mercoledì 7 maggio 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) La conversione di Magdi Allam, dall'infanzia in Egitto al rito in San Pietro - Una vita per diventare cristiano
2) L’attacco a Israele? Frutto di una cultura nichilista, che esclude il senso religioso dalla società
3) IL DEMONE DELLA VIOLENZA
4) Quando i turbanti di Persia rendono omaggio al pastore di Roma
5) La Chiesa riconosce le apparizioni mariane avvenute a Laus, sulle Alpi francesi.
6) L’EMERGENZA UMANITARIA SFIDA LA POLITICA


La conversione di Magdi Allam, dall'infanzia in Egitto al rito in San Pietro - Una vita per diventare cristiano
Il giornalista racconta in un saggio autobiografico le ore decisive che hanno segnato la conquista della nuova fede
di MAGDI CRISTIANO ALLAM
È stato il giorno più bello della mia vita. Ricevere il dono della fede cristiana nella ricorrenza della Risurrezione di Cristo per mano del Santo Padre è un privilegio ineguagliabile e un bene inestimabile. Per me, all'età di quasi 56 anni, è un fatto storico, unico e indimenticabile, che segna una svolta radicale e definitiva rispetto al passato. Nella notte del 22 marzo 2008, ricorrenza della Veglia Pasquale, durante la solenne liturgia celebrata nella magnificenza della Basilica di San Pietro, culla della cattolicità, sono rinato in Cristo. Dopo un lunghissimo travaglio vissuto da musulmano per un'eredità acquisita dai genitori e con una storia personale di dubbi, lacerazioni e tormenti, si è accesa in me per volontà divina e per scelta responsabile la luce della vera fede cristiana. La metamorfosi spirituale si è compiuta, a partire dalle 21, nel corso di tre ore che mi sono parse interminabili, trascorse con un'emozione incontrollabile, tradita esteriormente dai nervi a fior di pelle, per la radicalità del processo esistenziale che si stava realizzando dentro di me e, in parte lo ammetto, per il freddo che ha preso il sopravvento su di me e mi ha accompagnato sin dall'inizio della grandiosa cerimonia nell'atrio della Basilica, accompagnato dalla pioggia e da una temperatura rigida.
Dentro la Basilica le luci erano spente. Io mi trovavo all'esterno, insieme ad altri sei catecumeni, adulti in attesa di ricevere i sacramenti d'iniziazione cristiana, seduto nella parte del sagrato più esposta al vento. E proprio in quel freddo umido, che abitualmente mi rende un po' agitato e mi impone una maggiore concentrazione per ascoltare, riflettere, valutare ed elaborare i concetti, ho cominciato a rivivere il film della mia vita interiore. Mezzo secolo da ripercorrere a ritroso fotogramma dopo fotogramma, sezionati con il bisturi talvolta impietoso e talaltra misericordioso della religione, con la debita calma per avere l'ultimissima riconferma inconscia di una decisione già assunta consciamente e, al tempo stesso, con la fretta necessaria a ricomporre la cornice complessiva della mia esistenza in un quadro armonioso in grado di accogliere felicemente l'immagine dell'Evento lungamente atteso e ormai sul punto di realizzarsi, rileggendo e reinterpretando il passato e ridefinendo e rivoluzionando il futuro. (...) Dall'atrio Benedetto XVI ha guidato la processione dirigendosi verso l'altare, dopo che il diacono cantando per la terza volta il Lumen Christi ha fatto risplendere le luci della Basilica.
È iniziata così la fase decisiva della mia conversione al cristianesimo, a cui ero evidentemente chiamato dalla grazia divina che mi aveva accompagnato sin dalla più tenera età, facendomi incorrere in una serie di "casi" rivelatisi tutt'altro che fortuiti, che in realtà celano la volontà del Signore che discretamente ci viene incontro pur senza farci rilevare la sua presenza. Attraversando lentamente la navata centrale in coda al corteo, ho rievocato in un momento il fatto saliente da cui prese origine un percorso di spiritualità interiore che, a partire dall'età di quattro anni, sfocerà oltre mezzo secolo dopo nella conversione in Cristo. Era il settembre del 1956. Ho ancora fisso nella mente il giorno in cui iniziò il mio lungo travaglio con un pianto fragoroso quando mia madre Safeya, aiutata e persuasa dalla famiglia presso cui lavorava, i Caccia, facoltosi imprenditori tessili italiani residenti da generazioni al Cairo, la mia città natale, mi consegnò nelle mani di suor Lavinia, che mi infilò sotto la sua veste affinché non assistessi alla partenza della mamma, affidandomi così all'educazione e all'affetto delle religiose comboniane devote a San Giuseppe. Successivamente, dalla quinta elementare fino all'ultimo anno della maturità scientifica studiai presso i salesiani dell'Istituto Don Bosco.
