mercoledì 14 maggio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Il Papa sulla legalizzazione dell’aborto: "Una ferita nella società"
2) Il vezzo degli inglesi giocare a fare Dio
3) Presentata al Parlamento Europeo la Relazione sulla "Evoluzione della Famiglia in Europa, 2008"
4) San Pio X papa di retroguardia? No, un ciclone riformatore mai visto, di Sandro Magister
5) Dossier Libertas Ecclesiae da IlSussidiario.net
6) Festa non per gente pia ma dell’uomo libero, di Davide Rondoni
7) L’inarrestabile estinzione delle balene? Naturalmente colpa dei preti


Il Papa sulla legalizzazione dell’aborto: "Una ferita nella società"
Affondo di Ratzinger sull’aborto nel Discorso rivolto ai delegati del Movimento per la vita.: "In trent’anni quella legge non ha risolto i problemi". Plauso dal Pdl, il centrosinistra insorge. Pannella: "Un'offesa allo Stato democratico"...
di Andrea Tornielli
Roma - La legge 194, che dal 1978 ha legalizzato l’aborto in Italia, «non ha risolto i problemi», ma ha aperto un’ulteriore «ferita nelle nostre società». È inequivocabile il giudizio contenuto nel discorso che Benedetto XVI ha rivolto ieri mattina in Vaticano ai delegati del Movimento per la vita. Parole che hanno innescato una lunga serie di reazioni politiche.
Parlando degli «effetti umani e sociali che la legge ha prodotto nella comunità civile e cristiana durante questo periodo», Ratzinger ha osservato: «non si può non riconoscere che difendere la vita umana è diventato oggi praticamente più difficile, perché si è creata una mentalità di progressivo svilimento del suo valore, affidato al giudizio del singolo. Come conseguenza ne è derivato un minor rispetto per la stessa persona umana, valore questo che sta alla base di ogni civile convivenza, al di là della fede che si professa». Benedetto XVI non si è nascosto la complessità del problema e le «cause che conducono a decisioni dolorose come l’aborto», spiegando che la Chiesa «stimola a promuovere ogni iniziativa a sostegno delle donne e delle famiglie per creare condizioni favorevoli all’accoglienza della vita».
«L’aver permesso di ricorrere all’interruzione della gravidanza – ha aggiunto il Pontefice – non solo non ha risolto i problemi che affliggono molte donne e non pochi nuclei familiari, ma ha aperto una ulteriore ferita nelle nostre società, già purtroppo gravate da profonde sofferenze». Un giudizio in netta controtendenza rispetto a coloro che hanno considerato e considerano la legge 194 una necessità.
Benedetto XVI ha continuato ricordando che «diversi problemi continuano ad attanagliare la società odierna, impedendo di dare spazio al desiderio di tanti giovani di sposarsi e formare una famiglia per le condizioni sfavorevoli in cui vivono». «La mancanza di lavoro sicuro – ha detto –, legislazioni spesso carenti in materia di tutela della maternità, l’impossibilità di assicurare un sostentamento adeguato ai figli, sono alcuni degli impedimenti che sembrano soffocare l’esigenza dell’amore fecondo, mentre aprono le porte a un crescente senso di sfiducia nel futuro».
Da qui l’invito a «unire gli sforzi» perché le diverse istituzioni «pongano di nuovo al centro della loro azione la difesa della vita umana e l’attenzione prioritaria alla famiglia, nel cui alveo la vita nasce e si sviluppa», e aiutino «con ogni strumento legislativo la famiglia per facilitare la sua formazione e la sua opera educativa».
Ratzinger benedice le attività del Movimento, come i centri di aiuto alla vita, «per evitare l’aborto anche in caso di gravidanze difficili, operando nel contempo sul piano dell’educazione, della cultura e del dibattito politico»; afferma la necessità di «testimoniare in maniera concreta che il rispetto della vita è la prima giustizia da applicare» e appoggia la petizione rivolta al Parlamento Europeo, «nella quale affermate i valori fondamentali del diritto alla vita fin dal concepimento, della famiglia fondata sul matrimonio di un uomo e una donna, del diritto di ogni essere umano concepito a nascere e ad essere educato in una famiglia di genitori».
Il leader radicale Marco Pannella ha definito un’«offesa allo Stato democratico» il discorso del Papa, l’ex ministro Livia Turco ritiene le parole di Ratzinger «non giustificate dai dati». Il neo ministro per le Pari Opportunità, Mara Carfagna, è d’accordo col Pontefice, «la cultura della vita è stata svilita ma il problema non è discutere la 194». La soluzione? «Una normativa a favore della famiglia che incentivi le nascite e a favore delle donne affinché rinuncino ad abortire».
Il Giornale n. 113 del 2008-05-13


