martedì 30 marzo 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Il Papa celebra in piazza San Pietro la domenica delle Palme e della Passione del Signore - Gesù Cristo è la via giusta per essere uomini - L'Osservatore Romano - 29-30 marzo 2010
2) BENEDETTO XVI: L'AMORE MUOVEVA GIOVANNI PAOLO II - Così ha potuto farsi “compagno di viaggio per l'uomo di oggi” - di Jesús Colina
3) ESISTONO DAVVERO INFERNO E PARADISO? - Intervista a padre Giovanni Cavalcoli, docente di Metafisica e Teologia sistematica - di Antonio Gaspari
4) Teorie "gender" che negano la differenza tra maschio e femmina in un libro di Giulia Galeotti - La notte delle vacche nere - di Laura Palazzani - L'Osservatore Romano - 29-30 marzo 2010
5) Ucciso a Mossul bimbo cristiano di tre anni - L'Osservatore Romano - 29-30 marzo 2010
6) Avvenire.it, 30 Marzo 2010 – ANNIVERSARIO - Del Noce: società radicale, che guaio! - Vittorio Possenti
7) Il figlio ad ogni costo: Rai3, va in onda l’orrore - DI L UCIA B ELLASPIGA – Avvenire, 30 marzo 2010


Il Papa celebra in piazza San Pietro la domenica delle Palme e della Passione del Signore - Gesù Cristo è la via giusta per essere uomini - L'Osservatore Romano - 29-30 marzo 2010
Essere cristiani è il cammino che conduce alla "via giusta", quella mostrata da Gesù. Camminare con Lui significa anche camminare insieme con coloro che vogliono seguirlo e formano la sua comunità. Lo ha detto il Papa nel corso della celebrazione eucaristica della domenica della Palme, svoltasi in piazza San Pietro, nella mattina del 28 marzo.

Cari fratelli e sorelle,
cari giovani!
Il Vangelo della benedizione delle palme, che abbiamo ascoltato qui riuniti in Piazza San Pietro, comincia con la frase: "Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme" (Lc 19, 28). Subito all'inizio della liturgia di questo giorno, la Chiesa anticipa la sua risposta al Vangelo, dicendo: "Seguiamo il Signore". Con ciò il tema della Domenica delle Palme è chiaramente espresso. È la sequela. Essere cristiani significa considerare la via di Gesù Cristo come la via giusta per l'essere uomini - come quella via che conduce alla meta, ad un'umanità pienamente realizzata e autentica. In modo particolare, vorrei ripetere a tutti i giovani e le giovani, in questa XXV Giornata Mondiale della Gioventù, che l'essere cristiani è un cammino, o meglio: un pellegrinaggio, un andare insieme con Gesù Cristo. Un andare in quella direzione che Egli ci ha indicato e ci indica.
Ma di quale direzione si tratta? Come la si trova? La frase del nostro Vangelo offre due indicazioni al riguardo. In primo luogo dice che si tratta di un'ascesa. Ciò ha innanzitutto un significato molto concreto. Gerico, dove ha avuto inizio l'ultima parte del pellegrinaggio di Gesù, si trova a 250 metri sotto il livello del mare, mentre Gerusalemme - la meta del cammino - sta a 740-780 metri sul livello del mare: un'ascesa di quasi mille metri. Ma questa via esteriore è soprattutto un'immagine del movimento interiore dell'esistenza, che si compie nella sequela di Cristo: è un'ascesa alla vera altezza dell'essere uomini. L'uomo può scegliere una via comoda e scansare ogni fatica. Può anche scendere verso il basso, il volgare. Può sprofondare nella palude della menzogna e della disonestà. Gesù cammina avanti a noi, e va verso l'alto. Egli ci conduce verso ciò che è grande, puro, ci conduce verso l'aria salubre delle altezze: verso la vita secondo verità; verso il coraggio che non si lascia intimidire dal chiacchiericcio delle opinioni dominanti; verso la pazienza che sopporta e sostiene l'altro. Egli conduce verso la disponibilità per i sofferenti, per gli abbandonati; verso la fedeltà che sta dalla parte dell'altro anche quando la situazione si rende difficile. Conduce verso la disponibilità a recare aiuto; verso la bontà che non si lascia disarmare neppure dall'ingratitudine. Egli ci conduce verso l'amore - ci conduce verso Dio.
"Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme". Se leggiamo questa parola del Vangelo nel contesto della via di Gesù nel suo insieme - una via che, appunto, prosegue sino alla fine dei tempi - possiamo scoprire nell'indicazione della meta "Gerusalemme" diversi livelli. Naturalmente innanzitutto deve intendersi semplicemente il luogo "Gerusalemme": è la città in cui si trovava il Tempio di Dio, la cui unicità doveva alludere all'unicità di Dio stesso. Questo luogo annuncia quindi anzitutto due cose: da un lato dice che Dio è uno solo in tutto il mondo, supera immensamente tutti i nostri luoghi e tempi; è quel Dio a cui appartiene l'intera creazione. È il Dio di cui tutti gli uomini nel più profondo sono alla ricerca e di cui in qualche modo tutti hanno anche conoscenza. Ma questo Dio si è dato un nome. Si è fatto conoscere a noi, ha avviato una storia con gli uomini; si è scelto un uomo - Abramo - come punto di partenza di questa storia. Il Dio infinito è al contempo il Dio vicino. Egli, che non può essere rinchiuso in alcun edificio, vuole tuttavia abitare in mezzo a noi, essere totalmente con noi.
