venerdì 19 marzo 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) "Ci fidiamo di Cota, non ci fidiamo dell'UDC". Piemonte: il nuovo manifesto di Alleanza Cattolica - Ci fidiamo di Cota, non ci fidiamo dell’UDC
2) La paternità quando il figlio è disabile - Amore e fuga (per fortuna non sempre) - di Giulia Galeotti - L'Osservatore Romano - 19 marzo 2010
3) Di fronte alla Sindone - Il segno e il segnato - Il 19 marzo si svolge a Genova, presso l'Oratorio San Filippo un incontro, coordinato da Sandra Isetta, su "L'uomo della Sindone. Il volto e il corpo di Cristo" a cui partecipano, oltre l'autore dell'articolo che pubblichiamo, Lucetta Scaraffia e Timothy Verdon. - di Giuseppe Ghiberti - L'Osservatore Romano - 19 marzo 2010
4) Avvenire.it, 18 Marzo 2010 – ABORTO - Ru486, Fazio: per erogazione il ricovero è obbligatorio
5) EDUCAZIONE/ Carrón: una diversità umana contro il torpore. Bagnasco: una questione antropologica - Julián Carrón, Angelo Bagnasco - venerdì 19 marzo 2010 – ilsussidiario.net
6) Avvenire.it, 19 Marzo 2010 - La riscoperta delle regole - La verità della legge sta nel bene che promuove di Francesco D’Agostino
7) Avvenire.it, 19 Marzo 2010 – DIBATTITO - Mounier, la giustizia non passa da Marx

"Ci fidiamo di Cota, non ci fidiamo dell'UDC". Piemonte: il nuovo manifesto di Alleanza Cattolica - Ci fidiamo di Cota, non ci fidiamo dell’UDC
Rafforzati da un contatto quotidiano con i candidati e con i piemontesi che hanno seguito con passione la campagna “Alleanza per Cota” di Alleanza Cattolica, ribadiamo con ancora maggiore convinzione l’invito ai cattolici a votare Roberto Cota:

– perché sui valori non negoziabili della vita, della famiglia, della scuola il suo programma è in sintonia con quanto ci sta a cuore come cattolici, mentre la Bresso è per la banalizzazione dell'aborto, per il matrimonio omosessuale, per tagliare i sostegni alle scuole non statali;

– perché il programma di Cota sull'immigrazione è moderato e ragionevole, mentre il Piano Bresso sugli immigrati non protegge dai clandestini, non tutela i piemontesi e prende dalle tasche dei contribuenti quattro milioni di euro all’anno per ambigui carrozzoni regionali;

– perché Cota ha costantemente dimostrato il suo sostegno ai valori non negoziabili in Regione, in Parlamento e in campagna elettorale, mentre la Bresso ancora nelle ultime settimane ha firmato per la vendita in farmacia della pillola del giorno dopo senza ricetta e si è dichiarata “assolutamente d’accordo” con il matrimonio fra due lesbiche “celebrato” a Torino dal sindaco Chiamparino.

Alcuni ci chiedono che cosa pensiamo della posizione dell’UDC. Per quanto nell'UDC ci siano certamente brave persone, pensiamo come cattolici di non potere in alcun modo sostenere l’UDC:

– perché chi fa la croce sull’UDC vota automaticamente il listino della Bresso, che comprende personaggi come Vincenzo Chieppa, segretario dei Comunisti Italiani che inneggia a Cuba e alla Corea del Nord, offre assistenza a chi stacca i crocefissi dalle aule scolastiche e sul suo sito offende il Papa e la Chiesa;

– perché chi fa la croce sull’UDC vota automaticamente la Bresso, le cui posizioni in materia di aborto, eutanasia, unioni omosessuali sono inaccettabili e sono al centro del suo programma;

– perché chi fa la croce sull’UDC sostiene una dirigenza dell’UDC che in Piemonte diffama il cattolico Cota accusandolo in modo assurdo di essere un adepto di “riti celtici del dio Po” e presentando in modo distorto le posizioni di Cota sull’immigrazione, che sono invece rispettose sia dei veri diritti degli immigrati regolari sia dell’identità cristiana delle nostre terre. Questa dirigenza afferma che la Bresso ha sottoscritto con l’UDC un impegno a difendere “la vita e la salute”, ma non spiega che per la Bresso quella dell’embrione o dei disabili come Eluana Englaro non è vita, e che la salute per lei comprende l’aborto. Racconta pure che grazie all’UDC la Bresso ha escluso dalla sua coalizione Rifondazione Comunista e Comunisti Italiani, che invece gli elettori troveranno regolarmente sulla scheda tra le liste coalizzate con la Bresso con tanto di falce e martello, in strana compagnia con lo scudo crociato dell’UDC, e del resto insieme anche alla lista Bonino-Pannella.

L’invito dunque non cambia: resistendo alle sirene dell’astensione, del voto alle “brave persone” che ignora i principi e i programmi, e ai falsi “patti” con la Bresso che hanno il solo scopo di creare confusione, per la vita, per la famiglia, per la libertà di educazione, per una politica realistica dell’immigrazione votiamo Roberto Cota.
Torino, 18 marzo 2009 Alleanza Cattolica Seguici su www.alleanzapercota.org