LONDRA E LA LEGGE SULLA FECONDAZIONE
Il vezzo degli inglesi giocare a fare Dio

Avvenire, 14 maggio 2008
ASSUNTINA MORRESI
L a settimana prossima il parlamento inglese esaminerà nel dettaglio il nuovo testo di legge che vuole regolare la fecondazione assistita e la ricerca sugli embrioni.
Intanto però, due giorni fa, con una forte maggioranza è stato dato un via libera di massima all’intero impianto della nuova normativa. Nella fase successiva della discussione si prenderà infatti in esame il testo nel dettaglio, e sarà possibile inserire emendamenti. Il premier laburista Gordon Brown ha concesso libertà di voto ai parlamentari del suo schieramento nei tre punti più controversi: la creazione di embrioni misti uomo/animale (le cosiddette 'chimere'); il via libera ai «saviour sibling», cioè i bambini concepiti in provetta su misura per poter curare fratelli o sorelle malati; l’ok alla fecondazione in vitro anche in assenza della figura paterna, una norma che riguarda per esempio le coppie lesbiche.
Per far digerire misure di questo tipo la strategia è sempre la stessa: si afferma innanzitutto la propria contrarietà alla ricerca e alla fecondazione in vitro condotta senza regole, e poi si chiede di rendere legali le procedure più estreme e discutibili. Far nascere i «saviour babies» – detti anche «bambini-farmaco» – vuol dire creare in provetta un numero elevato di embrioni, selezionare quelli compatibili con la persona malata da curare e impiantarli in utero: gli altri si scartano, semplicemente perché non hanno il patrimonio genetico richiesto. Li si potrà forse 'donare' a coppie infertili, o mettere a disposizione della ricerca scientifica, o lasciarli congelati mentre si decide cosa farne. I «bambini-farmaco» sapranno forse un giorno di essere nati dopo avere superato una selezione, perché avevano il Dna 'giusto', proprio quello che serviva.
Consentire a coppie lesbiche l’accesso alla procreazione in vitro, invece, significa cancellare il padre, con tutto quello che ne consegue sul piano simbolico e concreto. La figura paterna si riduce così a un fornitore di sperma, un numero in un catalogo di una biobanca. Non è una novità: negli Usa, dove i donatori possono rimanere anonimi, esiste il «1.476 group» che comprende i nati dallo sperma offerto alla Fairfax Cryobank dall’anonimo donatore 1.476. Nel loro sito Internet salutano i visitatori con un «Welcome to the Donor 1476 family site», benvenuti nel sito della famiglia del donatore 1476.
Il figlio, purché voluto e desiderato, diventa quindi un diritto di chi lo vuole e lo desidera, ma nessuno si preoccupa dei diritti del figlio. E se queste persone, la cui vita è disegnata senza la presenza di un padre prima ancora del concepimento, un giorno rivendicassero il diritto ad avere quel papà deliberatamente cancellato da qualcun altro? Chi ha il diritto di stabilire che a loro non spetta un padre?
C’è poi il nodo della creazione di embrioni ibridi uomo/animale: è per lo meno discutibile ostinarsi a presentare come ricerca scientifica di frontiera una procedura inefficace e oramai vecchia, la cosiddetta «clonazione terapeutica», tra l’altro mischiando Dna umano e animale.
Si tratta di una strategia abbandonata dagli stessi che l’hanno promossa nel mondo, come lo scienziato Ian Wilmut, il 'padre' della pecora Dolly, e surclassata dalle nuove scoperte sulle cellule staminali pluripotenti indotte, quelle recentemente create dallo scienziato giapponese Shinya Yamanaka, per intenderci.
Se la legge inglese verrà approvata senza emendamenti, sarà dunque lecito mischiare il Dna di esseri umani e di mucche, tanto poi – dicono i fautori – questo tipo di embrioni non è destinato a svilupparsi, saranno distrutti subito, servono solo per la ricerca... Se poi è una ricerca che non trova niente, che importa? Non si può nemmeno dire che c’è chi vuole – come dicono gli inglesi – «playing God», giocare a fare Dio. C’è infatti quantomeno da dubitare che il Padreterno intenda dilettarsi in simili attività di patchwork embrionale.


Presentata al Parlamento Europeo la Relazione sulla "Evoluzione della Famiglia in Europa, 2008"
BRUXELLES - La Rete Europea dell'Istituto di Politica Familiare (IPF), il 7 maggio 2008, alle ore 10.30, presso il Parlamento Europeo, ha presentato la Relazione sulla "Evoluzione della Famiglia in Europa, 2008", in concomitanza con le celebrazioni della Giornata dell'Europa e della Giornata Internazionale della Famiglia. All'atto hanno partecipato Eduardo Hertfelder, Presidente della Federazione Internazionale dell'IPF; Lola Velarde, Presidente della Rete Europea dell'Istituto di Politica Familiare; Jaime Maggiore Oreja, Eurodeputato per la Spagna; Miroslav Mikolasik, Eurodeputato per la Slovacchia, e Jorge Cesar Dai Neves, Consigliere di Politica Europea della Commissione Europea.
La Relazione è stata redatta in maniera multidisciplinare da una squadra di esperti di distinte aree e consta di tre parti: la prima contiene l'analisi della situazione della famiglia in Europa e la sua evoluzione negli ultimi 25 anni rispetto a demografia, natalità, unioni matrimoniali e politiche abitative. Nella seconda parte viene analizzata l'evoluzione delle distinte politiche che la Commissione Europea ha applicato in questo tempo e viene fatta una comparazione con le scelte compiute dai distinti Paesi dell'Unione Europea. Come conseguenza di questa analisi, la terza parte contiene la proposta di un insieme di misure che l'Istituto di Politica Familiare considera indispensabili per l'applicazione di una vera politica integrale sulla famiglia e l'incremento di politiche pubbliche con prospettive familiari. "Affinché le famiglie europee possano continuare a compiere la loro imprescindibile funzione - ha affermato Lola Velarde -, è essenziale che i diversi organismi, istituzioni ed organizzazioni sociali la appoggino, e che i distinti Paesi membri incorporino nelle loro politiche economiche e sociali la dimensione familiare".
Come ha segnalato Velarde, "benché si constati la crescente preoccupazione dell'Unione Europea per la famiglia e le sue problematiche - come dimostrano recenti documenti quali il Giudizio del Comitato Economico e Sociale Europeo su "La famiglia e l'evoluzione demografica" e la Comunicazione della Commissione Europea: "Il futuro demografico dell'Europa: trasformare una sfida in un'opportunità" - questa azione è ancora chiaramente insufficiente e, come conseguenza di questa carenza, i problemi della famiglia continuano ad aggravarsi.
In effetti gli indicatori su popolazione, natalità, unioni matrimoniali, separazioni e abitazioni sono sostanzialmente peggiorati in questi 27 anni. I dati della Relazione su "Evoluzione della Famiglia in Europa 2008" sono eloquenti e inoppugnabili. L'Europa è immersa in un inverno demografico per cui è già oggi un continente vecchio - gli anziani di 65 anni superano già di più di 6 milioni i giovani minori di 14 anni -. La crescita lenta della popolazione è dovuta in particolar modo all'immigrazione, che ha rappresentato l'84 per cento della crescita di popolazione dell'Unione Europea nel periodo 2000-2007. Il problema della natalità è quindi diventato critico poiché nascono sempre meno bambini, quasi un milione di nascite in meno rispetto al 1980. Inoltre si realizzano un milione di aborti tali da essere - insieme al cancro - la principale causa di mortalità in Europa. Infine si sta verificando un crollo dei matrimoni. Ogni volta si registrano sempre meno matrimoni e sono sempre più numerosi quelli che si rompono: 1 milione sono i divorzi annuali. Le case poi si stanno svuotando: in 2 case europee su 3 non c'è neanche un bambino.
Davanti a questa situazione, l'IPF propone di favorire lo sviluppo di politiche pubbliche con "prospettiva familiare" in Europa, e di impiantare una vera ed efficace politica integrale e di carattere universale sulla famiglia. Questo sarà possibile seguendo quattro direttrici: "Trasformare la famiglia in una priorità politica; incorporare la 'prospettiva familiare' in tutte le attuazioni, politiche e programmi dell'Unione Europea; promuovere la convergenza nelle politiche familiari nazionali, evitando la discriminazione tra Paesi; sollecitare le pari opportunità tra le famiglie europee, evitando discriminazioni per numero di figli, livello di redditi, ripartizione di entrate, etc.".
Inoltre la politica integrale sulla famiglia deve essere di carattere Universale, diretta a tutte le famiglie, e non esclusivamente assistenziale, promuovendo la famiglia come istituzione, promuovendo l'idea stessa di famiglia, una cultura ed un ambiente favorevole che permetta alla famiglia di affrontare la quotidianità; aiutando i genitori ad avere i figli che desiderano; integrando in maniera davvero umana e costruttiva i distinti ambiti di sviluppo lavorativo, familiare e personale; aiutando a superare le crisi familiari; riconoscendo il diritto dei genitori ad educare i propri figli; promuovendo la partecipazione attiva di genitori ed associazioni e tenendo in considerazione, con misure specifiche, le famiglie con determinate necessità.
Il testo integrale della Relazione "Evoluzione della Famiglia in Europa, 2008"