Se Gesù insieme con l'Israele peregrinante sale verso Gerusalemme, Egli ci va per celebrare con Israele la Pasqua: il memoriale della liberazione di Israele - memoriale che, allo stesso tempo, è sempre speranza della libertà definitiva, che Dio donerà. E Gesù va verso questa festa nella consapevolezza di essere Egli stesso l'Agnello in cui si compirà ciò che il Libro dell'Esodo dice al riguardo: un agnello senza difetto, maschio, che al tramonto, davanti agli occhi dei figli d'Israele, viene immolato "come rito perenne" (cfr. Es 12, 5-6.14). E infine Gesù sa che la sua via andrà oltre: non avrà nella croce la sua fine. Sa che la sua via strapperà il velo tra questo mondo e il mondo di Dio; che Egli salirà fino al trono di Dio e riconcilierà Dio e l'uomo nel suo corpo. Sa che il suo corpo risorto sarà il nuovo sacrificio e il nuovo Tempio; che intorno a Lui, dalla schiera degli Angeli e dei Santi, si formerà la nuova Gerusalemme che è nel cielo e tuttavia è anche già sulla terra, perché nella sua passione Egli ha aperto il confine tra cielo e terra. La sua via conduce al di là della cima del monte del Tempio fino all'altezza di Dio stesso: è questa la grande ascesa alla quale Egli invita tutti noi. Egli rimane sempre presso di noi sulla terra ed è sempre già giunto presso Dio, Egli ci guida sulla terra e oltre la terra.
Così, nell'ampiezza dell'ascesa di Gesù diventano visibili le dimensioni della nostra sequela - la meta alla quale Egli vuole condurci: fino alle altezze di Dio, alla comunione con Dio, all'essere-con-Dio. È questa la vera meta, e la comunione con Lui è la via. La comunione con Lui è un essere in cammino, una permanente ascesa verso la vera altezza della nostra chiamata. Il camminare insieme con Gesù è al contempo sempre un camminare nel "noi" di coloro che vogliono seguire Lui. Ci introduce in questa comunità. Poiché il cammino fino alla vita vera, fino ad un essere uomini conformi al modello del Figlio di Dio Gesù Cristo supera le nostre proprie forze, questo camminare è sempre anche un essere portati. Ci troviamo, per così dire, in una cordata con Gesù Cristo - insieme con Lui nella salita verso le altezze di Dio. Egli ci tira e ci sostiene. Fa parte della sequela di Cristo che ci lasciamo integrare in tale cordata; che accettiamo di non potercela fare da soli. Fa parte di essa questo atto di umiltà, l'entrare nel "noi" della Chiesa; l'aggrapparsi alla cordata, la responsabilità della comunione - il non strappare la corda con la caparbietà e la saccenteria. L'umile credere con la Chiesa, come essere saldati nella cordata dell'ascesa verso Dio, è una condizione essenziale della sequela. Di questo essere nell'insieme della cordata fa parte anche il non comportarsi da padroni della Parola di Dio, il non correre dietro un'idea sbagliata di emancipazione. L'umiltà dell'"essere-con" è essenziale per l'ascesa. Fa anche parte di essa che nei Sacramenti ci lasciamo sempre di nuovo prendere per mano dal Signore; che da Lui ci lasciamo purificare e corroborare; che accettiamo la disciplina dell'ascesa, anche se siamo stanchi.
Infine, dobbiamo ancora dire: dell'ascesa verso l'altezza di Gesù Cristo, dell'ascesa fino all'altezza di Dio stesso fa parte la Croce. Come nelle vicende di questo mondo non si possono raggiungere grandi risultati senza rinuncia e duro esercizio, come la gioia per una grande scoperta conoscitiva o per una vera capacità operativa è legata alla disciplina, anzi, alla fatica dell'apprendimento, così la via verso la vita stessa, verso la realizzazione della propria umanità è legata alla comunione con Colui che è salito all'altezza di Dio attraverso la Croce. In ultima analisi, la Croce è espressione di ciò che l'amore significa: solo chi perde se stesso, si trova.
Riassumiamo: la sequela di Cristo richiede come primo passo il risvegliarsi della nostalgia per l'autentico essere uomini e così il risvegliarsi per Dio. Richiede poi che si entri nella cordata di quanti salgono, nella comunione della Chiesa. Nel "noi" della Chiesa entriamo in comunione col "Tu" di Gesù Cristo e raggiungiamo così la via verso Dio. È richiesto inoltre che si ascolti la Parola di Gesù Cristo e la si viva: in fede, speranza e amore. Così siamo in cammino verso la Gerusalemme definitiva e già fin d'ora, in qualche modo, ci troviamo là, nella comunione di tutti i Santi di Dio.
Il nostro pellegrinaggio alla sequela di Cristo non va verso una città terrena, ma verso la nuova Città di Dio che cresce in mezzo a questo mondo. Il pellegrinaggio verso la Gerusalemme terrestre, tuttavia, può essere proprio anche per noi cristiani un elemento utile per tale viaggio più grande. Io stesso ho collegato al mio pellegrinaggio in Terra Santa dello scorso anno tre significati. Anzitutto avevo pensato che a noi può capitare in tale occasione ciò che san Giovanni dice all'inizio della sua Prima Lettera: quello che abbiamo udito, lo possiamo, in certo qual modo, vedere e toccare con le nostre mani (cfr. 1 Gv 1, 1). La fede in Gesù Cristo non è un'invenzione leggendaria. Essa si fonda su di una storia veramente accaduta. Questa storia noi la possiamo, per così dire, contemplare e toccare. È commovente trovarsi a Nazaret nel luogo dove l'Angelo apparve a Maria e le trasmise il compito di diventare la Madre del Redentore. È commovente essere a Betlemme nel luogo dove il Verbo, fattosi carne, è venuto ad abitare fra noi; mettere il piede sul terreno santo in cui Dio ha voluto farsi uomo e bambino. È commovente salire la scala verso il Calvario fino al luogo in cui Gesù è morto per noi sulla Croce. E stare infine davanti al sepolcro vuoto; pregare là dove la sua santa salma riposò e dove il terzo giorno avvenne la risurrezione. Seguire le vie esteriori di Gesù deve aiutarci a camminare più gioiosamente e con una nuova certezza sulla via interiore che Egli ci ha indicato e che è Lui stesso.
