dall’inizio, dal putsch dell’ottobre 1917, fino alla Seconda Guerra Mondiale, i bolscevichi, mossi dall’idea della rivoluzione mondiale, abbiano perseguito l’espansione verso ovest (“Chi possiede Berlino”, aveva detto Lenin, “possiede l’Europa”). Il fallimento dell’ultimo tentativo rivoluzionario tedesco dell’ottobre 1923, sostiene Musial, avrebbe convinto Stalin e suoi a scegliere la guerra quale strategia per suscitare la rivoluzione planetaria.
E’ noto quanto sia a tutt’oggi limitato l’accesso alle fonti di ciò che accadde in quei decenni dietro le mura del Cremlino: ha tanto più valore dunque il fatto che allo storico polacco-tedesco siano stati consentiti l’accesso agli archivi di partito, statali e militari di Mosca e Minsk, la visione dei protocolli segreti del Politburo, degli atti del Komintern, dei rapporti della polizia segreta (GPU), dei protocolli delle sedute del Consiglio Superiore di Guerra, come pure dei documenti riguardanti le principali figure della nomenclatura bolscevica (Kaganovic, Malenkow, Molotov, Voroshilov ed altri).
Musial ricorda come figura centrale del gigantesco programma di armamento dell’URSS sia stato il maresciallo Michail Tuchacevski, cui venne affidato il piano quinquennale (dall’ottobre 1928) secondo il quale andavano costruiti 50. 000 carri armati e 40. 000 aerei. Il “compagno Tuchski” sostenne tra l’altro la necessità dell’“annientamento totale dell’esercito nemico” attraverso “il massiccio impiego” di quelle armi chimiche già sperimentate nel 1921 contro i contadini nel distretto di Tamobv, a sud-est di Mosca.
Musial ricostruisce in maniera efficace lo stretto, inevitabile rapporto instauratosi tra la ricerca delle risorse finanziarie necessarie per sostenere la politica d’armamento e i piani di sviluppo industriale e di produttività della terra. Nel descrivere i processi di “accumulo socialista” attraverso la collettivizzazione forzata ricorda i circa 12 milioni di morti causati dalla fame in Ucraina e nella Russia meridionale nei primi anni Trenta. “La collaborazione di migliaia di ucraini, russi, tatari, cechi e altri”, arriva a sostenere Musial, “con gli occupanti tedeschi negli 1941-1944 non è comprensibile se si ignorano quel terrore di massa e quei milioni di morti provocati dal comunismo negli anni Trenta. ”
Pur senza mettere in discussione il fatto che la campagna hitleriana contro l’Unione Sovietica sia stata una guerra d’aggressione, Musial giunge alla conclusione che con l’attacco iniziato il 22 giugno 1941, Hitler avrebbe anticipato la pianificata offensiva dell’URSS alla Germania. Facile intendere come la riproposizione di questa tesi, sostenuta anche da altri storici (Walter Post, Heinz Magenheimer, Joachim Hoffmann e Stefan Schell), non farà che rianimare un dibattito tutt’altro che risolto.
di Vito Punzi
L'Occidentale 4 maggio 2008


Lo statalismo non sta “ritornando”, anche perché non se n’è mai andato
Alberto Mingardi06/05/2008
Autore(i): Alberto Mingardi. Pubblicato il 06/05/2008 – IlSussidiario.net
Siamo alle porte di una stagione di intervento pubblico e regolazione dei mercati? L’aria che tira sembrerebbe essere quella - e si sono moltiplicate, nelle scorse settimane, le analisi che hanno suggerito che la globalizzazione sarebbe in realtà ad un punto morto. La più autorevole, di Bob Davis per il Wall Street Journal, si è focalizzata sui probabili effetti del “nuovo nazionalismo” che si va imponendo in più parti del mondo. Per Daniel Yergin, che anni fa col libro e poi col documentario “Commending Heights” aveva raccontato l’affermarsi delle idee di mercato, il potere dello Stato si sta riconsolidando - e “the era of easy globalization is over”.
Per valutare quanto queste affermazioni siano effettivamente attendibili bisogna separare i trend dalle suggestioni del momento. Queste ultime sono legate essenzialmente alla crisi finanziaria internazionale e, prima ancora che ai suoi effetti, alle sue conseguenze future che sono state proiettate da alcuni analisti e dalla stampa. L’esplosione dei “subprime” e delle bolle immobiliare e delle commodities è servita per (a) sostenere che si sia verificato un fallimento del mercato e (b) immaginare un futuro di povertà, se a quel fallimento non si pone rimedio.