La paternità quando il figlio è disabile - Amore e fuga (per fortuna non sempre) - di Giulia Galeotti - L'Osservatore Romano - 19 marzo 2010
Se la tendenza dei padri alla fuga è una costante quasi noiosa nella storia umana, la fuga dei padri dai figli disabili è ancor più frequente e repentina.
Ci sono, però, eccezioni che rinfrancano. In pagine sincere, lucide e a tratti poetiche, direttamente o attraverso un personaggio, lo scrittore giapponese Kenzaburô Ôe, premio Nobel per la letteratura nel 1994, ha narrato spesso la paternità di un figlio disabile: suo figlio maggiore Hikari è affetto da una gravissima lesione cerebrale; nonostante questo, anche grazie alla tenacia dei genitori, è diventato uno dei compositori più noti in Giappone. Ad esempio, nel romanzo Un'esperienza personale - duro atto di accusa contro i pregiudizi sociali nei confronti della disabilità - la nascita del figlio disabile cambia finalmente la vita di Bird, sino a quel momento costantemente in fuga da tutto e da tutti. "Voglio smettere di essere un uomo che fugge sempre via dalle responsabilità".
Non che i padri "celebri" amino far sapere o parlare dei loro figli. Tra i pochi che lo hanno fatto, il politico inglese David Cameron, il cui figlio maggiore Ivan era affetto dalla sindrome di Ohtahara, sindrome cerebrale associata all'epilessia (il bambino è morto nel febbraio del 2009, a soli 6 anni). La nascita di Ivan, che avvenne quando Cameron era deputato da appena un anno, ne ha segnato l'impegno politico, almeno in parte. Attraverso la malattia del piccolo, Cameron ha seguito una sorta di "conservatorismo compassionevole", mondato cioè dal liberismo spinto introdotto dalla Lady di Ferro. In particolare, ha difeso il servizio sanitario pubblico britannico anche contro chi, nel suo stesso partito, voleva smantellarlo. "Quando la tua famiglia si affida giorno e notte, un giorno dopo l'altro, al servizio sanitario nazionale, ti rendi conto di quanto sia prezioso". Ovviamente l'impegno di un politico è cosa complessa, e v'è spesso il rischio che aspetti personali vengano illuminati ad arte. Da padre di un bimbo disabile, però, David Cameron ha dato prova di amore, partecipazione e dignità.
Un libro molto particolare, quasi ambivalente a tratti, è quello dello scrittore, saggista e regista francese Jean-Louis Fournier, Dove andiamo, Papà? (Rizzoli 2009), in cui l'uomo narra la sua paternità di due figli disabili, Matthieu e Thomas (una ricostruzione che ha sollevato le ire di Agnès Brunet, madre dei ragazzi, in un articolo intitolato Où on va, maman?).
Al di là della verità, alcune osservazioni di Fournier sono argute. "Quando hai un figlio handicappato devi essere pronto a sentirti dire non poche idiozie. (...) Il padre di un bambino handicappato deve avere la faccia da funerale". Ironico e feroce verso se stesso e il mondo che circonda i suoi figli - "quando è nato, Thomas ha ricevuto un bellissimo regalo, un set formato da bicchierino, piatto e cucchiaio. È stato il suo padrino a fargli il regalo, il direttore generale di una banca, che all'epoca era uno dei nostri migliori amici. Non appena Thomas ha cominciato a crescere, il suo handicap si è rivelato: non ha ricevuto altri regali da parte del suo padrino. Deve essersi detto: "La natura non gli ha fatto regali, perché dovrei fargliene io?"" - l'ironia verso i bambini, però, a tratti è talmente feroce da risultare non solo un po' crudele, ma quasi la spia della difficoltà di comprenderli e accettarli.
Quando Fournier scrive "non mi piace il termine "handicappato"", viene proprio da chiedergli perché allora lo utilizzi costantemente. "Preferisco l'espressione "diversi dagli altri". Non essere come gli altri non vuol dire necessariamente essere inferiori, vuol dire essere diversi". Una diversità che però Fournier dipinge con una certa ambiguità, quasi che non ci creda troppo nemmeno lui. "Come Cyrano de Bergerac prende in giro il proprio naso, io prendo in giro i miei figli. È il mio privilegio di padre. Perderli in giro non mi impedisce di amarli". Ma il naso di Cyrano era una parte di sé inseparabile da lui, mentre un figlio non è esattamente un arto, ma un individuo con una sua propria identità. Del resto, in diversi passaggi sembra che l'autore non si stia rivolgendo tanto al lettore incapace di comprendere la bellezza di Matthieu e Thomas, quanto piuttosto a se stesso.
"Avrei tanto voluto avere dei figli di cui andare fiero. Avrei mostrato agli amici i loro diplomi, i premi e i trofei conquistati negli anni. Li avremmo esposti in salotto, dentro una vetrinetta, insieme alle foto della famiglia riunita. Nelle foto avrei l'espressione beata e compiaciuta di un pescatore che ha appena catturato il pesce della sua vita". Se è chiara la condanna per quei genitori che si beano dei figli come si beano di un'auto ben funzionante e ben accessoriata (possibilmente, anche a basso consumo), Fournier sembra però leggere la sua vicenda come, almeno, la fortunata possibilità di aver evitato il rischio. Ma proprio non c'è stato nulla di cui essere fieri?
A tratti l'ironia è talmente pungente da piccare davvero. Anche questo è il padre.
(©L'Osservatore Romano - 19 marzo 2010)