Quando andiamo in Terra Santa come pellegrini, vi andiamo però anche - e questo è il secondo aspetto - come messaggeri della pace, con la preghiera per la pace; con l'invito forte a tutti di fare in quel luogo, che porta nel nome la parola "pace", tutto il possibile affinché esso diventi veramente un luogo di pace. Così questo pellegrinaggio è al tempo stesso - come terzo aspetto - un incoraggiamento per i cristiani a rimanere nel Paese delle loro origini e ad impegnarsi intensamente in esso per la pace.
Torniamo ancora una volta alla liturgia della Domenica delle Palme. Nell'orazione con cui vengono benedetti i rami di palma noi preghiamo affinché nella comunione con Cristo possiamo portare il frutto di buone opere. Da un'interpretazione sbagliata di san Paolo, si è sviluppata ripetutamente, nel corso della storia e anche oggi, l'opinione che le buone opere non farebbero parte dell'essere cristiani, in ogni caso sarebbero insignificanti per la salvezza dell'uomo. Ma se Paolo dice che le opere non possono giustificare l'uomo, con ciò non si oppone all'importanza dell'agire retto e, se egli parla della fine della Legge, non dichiara superati ed irrilevanti i Dieci Comandamenti. Non c'è bisogno ora di riflettere sull'intera ampiezza della questione che interessava l'Apostolo. Importante è rilevare che con il termine "Legge" egli non intende i Dieci Comandamenti, ma il complesso stile di vita mediante il quale Israele si doveva proteggere contro le tentazioni del paganesimo. Ora, però, Cristo ha portato Dio ai pagani. A loro non viene imposta tale forma di distinzione. A loro viene dato come Legge unicamente Cristo. Ma questo significa l'amore per Dio e per il prossimo e tutto ciò che ne fa parte. Fanno parte di quest'amore i Comandamenti letti in modo nuovo e più profondo a partire da Cristo, quei Comandamenti che non sono altro che le regole fondamentali del vero amore: anzitutto e come principio fondamentale l'adorazione di Dio, il primato di Dio, che i primi tre Comandamenti esprimono. Essi ci dicono: senza Dio nulla riesce in modo giusto. Chi sia tale Dio e come Egli sia, lo sappiamo a partire dalla persona di Gesù Cristo. Seguono poi la santità della famiglia (quarto Comandamento), la santità della vita (quinto Comandamento), l'ordinamento del matrimonio (sesto Comandamento), l'ordinamento sociale (settimo Comandamento) e infine l'inviolabilità della verità (ottavo Comandamento). Tutto ciò è oggi di massima attualità e proprio anche nel senso di san Paolo - se leggiamo interamente le sue Lettere. "Portare frutto con le buone opere": all'inizio della Settimana Santa preghiamo il Signore di donare a tutti noi sempre di più questo frutto.
Alla fine del Vangelo per la benedizione delle palme udiamo l'acclamazione con cui i pellegrini salutano Gesù alle porte di Gerusalemme. È la parola dal Salmo 118 (117), che originariamente i sacerdoti proclamavano dalla Città Santa ai pellegrini, ma che, nel frattempo, era diventata espressione della speranza messianica: "Benedetto colui che viene nel nome del Signore" (Sal 118[117], 26; Lc 19, 38). I pellegrini vedono in Gesù l'Atteso, che viene nel nome del Signore, anzi, secondo il Vangelo di san Luca, inseriscono ancora una parola: "Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore". E proseguono con un'acclamazione che ricorda il messaggio degli Angeli a Natale, ma lo modifica in una maniera che fa riflettere. Gli Angeli avevano parlato della gloria di Dio nel più alto dei cieli e della pace in terra per gli uomini della benevolenza divina. I pellegrini all'ingresso della Città Santa dicono: "Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!". Sanno troppo bene che in terra non c'è pace. E sanno che il luogo della pace è il cielo - sanno che fa parte dell'essenza del cielo di essere luogo di pace. Così questa acclamazione è espressione di una profonda pena e, insieme, è preghiera di speranza: Colui che viene nel nome del Signore porti sulla terra ciò che è nei cieli. La sua regalità diventi la regalità di Dio, presenza del cielo sulla terra. La Chiesa, prima della consacrazione eucaristica, canta la parola del Salmo con cui Gesù venne salutato prima del suo ingresso nella Città Santa: essa saluta Gesù come il Re che, venendo da Dio, nel nome di Dio entra in mezzo a noi. Anche oggi questo saluto gioioso è sempre supplica e speranza. Preghiamo il Signore affinché porti a noi il cielo: la gloria di Dio e la pace degli uomini. Intendiamo tale saluto nello spirito della domanda del Padre Nostro: "Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra!". Sappiamo che il cielo è cielo, luogo della gloria e della pace, perché lì regna totalmente la volontà di Dio. E sappiamo che la terra non è cielo fin quando in essa non si realizza la volontà di Dio. Salutiamo quindi Gesù che viene dal cielo e lo preghiamo di aiutarci a conoscere e a fare la volontà di Dio. Che la regalità di Dio entri nel mondo e così esso sia colmato con lo splendore della pace. Amen.
(©L'Osservatore Romano - 29-30 marzo 2010)


BENEDETTO XVI: L'AMORE MUOVEVA GIOVANNI PAOLO II - Così ha potuto farsi “compagno di viaggio per l'uomo di oggi” - di Jesús Colina
CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 29 marzo 2010 (ZENIT.org).- Ciò che muoveva Giovanni Paolo II “era l'amore verso Cristo”, ha spiegato Benedetto XVI nella Messa presieduta questo lunedì nel V anniversario della sua morte.
In un ambiente di grande raccogliento, in piena Settimana Santa, nella Basilica vaticana, il suo successore ha sintetizzato la vita di Karol Wojtyła (1920-2005) come “svolta nel segno di questa carità, della capacità di donarsi in modo generoso, senza riserve, senza misura, senza calcolo”.