San Pio X papa di retroguardia? No, un ciclone riformatore mai visto
Un saggio di milletrecento pagine scritto da un grande studioso rovescia il giudizio sul papa antimodernista. Il nuovo Codice di diritto canonico da lui creato ebbe formidabili effetti. Rafforzò più che mai il ruolo pubblico e la libertà della Chiesa nei confronti col mondo
di Sandro Magister
ROMA, 13 maggio 2008 – Il Concilio Vaticano II non è stato l'unico momento di svolta nella storia della Chiesa cattolica del Novecento. Una svolta anch'essa importante è avvenuta mezzo secolo prima, col pontificato di san Pio X.

È quanto si ricava da un imponente saggio in due volumi appena uscito in Italia, intitolato "Chiesa romana e modernità giuridica", scritto da un illustre studioso di diritto ecclesiastico, Carlo Fantappiè, e dedicato a un'impresa grandiosa di papa Giuseppe Sarto, il nuovo Codice di diritto canonico.

Di Pio X si ricorda la tenace battaglia contro i cattolici "modernisti". Il suo profilo corrente è quello di papa della restaurazione e degli anatemi. Non fu così. Nuovi studi stanno rileggendo quel pontificato in una luce diversa, molto più propositiva e innovatrice.

Ad esempio, la sua celebre enciclica "Pascendi Dominici Gregis" contro i modernisti, di cui è ricorso nel 2007 il centenario, affrontò con preveggenza questioni che sono tuttora attuali e centrali nella vita della Chiesa.

E così il nuovo Codice di diritto canonico, promulgato da Benedetto XV nel 1917 ma voluto e costruito soprattutto da Pio X. Esso non rappresentò un ripiegamento della Chiesa sulla difensiva, ma fu audace opera di modernizzazione. Rafforzò la figura pubblica e la libertà della Chiesa nel suo confronto col mondo.

Pio X respinse la modernizzazione filosofica proposta dai cattolici modernisti. Vedeva in essa un cedimento alla cultura laica che disintegrava le verità della fede.

Ma fu un deciso modernizzatore della forma giuridica e istituzionale della Chiesa, assumendo dagli Stati liberali del tempo le strutture che giudicava compatibili con la natura teologica della Chiesa stessa.

Il professor Fantappiè mostra come la riforma giuridica voluta da Pio X non era a se stante ma si sposava a tutte le altre sue innovazioni: nella curia romana, nelle diocesi, nei seminari, nel catechismo, nella liturgia, nella musica sacra. Da questa molteplice opera di cambiamento uscì la forma di Chiesa che dominò fino al Concilio Vaticano II e in buona parte anche oltre.

Nel recensire su "L'Osservatore Romano" i due volumi di Fantappiè, lo storico Gianpaolo Romanato ha così sintetizzato la svolta:

"Quella che ancora nella seconda metà del Settecento era, di fatto, una federazione di Chiese nazionali, si trasformò in una compatta organizzazione internazionale, disciplinarmente e teologicamente sottoposta al papa".

Il Codice di diritto canonico voluto da Pio X è l'ossatura giuridica di questa Chiesa raccolta attorno al vescovo di Roma.

In effetti, prima della promulgazione del Codice del 1917, la Chiesa cattolica era regolata da un immenso e disordinato cumulo di leggi, spesso tra loro sovrapposte o confliggenti: dal "Decretum Gratiani" del XII secolo alle collezioni di Gregorio IX, di Bonifacio VIII, di Clemente V, di Giovanni XXII, più le decretali sparse di numerosi altri pontefici.

Il nuovo Codice di diritto canonico ha ricodificato tutto in forma coerente e unitaria, sul modello dei codici napoleonici adottati dagli stati europei. Promulgato nel 1917, nel 1959 Giovanni XXIII ne annunciò la revisione, assieme all'annuncio di un nuovo concilio ecumenico. La seconda edizione del Codice, attualmente in vigore, ha visto la luce nel 1983.

Senza questa modernizzazione giuridica e istituzionale della Chiesa, voluta da Pio X, sarebbe stato impensabile un ruolo planetario del papato come quello impersonato da Giovanni Paolo II e, oggi, da Benedetto XVI.

Carlo Fantappiè è professore di diritto canonico e di storia del diritto canonico all'Università di Urbino, nonché autore di numerose e apprezzate pubblicazioni in materia.

Qui di seguito, ecco la recensione ai suoi due volumi su "Chiesa romana e modernità giuridica", scritta per "L'Osservatore Romano" del 4 maggio 2008 dal professor Gianpaolo Romanato, docente di storia della Chiesa all'Università di Padova e membro del Pontificio Comitato di Scienze Storiche:


La rivoluzione del papa modernizzatore
di Gianpaolo Romanato
Lo studio che Carlo Fantappiè, professore di diritto canonico all'università di Urbino, ha appena pubblicato con l'editore Giuffrè — "Chiesa romana e modernità giuridica" — rappresenta un evento scientifico che non interessa soltanto gli studiosi del diritto ma anche gli storici della Chiesa e del cristianesimo.

Nei due volumi di quest'opera davvero imponente, di quasi milletrecento pagine, l'autore dimostra che il Codice di diritto canonico voluto da Pio X e promulgato da Benedetto XV nel 1917 fu ben più che un lavoro tecnico di risistemazione e semplificazione di norme giuridiche.

Fu in realtà una profonda riflessione sul passato, sul presente e sul futuro della Chiesa di Roma, finalizzata a un disegno di riforma della Chiesa all'interno del quale il diritto era il mezzo, non il fine.

Lo studio inizia dal Concilio di Trento, ma si sofferma soprattutto sugli eventi traumatici seguiti alla rivoluzione francese e all'impero napoleonico.

È nel corso dell'Ottocento, infatti, che prese corpo la necessità della riforma. La nascita degli Stati nazionali e l'irrompere del sistema di governo liberale modificarono alla radice il rapporto giuridico e istituzionale tra la Chiesa e lo Stato.

La Santa Sede non dovette più misurarsi con i sovrani assoluti settecenteschi, che sottomettevano l'organizzazione ecclesiastica ma al tempo stesso la favorivano e ne riconoscevano il carattere pubblico. Si trovò di fronte i moderni stati nazionali, retti da ordinamenti rappresentativi, che miravano a ridurre la sfera religiosa all'ambito privato, a rinchiudere la Chiesa dentro il diritto comune.