Di fronte alla Sindone - Il segno e il segnato - Il 19 marzo si svolge a Genova, presso l'Oratorio San Filippo un incontro, coordinato da Sandra Isetta, su "L'uomo della Sindone. Il volto e il corpo di Cristo" a cui partecipano, oltre l'autore dell'articolo che pubblichiamo, Lucetta Scaraffia e Timothy Verdon. - di Giuseppe Ghiberti - L'Osservatore Romano - 19 marzo 2010
Nei giorni fra il 25 e il 28 maggio 1898, durante l'ostensione che doveva ricordare le nozze di Vittorio Emanuele (iii) di Savoia con Elena di Montenegro, l'avvocato Secondo Pia scattò nel duomo del capoluogo piemontese le prime fotografie della Sindone di Torino. Al momento dello sviluppo delle lastre Pia si rese conto che sul negativo fotografico che gli stava davanti l'immagine aveva carattere positivo, mentre sull'originale sindonico e sul positivo fotografico essa aveva carattere negativo. La scoperta suscitò emozione fortissima a cui fece seguito uno slancio di iniziative molteplici e mai più interrotte nel campo della ricerca scientifica. Si fa coincidere con quella data l'origine della "sindonologia".
Le nuove prospettive di ricerca scientifica provocarono una nuova consapevolezza nel rapporto religioso che lega il credente al lenzuolo sindonico e all'immagine che vi è impressa, accrescendo sia l'entusiasmo sia la problematizzazione circa la possibilità di contemplare in essa i tratti stessi di Gesù. Contemporaneamente iniziarono vivaci discussioni in merito alla cosiddetta "autenticità" del telo, che si riferisce a un doppio problema: se quel lenzuolo abbia avuto origine all'inizio dell'era cristiana (problema della datazione) e se l'immagine sindonica sia stata prodotta dal contatto fra il lenzuolo e il corpo senza vita di Gesù dopo la sua deposizione dalla croce (problema dell'origine dell'immagine).
Nessun reperto antico riguardante le origini cristiane ha mai suscitato una simile forma di interesse, perché nell'oggetto è presente una realtà di segno unica, che tende ad avvicinarsi in modo singolarissimo alla persona "segnata".
Il clima nel quale si svolse la discussione e la ricerca, assai acceso fin dall'inizio, ha avuto un'impennata in emotività a partire dal 1988, quando furono effettuate le analisi sulla componente di C14 (un isotopo radioattivo del carbonio) presente nel tessuto sindonico e venne reso noto l'esito dell'indagine, che datava l'origine del telo sindonico fra il 1260 e il 1390 dell'era cristiana. Le tendenze radicalizzanti nella discussione si attestarono su posizioni estreme: da una parte quanti affermavano che il verdetto era definitivo e perciò era da considerarsi sanzionata l'illegittimità di un rapporto religioso fra il credente e la Sindone; dall'altra quanti affermavano l'inaffidabilità del risultato (sostenendo spesso che era stato raggiunto con procedimenti scorretti), difendendo pertanto l'"autenticità" del reperto sindonico e la legittimità del rapporto religioso con esso.
Si rende anzitutto necessaria una corretta posizione del problema. Esso è acutizzato da un pronunciamento scientifico; ma dove sta precisamente il problema del rapporto tra scienza e fede a riguardo della Sindone? Che cosa può o deve attendere la fede dalla scienza; quali condizioni impone la scienza alla fede? Occorre anzitutto chiarire in quale categoria di realtà religiosa si pone la Sindone: è immagine con rimando a un fatto? È reliquia della deposizione di Gesù dalla croce e della sua sepoltura? Alla prima domanda sembra doversi dare, senza alcun dubbio, risposta positiva; la riposta alla seconda si pone nella fascia della possibilità. Ancora: quali conseguenze ha sul rapporto di quella realtà con la fede la risposta alle precedenti domande? Dove si pone il rapporto con la fede? Certamente a livello di veridicità del segno. E comunque, in quale modo essa agisce positivamente in favore del processo della fede?
Dove si pone il piano della significatività? Nell'espressività dell'immagine; o anche nella materialità del rapporto con il corpo di Gesù? Perché il sentimento - il "cuore" - dell'uomo è più reattivo di fronte alla consapevolezza del contatto fisico: perché è maggiore la densità del ricordo? Occorre tutta quella "densità" per giustificare la proposta "pastorale" di devozione o di culto solenne? Il segno sindonico è più "vero" se il telo ha certamente toccato il corpo di Gesù?
Questa massa di domande richiederà certo analisi pazienti, per giungere a risposte che dovranno essere molto equilibrate. Credo però che sia possibile e necessario acquisire in partenza un punto importante sulla natura del rapporto che nasce tra chi si accosta a questo oggetto e la Sindone stessa. Se si tratta di un non credente, ma dotato di sensibilità umana, nasce un sentimento di pena per l'enorme sofferenza che egli vede "narrata" da quell'immagine misteriosa, assieme a compassione e indignazione: come è possibile che l'uomo sia così crudele con il suo simile?
Se però è credente si rende conto facilmente della corrispondenza che corre tra il "racconto per immagini" che vede su quel telo e il racconto letterario della passione nei vangeli. Nasce allora un sentimento spontaneo e forte che si porta sulla realtà sindonica e, attraverso a essa, sulla vicenda che in essa è così fortemente significata, al punto che il segno perde totalmente in importanza, per lasciare aperto il cammino al segnato. Attraverso il telo gli viene incontro la persona del Salvatore.
Non è ancora stata posta nessuna domanda, non è ancora iniziata nessuna ricerca scientifica; s'è fatto strada solo un intenso sentimento di natura religiosa, coi caratteri della commozione, della contrizione, dell'implorazione. È il momento prescientifico, che non nasce da nessun pronunciamento contro la scienza, nemmeno dalla teorizzazione di estraneità a essa, ma semplicemente da una forma autonoma di cammino che coinvolge la vita.
(©L'Osservatore Romano - 19 marzo 2010)


Avvenire.it, 18 Marzo 2010 – ABORTO - Ru486, Fazio: per erogazione il ricovero è obbligatorio
Il Consiglio Superiore di Sanità ha deliberato che «come unica modalità di erogazione» della pillola abortiva Ru486 ci sia «il ricovero ordinario fino alla verifica dell'espulsione completa» per garantire «la tutela psicofisica della donna e il rispetto della legge 194». Lo ha reso noto il ministro della Salute, Ferruccio Fazio, a margine di un convegno a Roma.