In Italia, qualcuno ad a e b ha aggiunto una tesi “c”. Partendo dal fatto che le economie asiatiche sono sostanzialmente al riparo dalla crisi, in virtù degli strepitosi tassi di crescita, si è detto che in questo scenario di globalizzazione diventa obbligatorio confrontarsi con una scelta netta: o mangio io, o mangi tu. Pertanto, alla correzione dei meccanismi di mercato deve accompagnarsi un “arrocco” rispetto allo scambio internazionale, se non vogliamo che la nostra ricchezza ci sia “sottratta” da altri Paesi.
Per dirlo nel modo più educato possibile, queste sono sciocchezze. Lo sono non perché non vi sia una crisi finanziaria, anche grave e le cui conseguenze non si sono ancora palesate appieno, ma perché partono da una fotografia del mondo perlomeno allucinata. Perché (c) sia vera, la ricchezza del mondo dovrebbe essere una torta, che al massimo si può spartire in fette di diversa dimensione. Non è così, ovviamente. Il fatto che io diventi più ricco non significa che un altro individuo diventi più povero. Ci sono solo due situazioni in cui questo avviene: il furto, o la tassazione. Quando io mi “impoverisco” di dieci euro per acquistare un libro, non è solo il libraio che si arricchisce (e se si fosse “impoverito” lui di un libro?). Se gli ho ceduto volontariamente dieci euro per un volume, significa che stimavo il valore di quel testo, per me, in quel momento, superiore ai dieci euro che gli ho allungato. Non ho “perso” dei soldi: li ho scambiati per qualcosa che credo valere più di essi. In un furto (o venendo tassati), questo non avviene. Non c’è uno scambio, non c’è interazione fra individui. Semplicemente, un tizio (uno Stato) ci toglie, senza nulla darci e senza chiederci il nostro consenso, il denaro che abbiamo in tasca. Noi siamo più poveri, lui è più ricco. È abbastanza evidente che quando “arricchiamo” i commercianti cinesi comprando dei jeans a cinque euro sulle bancarelle di un mercato, nessuno ci punta una pistola alla tempia. Ci sono, è vero, problemi di adattamento alla nuova divisione del lavoro internazionale. Ma è la vecchia storia del dito e della luna.
Torniamo ad (a) e (b). (a), per essere presa seriamente in considerazione, presupporrebbe che noi si fosse in condizione di anarchia. Un mercato senza altre regole che le sue, sottratto del tutto all’arbitrio di “regolatori” esterni, avrebbe la piena responsabilità di dimostrare la propria efficienza. È questo il caso dei mercati finanziari? Evidentemente no.
Non è neppure il caso del mercato “globalizzato”, sul quale una (ideologica) esuberanza irrazionale ha lasciato spazio a investimenti sbagliati e atteggiamenti truffaldini. Se l’euforia senza fondamenti che ha generato il “boom”, al quale inevitabilmente il “bust” fa seguito, è dovuta alla gestione della moneta, si ha gioco facile nel ricordare che battere moneta è un attributo classico della sovranità.
Quando il regolatore c’è, dire “fallimento del mercato” è spesso solo un altro modo per dire “fallimento del regolatore”. Peccato che vi sia una grande differenza fra le due cose. Anche perché i (continui) fallimenti di chi regola e norma, potrebbero forse un giorno portare ad un affievolimento della fiducia del pubblico in quegli stessi, fallibili regolatori.
L’impressione è che si stia annunciando la morte di qualcosa che non è mai nato: il mercato “selvaggio”. Quando, dodici anni fa, Bill Clinton dichiarava “the era of big government is over”, esprimeva un auspicio più che una valutazione.
La stessa “globalizzazione” è un fenomeno ampiamente regolato. Gli accordi internazionali che minerebbero le nostre produzioni, vengono più o meno accortamente negoziati da attori pubblici, e hanno tempi d’implementazione ben definiti. Se è vero che gli accordi multilaterali sono in crisi, è altrettanto vero che non è un fenomeno di oggi: e lo stallo del Doha Round non si spiega in virtù di una domanda ideologica “iper-mercatista”, quanto per il conflitto fra egoismi nazionali.