Fu una rivoluzione che costrinse le istituzioni ecclesiastiche ad arroccarsi attorno al papato, l'unico punto di riferimento sopravvissuto al naufragio dei vecchi poteri. Non più contrastato da poli alternativi, né interni né esterni, il pontefice romano si riappropriò della piena sovranità tanto nell'ambito dottrinale quanto in quello disciplinare.

Ne derivò un monopolio di giurisdizione, come lo definisce Fantappiè, inedito nella storia della Chiesa latina. Contemporaneamente i seminari e le università romane si sostituirono alle istituzioni scolastiche, particolarmente quelle francesi e austro-tedesche, che erano sparite nel gorgo rivoluzionario.

La romanizzazione del cattolicesimo non poteva essere più rapida e più completa. Nel giro di pochi decenni, quella che ancora nella seconda metà del Settecento era, di fatto, una federazione di Chiese nazionali, si trasformò in una compatta organizzazione internazionale, disciplinarmente e teologicamente sottoposta al papa e agli organismi curiali.

Roma divenne contemporaneamente fonte del potere, centro di elaborazione del pensiero teologico-canonistico, luogo di formazione del personale dirigente.

Fantappiè ricostruisce questo processo storico con straordinaria ampiezza di riferimenti ma con l'occhio sempre rivolto alle conseguenze che esso ebbe sull'autocomprensione giuridica della Chiesa. Autocomprensione che nel 1870 dovette fare i conti con un altro decisivo tornante: la proclamazione dell'infallibilità papale, avvenuta durante il Concilio Vaticano I, che portò a conclusione il processo di centralizzazione prima delineato; e la fine dello Stato pontificio, cioè del potere temporale.

La concomitanza dei due eventi — il papa diventa infallibile nel momento in cui cessa di essere il papa-re — è ben più che una coincidenza casuale.

In questa situazione la richiesta di riforma del diritto canonico si fece sempre più pressante. Era urgente rimettere ordine in una normativa vecchia di secoli, adeguandola alle trasformazioni avvenute, ed era soprattutto indispensabile ripensare la natura della Chiesa nella comunità internazionale. Ma con un problema previo: si doveva procedere a una ricompilazione per temi dello sterminato materiale canonistico accumulatosi dal medioevo, semplicemente sfrondandolo di quanto era caduto in desuetudine, o non conveniva rifondere e ripensare il tutto in un codice di leggi organico e sintetico, seguendo la strada tracciata dalle riforme napoleoniche, imitate da tutti gli Stati moderni?

La preferenza andava alla seconda opzione, non senza però resistenze forti, soprattutto a Roma, tutt'altro che persuasa di dover andare a rimorchio, almeno metodologicamente, della cultura liberale. In ogni caso l'impresa parve talmente immane che né Pio IX né Leone XIII osarono iniziarla.

Il compito cadde sulle spalle di Pio X, eletto papa nel 1903 dopo che il veto del governo di Vienna aveva posto fuori gioco il cardinale Rampolla. Toccò, paradossalmente, a un pontefice nato austriaco, totalmente estraneo alla curia vaticana, che non aveva studiato a Roma ma in un seminario di provincia e doveva la nomina a papa all'istituto più antiquato e anacronistico del vecchio diritto canonico, lo "ius exclusivae", il diritto di veto dei monarchi cattolici.

Papa Giuseppe Sarto ebbe il merito di rompere gli indugi, di non lasciarsi spaventare dalle infinite difficoltà, di scegliere la persona giusta cui affidare la direzione dell'opera, che avrebbe coinvolto l'intero universo cattolico. Questi fu Pietro Gasparri, allora poco più che cinquantenne, segretario agli affari ecclesiastici straordinari, già professore di diritto canonico a Parigi e diplomatico in America Latina. Un politico e un uomo di governo, ma soprattutto un provetto giurista, di illimitata fedeltà alla sede apostolica.

Fantappiè dedica a Gasparri duecento pagine, quasi un libro nel libro, senza dimenticare altre figure che ebbero ruoli decisivi, in particolare il cardinale Casimiro Gènnari, figura finora trascurata dalla storiografia, dal 1908 prefetto della Congregazione del Concilio e già fondatore del "Monitore Ecclesiastico", la rivista che prima della nascita degli "Acta Apostolicae Sedis" fu l'organo semiufficiale della Santa Sede.

L'"opus magnum" della codificazione, come fu definito, andò in porto in soli tredici anni – la bolla che diede l'avvio all'opera, "Arduum sane munus", è del 1904, mentre la promulgazione del Codice avvenne nel 1917 – grazie al pungolo continuo di Pio X, che seguì quotidianamente i lavori, intervenendo in ogni loro fase, fino alla morte, avvenuta nell'estate del 1914. Si deve a lui anche l'imposizione della strada da seguire — la codificazione piuttosto che la compilazione — con una perentoria lettera autografa alla commissione cardinalizia, orientata invece verso l'altra soluzione.

* * *

Quali sono le novità di questo studio? Tralasciando il terreno strettamente giuridico, se ne individuano due.

Fantappiè pone il rinnovamento del diritto canonico al centro della Chiesa del tempo, dimostrando che il Codice fu l'asse di equilibrio attorno al quale il cattolicesimo ritrovò la propria identità.

La valutazione del pontificato di Pio X – apparso spesso, finora, un momento di stasi o addirittura di regresso a causa della condanna del modernismo – ne esce rovesciata. Non la volontà di condanna ma l'istanza riformatrice e modernizzatrice mosse il suo decennio, un'istanza talmente energica che il papa preferì gestirla attraverso la propria segreteria privata, la ben nota "segreteriola", piuttosto che con gli organismi curiali.

Le pagine dense e meditate dell'autore hanno il merito di ricordarci che la storia è sempre complessa, che gli anni di inizio Novecento – sottotono sul piano teologico ma straordinariamente creativi su quello giuridico – posero le premesse per la modernizzazione della Chiesa sul piano associativo, sociale, politico, internazionale.

Dalla soppressione del diritto di veto, alla riforma del conclave, dalla riorganizzazione dei seminari al ripensamento della struttura parrocchiale, diocesana e missionaria, dal rinnovamento catechetico al rifacimento della curia e di tutti gli organi centrali di governo, il pontificato di Sarto rappresentò un ciclone riformatore quale raramente era apparso nell'intera storia del papato. Un ciclone che ebbe l'effetto di universalizzare il diritto della Chiesa, di rafforzarne a tutti i livelli l'uniformità disciplinare e operativa proprio mentre era in arrivo la stagione dei totalitarismi e si profilava all'orizzonte la globalizzazione. Senza il Codice, che avviò il dibattito sullo statuto internazionale della Santa Sede e la ripropose di fronte allo Stato come interlocutore alla pari, non sarebbero stati possibili i concordati degli anni Venti e Trenta.