Per 14 anni ho vissuto da interno in collegio nelle scuole gestite da religiosi italiani cattolici (...) Ho potuto toccare con mano la realtà di donne e uomini che avevano scelto di votare la loro vita a Dio in seno alla Chiesa servendo il prossimo, indipendentemente dalla sua religione e nazionalità, e che testimoniavano la loro fede cristiana tramite opere volte alla realizzazione del bene comune e dell'interesse della collettività. Lì cominciai a leggere con interesse e partecipazione la Bibbia e i Vangeli rimanendo particolarmente affascinato dalla figura umana e divina di Gesù. Ebbi modo di frequentare la chiesa di San Giuseppe situata di fronte alla scuola delle suore comboniane, e quella di Don Bosco interna all'Istituto salesiano. Di tanto in tanto assistetti alla santa messa e una volta capitò che mi avvicinai all'altare e ricevetti la comunione. Fu un gesto che, da un punto di vista religioso, non aveva significato dal momento che non ero battezzato ma evidentemente segnalava la mia attrazione per il cristianesimo e la mia voglia di sentirmi parte della comunità cattolica. (...) La mia conversione non è stata affatto né un colpo di fulmine conseguente a un evento traumatico gioioso o triste che sia, così come non è stata per nulla una mera adesione razionale scaturita dalle letture dei testi sacri o dal confronto puramente intellettuale con chi è a favore o chi è contrario alla fede cattolica.
È stata invece il frutto maturo di un lungo percorso di vita vissuta, fatta di studio e di conoscenza diretta delle fonti del sapere ma, soprattutto, di esperienze di incontro con l'altro che hanno coinvolto tutto me stesso, sedimentando pian piano nel mio animo e nella mia mente strati sempre più consistenti di adesione spirituale e razionale all'amore e alla fede in Gesù. (...) Infine è giunto il momento decisivo del Battesimo. Stavo rinascendo in Cristo, mi apprestavo a fare i primi passi da autentico cristiano. Mi sono alzato e diretto al fonte battesimale, accompagnato dal padrino. Per la prima volta mi sono trovato davanti a Benedetto XVI. Ero consapevole che proprio in quell'attimo si stava realizzando il destino che la grazia divina mi aveva assegnato 56 anni prima, sin dalla mia nascita. Mi sono inchinato con il rispetto e l'umiltà del fedele che crede nel primato religioso del Papa, quale vicario di Cristo in terra. Mi sono avvicinato al fonte, ho abbassato il capo e Benedetto XVI mi ha fatto colare sulla testa l'acqua benedetta: «Io ti battezzo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo». (...)
La fase immediatamente precedente e il momento stesso del mio battesimo li ho vissuti come un'autentica liberazione. Per 56 anni ho percepito me stesso come musulmano e, tutt'attorno a me, gli altri mi hanno individuato come un musulmano. A 56 anni sono rinato da cristiano azzerando l'identità islamica che ho consapevolmente e volutamente rinnegato. Dentro e fuori di me tutto cambierà. Nulla sarà più come prima. Per chi, come me, considera la fede religiosa e la sfera dei valori assoluti, universali e trascendenti come il fondamento della vita, del pensiero e dell'azione, l'adesione al cristianesimo si traduce in un cambiamento radicale dell'insieme della personalità e dell'esistenza. Certamente ci vorrà del tempo affinché questa adesione alla fede in Gesù sia sempre più piena e partecipe. Mi sento come un bambino che sta sperimentando i primi passi della sua nuova vita cristiana. Ma la voglia di camminare e di correre da cristiano è tanta! Grazie Gesù.
Dal libro di Magdi Cristiano Allam «Grazie Gesù. La mia conversione dall'islam al cattolicesimo» (Mondadori, pagine 204, e 18), pubblichiamo alcuni brani dal primo capitolo, «Il mio battesimo». Il libro sarà disponibile nelle librerie a partire dal 9 maggio e l'autore lo presenterà alla Fiera del libro di Torino domenica 11 maggio, nella Sala dei 500, alle 15.30