Roma ha vissuto nuovamente l'emozione sperimentata il 2 aprile 2005 - quest'anno la ricorrenza cade di Venerdì Santo, e per questo motivo si è anticipato il ricordo liturgico -, quando la folla seguiva sotto la finestra del Papa polacco i suoi ultimi respiri.
Per l'occasione, è giunto tra i porporati radunati intorno all'altare il suo fedele segretario per 40 anni, l'attuale Cardinale Stanislaw Dziwisz, Arcivescovo di Cracovia, ma sono arrivati anche pellegrini dei cinque continenti, in particolare della Polonia, che avevano fatto in giornata la coda per visitare la tomba nelle grotte vaticane.
Durante l'omelia, in un grande silenzio, il Papa ha spiegato che “ciò che lo muoveva era l'amore verso Cristo, a cui aveva consacrato la vita, un amore sovrabbondante e incondizionato”.
“E proprio perché si è avvicinato sempre più a Dio nell'amore, egli ha potuto farsi compagno di viaggio per l'uomo di oggi, spargendo nel mondo il profumo dell'Amore di Dio”, ha aggiunto.
Il suo successore e stretto collaboratore ha ricordato gli ultimi giorni di sofferenza di Giovanni Paolo II: “la progressiva debolezza fisica non ha mai intaccato la sua fede rocciosa, la sua luminosa speranza, la sua fervente carità”.
“Si è lasciato consumare per Cristo, per la Chiesa, per il mondo intero: la sua è stata una sofferenza vissuta fino all'ultimo per amore e con amore”, quell'“amore di Dio che tutto vince”.
Durante l'omelia, il Papa ha parlato in italiano. L'unica lingua che ha usato brevemente è stata il polacco per assicurare che “la vita e l'opera di Giovanni Paolo II, grande polacco, può essere per voi motivo di orgoglio”.
“Bisogna però che ricordiate che questa è anche una grande chiamata ad essere fedeli testimoni della fede, della speranza e dell'amore, che egli ci ha ininterrottamente insegnato”, ha aggiunto parlando la lingua natale di Papa Wojtyła.
Nella preghiera dei fedeli si è pregato in tedesco con queste parole: “Per il nostro Santo Padre Benedetto XVI: affinché continui sulle orme di Pietro a svolgere il ministero con perseverante mitezza e fermezza per confermare i fratelli”.
In polacco, poi, si è aggiunto: “Per il venerabile Papa Giovanni Paolo II, che ha servito la Chiesa fino all'estremo limite delle sue forze: affinché dal cielo interceda nell'alimentare la speranza che si realizza pienamente prendendo parte alla gloria della risurrezione”.
Benedetto XVI ha approvato il 19 dicembre il decreto che riconosce le virtù eroiche di Karol Wojtyła. Lo studio del presunto miracolo sperimentato da una suora francese affetta dal morbo di Parkinson, attribuito all'intercessione di Giovanni Paolo II, segue il processo stabilito dalla Congregazione per le Cause dei Santi, secondo quanto è stato confermato il mese scorso.
Anche se Benedetto XVI aveva concesso la licenza per non attendere i cinque anni richiesti per avviare la causa di beatificazione di Giovanni Paolo II, l'iter è sottoposto a tutti i requisiti necessari per qualsiasi altro caso, tra cui il riconoscimento di una guarigione inspiegabile da parte di una commissione medica, riconosciuta poi come “miracolo” da una commissione teologica, da una commissione di Cardinali e Vescovi e dallo stesso Papa.


ESISTONO DAVVERO INFERNO E PARADISO? - Intervista a padre Giovanni Cavalcoli, docente di Metafisica e Teologia sistematica - di Antonio Gaspari
ROMA, lunedì, 29 marzo 2010 (ZENIT.org).- All’Inferno molti non credono, altri sostengono che non può essere eterno ed altri ancora che sia vuoto. Lo stesso dicasi dell’angelo caduto e del peccato.
Per molti si tratta di invenzioni della Chiesa cattolica e comunque in tanti vivono come se Dio non esistesse, e Inferno e Paradiso sarebbero solo illusioni.
Per cercare di spiegare come può un Dio buono come quello cristiano permettere la rivolta degli angeli, la diffusione del male, l’esistenza dell’Inferno e del Paradiso, padre Giovanni Cavalcoli, dell’Ordine Domenicano, ha scritto e pubblicato il libro “L'Inferno esiste. La verità negata” (edizioni Fede & Cultura http://fedecultura.com/Infernoesiste.aspx 96 pagine, 9,50 euro)
Padre Cavalcoli è docente di Metafisica presso lo Studio Filosofico Domenicano di Bologna e di Teologia sistematica alla Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna. Officiale della Segreteria di Stato dal 1982 al 1990, è Accademico pontificio dal 1992.
Autore di innumerevoli libri e saggi, svolge una intensa opera di formazione.
ZENIT lo ha intervistato.
Per il mondo secolarizzato ed anche per alcuni credenti l’Inferno non esiste. Si tratterebbe di una invenzione. Qual è il suo parere in proposito?
Cavalcoli: Il mondo secolarizzato ha perso la fede nell’Aldilà, si tratti del Paradiso o si tratti dell’Inferno. E una certa misura di secolarismo purtroppo si è insinuata anche tra alcuni credenti, i quali, anche se ammettono un Aldilà, questo è soltanto il Paradiso. E’ questa la mentalità cosiddetta buonista, per cui non c’è da stupirsi che, secondo queste tendenze, l’Inferno è un’invenzione.
In realtà, come ho dimostrato nel mio libro, l'Inferno non è affatto un’invenzione, ma è una verità di fede insegnata da Nostro Signore Gesù Cristo, dal Nuovo Testamento, dalla Sacra Tradizione e da alcuni Concili. Quindi si tratta di un dato della divina Rivelazione, che la Chiesa ha il compito di custodire e di insegnare.
Sulla base di quali argomenti sostiene che l’Inferno esista?