Certo, come in tutte le grandi riforme, molto si acquisì e qualcosa si perdette. La centralizzazione romana, la verticalizzazione dell'autorità, la formalizzazione della vita di fede mortificarono il dinamismo dei carismi. Ma nel medesimo tempo confermarono con la massima energia che la Chiesa è istituzione pubblica e non privata, che essa si pone di fronte allo Stato come entità autonoma e pienamente sovrana.

Il basso profilo politico di tutto il pontificato di Giuseppe Sarto – con la messa in sordina della "questione romana", delle rivendicazioni territoriali e del "non expedit", cioè del divieto ai cattolici italiani di partecipare alle elezioni politiche – fanno parte di questa strategia, volta a dar forza alla Chiesa "ad intra" più che "ad extra", a restituirle ruolo e prestigio non sul piano dell'immediatezza politica ma su quello ben più solido e duraturo del diritto, della fondazione giuridica.

La seconda novità riguarda, più in generale, la periodizzazione della riforma nella Chiesa novecentesca.

Il momento di trasformazione e di stacco dal passato viene generalmente individuato nel Concilio Vaticano II, con accentuazioni più o meno decise a seconda delle diverse scuole storiografiche.

Senza nulla togliere al valore dell'evento conciliare, le argomentazioni di quest'opera dimostrano che una svolta non meno importante avvenne all'inizio del Novecento con la codificazione pio-benedettina del diritto canonico. Evento che fu molto più del solo fatto giuridico. Esso tagliò i legami con l'"ancien régime", rinnovò e centralizzò a tutti i livelli le forme del governo ecclesiastico, ricreò l'autoconsapevolezza e la certezza della Chiesa come istituzione libera, capace di presentarsi nei confronti del mondo quasi nelle forme di un'inedita "statualità delle anime".

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Il libro:

Carlo Fantappiè, "Chiesa romana e modernità giuridica. Vol. I - L'edificazione del sistema canonistico (1563-1903). Vol. II - Il Codex Iuris Canonici (1917)", Milano, Giuffré, 2008, pp. XLVI-1282, euro 110,00.

Come il papa antimodernista volle modernizzare la Chiesa
Sintesi, scritta dallo stesso autore, del saggio "Chiesa romana e modernità giuridica.
Vol. I - L'edificazione del sistema canonistico (1563-1903). Vol. II - Il Codex Iuris Canonici (1917)", Milano, Giuffré, 2008, pp. XLVI-1282

di Carlo Fantappiè
Negli studi sul modernismo cattolico il "Codex iuris canonici" – voluto da Pio X nel 1904 ma completato da Benedetto XV nel 1917 – non è mai stato posto in relazione significativa con l’enciclica "Pascendi" e con l’antimodernismo. In generale, i due eventi non si menzionano neppure come concomitanti, anche se sono stati considerati, da opposti punti di vista, i più importanti nella vita della Chiesa della prima metà del Novecento e hanno dato vita a filoni di studio ingenti e importanti.

Per chiarire i termini di uno dei problemi centrali occorre prima risalire alle premesse ideologiche del Codex, poi individuare le ragioni giuridico-politiche che hanno spinto a realizzarlo e, infine, proporre una re-interpretazione delle scelte operate dalla Chiesa di Pio X nel primo decennio del 900, con particolare riguardo al rapporto tra modernizzazione giuridica e modernismo teologico.

1. Le radici ideologiche del codice canonico vanno rintracciate non in una, ma in due componenti o tradizioni. Da un lato esso trova le sue origini nella cultura intransigente del Vaticano I: non a caso i propugnatori più convinti e coloro che progettarono codificazioni private delle leggi ecclesiastiche tra il 1870 e il 1904 provenivano tutti dagli ambienti ultramontani o “papalisti”. Per questi canonisti la codificazione del diritto comune della Chiesa era un modo per eliminare per sempre i residui di diritto particolare strenuamente difesi dalle chiese nazionali e per affermare, in linea con la "Pastor aeternus", il primato assoluto del papa in tutta la compagine ecclesiastica. Ed era anche un modo per far valere la loro attitudine fortemente critica verso il pensiero giuridico moderno, sulla linea del "Syllabus" e della già ricordata enciclica leoniana "Immortale Dei". Da questa stessa cultura intransigente proveniva papa Sarto, profondamente influenzato dalle opere del cardinal Pie, il vescovo di Poitiers fautore di una “teocrazia spirituale” che, mentre ammetteva l’autonomia propria dello Stato, rivendicava però la necessità che tutta la società si integrasse nell’ordine voluto da Cristo: “Instaurare omnia in Christo”.

Dall’altro lato la codificazione canonica è anche espressione di un agguerrito gruppo di canonisti romani – con alla testa Pietro Gasparri, allora Segretario della Congregazione degli Affari Straordinari – che hanno abbracciato con entusiasmo la modernità giuridica e pensano che, applicata alla Chiesa, essa possa recare grandi vantaggi e nessuna conseguenza negativa. Si tratta, nella grande maggioranza, di studiosi formatisi nel Seminario Romano dell’Apollinare (Lega, Lombardi, Sebastianelli e De Lai, ecc.): istituto formativo da cui usciranno anche due figure straordinarie, allora molto amiche: il capofila del modernismo teologico italiano Ernesto Buonaiuti e Angelo Giuseppe Roncalli, futuro Giovanni XXIII.

Al di là delle differenti prospettive, le due componenti culturali che confluiscono nel codice canonico − quella intransigente e quella modernizzante − si trovano d’accordo nel rifiutare il tradizionale metodo legale delle collezioni canoniche, usato ufficialmente dalla Chiesa fin dal XIII secolo, e sulla opportunità di innovare il metodo codificatorio, secondo il modello dei codici ottocenteschi a cominciare dal Codice civile napoleonico.

2. Questo fatto ci deve far riflettere sulla valenza della codificazione canonica in rapporto alla modernità. Il primo aspetto emergente è indubbiamente costituito dall’esigenza di contrasto politico della Chiesa nei confronti dello Stato liberale e delle sue pretese di assoggettare in tutto l’organizzazione ecclesiastica al proprio ordinamento. La Chiesa di Roma non è affatto disposta ad accettare il ruolo secondario, derivato, puramente integrativo a cui lo Stato tardo ottocentesco intende confinarla e relegarla, specialmente dopo la fine del potere temporale, che rappresentava pur sempre una espressione di autarchia. Essa rivendica una posizione di equivalenza e, al tempo stesso, di superiorità morale nei confronti di esso. Perciò decide di rispondere dialetticamente alla sfida giuridico-politica della forma “Stato” utilizzando quel medesimo strumento giuridico che fino ad allora era servito ad esso per negare i diritti e i privilegi ecclesiastici: la forma “codice” in senso moderno. L’opposizione originaria tra Stato e Chiesa si trasforma così in un contrasto storico perché la Chiesa accetta di porsi sullo stesso piano dello Stato, di autocomprendersi non solo secondo la concezione teologico-sacramentale ma anche secondo le categorie giuridiche proprie del modello statuale. Da questo punto di vista la codificazione canonica si può interpretare come l’ennesima espressione del movimento pendolare di imitazione reciproca e di conflitto dialettico del potere temporale nei riguardi del potere spirituale e, viceversa, del potere spirituale nei riguardi del potere politico. Tale paradigma interpretativo, elaborato per l’età medievale da P.E. Schramm e da E.H. Kantorowicz,viene oggi riproposto da Harold J. Berman e Paolo Prodi.