L’attacco a Israele? Frutto di una cultura nichilista, che esclude il senso religioso dalla società
Claudio Morpurgo07/05/2008
Autore(i): Claudio Morpurgo. Pubblicato il 07/05/2008 – IlSussidiario.net
Israele ha sessant’anni.
Sessant’anni di una intensità incredibile. Ogni giorno, dal 1948, è stato un giorno di lotta per la vita, quasi un compleanno celebrato di continuo. Israele ha rischiato, e forse ancora rischia, di scomparire come nessun altro stato nel mondo. I suoi nemici sono stati - e sono - insidiosi, subdoli, sempre più pericolosi, nel loro dissimularsi. Molti paesi, ancora, non riconoscono l’esistenza di Israele; ci sono leader, come il presidente iraniano Ahmadinejad, accreditati nello schacchiere internazionale che ne postulano quotidianamente e impunemente la distruzione.
Nonostante questo, però, Israele è un inno alla vitalità.
Dopo guerre, polemiche, tragedie, morti in ogni famiglia, Israele, nel 2008, è forte, un esempio concreto verso il quale guardare. Dal deserto è fiorito un sistema agricolo di eccellenza, dal nulla è emerso un modello economico realmente competitivo, dai soli ingegni degli israeliani è scaturita una realtà accademica e di ricerca all’avanguardia. Non c’è settore nel quale Israele non sia portatore di un messaggio originale: gli scrittori israeliani, i musicisti, gli artisti, gli uomini di cultura hanno mostrato una “via israeliana”, un’impostazione del tutto particolare e riconoscibile. Israele è una democrazia giovane, giovanissima, ma è quanto mai solida, strutturata, innovativa. Israele è - e rimane - l’unica democrazia del Medio Oriente, attorniata da regimi dittatoriali e totalitari, dove i diritti umani, civili e politici non trovano alcun riconoscimento.
Anche sul piano sociale, Israele rappresenta uno straordinario riferimento, al cui interno va realizzandosi una autentica multiculturalità, fondata sull’incontro di tradizioni, esperienze tra loro diverse.
Ma perché la celebrazione del sessantesimo dello stato ebraico crea, accanto a tanta ammirazione, pure così forti polemiche? Perché, per esempio, si sono scatenate polemiche così violente alla Fiera del libro di Torino? Perché si bruciano bandiere di Israele? Perché, assai spesso, parlare di Israele genera divisioni, conflitti?
Per dare una risposta non possono bastare considerazioni politiche, legate al diritto, non ancora realizzato, del popolo palestinese di avere una sua – assolutamente giusta – autonomia nazionale. In realtà, parlare di Israele, anche irrazionalmente, vuole dire attivare sentimenti, memorie, considerazioni, passioni che nessun altro stato nel mondo è in grado di toccare.
Ed è per questa ragione che la deligittimazione di Israele rappresenta senza dubbio un male pericolosissimo del nostro mondo, perché si propone, in fondo, di minare valori essenziali per l’intera collettività.
Israele è, infatti, l’emblema vivente, il laboratorio culturale di riferimento di una sfida costante per la laicità, l’interculturalità, il riconoscimento della centralità della persona e dei suoi diritti inviolabili. Il carattere democratico dello Stato ebraico è la garanzia di questi principi in un’area dove ogni forma di libertà è invece assente.
L’attacco ad Israele rappresenta dunque una modalità subdola e pericolosissima di disconoscere l’essenzialità nel mondo di oggi dei valori che invece Israele veicola quotidianamente, con coraggio e abnegazione. Valori che riguardano ognuno di noi, in Medio Oriente, come in Italia, in Europa e nel mondo.
Allo stesso modo, è in atto un’ulteriore battaglia, forse ancora più ambigua, che chi delegittima Israele conosce alla perfezione.
Israele costituisce infatti una componente essenziale della nostra storia di italiani ed europei.
La nascita dello Stato ebraico è avvenuta dopo la barbarie della Shoà e il legame non è mai stato reciso, non può esserlo. Israele è parte di noi, è il simbolo di quella cultura giudaica che, insieme a quella cristiana, è la base culturale dell’Europa.
Ecco perchè l’attacco a Israele che soprattutto una certa sinistra continua a riproporre ha uno scopo ben definito legato ad affermare una visione culturale nichilista, laicista, finalizzata ad escludere il senso religioso e il diritto di essere autenticamente se stessi dal modello sociale di convivenza.
Si tratta di una operazione culturale che deve essere combattuta, senza tentennamenti o ambiguità. Anche perchè il diritto all’esistenza di Israele, con tutto ciò che rappresenta in termini identitari, è realmente minacciato in questa epoca.
Di fronte ad uno scenario tanto grave, non si può tacere ma bisogna tutti insieme responsabilizzarsi. Difendere Israele, significa, sia rendere più forti anche noi nelle nostre case e nelle nostre vite individuali, sia riconoscere l’essenzialità di determinati valori identitari di libertà.