«Ho già firmato la notifica - ha detto Fazio - in cui si invitano gli assessorati a garantire che le strutture si adegueranno» alle modalità indicate dal Css, che prevedono il ricovero obbligatorio della donna per tutto il processo di aborto chimico fino alla verifica dell'espulsione del feto.

Arriveranno "a breve" le linee guida del ministero della Salute per "il monitoraggio e la valutazione" della somministrazione della pillola abortiva Ru486. Lo ha spiegato il ministro della Salute Ferruccio Fazio dopo aver reso noto il parere del Consiglio Superiore di Sanità che prevede anche per l'aborto per via farmacologica il ricovero obbligatorio della donna.

«Il Css - ha detto Fazio - ha raccomandato al ministero di formulare linee di indirizzo e il ministero si riserva di adottare le necessarie iniziative di monitoraggio e valutazione al più presto».


EDUCAZIONE/ Carrón: una diversità umana contro il torpore. Bagnasco: una questione antropologica - Julián Carrón, Angelo Bagnasco - venerdì 19 marzo 2010 – ilsussidiario.net
Ieri sera al Palasharp di Milano oltre 10.000 persone hanno accolto con molto calore l’intervento del Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, S. Em. Card. Angelo Bagnasco, e del Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, don Julian Carron, sul tema “L’avventura Educativa”.
L’incontro, moderato da Roberto Fontolan, si è aperto con l’intervento di Mons. Mario Delpini, Vescovo ausiliare della Diocesi di Milano, che ha portato il saluto e il ringraziamento agli organizzatori dell’Arcivescovo di Milano, Card. Dionigi Tettamanzi, e da alcune interessanti testimonianze provenienti dal mondo della scuola, dell’università e del lavoro.



L’avventura educativa - Introduzione di Julián Carrón
«Il tema principale, per noi, in tutti i nostri discorsi, è l’educazione: come educarci, in che cosa consiste e come si svolge l’educazione, un’educazione che sia vera, cioè corrispondente all’umano» (L. Giussani, Il rischio educativo, Rizzoli, Milano 2005, p. 15).
Niente più di questa frase di don Luigi Giussani spiega in modo solare e definitivo come il carisma a lui donato trovi nell’educazione la sua dimensione più decisiva. La sua costante preoccupazione - che per grazia di Dio è divenuta anche la nostra - è stata quella di «educare il cuore dell’uomo così come Dio l’ha fatto» (Il rischio educativo, pp. 15-16), cioè di evocarne e sostenerne l’apertura instancabile alla realtà, sospinta da quei desideri nativi e da quelle esigenze inestirpabili che ne costituiscono la stoffa, prima ancora di qualsiasi condizionamento culturale e sociale.

In questo momento storico, ancora una volta, la sfida più decisiva che ci incalza è proprio quella dell’educazione. Due anni fa il santo padre Benedetto XVI ha messo davanti a tutti i cristiani e agli uomini di buona volontà questa urgenza: «Educare [...] non è mai stato facile, e oggi sembra diventare sempre più difficile. Lo sanno bene i genitori, gli insegnanti, i sacerdoti e tutti coloro che hanno dirette responsabilità educative. Si parla perciò di una grande “emergenza educativa”, confermata dagli insuccessi a cui troppo spesso vanno incontro i nostri sforzi per formare persone solide, capaci di collaborare con gli altri e di dare un senso alla propria vita. [...] Proprio da qui nasce la difficoltà forse più profonda per una vera opera educativa: alla radice della crisi dell'educazione c’è infatti una crisi di fiducia nella vita» (Benedetto XVI, Lettera alla Diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione, 21 gennaio 2008).
Sta venendo dunque meno - è sotto gli occhi di tutti - la solidità dell’umano. Per certi versi, noi abbiamo vissuto della rendita di una tradizione. Adesso che il cristianesimo, la tradizione, è sempre meno incidente e che prevale tutt’altro, ci troviamo davanti a una paralisi, a una incapacità di interessarsi ad alcunché (lo sanno bene gli insegnanti che entrano in classe ogni giorno).

Con la sua dote profetica, don Giussani individuava già nel 1987 questa deriva, che oggi è dilagata: «È come se tutti i giovani [e adesso, possiamo dire, anche molti adulti] di oggi fossero tutti stati investiti dalle radiazioni di Chernobyl [da un’enorme esplosione nucleare]: l’organismo, strutturalmente, è come prima, ma dinamicamente non è più lo stesso. Vi è stato come un plagio fisiologico operato dalla mentalità dominante» (L. Giussani, L’io rinasce in un incontro (1986-1987), BUR, Milano 2010, p. 181, in corso di pubblicazione).

Questa mentalità provoca una estraneità a noi stessi, che rende astratti nel rapporto con se stessi e affettivamente scarichi. La conseguenza è quel «misterioso torpore», di cui parlava tanti anni fa Pietro Citati (P. Citati, «Gli eterni adolescenti», la Repubblica, 2/8/1999, p. 1). Questo ci dice la profondità della crisi. Non è innanzitutto di natura morale, ma è una vera e propria crisi dell’umano.