Il secondo aspetto su cui occorre richiamare l’attenzione è che, nel progetto di Pio X, sussiste una stretta connessione di metodo e di materia tra la codificazione canonica, la riforma delle strutture centrali e periferiche della Chiesa, le innovazione negli altri ambiti della sua attività. In altri termini la dialettica di imitazione/contrasto sopra ricordata investe non solo il modo di autocomprendersi ma anche il modo di organizzarsi della Chiesa. Portando a compimento il modello burocratico e centralizzato del concilio di Trento, papa Sarto ha attuato una vasta riorganizzazione dell’intera compagine ecclesiastica.

Si pensi alla riforma della Curia come complesso organico di dicasteri divisi per competenze amministrative o giudiziarie, alla separazione e razionale distribuzione di funzioni tra i vari organi rappresentativi della Chiesa (Santa Sede, Curia romana, Corte papale, con la riforma degli ordini equestri pontifici, Vicariato), al progetto di riordino e di riduzione delle diocesi in Italia, alla razionalizzazione dell’istruzione del clero e alla concentrazione delle sedi dei seminari, al progetto di catechismo universale quale testo unico per la dottrina cattolica, alla riforma dei libri liturgici per uniformare riti e preghiere in tutto l’orbe cattolico, alla legislazione unitaria in materia di canto e musica sacra, alla fondazione dell’Azione cattolica per promuovere e controllare l’apostolato dei laici.

Tutti questi interventi tendono, per un verso, a unificare, uniformare, concentrare e livellare le varie dimensioni della Chiesa in modo non dissimile da quanto attuato per la disciplina in sede di codificazione, per una altro, a attuare quella che Max Weber in quegli stessi anni definiva la “razionalizzazione burocratica della struttura di potere della Chiesa”.

3. Ciò che precede mostra quanto sia inadeguato e fuorviante continuare ad inquadrare il pontificato di Pio X sotto la categoria della restaurazione ecclesiastica e a pensare che tutta la sua azione di governo sia dominata dalle dinamiche interne alla Chiesa. A mio avviso esso si configura piuttosto come una modernizzazione restauratrice che tiene non meno conto dell’incidenza della competizione con gli Stati. Inoltre il suo atteggiamento di rifiuto radicale del modernismo teologico anziché essere interpretato come il rifiuto della modernità tout court o come la manifestazione della sua modesta apertura culturale, va ricondotto a un progetto politico-religioso che è frutto del confronto dialettico col mondo moderno. Per quanto possa apparire paradossale, papa Sarto si mostra un convinto fautore della trasposizione dei meccanismi di razionalizzazione giuridica e amministrativa propri dello Stato liberale nell’organizzazione e nelle attività della Chiesa. Le tecniche e prassi statuali compatibili o adattabili al governo ecclesiastico sono accolte e impiegate sia per consolidare dall’interno, sia per rafforzare all’esterno la compagine ecclesiastica nel duro confronto con la compagine statuale.

Ammesso questo presupposto generale, nella riflessione storiografica occorre allora spostare il baricentro del pontificato di Pio X dalla condanna e repressione del modernismo alla difesa della libertà e alla riforma della Chiesa e, di conseguenza, vedere nella "Pascendi" non tanto un atto estremamente rilevante, quanto una decisione cruciale in rapporto al complessivo controprogetto riformatore di Pio X.

In quest’ottica si dovrebbero ri-definire i termini del contrasto Chiesa/modernità statuale e Chiesa/modernismo teologico come varianti strutturali interne della dimensione modernità tout court. Proprio perché Pio X combatte strenuamente la modernità filosofico-politica ponendosi sul suo stesso piano preferito − quello giuridico, istituzionale, burocratico −, egli non è totalmente fuori di essa, ma ne è, in certo modo, parte integrante. In altri termini ci troviamo di fronte ad un contrasto intraecclesiastico che non si origina tanto dall’opposizione al moderno sic et simpliciter, ma a determinate tipologie e modalità della modernità storicamente determinata. Si tratta allora di ricollocare i diversi atteggiamenti nell’intricato gioco dialettico che lega ‘modernità’ e ‘antimodernità’.

4. Pio X rappresenta la posizione della modernità giuridica; i modernisti condannati dalla "Pascendi" rappresentano, invece, la posizione della modernità filosofica. In Pio X il rifiuto della modernità filosofica, di cui era espressione la teologia protestante liberale e quella modernista cattolica, non pregiudica l’accettazione strumentale della modernità statuale e in particolare della sua forma politico-giuridica. Viceversa nei modernisti l’accoglimento di alcuni canoni fondamentali della cultura moderna (quali il soggettivismo e lo storicismo) conduce al rifiuto della modernità giuridico-istituzionale trasposta nella struttura della Chiesa. Non a caso i filosofi e teologi modernisti rifiutano lo schema teorico della Chiesa "societas iuridice perfecta" e si oppongono compatti a tutte le riforme del papato dirette a rinsaldare l’assetto della Chiesa secondo il modello legalistico, centralistico e burocratico degli Stati di fine Ottocento.

Nella grande frattura determinatasi nella chiesa cattolica agli inizi del secolo XX non vi sono stati due schieramenti compatti di fronte ai processi di modernizzazione della società europea, di cui uno a favore e l’altro contrario, ma differenti tipologie di modernizzazione della Chiesa.

La linea scelta da Pio X è quella della modernizzazione giuridico-istituzionale secondo il modello statuale allora ritenuto culturalmente compatibile con la natura teologica della Chiesa. La linea scelta da coloro che sono stati esclusivamente definiti modernisti è stata, invece, quella della modernizzazione filosofico-teologica secondo il modello della concezione filosofica immanentistica allora ritenuto compatibile con la dogmatica teologica cristiana.