IL DEMONE DELLA VIOLENZA
Per la prima volta nella storia, in Europa non ci sono guerre fra Stati da oltre sessant’anni, eppure l’aggressività riemerge ciclicamente…
di Michele Brambilla
Chissà da quale profondo mistero arriva la violenza che porta cinque ragazzi a massacrare un uomo di 29 anni solo perché si è rifiutato di dar loro una sigaretta. Certo non arriva dai facili schemi con cui da un paio di giorni si cerca di spiegare l’accaduto: il fascismo, il razzismo, la Verona leghista. Sono tempi in cui la politica cerca di strumentalizzare ogni cosa, e in questo non ci sono innocenti né a sinistra né a destra. Ma davvero dovrebbero esserci dei limiti per rendere improponibili certe dichiarazioni che offendono più l’intelligenza di chi le pronuncia che quella di chi le ascolta. Un ex ministro come Paolo Ferrero ha tirato in ballo perfino la recente campagna elettorale: «I linguaggi bellici e le discriminazioni possono portare voti ma seminano odio». E purtroppo anche Veltroni, che è un uomo intelligente e solitamente misurato, è caduto nella trappola: «Siamo davanti a un’aggressione di tipo neofascista che non può e non deve essere sottovalutata».
Chiunque avesse sfogliato un po’ di fretta i giornali di ieri mattina, si sarebbe così convinto che la vittima dell’aggressione di Verona è un immigrato, oppure un gay, oppure ancora uno di sinistra. Insomma un «diverso» o un «nemico», a seconda di come titolavano i giornali. Solo chi ha avuto la pazienza di entrare nelle righe degli articoli si è accorto che l’aggredito è un italiano; un italiano di Santa Maria di Negrar, provincia di Verona; un italiano che con la politica non c’entra niente, ma proprio niente. Eppure la confusione è andata avanti tutto il giorno, anche una tv eccellente nell’informazione come Sky ha lanciato un sondaggio per chiedere agli italiani se il fatto di Verona è un segnale allarmante di una nuova «ondata di intolleranza». Ma intolleranza verso chi e che cosa? Verso chi non offre sigarette?
Molto opportunamente, invece, Lucia Annunziata ha messo insieme, su La Stampa, il fattaccio di Verona con quello di Torino, dove alcuni vigili sono stati aggrediti in pieno centro, piazza Vittorio Veneto, a poche decine di metri dalla casa del sindaco Chiamparino. Se a Verona è stata una sigaretta a scatenare la violenza, a Torino è stata una multa: chi l’ha presa ha sferrato un pugno in faccia a un vigile, è stato arrestato, ma almeno duecento persone sono intervenute in sua difesa lanciando pietre e bottiglie contro gli agenti. Sono due storie diverse: ma in comune c’è un’esplosione di violenza che pare immotivata, comunque non proporzionata alla causa scatenante. Lucia Annunziata ha avuto dunque il merito di non cadere nella semplificazione retorica dell’antifascismo, e ha colto giustamente in questi episodi il segno di un’inquietudine generale.
Ma il motivo di questa inquietudine è difficilmente afferrabile. Lucia Annunziata lo attribuisce alla rottura del patto di fiducia tra istituzioni e cittadini, e c’è senz’altro del vero. Però basta l’antipolitica a spiegare la violenza di Verona? Che è stata cieca e gratuita come quella di Arancia Meccanica? Che è stata violenza per la violenza, male per il male? Basta, o la risposta è nell’uomo, nella sua essenza più intima?
Per la prima volta nella storia, in Europa non ci sono guerre fra Stati da oltre sessant’anni; i conflitti sociali permangono, ma sono infinitamente meno gravi che in passato. Eppure l’aggressività riemerge ciclicamente. I primi ventenni senza guerra hanno dato vita al Sessantotto, e poi ai terribili anni Settanta, quasi a dimostrare che non c’è generazione che non abbia desiderio di menare le mani. La violenza rialza sempre la testa, hanno persino cancellato i soldatini e le pistole dai giocattoli dei bambini, i quali oggi smanettano con videogames di inaudita ferocia.
L’origine della violenza è all’interno di ciascuno di noi, nasce come reazione ad aspettative che vanno deluse. La cultura, l’educazione, a volte le convinzioni politiche e religiose ci frenano nella stragrande maggioranza delle situazioni. Ma da qualche parte il mostro riemerge, e a volte s’organizza in bande in cui l’ideologia - così come la fede calcistica per quanto riguarda gli ultrà - è solo un pretesto, una divisa. Non è un caso se spesso queste bande, come quella di Verona, attingono soprattutto ai simboli e alle idee che la storia ha sconfitto: la violenza ha bisogno, per nutrirsi e per alimentarsi, di rancori e di rabbia. Ecco perché nessuno crea una «Brigata Royal Air Force» o «Us Army», ma ci si rasa la testa e ci si mette una croce uncinata da qualche parte prima di ammazzare uno che non ti dà una sigaretta.
Il Giornale n. 107 del 2008-05-06