A che cosa appellarsi, allora, per ripartire? Non possiamo fare appello alla tradizione, che per tanti è completamente sconosciuta o è gravemente frammentata in coloro in cui ne rimane traccia. L’unico appiglio che abbiamo è quello che nessun potere può distruggere e che rimane sotto tutte le possibili macerie: l’«esperienza elementare» (L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 1997, p. 8) dell’uomo, il suo cuore che contiene le esigenze costitutive di verità, di bellezza, di giustizia...
È qui dove il cristianesimo può, di nuovo, mostrare la sua verità e dare un contributo decisivo, proprio dove tutti gli altri stanno fallendo. Questo contributo sarà possibile solo se l’attuale circostanza storica - così difficoltosa - verrà affrontata come una grande avventura, come una opportunità per una nuova autocoscienza della natura del cristianesimo. Infatti, una fede ridotta a etica o a spiritualismo (a questo è stato ridotto il cristianesimo dalla modernità) non è in grado di rispondere alla sfida. La storia lo ha ampiamente documentato. Solo un cristianesimo che si presenta secondo la sua vera natura, cioè quella di “fatto storico” che si documenta in una diversità umana, può essere in grado di dare un vero contributo a questa situazione problematica.

E allora, «dove si può ritrovare […] la persona?» si domandava don Giussani. «Quella che sto per dare non è una risposta alla situazione in cui versiamo […]; è una regola, una legge universale da quando l’uomo c’è: la persona ritrova se stessa in un incontro vivo, vale a dire in una presenza in cui si imbatte e che sprigiona un’attrattiva, […] vale a dire provoca al fatto che il cuore nostro, con quello di cui è costituito, con le esigenze che lo costituiscono, c’è, esiste». È una presenza che muove, che produce uno sconvolgimento carico di ragionevolezza, una sommossa del nostro cuore. Quella presenza fa ritrovare l’originalità della propria vita, cioè «una corrispondenza alla vita secondo la totalità delle sue dimensioni. Insomma, la persona si ritrova quando si fa largo in essa una presenza - questa è la prima evidenza - che corrisponde alla natura della vita, e così l’uomo non è più nella solitudine » (L’io rinasce in un incontro, p. 1834).
Due sono allora i fattori di una rinascita dell’esperienza educativa.
In primo luogo, la consapevolezza del metodo. L’unica cosa in grado di svegliare l’io dal suo torpore, non è una organizzazione o un richiamo etico più accanito, ma l’imbattersi in una diversità umana. Perché questo possa accadere occorrono - ed è il secondo fattore indispensabile - degli adulti che incarnino nella loro vita una «risposta plausibile» (così la definiva a Genova Sua Eminenza il cardinale Angelo Bagnasco, nell’omelia alla Messa per il quinto anniversario della morte di don Giussani, Genova, 23 febbraio 2010), che possa offrirsi agli altri. Si tratta di una straordinaria possibilità di verifica: partecipando all’avventura educativa, cercando cioè di introdurre altri uomini alla totalità del reale, viene a galla senza possibilità di astrazioni se noi per primi partecipiamo all’avventura della conoscenza. Don Giussani ci ha sempre detto che la forma dell’educazione è la «comunicazione di sé» (L. Giussani, Realtà e giovinezza. La sfida, Società Editrice Internazionale, Torino 1995, p. 172), cioè del proprio modo di rapportasi con la realtà; perciò noi possiamo educare solo se per primi accettiamo la sfida del reale, comprese le paure, le difficoltà, le obiezioni. Proprio questo mostrerà a tutti la portata della fede come risposta alle esigenze di un uomo ragionevole del nostro tempo. E renderà per ciascuno di noi entusiasmante e carica di speranza l’avventura educativa.

Attraverso l’incontro di questa sera vorremmo, dunque, corrispondere alla preoccupazione educativa della Chiesa italiana, riecheggiata anche di recente nelle parole del nostro arcivescovo Dionigi Tettamanzi (durante la Messa per il quinto anniversario della morte di don Giussani): «Il giudizio cristiano sulla realtà, la formazione della coscienza secondo la fede cristiana si pone come fondamento e forza di quell’impegno educativo che rappresenta senza alcun dubbio, come spesso ripete il Santo Padre, una delle attuali priorità pastorali della Chiesa. I Vescovi italiani intendono raccogliere questa sfida e la presentano come decisiva per il prossimo decennio pastorale. Penso che l’insegnamento, la vita, le opere di don Giussani abbiano al riguardo ancora tanto da offrire alle nostre comunità» (D. Tettamanzi, «Un’eredità spirituale e pastorale da vivere», Omelia alla Messa nel V anniversario della morte di Luigi Giussani, Milano, 22 febbraio 2010).

Strappare l’uomo dal torpore, richiamarlo all’essere: questo è il livello elementare e decisivo dell’educazione. E questo è davvero possibile, come esito, solo se accettiamo e diventa nostro lo sguardo di Cristo sulla realtà: «Dio si dà, dà se stesso all’uomo. E Dio cos’è? La sorgente dell’essere. Dio dà all’uomo l’essere: dà all’uomo di essere; dà all’uomo di essere di più, di crescere; dà all’uomo di essere completamente se stesso, di crescere fino alla sua compiutezza, cioè dona all’uomo di essere felice» (L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli, Milano 2007, p. 327).