Ambedue risultano derivare dal comune presupposto della razionalizzazione formale e materiale, messa in luce da Max Weber, anche se ne sviluppano postulati e princìpi in ambiti diversi. Nel caso del modernismo teologico questi sono rappresentati dal rifiuto della metafisica, dall’accettazione della visione soggettivistica e agnostica, dall’affermazione del primato della vita sulla conoscenza; alle radici della modernità giuridico-politica troviamo la logica umanistica, le categorie antropologiche del giusnaturalismo secolarizzato e astratto, il sistema deduttivo wolffiano. In questo senso la codificazione può essere vista come epitome della modernità giuridica della Chiesa; la concezione societaria e giuridica della Chiesa come la teologia politica del cattolicesimo opposta al protestantesimo e al modernismo.

Sullo sfondo dell’orizzonte storico non sembra fuor di luogo stabilire un parallelismo strutturale tra la dialettica “restaurazione” e “riforma” che contraddistingue il pontificato di Pio X nei confronti del rapporto tra Chiesa e modernismo e la dialettica “riforma” e “controriforma” che aveva connotato i pontificati di Pio V, Gregorio XIII, Sisto V nei confronti del rapporto tra Chiesa e protestantesimo. Come Wolfgang Reinhard ha parlato di rinnovamento conservatore per il papato riformatore del XVI secolo, allo stesso modo, e per le stesse ragioni, credo si possa parlare di modernizzazione restauratrice per il papato della prima metà del XX secolo.

Forse è giunto il momento di mettere in dubbio l’a priori ideologico, ancora molto radicato nella storiografia, tendente a identificare il modernismo con la modernità e l’antimodernismo con la conservazione. Forse è stata finora molto sottovalutata l’enorme spinta modernizzatrice che è provenuta dalla cultura cattolica intransigente o da quella che lo studioso tedesco Friedrich Wilhelm Graf la chiamato la “forza di rendimento della modernità conservatrice” su molti piani dell’azione della Chiesa e del movimento cattolico dagli inizi dell’Ottocento fino alla metà del Novecento. Oltretutto non ci si è accorti che la persistenza di questo pregiudizio interpretativo ha impedito di comprendere gli elementi di continuità tra l’azione di Pio X e le molteplici iniziative concordatarie, sociali, culturali, religiose realizzate, nei decenni successivi, da Pio XI e da Pio XII, in un rapporto non univoco ma sempre dialettico con la modernità.

Tuttavia le forme di modernizzazione ecclesiastica sopra evocate hanno pagato, nei campi dove sono stati applicati, un alto tributo culturale. Il razionalismo astratto che ha pervaso la corrente neotomista ha reso impossibile la comprensione dei problemi emergenti dalla storia (esegesi, dogma, morale) e ha impostato in termini positivistici l’apologetica tradizionale; il modernismo giuridico-istituzionale ha finito per accogliere aspetti del positivismo giuridico trasformando il diritto canonico codificato in una imitazione del diritto civile e la Chiesa-società politicamente sovrana in un’imitazione del dogma della personalità dello Stato. In ambedue i casi i danni di questa fase di scontro/confronto con la modernità sono stati gravi e duraturi.

La razionalizzazione teologica e giuridica della Chiesa ha modificato il paradigma del cattolicesimo novecentesco almeno fino al concilio Vaticano II almeno su quattro aspetti: 1) una più forte “centralizzazione” della legislazione e degli organismi di governo della Chiesa; 2) un accentuato processo di “romanizzazione” della chiesa universale in vista di un forte ricompattamento delle chiese particolari sul modello organizzativo, disciplinare, liturgico, della chiesa di Roma; 3) una rinnovata forma di “giuridificazione” che attribuisce alla disciplina e al diritto canonico un ruolo preponderante e strategico nella struttura e nella dinamica della chiesa romana; 4) una decisa tendenza verso una “concezione oggettivistica” della fede che, in polemica con le correnti soggettivistiche, immanentistiche, storicistiche e romantiche, esalta l’aspetto autoritativo, estrinseco, veritativo dei contenuti della fede e delle realtà sacramentali.


Dossier Libertas Ecclesiae
Redazione04/05/2008
Autore(i): Redazione. Pubblicato il 04/05/2008 – da IlSussidiario.net
ilsussidiario.net ha deciso di dedicare una serie di approfondimenti al concetto di Libertas Ecclesiae, in tutte le sue sfaccettature: sia nell’attualità politica, sia nelle sue radici storiche, filosofiche e giuridiche.
05/05/2008 Ezio Mauro: il ruolo pubblico della fede è «la grande questione della contemporaneità» (Intervista a Ezio Mauro)
05/05/2008 Laicità, “processo di argomentazione sensibile alla verità” (Stefano Alberto)
05/05/2008 «Libertas Ecclesiae»: un diritto inalienabile perché naturale (Alfredo Valvo)
30/04/2008 La «libertas Ecclesiae», vero confine al totalitarismo moderno (Mons. Luigi Negri)
30/04/2008 Libertà di espressione, ma senza privilegi (Intervista a Stefano Rodotà)
17/04/2008 La «libertas Ecclesiae», principio laico e liberale (Intervista a Pietro Ostellino)
17/04/2008 Il carisma della Chiesa, fondamento di vera libertà (Salvatore Abbruzzese)
17/04/2008 Nell'Europa della solitudine e del tradimento, l'esperienza dell'Altro (Gianfranco Dalmasso)
04/04/2008 Il rapporto con il potere, dramma storico per la Chiesa (Intervista a Ernesto Galli della Loggia)
04/04/2008 In una società realmente laica la Chiesa è libera di esprimersi (Giorgio Feliciani)