Quando i turbanti di Persia rendono omaggio al pastore di Roma
Due giorni di colloquio, in Vaticano, tra sapienti del cristianesimo e dell'islam sciita. Come nelle dispute medievali. Sul tema più caro a Joseph Ratzinger. fede e ragione. Le strane aperture del presidente iraniano Ahmadinejad
di Sandro Magister
ROMA, 7 maggio 2008 – La lettera dei 138, con i suoi sviluppi, non è né l'unica né la principale pista di dialogo tra la Chiesa cattolica e l'islam. Da parte Vaticana si opera su diversi terreni e con diversi interlocutori.
L'ultimo colloquio con esponenti musulmani è avvenuto in Vaticano con otto rappresentanti dell'Islamic Culture and Relations Organization di Teheran, dunque con una rappresentanza dell'islam sciita, che ha il suo baricentro in Iran ma è presente in molti altri paesi, con un seguito che è circa il 12-15 per cento della comunità musulmana mondiale.

Il colloquio è iniziato lunedì 28 aprile e si è concluso mercoledì 30 con un incontro con Benedetto XVI in una sala adiacente all'aula delle udienze generali. La Santa Sede, in un comunicato, ha riferito che "Il papa si è detto particolarmente soddisfatto per la scelta del tema".

In effetti il tema era uno dei più cari a Joseph Ratzinger: "Fede e ragione nel cristianesimo e nell'islam".

Esso è stato sviluppato in tre sottotemi, introdotti ciascuno da un esponente cattolico e da uno musulmano:

1. "Fede e ragione: quale relazione?", con relatore per la parte cattolica Vittorio Possenti, docente di filosofia politica all'Università di Venezia e membro della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali;

2. "Teologia/Kalam come indagine sulla razionalità della fede", con relatore per la parte cattolica Piero Coda, docente di teologia alla Pontificia Università Lateranense e presidente dell'Associazione Teologica Italiana;

3. "Fede e ragione di fronte al fenomeno della violenza", con relatore per la parte cattolica il gesuita Michel Fédou, teologo e storico della Chiesa, del Centre Sèvres di Parigi.

Oltre ai tre relatori, componevano la delegazione cattolica Ramzi Garmou, arcivescovo caldeo di Teheran; Pier Luigi Celata, arcivescovo segretario del pontificio consiglio per il dialogo interreligioso; Khaled Akasheh, capo ufficio per l'islam nello stesso consiglio; Ilaria Morali, docente di teologia dogmatica alla Pontificia Università Gregoriana e specialista delle religioni non cristiane.

Presiedevano congiuntamente il colloquio il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, e Mahdi Mostafavi, presidente dell'Islamic Culture and Relations Organization di Teheran.

Mostafavi è un "Seyyed", ossia un discendente diretto del profeta Maometto, ed è stato fino a due anni fa viceministro degli esteri dell'Iran. Prima di rientrare in patria ha dichiarato al quotidiano di Roma "il Riformista":

"Vedo il presidente Ahmadinejad almeno due volte a settimana. I valori spirituali e morali sono fondamentali nelle nostre scelte governative e io sono il suo consigliere spirituale".

Basta questo per capire come la delegazione iraniana fosse di alto profilo e strettamente legata alla leadership di Ahamadinejad, esponente dell'ala più battagliera del regime khomeinista, la più ostile all'Occidente e la più esplicita nel negare allo stato di Israele il diritto ad esistere.

Va tuttavia notato che il regime di Teheran, durante l'esplosione di violenza che seguì alla lezione di Benedetto XVI a Ratisbona, si distinse per la sua moderazione. L'islam sciita iraniano è da parecchi anni più avanti dell'islam sunnita nel coltivare le relazioni con la Chiesa di Roma, sul terreno religioso, culturale e anche politico. Dopo aver incontrato, lo scorso 6 aprile, il nuovo nunzio apostolico in Iran, l'arcivescovo Jean-Paul Gobel, il presidente Ahmadinejad ha definito il Vaticano una forza positiva per la giustizia e la pace nel mondo. Ossia, secondo gli interessi iraniani, un potenziale alleato contro le pressioni degli Stati Uniti e dei paesi europei.

Il colloquio dei giorni scorsi è stato il sesto della serie. Il prossimo si svolgerà a Teheran entro due anni e sarà preceduto da un incontro preparatorio.

Ciò non significa che la Chiesa di Roma si presenti cedevole, a questi colloqui. Il professor Possenti, tra i relatori di quest'ultima tornata, firmò un appello contro il presidente iraniano Ahmadinejad, il 3 novembre 2005, per le sue dichiarazioni anti Israele. Un appello seguito da un sit-in di protesta davanti all'ambasciata dell'Iran a Roma.