Sul piano interno, auspicare il “ritorno dello Stato” appare ancora più curioso. Si è sostenuto che lo Stato starebbe “tornando” nella partita Alitalia: per esempio acquisendo parte dell’impresa con Ferrovie, Eni, Sviluppo Italia, o Cassa Depositi e Prestiti. Quella che doveva essere una “privatizzazione” si concluderebbe con un altro drenaggio di denaro dei contribuenti. Il che non significa che stia “ritornando” l’interventismo: perché per ritornare, qualcosa deve essere prima andata via.
In conclusione, in Occidente non stiamo constatando nuovi problemi e bisogni cui solo lo Stato può dare risposta: perché tali presunte “questioni nuove” si verificano in realtà dove lo Stato è ben presente, e a dir la verità non può vantare esiti particolarmente fortunati.
L’analisi del Wall Street Journal tiene, però. Tiene perché il quotidiano americano non sta, come altri in Italia, immaginando un’esigenza: ma fotografando una tendenza politica. La quale, sul piano internazionale, è forte per due ragioni. Da una parte, le difficoltà che i regimi liberal-democratici incontrano in America Latina, e in Russia: l’aumento del controllo politico è la regola nelle autocrazie di Chavez e Putin, ma come potrebbe essere altrimenti? Lo statalismo senza un'erosione delle libertà personali è un'illusione, per la quale in Occidente “abbiamo già dato”. Ed ecco che l'interventismo economico si fa più forte, proprio in quei Paesi in cui si va consolidando una nuova forma di tirannide. Che sorpresa. La seconda è l’incertezza circa l’esito delle presidenziali americane, con i democratici molto sbilanciati a sinistra - come forse inevitabile, dopo un ciclo politico a posteriori sfortunato come quello di George W. Bush.
Non ci sono ragioni per cui lo statalismo debba “ritornare” - se non altro perché non se ne è mai andato. Restano invece intatti e più che mai attuali tutti i motivi che ci porterebbero a guardare nella direzione opposta.


L’emergenza ecologica è anche un’emergenza antropologica
Mario Mauro05/05/2008
Autore(i): Mario Mauro. Pubblicato il 05/05/2008 – IlSussidiario.net
La pace poggia prevalentemente su due "pilastri": l'impegno per la giustizia e la disponibilità al perdono. L'umanità ha bisogno della pace sempre, ma ancor più ne ha bisogno ora, dopo i tragici eventi che hanno scosso la sua fiducia e in presenza dei persistenti focolai di laceranti conflitti che tengono in apprensione il mondo.
Giustizia, in primo luogo, perché non ci può essere pace vera se non nel rispetto della dignità delle persone e dei popoli, dei diritti e dei doveri di ciascuno e nell’equa distribuzione di benefici ed oneri tra individui e collettività. Non si può dimenticare che situazioni di oppressione e di emarginazione sono spesso all’origine delle manifestazioni di violenza e di terrorismo. E poi anche perdono, perché la giustizia umana è esposta alla fragilità e ai limiti degli egoismi individuali e di gruppo. Solo il perdono risana le ferite dei cuori e ristabilisce in profondità i rapporti umani turbati.
Occorre umiltà e coraggio per incamminarsi in questo itinerario. Il contesto dell'odierno incontro, quello del dialogo interculturale, nel cuore dell'Anno europeo per il dialogo interculturale, ci offre l'opportunità di riaffermare che ogni uomo trova nel proprio Dio l’unione eminente della giustizia e della misericordia. Egli è sommamente fedele a se stesso e all'uomo, anche quando l'essere umano si allontana da Lui. Per questo le religioni sono al servizio della pace. Appartiene ad esse, e soprattutto ai loro leader, il compito di diffondere tra gli uomini del nostro tempo una rinnovata consapevolezza dell'urgenza di costruire la pace.
Il genere umano e la dignità umana, la personalità degli individui, devono essere considerate come il punto di partenza per il dialogo. Una cultura in quanto tale non puo' condurre un dialogo con un'altra cultura. Solo le persone possono farlo. Iniziamo a costruire una tradizione di dialogo interculturale ascoltandoci a vicenda e facendo concreti tentativi per migliorare la conoscenza reciproca attraverso lo sviluppo di un intenso scambio di idee e attraverso un attivo dibattito.