Cavalcoli: La dottrina dell’Inferno è una dottrina teologica. Ora, gli argomenti della teologia non sono di tipo empirico, ma sono le Parole di Gesù Cristo, le quali possono essere accettate solo sulla base della fede in Gesù Cristo e nella Chiesa che ci media le Parole di Cristo.
Da questo punto di vista, gli argomenti sono molti. Mi limiterò qui a citarne uno solo (cf.p.33 del mio libro sull’Inferno), che mi sembra particolarmente efficace, perché lo troviamo nel Concilio Vaticano II (LG n.48) e nel Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC n.1034). Si tratta del passo di Matteo 25, 31-46 dove Gesù Cristo non si limita ad annunciare la semplice possibilità della dannazione, ma semplicemente prevede il fatto dell’esistenza dei dannati.
Dove e quando è nato l’Inferno?
Cavalcoli: Per rispondere a questa domanda, dobbiamo tener presente che cosa è esattamente l’Inferno. Esso, per quanto riguarda gli uomini, consiste nel rifiuto irrevocabile della misericordia che ci è offerta dal Padre per mezzo di Gesù Cristo, Figlio di Dio. In questo senso, possiamo dire che la dannazione infernale ha cominciato ad esistere con la venuta di Cristo. Invece, se consideriamo il peccato degli angeli all’inizio della creazione, l’Inferno esiste per loro sin da quel momento (Mt 25,41; 2 Pt 2,4).
Dove è nato l’Inferno? Per quanto riguarda gli angeli peccatori, siccome si trovavano prima in cielo, si può dire che è nato in cielo, da cui furono precipitati (Ap 12,8). Per quanto riguarda gli uomini, l’Inferno è nato in questo mondo nel momento in cui Gesù è stato rifiutato.
Esiste nell’Aldilà o è presente anche sulla Terra?
Cavalcoli: Secondo una certa tesi del cristianesimo secolaristico-buonista, se si può parlare di “Inferno”, questo esiste solo su questa terra, nel senso che il castigo per i malvagi c’è solo quaggiù e poi c’è il Paradiso per tutti. Esiste poi un’altra tesi, del tutto pagana, secondo la quale l’Inferno sarebbe quella condizione di sofferenza che colpisce anche gli innocenti oppressi dai prepotenti.
Mentre in questo secondo caso la parola “Inferno” viene usata in un senso improprio, nel primo caso c’è una parte di verità, in quanto lo stato di peccato mortale è già in un certo senso l’Inferno. Ma questa tesi trascura il fatto che la pienezza irrevocabile della condizione infernale per l’uomo è solo dopo la morte. Tuttavia, ogni uomo, prima della morte si può pentire, può riacquistare lo stato di grazia di Cristo, per cui, se persevera in questo stato fino alla morte, può evitare l’Inferno.
Cosa dicono le Sacre Scritture in merito?
Cavalcoli: La voce più autorevole è quella di Nostro Signore Gesù Cristo. Di essa ne troviamo un’eco negli altri Libri del Nuovo Testamento, e in particolare nell’Apocalisse, nella quale abbiamo una grandiosa visione del trionfo finale di Cristo su tutte le potenze del male, le quali saranno messe in condizione di non più nuocere agli eletti.
La descrizione mirabile dell’Inferno della Divina Commedia è credibile?
Cavalcoli: Certamente nella sua sostanza è credibile, perché, come si sa, Dante non solo era cattolico, ma aveva acquistato una notevole cultura teologica di stampo tomistico frequentando il convento domenicano di Santa Maria Novella di Firenze.
Nel contempo Dante, da grande poeta qual era, si è permesso delle cosiddette licenze poetiche, per cui ha creato ambienti, eventi e personaggi che evidentemente esulano da quanto ci viene insegnato dalla Rivelazione cristiana, anche se nel contempo, nel complesso, non le sono contrari.
Una cosa curiosa che potremmo notare al riguardo e che non è un dato della fede cristiana, è la condizione dei cosiddetti “ignavi”, i quali vissero “sanza fama e sanza lodo” e pertanto vengono collocati da Dante non nell’Inferno, ma in un luogo a parte.
Ammettere l’esistenza dell’Inferno presuppone temere il diavolo. In che modo l’angelo caduto e l’Inferno si collocano nel disegno divino?
Cavalcoli: Il cristiano deve avere un certo timore del diavolo, così come noi possiamo avere un ragionevole timore di prenderci una malattia o di cadere in un qualche peccato. Da qui il dovere del cristiano di guardarsi dai pericoli morali che possono venire dalle tentazioni diaboliche, evitando atteggiamenti di eccessiva sicurezza.
Detto questo, tuttavia, il cristiano fondamentalmente non ha paura del diavolo, perché il cristiano che vive in Cristo gode della stessa forza di Cristo, il quale ha vinto Satana. Anzi, da questo punto di vista, si può dire che è il demonio che ha paura del cristiano. Come dice infatti Santa Caterina da Siena, noi siamo vinti dal demonio solo se lo vogliamo, commettendo o amando il peccato.
Il demonio e l’Inferno si collocano nel disegno divino in quanto costituiscono un deterrente che ci aiuta ad evitare il peccato. In secondo luogo, per quanto riguarda il demonio, anch’egli va visto come uno strumento della divina Provvidenza per due finalità: per rafforzarci nella virtù e per richiamarci paternamente quando commettiamo il male. Il diavolo di per sé vorrebbe solo il nostro male, solo che la Provvidenza divina lo utilizza secondo i suoi sapientissimi disegni per il nostro bene.
Perchè Dio permette all’angelo di ribellarsi?
Cavalcoli: Perché ha un grande rispetto per il libero arbitrio della creatura. Ora, appunto, l’angelo ribelle è una creatura dotata di libero arbitrio. Allora, a questo punto, si può dire che Dio, pur di rispettare questo libero arbitrio, accetta di essere respinto da quella creatura che in realtà potrebbe trovare solo in Lui la sua piena felicità. Questo discorso vale analogicamente anche per la vicenda umana.