L’avventura educativa - lezione del card. Angelo Bagnasco
Istanze educative e questione antropologica

0. Premessa
Sono lieto di essere qui con voi per parlare di qualcosa che non solo ci sta a cuore, ma che sentiamo essere parte del nostro essere persone e credenti. Cioè del nostro essere discepoli del Maestro – il Signore Gesù – che non cessa di educare ad una umanità nuova e piena. Egli continua a parlare all’intelligenza e a scaldare il cuore di coloro che si aprono alla sua verità e al suo amore e accolgono la compagnia dei fratelli per fare esperienza della novità del Vangelo e così annunciare a tutti la gioia e il fascino di un incontro che cambia la vita e che fa fiorire l’umano. La Chiesa continua l’opera del suo Signore, e la sua storia bimillenaria è un intreccio di evangelizzazione e di educazione: annunciare la persona di Cristo, vero Dio e vero uomo, significa portare a pienezza l’uomo e quindi creare cultura e civiltà. A volte, a fronte di tante situazioni di violenza vecchie e nuove, al mondo ancora così lacerato da squilibri e ingiustizie, o a forme di involuzione culturale, potremmo chiederci: quanto ha inciso il Cristianesimo nell’elevazione dell’umanità, quanto efficace è stata ed è la predicazione della fede? Potremmo risponderci: e che cosa sarebbe stato e sarebbe il mondo senza il Vangelo di Cristo? Senza la presenza della Chiesa con i suoi sacerdoti, i religiosi e le religiose, i laici, i gruppi, le associazioni, i movimenti, le istituzioni di carità e di promozione, di ascolto? Senza il vortice di continua preghiera che si eleva a Dio da ogni parte della terra da secoli e che eleva i cuori di moltitudini, rende la coscienza migliore, la rafforza contro il male? Senza quella rete sterminata di piccole luci che rendono l’universo più luminoso? E dove sarebbe quel popolo immenso sparso sino ai confini della terra fatto di persone umili e buone che fanno la storia vera – quella del bene – con la loro vita riferita a Cristo? Conosciamo i limiti e gli errori della condizione umana, ma ciò non può oscurare l’esperienza secolare della comunità cristiana.
I Vescovi italiani hanno scelto, come Orientamenti Pastorali per il decennio appena iniziato, proprio la sfida educativa: responsabilità e grazia! Grazia perché significa continuare a “comunicare il vangelo in un mondo che cambia”, e significa declinarlo nella dimensione specifica dell’educazione. Responsabilità perché se educare mai è stato facile, oggi si tratta di accettare la sfida che viene dalla complessità spesso contraddittoria della cultura e della società. Il Santo Padre Benedetto XVI non solo ci esorta a questo con il limpido e puntuale Magistero, ma ci precede sulla via educativa del popolo di Dio, avendo chiaramente nello sguardo e nel cuore ogni uomo, poiché l’umanità piena che si rivela in Gesù, e in Lui si incontra, non esclude nessuno.

La felice espressione “emergenza educativa”, divenuta tanto familiare in questi ultimi tempi dentro e fuori della Chiesa, può risultare particolarmente arricchita se la si legge con un occhio attento alla lezione di un grande filosofo e teologo dell’ottocento italiano, il beato Antonio Rosmini. La sua prospettiva mi sembra vada ad incrociare punti cruciali emergenti nell’attuale contesto culturale e pastorale.

E per cogliere tutta la portata del contributo positivo che può venirci dalla prospettiva rosminiana, e che va nella direzione di un arricchimento del senso che all’ “emergenza educativa” ha voluto dare lo stesso Benedetto XVI, torna utile ricordare che le “emergenze”, per loro natura, non fanno parte della vita ordinaria e della storia quotidiana delle persone; esse irrompono tanto improvvise quanto inattese. Mentre né inattesa né improvvisa può essere ritenuta l’esigenza di educare e di educarsi, dal momento che, come scrive il Rosmini, «l’educazione è un affare gravissimo» (Dell’educazione cristiana, Città Nuova ed., Roma 1994, p.47), nel senso di “affare di grande portata”, per il fatto che essa mira a «rendere l’uomo stesso buono con riguardo a tutte le circostanze nelle quali si trova; [rendere l’uomo] capace di usare di esse, e di tutti gli altri mezzi al vero vantaggio di sé e d’altri; e [renderlo] così autore del proprio bene e specialmente della propria virtù e della propria felicità» (Idem, Scritti vari di metodo e di pedagogia, Unione Tipografica Ed., Torino 1883, p.499). E questo, aggiunge Rosmini, appartiene ad ogni uomo, in ogni fase della sua vita, dal momento che a tutti gli uomini è chiesto spendersi per realizzare il bene.

In altri termini, se è vero che la società contemporanea è attraversata sempre più da deficit preoccupanti di “buona educazione”, è anche vero che una risposta efficace non può venire da una comunità che si limita ad affrontare questo deficit come se si trattasse di una “emergenza” piuttosto che di un “compito” quotidiano.

E, a richiedere che quello pedagogico venga considerato un compito quotidiano, non sono circostanze episodiche, seppure preoccupanti né il moltiplicarsi dei segnali di cattiva o inesistente educazione. A chiedere che quello pedagogico venga considerato un compito quotidiano è la natura stessa dell’uomo. Tanto che non è affatto azzardato affermare che la “questione pedagogica” (o se si vuole, l’emergenza educativa) va di pari passo con la “questione antropologica”.

Le circostanze che fecero da sfondo alle pagine pedagogiche del nostro Autore presentano forti analogie con quelle odierne, che stanno chiamando a raccolta le energie più sensibili intorno all’emergenza educativa e, tra queste, la stessa Chiesa italiana.

È noto l’enorme dispendio di energie messo in campo sia dall’Illuminismo sia dal Liberalismo di fine Settecento inizi Ottocento. Sia l’uno che l’altro non tralasciarono il ricorso a strumenti di propaganda e di formazione che facevano coincidere la razionalizzazione delle attività lavorative e il miglioramento della qualità della vita con un deciso e progressivo allontanamento dalla religione e dall’etica cristiana. La conseguenza più immediata dell’offensiva illuministico-liberale si presentò subito con i caratteri di una evidente frattura tra cristianesimo e società civile e politica, aprendo per la Chiesa un nuovo ed inedito fronte missionario.