Il raggiungimento di questo obiettivo implica necessariamente una società in grado di rispettare la dignità di ciascuna persona umana, una società che ha come meta indispensabile quella di fornire un' educazione di qualità per tutti. Questo è valido oggi anche all'interno dell'emergenza causata dal Cambiamento climatico. L'uomo non ha un diritto assoluto sulla natura, ma un mandato di conservazione e sviluppo in una logica di universale destinazione dei beni della terra. Quella ecologica non è solo un'emergenza naturale, ma è un'emergenza antropologica, in cui conta il modo di rapportarsi dell’uomo con se stesso e soprattutto il modo di rapportarsi con Dio.
Anche il rapporto che l'uomo ha con il creato è quindi un argomento centrale del dibattito tra le nostre comunità religiose e tra le nostre culture. Il rispetto e la preservazione della nostra casa comune, anche per difendere le aspettative delle generazioni future passano attraverso una visione condivisa di ciò che siamo e di come in nome della ragione dobbiamo comportarci di fronte alle nuove sfide che il cambiamento climatico ci impone.


I RAGAZZI VERONESI E NOI - SEMI MALEDETTI DELL’IDEA VIOLENTA
Avvenire, 6 maggio 2008
GIUSEPPE ANZANI
La prima reazione ai tragici fat­ti di Verona è un rabbioso sgo­mento di fronte a una violenza as­surda, stupida, maligna, mortale. Animalesca, se ciò non offendes­se le bestie selvatiche, incapaci della crudeltà 'umana'. Anima­­lesca, forse ci forziamo a pensa­re, per toglierci l’angoscia di cer­care qualche nesso intellettivo fra il rifiuto di una sigaretta e il cal­cio alla testa che sfonda il cranio della vittima. O forse c’è nei fatti il mistero che il male voluto è in­nesco del male inimmaginato È questa 'capacità criminale' del branco notturno, spicchio di una provinciale 'arancia meccanica', il pensiero pauroso che vorrem­mo d’istinto levarci dal cuore; fin­gendoli automi senza cervello, marionette dalla testa piena di se­gatura, deficienti semoventi. E in­vece un poco per volta imparia­mo che c’è nel cervello esatta­mente quello che c’è nel cuore, e cervello e cuore sono tutt’uno, e guidano o sviano la vita, al bivio tra l’acqua e il fuoco, fra la capa­cità di voler bene e la desolata vio­lenza e distruttività. Impariamo che esiste una 'affettività intel­lettiva' che istupidisce e ottene­bra, quando esalta la violenza, il culto della forza, il disprezzo del diverso, la sopraffazione del de­bole. Si comincia, si dà fuoco; poi è l’abisso che esplode.
Dei cinque ragazzi del branco, tutti già identificati, tre sono in carcere. Giovanissimi, fra i 19 e i 20 anni. Il primo è descritto dagli inquirenti come un estremista di destra, già cacciato dagli stadi co­me ultrà, già indagato per asso­ciazione a delinquere finalizzata a discriminazione razziale. Gli al­tri due catturati sono detti 'ra­gazzi qualsiasi, un po’ aggressi­vi'. Gli ultimi due che mancano, fuggiti all’estero, assomigliano al primo, con lo stesso profilo di ul­trà di destra. Questa tavolozza che porta gli inquirenti a esclu­dere una connotazione 'politica' dell’aggressione, non ci esonera affatto dall’inquietudine. Se la violenza criminale episodica, qui innescata da futili motivi, si con­tamina nel vissuto adolescenzia­le con i simboli, i simulacri, le memorie violente e mortali co­nosciute nella storia e nella poli­tica, quasi tratte fuor di vergogna, ciò rappresenta la peggior peda­gogia della forza seducente del male e della sua crudeltà.
Ora possiamo chiederci se que­ste vicende di branco scoppiano come notturni funghi, o se inve­ce la vita di questi adolescenti pa­ga uno scacco covato da lunghe carenze educative. Ma no, ed è shock di nuovo: sono figli di fa­miglia, situazioni benestanti; u­no studia al liceo classico, un al­tro lavora come metalmeccanico, il terzo fa il promotore finanzia­rio. E le famiglie sono affrante, in­credule, i padri ammutoliscono, le madri piangono. È questo di­lagare del dolore dalla cima d’un singolo maledetto crimine stupi­do e folle che ci dà la proporzio­ne della forza riproduttiva del male. Toglierci da questa maledi­zione è ora il disegno di un pos­sibile salvamento, se si intercetta la gramigna ai primi semi. I semi maledetti dell’idea violenta, del simbolo violento, del concetto che l’alterità è antagonista, che la diversità è ostile, che la fragilità scatena l’aggressione, e infine che fra gli uomini lupi domina chi è più lupo.