Inoltre si può dire che Dio ha permesso la disobbedienza dell’angelo, perché dall’eternità aveva progettato l’Incarnazione del Verbo, grazie alla quale l’umanità, salvata da Cristo, avrebbe in Cristo vinto Satana e raggiunta una condizione di vita – quella di figli di Dio – superiore a quella che ci sarebbe stata se l’angelo non avesse peccato.
Che relazione c’è tra il male e l’Inferno?
Cavalcoli: Possiamo dire che l’Inferno è una vittoria sul male morale, ovvero sul peccato, anche se resta il male di pena, cioè la sofferenza dei dannati. Qui però si tratta di una giusta pena, per cui, da questo punto di vista si può dire che è bene che ci sia questo male, per cui noi vediamo che, dal punto di vista escatologico, tutto si risolve nel bene.
C’è inoltre da precisare con tutta chiarezza che sarebbe blasfemo incolpare Dio di questo male, del quale invece è responsabile soltanto la creatura angelica o umana, mentre d’altra parte l’esistenza del male di pena manifesta semplicemente la giustizia divina, la quale peraltro è sempre mitigata dalla misericordia.
Cosa devono fare le persone per sfuggire l’Inferno e guadagnare il Paradiso?
Cavalcoli: Praticamente si tratta di mettere in opera tutti i precetti della vita cristiana, a cominciare dall’odio per il peccato, dalla consapevolezza delle sue conseguenze, per passare al dovere di obbedire con tutte le nostre forze ai comandi del Signore, di vivere in grazia, nella pratica continua della conversione e della vita cristiana, in una illimitata fiducia nella misericordia divina, frequentando i sacramenti nella comunione con la Chiesa, nella devozione ai Santi e soprattutto alla Santa Vergine Maria, coltivando un forte desiderio del Paradiso e della santità e combattendo coraggiosamente giorno per giorno contro le insidie del tentatore, sotto la protezione di San Michele Arcangelo. In casi di eccezionale aggressività da parte del diavolo, esiste la pratica dell’esorcismo.
Queste raccomandazioni naturalmente valgono per i cattolici, però siccome tutti gli uomini sono chiamati alla salvezza e quindi sono chiamati ad evitare l’Inferno e a guadagnare il Paradiso, il loro dovere è quello di seguire la loro retta coscienza, nella misura in cui conoscono le esigenze del bene e coltivando, con l’aiuto della grazia, una fede almeno implicita in Dio come rimuneratore di buoni e giudice dei malvagi.


Teorie "gender" che negano la differenza tra maschio e femmina in un libro di Giulia Galeotti - La notte delle vacche nere - di Laura Palazzani - L'Osservatore Romano - 29-30 marzo 2010
Non è per ossequio alla lingua inglese che il titolo del volume di Giulia Galeotti Gender-Genere. Chi vuole negare la differenza maschio-femmina? L'alleanza tra femminismo e Chiesa cattolica (Vivere in, 2009) riporta, accanto a "genere" la parola gender. È, invece, una indispensabile precisazione linguistica. Il termine "genere" è solitamente usato per distinguere in grammatica tra "femminile" e "maschile"; ma "genere" è anche una categoria concettuale che raggruppa individui con proprietà simili (si usa per indicare il "genere umano"). Eppure vi è un terzo significato di "genere", che si può cogliere solo richiamandosi all'originario significato nella lingua inglese, in contrapposizione a sex: sex indica la differenza fisica uomo/donna; gender fa riferimento all'identità sessuale quale prodotto di una costruzione sociale e autodeterminazione individuale.
Le teorie gender, riprendendo una nota frase di Simon de Beauvoir "donne non si nasce, ma si diventa", introducono l'idea che il sesso che "siamo" può non coincidere con il "genere" che possiamo divenire. In altri termini: possiamo nascere donne e divenire uomini o, viceversa, possiamo nascere uomini e divenire donne. Insomma, la natura è irrilevante: ciò che conta è come ci "sentiamo" e soprattutto come "vogliamo" essere.
Giulia Galeotti in questo volume inquadra, in modo estremamente chiaro e sintetico, la nascita di queste teorie sul piano sia scientifico sia filosofico. Di particolare interesse la ricostruzione del noto caso "David/Brenda", un "bambino" che a causa di ambiguità genitale è stato "modificato" in "bambina". Un caso che Money, psico-sessuologo, ha esibito come prova empirica della sua teoria: non importa il sesso con il quale nasciamo, ciò che conta è come "diveniamo" mediante l'educazione e la socializzazione. Ma i fatti lo hanno smentito: il suicidio di Brenda che ha voluto ridiventare maschio, mostra l'errore della teoria. Eppure, nonostante questa smentita, le teorie gender hanno continuato a diffondersi nella filosofia e nel diritto. Il volume ripercorre in modo accurato come il termine e la ideologia sottesa si siano "infiltrati" in modo subdolo nelle normative internazionali e nazionali, approfittando della ambiguità ancora oggi diffusa del termine.
È un testo di agevole lettura, breve e intenso, che consente al lettore di comprendere che la sostituzione della parola "sesso" con la parola "genere", non è introdotta per intenzioni raffinate o eleganti, ma per una ragione ideologica ben precisa: la teorizzazione della priorità del genere sul sesso, della volontà sulla natura. Una ideologia che apre a un "pendio scivoloso": accettare queste premesse, significa ritenere che ogni individuo possa scegliere la sua "identità di genere" a prescindere dalla sessualità del proprio corpo; significa anche ritenere che ogni "orientamento sessuale" vale quanto qualsiasi altro (equiparando la etero-sessualità e la omo-sessualità). Insomma, lo "scivolamento" inevitabile nella direzione della "neutralità" sessuale.