Rosmini, di fronte a questa situazione, non veste né i panni del rinunciatario né quelli dell’ottuso oppositore: la validità della sua impostazione – “apologetica”, nel senso più alto della parola - trova fondamento nello stretto legame tra filosofia, antropologia, pedagogia; legame che, a sua volta, garantisce la consequenzialità tra pensiero teologico ed istanze etiche, politiche e di natura giuridica.

In questo quadro, l’educazione della persona non si presenta affatto come un compito marginale o comunque da invocare in momenti di “emergenza”, quanto piuttosto come la prosecuzione del “governo divino del mondo” «con cui ordinando e disponendo gli avvenimenti (Dio) educò il genere umano e l’educa di continuo» (Idem, Sistema filosofico, n. 244).
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Avvenire.it, 19 Marzo 2010 - La riscoperta delle regole - La verità della legge sta nel bene che promuove di Francesco D’Agostino
Sembra che diritto e legge stiano tornando prepotentemente di moda. A causa dei fatti che tutti ben conosciamo, da giorni e giorni i giornali sono invasi da interventi, sottoscritti anche da intellettuali e politici di rango, in cui si esalta il «rispetto delle regole», in cui si biasimano coloro che delle regole vorrebbero far ciarpame, in cui si elogia la legge come unica garante della libertà.

Con appena un po’ di malizia, si potrebbe ricordare a tanti legalisti di oggi, che appena ieri erano e si comportavano da contestatori, che l’ elogio della legge dovrebbe estendersi anche alla Polizia di Stato, il cui motto, come è noto, è appunto l’antico e notissimo detto <+corsivo>Sub lege libertas<+tondo>. Se c’è infatti un punto fermo nella teoria della politica e del diritto, è che uno Stato di libertà non può che essere uno Stato di diritto, in cui la legge è sovrana. Ma da questo punto fermo discende inevitabilmente che lo Stato di diritto ha bisogno di una polizia che garantisca il rispetto della legge. Quando, negli anni della mia giovinezza, si sentiva gridare da parte degli studenti: «Fuori la polizia dall’Università», pochi si rendevano conto che questo grido equivaleva di fatto a: «Fuori la legge – e quindi la libertà – dall’Università».

Ma allora, potrebbe concludere un provocatore, è la stessa cosa parlare di Stato di diritto e di Stato di polizia? Naturalmente no. L’espressione "Stato di diritto" è bella e irrinunciabile. L’ espressione "Stato di polizia" è odiosa. Ma bisogna capire bene perché. Se "Stato di polizia" ci turba, è perché intuiamo, più o meno lucidamente, che la legge che in questo tipo di Stato la polizia è chiamata a far rispettare è una legge ingiusta e aberrante. Se invece l’espressione "Stato di diritto" ci affascina, è perché intuiamo che in quest’altro tipo di Stato non comanda la volontà arbitraria del potente di turno, ma il diritto, come norma condivisa e soprattutto giusta. Quello che fa la differenza, quindi, non è la legge in quanto legge, ma la legge in quanto giusta. Non esisterà mai la libertà sotto una legge ingiusta: lo dimostrano platealmente i campi di concentramento, che erano regolati in modo rigidamente e formalmente minuzioso e che nello stesso tempo erano luogo di infamia e violenze inenarrabili.

Si può allora concludere che il luogo della libertà è quello in cui si regna sovrana una giusta legge? Sì e no, purtroppo. La legge infatti è sì condizione di libertà, ma non è una tecnica che garantisca che la libertà possa fiorire. L’esercizio reale della libertà (non la sua mera proclamazione verbale!) richiede infatti da parte di ciascuno di noi un impegno profondamente morale. Vive liberamente chi crede nella libertà, chi crede cioè che la libertà sia un valore autentico, che corrisponde a una vocazione umana profonda. Solo chi crede nella verità può realmente credere nella libertà, perché solo la verità, non certo l’ideologia, può farci liberi.

Ben vengano quindi gli elogi della legge che in questi giorni ascoltiamo da tante parti, a condizione che non si radichino in un relativismo scettico, che sostituisce alla verità il rispetto formale di qualche povera regola procedurale. Ben venga l’elogio del diritto, purché sia accompagnato dall’elogio della verità. E la verità del diritto non sta nelle sue regole, ma nel bene umano che esso promuove e tutela. Altrimenti, l’effetto delle tante e tante parole, spesso sagge e nobili, che ci bersagliano in questi giorni sarà unicamente quello che è proprio di tutte le battaglie ideologiche: la dilatazione ossessiva della retorica, accompagnata dal vuoto del pensiero e del senso morale.
Francesco D'Agostino


Avvenire.it, 19 Marzo 2010 – DIBATTITO - Mounier, la giustizia non passa da Marx
Saggista, filosofo politico, educatore, testimone della dignità della persona, rivoluzionario fedele e leale fino all’eroismo, non strutturalmente metafisico e accademico come il suo amico Jacques Maritain ma soprattutto un cristiano nel senso più pieno della parola. Sono i tanti aspetti che hanno costellato, nella breve parabola del suo Novecento, la vita e l’azione del filosofo Emmanuel Mounier (1905-1950), di cui,in questi giorni ricorrono i sessant’anni della morte. Il 22 marzo del 1950 si spegneva a Parigi il grande filosofo, amico di Albert Camus e figlio spirituale del poeta della speranza cristiana Charles Péguy.