Festa non per gente pia ma dell’uomo libero
Avvenire, 14 maggio 2008
DAVIDE RONDONI
Se la vita non fosse un cammino, sarebbe uno strano muoversi a vanvera. Di solito si pensa che il cristianesimo aggiunga delle cose in più, dei pesi strani e insopportabili alla vita che di per sé è quasi sempre una fatica. Invece la fede svela l’essenziale. Ad esempio che la vita è un cammino. E che ogni viaggio, per non essere una sola fuga dalla noia, presuppone una meta. L’uomo libero è l’uomo che si sente in cammino. Solo chi pensa di essere schiavo cammina o corre per fuggire, non importa quale sia la meta. Come tanti viaggiatori di oggi. Altri, invece, che desiderano una libertà più grande, si mettono in viaggio, non sapendo bene dove andare ma, come i personaggi di On the road
di Jack Kerouac, sapendo che bisogna andare. La letteratura e il cinema anche dei nostri tempi sono pieni di questi viaggiatori inquieti e pieni di desiderio. Da Enea a Dante, fino al camminatore Rimbaud o Campana.
L’uomo è fatto per andare verso il suo destino.
Per questo oggi si celebra la IV Giornata del Pellegrino. Non è una festa per gente pia. È la vera festa dell’uomo libero. A Roma una manifestazione ha portato la statua della madonna di Fatima (è pure la sua festa) e l’ha fatta sostare nel punto di Piazza San Pietro dove il 13 maggio di ventisei anni fa qualcuno provò a fermare con violenza vile il grande viandante, il grande pellegrino Giovanni Paolo II. Nel corso della manifestazione sono arrivati pellegrini da vari punti del mondo, erano presenti il sindaco di Roma e i presidenti di Provincia e Regione, uomini che vengono da punti diversi della politica. I pellegrinaggi stanno conoscendo una nuova, inaspettata fortuna. Le ideologie e le filosofie che volevano fermare l’uomo, chiuderlo in una prigione dove al massimo è consentito immaginare un destino grande come il suo cuore, non hanno potuto fermarlo. Difficile trovare un posto sugli aerei per Lourdes. In Sardegna si celebrano cent’anni della devozione pellegrina alla Madonna di Bonaria, che arrivò dal mare. È cresciuta negli anni la folla che si reca a piedi dalla Madonna Nera, madre di Polonia. In Terra Santa, nonostante le tensioni dell’area, aumenta il numero dei pellegrini. In Turchia i cristiani aspettano con passione che sulle orme di San Paolo riprendano i pellegrinaggi in quelle zone. E in Italia, il 7 giugno, da Macerata partirà il più imponente pellegrinaggio a piedi verso la sua patrona, a Loreto. Pieno di giovani e di gente di ogni genere. Compiere un pellegrinaggio è un gesto, non è un pensiero. Una cosa semplice, che viene compiuta da peccatori e da santi, da gente con grande fede e da gente in ricerca.
Con questo gesto i cristiani di sempre hanno educato la loro esistenza a concepirsi interamente come un viaggio, come un cammino. Così come tutti gli uomini desiderano. Nessuno vuole che il tempo sia solo un arco sospeso dal niente al niente. E anche chi professa in modo superbo e ambiguo tale concezione dell’esistenza, in realtà si affida poi alla soddisfazione di tanti cammini particolari. Si parla non a caso di 'carriera', cioè di fare strada. E si magnificano i 'progressi' della scienza e della tecnica, ritenendo dunque di essere in una specie di cammino. Il linguaggio sportivo magnifica il superamento dei record, cioè dello spostamento più in là della meta. Si dice 'cadere' malati come una interruzione di cammino. Il gesto del pellegrinaggio richiama gli uomini a ritenere anche tutti quei viaggi nei particolari ambiti dell’esistenza segni e tappe dell’unico grande viaggio della vita, alla cerca del volto buono del Mistero, padre di tutte


PARADOSSALE RAGIONAMENTO DI FRANCESCO MERLO SU «REPUBBLICA»
L’inarrestabile estinzione delle balene? Naturalmente colpa dei preti
Avvenire, 14 maggio 2008
MARINA CORRADI
Chirurghi famosi che mandano sms osceni a tredicenni, calciatori che raccattano travestiti, perfino «politici per bene e di sinistra» tentati dai transessuali. Su
Repubblica
l’editoriale di Francesco Merlo è sbigottito come, un tempo, avrebbe potuto esserlo una dama di carità che avesse trovato sotto casa un postribolo. «L’aberrazione – lamenta Merlo – è diventata normalità». Ma
Repubblica
non è giornale che possa fermarsi a una così superficiale analisi della situazione. Occorre andare a fondo, sviscerare le questioni in tutti i loro dietrologici recessi. Dunque, si chiede Merlo, perché accade che gli italiani, da innocenti cacciatori di vichinghe sull’Adriatico, son diventati dei – parole sue – «sordidi viziosi»? La risposta è una rivelazione. È colpa della Chiesa – in particolare del Papa, di Bertone e di Ruini. Sì, «apparentemente», ammette Merlo, certe storie non c’entrano niente con Pontefice e cardinali. Ma solo a uno sguardo distratto. E va a svelare l’occulto legame da par suo. Allora: c’erano una volta da un lato appunto i cacciatori estivi di nordiche e dall’altro il genio trasgressivo di Pasolini. Oggi, lamenta Merlo e fin qui non si può dargli torto, di genii ce n’è pochi, ma la trasgressione è di serie. Perfino, ahimè, fra i politici «di sinistra e perbene». Merlo, uno che si dice «laico e senza ideologie», davanti a queste storie rimane «a bocca spalancata». Poi, c’è un passaggio logico un po’ affrettato. «Ebbene, una parte della responsabilità ce l’ha sicuramente quel laboratorio di Frankenstein che è stato ed è tornato ad essere il neointegralismo cattolico». E perché?
«Da una parte c’è il fuoco del divieto e dall’altro quello del vizio, da un lato la dottrina infuocata e dall’altro la società infoiata», argomenta finemente il giornalista. Sotto il fuoco della repressione cattolica gli italiani, conclude agile Merlo, vanno a fare i turisti sessuali in Thailandia. Il lettore chiude la pagina perplesso. Ma a cercare ragazzini in Asia, ci andranno solo gli italiani? E i nordici, e i tedeschi che affollano la spiaggia di Pukhet, e gli americani? Quelli il laboratorio di Frankenstein in casa non ce l’hanno, che ci fanno in Thailandia? E il Belgio, con le sue tragedie di pedofilia, è famoso forse per l’assiduità dei cittadini in parrocchia? Come mai, se la causa della perversione è questa pretesa dottrina «infuocata», certe storie allignano in tutto l’Occidente, e non solo? Anni fa a Stoccolma a un congresso dell’Onu sentimmo elencare le cause probabili del diffondersi delle aberrazioni. Si disse della nuova autonomia della donna, che spinge alcuni uomini deboli a cercare soggetti più 'docili'. Della diffusione massiccia di pornografia e pedofilia su Internet. E del meccanismo della ricerca di sempre nuove emozioni: come la droga, il vizio vuole ogni volta qualcosa di più forte.
(Del Vaticano, a dire il vero, non si fece parola). Invece da sue personali fonti Merlo ha appreso la verità. Gli italiani ascoltano il cardinale Ruini in tv, e per reazione escono a vedere chi c’è di nuovo sui marciapiedi della circonvallazione.
Sentono un monito del Papa, e prenotano un last minute per soli uomini a Cuba. Colpa, è evidente, dell’oscurantismo cattolico­sessuofobico- bigotto. (D’altronde, quando ci si dimentica di quell’antico male cui siamo tutti naturalmente inclini, un colpevole bisogna pure trovarlo, e additare indignati il fattore di corruzione di un’umanità che di per sé sarebbe 'naturalmente' buona).
Attendiamo ora la prossima puntata.
Cosa avremo fatto ancora, noi cattolici? Il buco nell’ozono, la desertificazione dell’Africa sub Sahariana: a prima vista, non c’entriamo. Ma qualche vigile penna laica e non ideologica, ne siamo certi, non tarderà a svelare l’ombra del Vaticano dietro alla inarrestabile estinzione delle balene.