È recente la notizia che in Australia per la prima volta un uomo/donna (forse bisognerebbe dire "donno" o "uoma") ha chiesto la registrazione anagrafica di un "sesso neutro", maschile e femminile. Se l'identità sessuale è prodotto di una scelta individuale perché non accettare (e legalizzare) anche la scelta di chi non vuole scegliere? Le teorie gender annullano il dualismo sessuale e aprono al "pansessualismo" o "polimorfismo" sessuale. È la lotta per l'abolizione dei confini tra naturale e contro-naturale; è l'apertura alla liberalizzazione nei confronti di qualsiasi scelta sessuale, in modo relativisticamente equivalente e indifferente. Una deriva che anche alcune teorizzazioni nell'ambito dello stesso femminismo hanno criticato; una deriva che la Chiesa cattolica ha fortemente contrastato; una deriva che Giulia Galeotti denuncia come inquietante, offrendo in questo libro consistenti argomentazioni razionali per contrastarne la diffusione.
(©L'Osservatore Romano - 29-30 marzo 2010)


Ucciso a Mossul bimbo cristiano di tre anni - L'Osservatore Romano - 29-30 marzo 2010
Mossul, 29. Un bambino di tre anni, appartenente a una famiglia cristiana, è rimasto ucciso in un attentato compiuto a Mossul sabato scorso. La mamma e due fratelli - secondo quanto riporta l'agenzia Fides, che differisce dalle notizie date dall'agenzia Ankawa, la quale parla di tre bambine - sono rimasti feriti. Un ordigno è stato infatti piazzato nei pressi della loro abitazione. Il padre del bimbo, Ramzy Balbole, svolge il lavoro di pittore. I feriti sono stati condotti in ospedale ma il piccolo è deceduto a seguito delle ferite riportate. "I fedeli sono terrorizzati. Ma la nostra parola d'ordine è sperare, sempre e comunque", ha riferito a Fides l'arcivescovo siro-cattolico di Mossul, George Casmoussa.
(©L'Osservatore Romano - 29-30 marzo 2010)


Avvenire.it, 30 Marzo 2010 – ANNIVERSARIO - Del Noce: società radicale, che guaio! - Vittorio Possenti
Come ogni centenario, anche quello di Augusto Del Noce porta con sé bilanci, nuove letture e prospettive, all’insegna del «ciò che è vivo e ciò che è morto». Seguendo di poco il centenario di Bobbio, amico e contraltare intellettuale, quello di Del Noce non avrà forse la stessa ampiezza d’iniziative ma non sarà meno significativo. Tra le varie possibilità di proseguire il suo lascito ne tocco qui una. <+corsivo>Il problema dell’ateismo<+tondo> (1964), la sua opera maggiore, si incentrava sull’ateismo marxista, allora in pieno vigore ma oggi crollato miseramente: il «suicidio della rivoluzione», preconizzato da Del Noce, si è compiuto e accade quando il marxismo fa propria la lettura «borghese» e materialista della vita.

«La ricomprensione italiana del marxismo attraverso la versione rivoluzionaria dello storicismo si risolve in una sua ricomprensione illuministica» (Il suicidio della rivoluzione, 1978): il comunismo in versione gramsciana diventa una componente sconsacrata della società radicale, che consente allo spirito borghese di realizzarsi allo stato puro. Saint-Simon e Comte prevalgono su Marx e Gramsci. Il suicidio della rivoluzione dipinto da Del Noce avviene attraverso la politica, in cui si intende creare l’uomo nuovo mediante la prassi civile. L’esito è spesso stato fallimentare e sanguinoso, come nei totalitarismi. L’altra grande rivoluzione è quella attraverso la scienza, e tutti siamo in grado di valutarne il successo, la potenza, e di non intravederne la fine. Essa non si suicida affatto, anzi tenta di mettere mano sull’uomo e spesso ci riesce: non si autodissolve ma avanza promettendo benessere, salute e una quasi-immortalità.

Caduto il marxismo, rimangono il relativismo morale e lo scientismo tecnologico. Dinanzi alle due forme della città degli atei, la comunista e la tecnocratica, sorge la domanda su quale sia la forma più radicale di ateismo: Marx o Comte? Ci sono buoni motivi per ritenere che l’ateismo scientistico sia più intenso, freddo e meno soggetto a dubbi. Esso attua un tentativo di mutazione antropologica attraverso le biotecnologie, una comprensione evoluzionistica dell’io come soggetto casuale, e tappa ogni minimo spazio entro cui possa sentirsi la nostalgia di Dio. L’ateo scientista non sente la mancanza di Dio come mancanza, è <+corsivo>naturaliter<+tondo> irreligioso.

Lo stesso problema dell’ateismo andrebbe ripensato a fondo in rapporto all’eclissi dell’idea di Dio (e dell’uomo) che si verifica nell’attuale situazione spirituale, richiedendo rinnovate ricerche. La sequenza franco-italiana Cartesio-Pascal-Malebranche-Vico-Rosmini in cui Del Noce vedeva – del resto con validi motivi – la linea della vita della filosofia moderna, non pare forse sufficiente ad interpretare la vittoria dello scientismo e del deserto secolaristico che esso veicola, e ad animare la necessaria resistenza. È naturale che anche il problema della secolarizzazione sia da ripensare, avvenendo essa oggi assai più attraverso la natura e il naturalismo che attraverso la storia e lo storicismo.

La grave crisi dell’idea di Dio veicolata dall’obiezione scientistica comporta l’attacco all’idea d’uomo. Lo scientismo sogna molto e si illude che, una volta eliminato Dio, sia possibile salvare in qualche modo l’uomo. Da ricordare sono le parole di Max Horkheimer: «Tutti i tentativi di fondazione della morale su una saggezza di questo mondo anziché sul riferimento a un aldilà riposano su illusioni di impossibili concordanze». Non è possibile mantenere fermo un senso assoluto senza Dio. Il marxismo teneva aperto uno spazio minimo – certo suo malgrado – per Dio poiché parlava d’alienazione e di giustizia, temi pericolosi per un ateismo conseguente.