Quante complicità e connivenze da togliere. Dalle memorie, dalle politiche, dalle ideologie. Dal cuore.


IL «CORRIERE» E I FIGLI CHE I GAY DESIDERANO
Quello spottone gratis a un razzismo al contrario

Avvenire, 6 maggio 2008
DAVIDE RONDONI
I n nome dei bambini. Certo, in nome e per conto loro. Come sempre. Anche se poi i bambini sembrano chiedere altro. Fanno un certo effetto le due pagine intere che il Corriere della Sera
di ieri, giornale di industriali e banche, dedica alla presenza in Italia dei bambini che crescono all’interno di coppie omosessuali. Dal punto di vista giornalistico, a un lettore attento, sembrano quasi un autogol, una involontaria ironia. Tutta una pagina in cui, in nome dei bambini, si chiede riconoscimento legale per la volontà di coppie omossessuali di avere figli, e l’unica volta che in quella pagina si lascia parlare un bambino, lui racconta che i suoi compagni gli chiedono perché ha due mamme. E racconta che anche se lui, bene indottrinato da chi lo cresce, si mette a parlare di «diritti» (a otto anni!) spiegando che le ha sempre avute, alla fine i suoi compagni gli richiedono: perché hai due mamme?
Evidentemente ai bambini i conti non tornano. Ma qualcuno, in nome loro, sta provando a farli comunque tornare. Sarebbero «centomila» secondo il titolo che, naturalmente, li inserisce in nuove «famiglie». I dati sono altrettanto naturalmente forniti da Arcigay, e vengono dalla stima che il 17,7% dei gay e il 20,5% delle lesbiche con più di 40 anni ha prole. Il che significa che si assommano, senza distinguere, bambini nati da matrimoni eterosessuali poi falliti e 'traslocati' in coppie omosessuali e bambini nati già all’interno di tali coppie da fecondazione a mezzo di donatori.
Insomma un dato un poco eterogeneo. E che serve, evidentemente, a dare forza alla richiesta, sempre a nome dei bambini, da parte degli omosessuali che in misura del 49% vuole avere un figlio. La doppia pagina è uno 'spottone' gratis, senza alcuna voce in contraddittorio, ad un’associazione che si occupa di queste cose, e che sta immaginando alcune battaglie legali che facciano leva sulle discrasie delle leggi presenti nei diversi Paesi Ue. L’obiettivo è fare breccia nell’ordinamento che in Italia tiene saldo il riconoscimento giuridico dei genitori naturali, salvo poi le varie possibilità di affido, di riconoscimento... Dunque, in nome dei bambini, i quali secondo il Corriere sarebbero oggi discriminati in Italia, si vorrebbe non tanto assicurare ai bambini diritti certi, quanto alcune prerogative ad alcune categorie. In nome dei bambini si mira a riconoscere una prerogativa a chi fa certe scelte ma non vuole viverne le conseguenze. Come quella, per chi decide una convivenza omosessuale, di non riuscire a procreare figli. C’è qualcosa di spinoso in questo dolce e colorito parlare di bambini: in nome loro si vuole evitare la propria responsabilità. In fondo si tratta di rendere tutto uguale, cioè evitare il principio di responsabilità. Sarebbe un grande tema, da trattare con onestà intellettuale e apertura. Come spesso mostrano anche esponenti del mondo omosessuale. E che si può trattare con grande rispetto dei fatti e delle persone. Sia omosessuali che etero. Invece il Corriere cita al lettore ignaro il fior fiore di esperti di infanzia e famiglia che si prodigano in consulenze che finiscono, anch’esse, per suonare quasi ridicole, tanto sono faziose.
Come quella di una psicologa e una sociologa che dipingono i figli cresciuti da omosessuali come bambini più tolleranti, meno conformisti, cresciuti da genitori con più alto grado di istruzione e autoconsapevolezza di quelli eterosessuali. Una specie di bambini perfetti in mezzo a coppie perfette. Dirò ai miei quattro piccoli che sono stati veramente sfortunati. O addirittura, tali consulenze si rivelano in realtà dei 'razzismi al contrario'.