Tutt'altro che remissiva è anche un'altra esponente della delegazione cattolica al recente colloquio, Ilaria Morali. La sua tesi è che il dialogo tra la Chiesa cattolica e le religioni non cristiane deve avere come guida i due documenti del 1964 che per primi ne hanno dettato le linee: l'enciclica di Paolo VI "Ecclesiam Suam" e la costituzione conciliare "Lumen Gentium". In nessuno di essi le religioni non cristiane sono indicate come vie di salvezza. Unico salvatore di tutti è Gesù Cristo, come ribadito nel 2000 dalla dichiarazione "Dominus Iesus". Quindi il dialogo è primariamente missionario, ha per fine di prolungare il "colloquium salutis" instaurato da Dio, in Cristo, con l'umanità. Solo in subordine cerca un comune terreno d'intesa etica e culturale, per una più pacifica convivenza.

Lo scorso 17 aprile, a Washington, parlando a circa 200 esponenti di religioni non cristiane, Benedetto XVI ha confermato ciò con parole inequivoche:

"I cristiani propongono Gesù di Nazareth. [...] È Lui che noi portiamo nel forum del dialogo interreligioso. È l'ardente desiderio di seguire le sue orme che spinge i cristiani ad aprire le loro menti e i loro cuori al dialogo".

Nella relazione da lui letta ai suoi interlocutori musulmani, in effetti, il professor Possenti ha interpretato in questo senso cristocentrico l'incontro per la pace di Assisi del 27 ottobre 1986:

"L'incontro era centrato sull'incompatibilità del Vangelo con la violenza. Colui che morì sulla croce è una vittima, non un carnefice. La passione di Gesù costituisce lo smascheramento della violenza attorno a cui gravitavano le religioni pagane: essa provoca una rivoluzione che non può oggi essere fermata. Propone l'icona del Servo sofferente per amore, il simbolo dell'amore non violento, donato".

Quanto al rapporto tra la religione e la violenza, ha detto ancora Possenti:

"La violenza deve essere laicizzata e attribuita all'uomo, non a Dio".

Al termine del colloquio del 28-30 aprile, le due delegazioni si sono accordate su sette punti, così riassunti in un comunicato:

"Primo: fede e ragione sono entrambi doni di Dio all'umanità.

"Secondo: fede e ragione non si contraddicono; anche se in alcuni casi la fede può essere al di sopra della ragione, ma mai contraria ad essa.

"Terzo: fede e ragione sono intrinsecamente non violente. Né la ragione né la fede si dovrebbero utilizzare per la violenza; purtroppo, a volte, entrambe sono state mal utilizzate per perpetrare la violenza. In ogni caso questi eventi non possono mettere in dubbio né la ragione né la fede.

"Quarto: entrambe le parti hanno deliberato di cooperare ulteriormente per incoraggiare una religiosità autentica, in particolare la spiritualità per promuovere il rispetto dei simboli sacri e valori morali.

"Quinto: cristiani e musulmani dovrebbero andare oltre la tolleranza, accettando le differenze, rimanendo consapevoli delle cose che hanno in comune e rendendo grazie a Dio per esse. Sono chiamati al rispetto reciproco, quindi a condannare la derisione dei credi religiosi.

"Sesto: si dovrebbero evitare generalizzazioni quando si parla di religioni. Le differenze tra le confessioni in seno al cristianesimo e all'islam e la diversità dei contesti storici sono fattori importanti da prendere in considerazione.

"Settimo: le tradizioni religiose non si possono giudicare sulla base di un singolo verso o passaggio presente nei rispettivi libri sacri. Sono necessari una visione olistica e un adeguato metodo ermeneutico per una loro corretta comprensione".

La delegazione musulmana, oltre che da Seyyed Mahdi Mostafavi, era composta da quattro studiosi col titolo di hojjat al-islam: Mohammad Jafar Elmi, dell'Islamic College for Advanced Studies di Londra; Hamid Parsania, docente di filosofia e mistica a Qom e rettore dell'università Baqir al-Ulum; Mahdi Khamoushi; Mohammed Masjedjamei. E inoltre: Rasoul Rasoulipour, decano della facoltà di studi umanistici dell'università di Tarbiat Moallem; Mohsen Daneshmand. membro del corpo diplomatico; Abdolrahim Gavahi.

Benedetto XVI ha ricevuto in dono dagli otto esponenti sciiti un esemplare del Corano. L'agenzia ufficiale iraniana ISNA ha riferito che il papa l'ha definito "un libro prezioso" e ha così commentato il tema del colloquio:

"Fede e ragione sono le due cose di cui il mondo ha bisogno, oggi più che in passato, ed è nostro dovere esaudire questo bisogno della società".