Oggi rimane viva la sua eredità di pensatore soprattutto per il suo contributo sul personalismo comunitario cristiano, la sua attenzione alla questione operaia, alla giustizia sociale nella Francia postbellica, ai diritti universali della persona, la sua critica agli eccessi del capitalismo, le sue intuizioni sulla crisi economica del 1929 e la sua impronta indelebile lasciata, nel 1932, con la fondazione della rivista "Esprit" assieme a Georges Izard.

Di questo ne è convinto uno dei più fedeli discepoli del pensiero e dell’eredità mouneriana in Italia, Giorgio Campanini, già docente di Storia delle dottrine politiche all’Università di Parma: «Il messaggio di Mounier ha come fondamento un’etica di relazione, della condivisione e della solidarietà ma aperto anche alla trascendenza». Un’attualità, quella di Mounier, che ha trovato conferma, agli occhi del professor Campanini, nella prima enciclica sociale di Benedetto XVI, la Caritas in veritate: «Nel testo si parla "di orientamento culturale personalista" ed è la prima volta che questo così solenne riconoscimento viene operato all’interno del magistero della Chiesa».

Vede l’attualità di questo pensatore anche Armando Rigobello, professore emerito di Filosofia morale all’università di Roma, che rivela: «Il mio primo incontro con lui avvenne attraverso la sua opera Rivoluzione personalista e comunitaria. Il continuatore ideale, soprattutto nel campo del personalismo, è stato Paul Ricoeur. In entrambi c’è una forte tensione alla dimensione religiosa e anche all’aristotelismo pratico-politico. In Italia chi idealmente ha messo in pratica le sue idee di comunitarismo è stato Adriano Olivetti. Nel Canavese, presso la sua azienda di macchine per scrivere, il grande industriale cercò di mettere in pratica, anche nell’organizzazione del lavoro, le idee del grande filosofo personalista».

Tornano a questo proposito alla mente di Giorgio Campanini la grande attenzione al proletariato, il «vangelo per i poveri», ai preti operai, (tra questi l’amato Andre Depiérre) di Mounier ma anche il suo vero pensiero riguardo al marxismo: «Analizzando la condizione del proletariato in Francia vedeva nei comunisti francesi dei "compagni di strada" ma questo non significò mai adesione al "materialismo storico". Già nel 1948 in un articolo di "Esprit", Mano aperta e marxismo chiuso, fa emergere la contraddizione insita nell’apertura di facciata ai cattolici e il rigido dogmatismo ateistico dei comunisti. Se non fosse prematuramente morto nel 1950 il distacco sarebbe stato più netto, grazie anche a una maggiore conoscenza dei regimi di Oltrecortina. La caduta del Muro gli sarebbe apparsa come l’involuzione di un’ideologia che aveva tradito la "speranza dei poveri"». Rigobello mette in rilievo gli aspetti più originali e controversi della sua ricerca: dalla critica alla borghesia, alla sua non simpatia verso la democrazia parlamentare alla sua totale estraneità all’esistenzialismo di Jean Paul Sartre: «Il movimento di "Esprit", come il pensiero di Maritain e Guitton, è stata messo ai margini, dando più rilevanza all’esistenzialismo e alla filosofia analitica. Per paradosso il comunitarismo e il personalismo di Mounier è rifiorito: non nella sua patria, bensì in Canada».

Un intellettuale che ha segnato il modo di pensare di un’intera generazione, quella uscita dalla guerra: è l’impressione che ancora suscita Mounier nel pro- teologo emerito della Casa pontificia, il cardinale svizzero Georges Marie Cottier: «Assieme a Maritain ha lasciato un impronta indelebile nella mia formazione di giovane domenicano. Il suo slogan personalista e comunitario ha significato una rottura con un certo cattolicesimo integralista francese. In lui ha vissuto lo zelo giovanile del pensiero impegnato, cioè la volontà di fare qualcosa di positivo per la società. E poi credo che una delle sue più grandi intuizioni sia stata la nascita di una rivista come "Esprit", perché rappresentò un punto di dialogo "ecumenico": vi collaborarono non credenti, protestanti ed ebrei . Se avesse potuto vedere il Concilio, credo si sarebbe ritrovato nei documenti sulla libertà religiosa e nella Gaudium et spes».

Ma è negli scritti più intimi, come Lettere e diari, Agonia del cristianesimo? o il Trattato del carattere, che emerge il Mounier più sofferente, di una profondità mistica che lo avvicina a Georges Bernanos, Giovanni della Croce, Charles Peguy, Paul Claudel o Primo Mazzolari; il Mounier fedele alla speranza e preghiera cristiana, come nelle lettere dedicate alla figlia handicappata Françoise e raccolte nel volume Lettere sul dolore (Rizzoli) o i lunghi dialoghi sull’amore coniugale con la moglie, il suo alter egoPaulette Leclercq. «Quelle pagine – nota il critico letterario de La civiltà cattolica, il gesuita Ferdinando Castelli – affondano nella carne dell’uomo e del cristiano d’oggi. Affascinano perché non sono mai astrazioni o elucubrazioni: ci interpellano.

A parlare sono soprattutto i tre pedagoghi di Mounier: la speranza, la povertà e la sofferenza». Un’eredità dunque, quella del filosofo di Grenoble, da recepire in ogni sua prospettiva. «Basti ricordare – è la riflessione finale di padre Castelli – la sua posizione sui diritti della persona, sull’attenzione ai "segni dei tempi", sull’insistenza di una rivoluzione interiore, sul superamento della concezione sacramentale della politica e di ogni rigido condizionamento tra cristianesimo e strutture politiche sociali. Il suo pensiero e la sua azione ci suggeriscono uno stile di vita modellato su quei valori umani e cristiani di cui oggi, forse più di un tempo, si avverte l’urgenza».
Filippo Rizzi