Come quando lo psicoterapeuta intervistato dopo aver definito molto meglio le condizioni 'familiari' vissute dai piccoli cresciuti da omosessuali denuncia il «vero pericolo» per i pargoletti: «I pregiudizi di una società, la nostra, in cui la famiglia è quella tradizionale, sposata, magari in chiesa. Su questo c’è da combattere». In nome dei bambini, naturalmente.


LA TURCO INSISTE: C’ÈUN ’EUGENETICA BUONA, ANZI DOVEROSA
Bimbo, declina il tuo Dna E ti ammetteremo nel nostro mondo
Avvenire, 6 maggio 2008
MARINA CORRADI
Pure nell’affanno del passaggio di consegne e dell’imminente trasloco il ministro Livia Turco ha trovato il tempo per ribadire, in una lunga intervista su 'Radio 24', il rigore del suo operato quanto all’emanazione delle linee guida della legge 40. Si è trattato di un adempimento puramente «tec-ni-co», ha scandito più volte, tesa a fugare le accuse di quanti vedono nell’apertura all’analisi pre­impianto degli embrioni un tentativo di rovesciamento del dettato legislativo. Ma della scorrettezza di linee guida esalate in articulo mortis da un Governo con le ore contate questo giornale ha già scritto.
Piuttosto, colpiscono alcune argomentazioni del ministro in difesa della analisi preimpianto, nel caso di genitori portatori di malattie genetiche (categoria che peraltro la legge 40 non prevedeva, essendo destinata – articolo 4 – alle sole coppie sterili). Dunque secondo la Turco la legge vieta, sì, ogni selezione eugenetica.
La selezione praticata da una coppia malata non tenderebbe però a sopprimere la malformazione, ma, in analogia con quanto afferma la legge sull’aborto, a proteggere la salute psichica della madre, che dalla malformazione del figlio verrebbe messa in pericolo. Ci sarebbe dunque, pare di capire, una eugenetica 'cattiva', quella progettata dagli Stati totalitari, e una eugenetica 'buona', a carattere privato e familiare. Ragione della prima è la eliminazione dalla società degli individui imperfetti, della seconda la difesa della serenità e dell’equilibrio dei genitori. Una differenza fine, anche se poi il risultato di eugenetica cattiva e 'buona' è uguale: la eliminazione del nascituro inadeguato.
In effetti, la posizione della Turco riflette un diffuso pensiero: la selezione dei figli dettata da un potere pubblico, come oggi in Cina con le figlie femmine è, naturalmente, inaccettabile; quella dovuta a ragioni private è lecita, e quasi una premurosa attenzione.
Lo ha chiarito lo stesso ministro, parlando non solo di un diritto, «ma anche di un dovere» delle coppie a conoscere con ogni indagine la salute dell’embrione. «Non si tratta di eugenetica – ha spiegato – ma di un principio etico morale che fa riferimento alla capacità di accoglienza del figlio».
Da una norma che si proponeva solo di aiutare le coppie sterili si passa di fatto alla liceità del sezionamento della creatura in fieri, onde accertare se è normale abbastanza perché i genitori ne reggano l’accoglienza. Lo spirito originario della legge, si direbbe, si è un po’ allargato. È questo «dovere» dei genitori di conoscere eventuali malformazioni del nascituro, che ci preoccupa. E non solo perché prelude, quasi inevitabilmente, al rifiuto di quel figlio. Ma proprio per il pensiero che sta dietro questa pretesa. Quasi un chiedere alla creatura generata di declinare il suo Dna, come un passaporto per essere ammesso in questo mondo. Se il passaporto non è in regola, espulso: come un clandestino che tenti il passaggio in Occidente. Non solo un «diritto» dei genitori verificare un Dna regolare, ma un «dovere». Quasi fosse eticamente scorretto accettare un figlio come viene, coi suoi difetti e magari i suoi handicap. Quasi fosse irresponsabile lasciarlo entrare nel mondo senza indagarlo preventivamente – con quel che costa socialmente, oggigiorno, assistere certi malati.
La eugenetica privata, e quindi corretta; e il «diritto alla salute» che si metamorfizza quasi in un imperativo a mettere al mondo figli sani. Più ancora che le linee guida, è la filosofia del ministro a preoccuparci. E quell’ansia – a referendum perduto, a mandato scaduto – di sistemare le cose, comunque, nel modo 'giusto' – giusto secondo un pensiero in cui la maggioranza degli italiani non si riconosce.