La Chiesa riconosce le apparizioni mariane avvenute a Laus, sulle Alpi francesi.
Mons. di Falco: è un messaggio di misericordia e di riconciliazione per tutto il mondo
Migliaia di pellegrini hanno partecipato oggi nel Santuario di Notre-Dame du Laus, sulle Alpi francesi, alla cerimonia solenne in cui il vescovo di Gap et d’Embrun, mons. Jean-Michel di Falco-Leandri, ha proclamato il riconoscimento ufficiale delle apparizione mariane avvenute in questo luogo a cavallo tra il 1600 e il 1700 a una pastorella francese, Benedetta (Benoite) Rencurel
A 146 anni dal riconoscimento delle apparizioni di Lourdes oggi la Chiesa riconosce la veridicità dei fatti soprannaturali che si verificarono in questo sperduto e suggestivo luogo delle Alpi francesi a partire dal maggio del lontano 1664: la pastorella Benedetta Rencurel aveva 16 anni quando conducendo al pascolo il gregge ebbe la prima apparizione della Vergine che teneva per mano un bellissimo Bambino. La ragazza non sapeva né leggere né scrivere, ma a lei la Madre di Dio affida un messaggio importante nel periodo in cui in Europa infuriavano le cosiddette guerre di religione: un invito alla conversione dei peccatori e a sperimentare nella misericordia di Dio la riconciliazione. Le apparizioni proseguiranno per ben 54 anni fino al 1718, anno della sua morte. Un lungo periodo in cui la veggente dovette affrontare numerose tribolazioni: dalle vessazioni del Maligno al rifiuto da parte di preti giansenisti di darle la Comunione, all’obbligo di lasciare il luogo nativo per poi ritornarvi e trovare tutto distrutto. Nel 1673 mentre era in preghiera le apparve Gesù steso e inchiodato sulla croce, ricoperto di sangue: da allora Benedetta soffre nel proprio corpo i dolori della Passione di Cristo. Accorrono da lei numerosi malati, poveri, persone disperate. A tutti dona una parola. Molte sono le guarigioni inspiegabili, conversioni. Jean Guitton dirà: questo Santuario sulle Alpi “è uno dei tesori più nascosti e più potenti della storia dell’Europa”. Ma sul riconoscimento di queste apparizioni ascoltiamo mons. Jean-Michel di Falco-Leandri, al microfono di Sabine de Rozieres:
R. – Bien sûr. C’est qui m’a encouragé a faire… Certamente. Quello che mi ha incoraggiato a compiere questo cammino è stato proprio il messaggio rivolto a Benoite Rencurel. Si tratta di un messaggio tuttora di grande attualità, poiché è centrato sulla riconciliazione.
E’ un messaggio di misericordia e di riconciliazione. Credo che viviamo in un’epoca in cui sia ancora possibile contribuire alla realizzazione della riconciliazione, in cui sia possibile riconciliarci con gli altri, per riconciliarci così con noi stessi. Ma solo riconciliandoci con Dio, riusciremmo a riconciliarci con gli altri e con noi stessi! E’ possibile trovare la pace interiore soltanto raggiungendo e realizzando queste tre tappe.
D. – Perché queste apparizioni vengono riconosciute solo ora?
R. – Qui, c’est vrai que ça surprend beaucoup…Sì, è vero che questo possa sorprendere molto, poiché la prima apparizione è datata 1664, ed anche se non è stato del tutto confermato, è senza alcun dubbio riconosciuta come la prima o una delle prime apparizioni, in ogni caso certamente la più antica apparizione in Francia. Nel momento che sono arrivato nella diocesi, ho ripreso il dossier che era stato già trattato dai miei predecessori, per vedere a che punto fosse il processo di beatificazione della veggente Benoite Rencurel. E quando sono venuto a Roma, mi è stato detto che nel dossier mancava, però, un documento che attestava il riconoscimento da parte del vescovo delle apparizioni. Era certamente sorprendente la situazione visto il tempo che era ormai passato, ma mi ha poi convinto il fatto che la gran parte dei vescovi precedenti dovevano sapere che questo documento era stato in realtà prodotto in virtù del fatto che fin dall’inizio, e quindi dal XVII secolo, ci sono stati dei pellegrinaggi, che ancora continuano. Era importante sapere e soprattutto verificare allora se il messaggio fosse coerente col messaggio della Chiesa e con la fede. Ho successivamente deciso, proprio perchè ritenevo che questo fosse importante per la mia diocesi, ma anche per tutti quei giovani che frequentano questi luoghi, di riconoscere che questi eventi raccontati e vissuti dalla veggente Rencurel avessero un carattere soprannaturale.
D.–Per lei tutto questo è stato molto importante…
R. - Bien sûr, pour moi c’est important en tous cas…
Certamente. Per me è stato qualcosa di estremamente importante e questo per diverse ragioni. Anzitutto era necessario poter affermare in modo completamente ufficiale che le Chiesa riconoscesse ed accogliesse i pellegrini e soprattutto che riconoscesse che in questo luogo si fossero verificati avvenimenti con un carattere soprannaturale. Ma al tempo stesso, tutto questo è stato importante per la nostra stessa diocesi, perchè è una diocesi rurale, dove soffriamo sempre più per la mancanza di preti. E’ importante per noi avere dei punti forti, dei luoghi forti, nei quali i fedeli ed i giovani sanno di poter venire, non importa in quale momento della giornata, e di trovare sempre un prete ad accoglierli; sanno di poter venire tutti i giorni per la celebrazione della Messa e che qui si possono anche confessare. In un certo modo, quindi, questo luogo può compensare il fatto che ci siano meno preti e che si senta magari la loro mancanza in altri luoghi della diocesi


MILITARI BIRMANI E IL MONDO
L’EMERGENZA UMANITARIA SFIDA LA POLITICA

Avvenire, 7 maggio 2008
GEROLAMO FAZZINI
« Portare gli aiuti alle popolazioni sinistrate costituirà una grande sfida». Il portavoce dell’Onu a Bangkok, Richard Horsey, allude alle difficoltà lo­gistiche che incontreranno i soccorrito­ri per raggiungere il delta del fiume Ir­rawaddy, tutta paludi e risaie, l’area più devastata dal ciclone abbattutosi sul Myanmar. Ma lui (e i rappresentanti del­la comunità internazionale con lui) san­no bene che portare aiuto alle vittime di Nargis sarà un’autentica sfida anche – anzi: soprattutto – dal punto di vista politico.
Mentre il bilancio della sciagura si ag­grava di ora in ora (si parla di oltre 27mi­la morti, 40mila dispersi e due milioni di senza tetto), ancora non è chiara la posizione della giunta militare che reg­ge l’ex Birmania. Accetterà le offerte di aiuto internazionale per far fronte all’e­mergenza? Permetterà ai funzionari del­le varie agenzie delle Nazioni Unite, nor­malmente dispiegate in questi casi, di o­perare tempestivamente e con il neces­sario grado di libertà? Ancora: che spa­zio verrà dato (se verrà concesso) alle organizzazioni non governative che in queste ore stanno dando la propria di­sponibilità ad intervenire a fianco della popolazione, piegata da una sciagura che non ha paragoni recenti in Asia se non col terribile ciclone che si abbatté sul Bangladesh nel 1991?
A differenza di quanto accadde nel 2004 in occasione dello tsunami (allora le au­torità minimizzarono i danni e resero difficile alle agenzie di soccorso l’acces­so ai luoghi colpiti), stavolta i militari si sono dimostrati possibilisti almeno quanto agli aiuti di marca Onu. Le squa­dre di esperti e aiuti dall’estero saranno accolti con favore, ma «dovranno nego­ziare » con il regime il loro ingresso in territorio birmano. Sta di fatto che gli o­peratori internazionali sono ancora in attesa del visto. E ciò, in un contesto di emergenza, in cui il fattore-tempo è de­cisivo, la dice lunga sul comportamen­to perlomeno ambiguo della giunta.
I militari si trovano stretti tra due fuochi: da un lato non hanno mezzi e tecnolo­gie in grado di sopperire alle ingentissi­me richieste di aiuto; dall’altro puntano a conservare gelosamente il controllo del territorio, specie in un momento po­litico delicato come questo. Dopo le pro­teste popolari dei mesi scorsi e la ferrea repressione scatenata per placarle, han­no indetto per il 10 maggio un referen­dum sulla Costituzione, che l’opposi­zione democratica e gli attivisti per i di­ritti umani giudicano nient’altro che un’abile mossa per conservare il pote­re. Nell’ex capitale Yangoon e nel delta dell’Irrawaddy, le zone più colpite dal ciclone, le autorità politiche hanno già deciso che la consultazione popolare si terrà lo stesso, ma tra due settimane. Lo­gico quindi che le «interferenze ester­ne » siano viste con sospetto, da un re­gime dittatoriale come quello che tiene in pugno l’ex Birmania. Un’agenzia le­gata alla dissidenza residente all’estero – rilanciata da Asia News – riferisce di u­na circolare segreta in cui le autorità mettono in stato di massima allerta le a­genzie di sicurezza perché aumentino i controlli sulle organizzazioni interna­zionali presenti nel Paese.
Il regime, però, sa che non potrà esa­sperare ulteriormente una situazione già abbondantemente critica. Nel miri­no delle critiche perché accusato di non aver avvertito in tempo la popolazione del pericolo in arrivo, se ora dovesse continuare a ostacolare gli aiuti, fino a limitarne l’efficacia, vedrebbe salire al­le stelle l’ira della popolazione locale. Ma provocherebbe altresì una reazione internazionale di sdegno e riprovazione a dir poco imbarazzante.
Vero è che in questi anni ai militari del Myanmar poco o nulla è importato del­la loro immagine presso la comunità in­ternazionale. La speranza è che stavol­ta – in presenza di una sciagura di pro­porzioni così vaste – prevalga, se non l’amore per il proprio popolo, almeno il buon senso.