Ma lo scientismo? Esso si rifiuta di pensare. Sembra una frase ad effetto ma è la pura verità quando uno consideri le poche righe in cui Richard Dawkins vorrebbe liquidare il problema Dio, e non fa altro che dipingere la sua completa inconsapevolezza filosofica del tema (cfr. L’orologiaio cieco). Ora per riprendere alla base questi problemi ci si deve fondare su una filosofia che sia in potenza attiva verso il futuro, e Del Noce la individuò verso la fine della vita. Nel Giovanni Gentile (1989) scrisse che lo scacco dell’idealismo riapriva la possibilità storica della filosofia dell’essere, ritrovata in specie attraverso Gilson.

Così egli si ricongiungeva implicitamente alle idee di Felice Balbo che intorno agli anni ’60 aveva con singolare acume speculativo indicato nella filosofia dell’essere di Tommaso la linea della vita del filosofare, nonostante le diversità di valutazione tra i due amici su non pochi punti: uniti però nel dare il primato a quel tomismo esistenziale (Maritain, Gilson, Fabro) che è il frutto migliore della filosofia dell’essere del XX secolo. Essi anticipavano il giudizio della Fides et ratio, secondo cui tale filosofia, fondata sull’atto stesso dell’essere, è aperta a tutta la realtà sino a raggiungere Colui che a tutto dona compimento. Del Noce ha dunque indicato nella filosofia dell’essere l’edificio intellettuale che riapre il cammino dopo la crisi del neoidealismo gentiliano; diagnosi che andrebbe completata indicando nella stessa filosofia (e antropologia) quella che può superare Comte e il suo assoluto ateismo. Questo compito è lasciato a noi, insieme alla valorizzazione del realismo, che Del Noce colse ma non ebbe tempo di completare.
Vittorio Possenti


Il figlio ad ogni costo: Rai3, va in onda l’orrore - DI L UCIA B ELLASPIGA – Avvenire, 30 marzo 2010
L a ragazza, un’indiana, ansima e piange ma sono gli ultimi sforzi, poi il bimbo viene al mondo e l’ équipe in camice verde taglia il cordone ombeli­cale. Per un breve istante il neonato vie ne mostrato alla donna, che gli sfiora la guancia con una carezza e subito disto glie lo sguardo per non rischiare di a marlo. «Adesso lo portiamo da sua ma dre », sorride soddisfatta la dottoressa, an che lei indiana. Non c’è logica – pensi – ho capito male...
Invece la logica (spaventosa, spietata) c’è, e a mostrarla è stato Report, in onda domenica sera su Rai3: è il business mondiale delle cosiddette gravidanze 'surrogate', degli ovuli e degli spermatozoi 'donati'. Il racconto si dipana attraverso immagini agghiaccianti, che danno un volto televisivo a quanto ha documentato anche Avvenire. «Molte aziende delocalizzano all’estero per abbattere i costi – ride Doron, un gay israeliano che della sua esperienza personale ha fatto un sistema red ditizio –, così mi son detto: perché non delocalizzare le gravidanze in India? Per una gravidanza surrogata ba stano donne giovani e sane, che abbiano bisogno di com prar casa». Lui stesso ci era passato, da cliente: su un ca- talogo aveva scelto la foto di una bella bionda («il mo dello caucasico è quello che va per la maggiore») 'dona trice' degli ovuli da fecondare, poi una 'madre in affitto' ci aveva messo l’utero, e il 'prodotto' finito – il bambino – era arrivato nove mesi dopo in Israele dai due 'genito ri' gay. Il tutto per 140mila dollari. Troppi? Ecco allora che Doron fila in India e tratta con la dottoressa: l’incontro in vitro tra ovuli e spermatozoi avverrà negli Usa, ma l’em brione verrà impiantato in India dove crescerà nel ven tre di una donna povera e disposta a tutto, e alla fine il neo nato ripartirà per New York o Tel Aviv o Dubai, dove in contrerà 'padre' e 'madre'. Per tutto il reportage Doron viaggia con il suo bidone termico pieno di spermatozoi, che in laboratorio diventeranno embrioni: «Guardi que sti che carini – l’occhio è attaccato alla lente –, stanno nuotando, ora ne catturo tre e faccio un essere umano». Come li sceglie?, chiede una voce fuori campo. «Quelli che mi piacciono di più, vede questo come si muove be ne? Ora prendo la pipetta e zac, nell’ovulo: ho fatto un es sere umano». Una donna di 57 anni, facoltosa, lo chiama al cellulare: ha bisogno di ovuli, vista l’età, ma anche di spermatozoi («non ho un compagno») e di una madre in affitto per la gravidanza. Per non fallire, Doron è disposto a raddop piare: «Impiantiamo due surrogate – propone – se poi re stano entrambe incinte si fa l’aborto selettivo». Sala ope ratoria, bisogna tagliare, la madre è sveglia, trema. Il bim bo nasce, bianchissimo, dal suo ventre nero.
La conduttrice di Report, Milena Gabanelli, nella prima parte aveva invece criticato aspramente la «troppo re strittiva » legge 40 sulla fecondazione assistita in Italia («un deplorevole attacco mediatico a una legge approvata con larga maggioranza trasversale», lamentava ieri Scienza & Vita). Aveva mostrato le migrazioni verso Spagna o Bel gio di coppie che in Italia non possono accedere all’ete rologa né alla diagnosi pre-impianto in caso di malattie genetiche. «Il diritto al figlio sano significa dire che una persona non perfetta ha un diritto affievolito a nascere. Io vorrei costruire una sanità che curi, non che risolva le terapie in termini di selezione», commentava il sottose gretario alla Salute, Eugenia Roccella. «Non vogliamo il fi glio perfetto, l’handicap lo accetteremmo – rispondeva la coppia – chiediamo solo di scegliere l’embrione sano per evitare che anche questo figlio muoia a pochi mesi dal par to, come il primo». Analisi pre-impianto per i casi mor tali, dunque... Ma a quanti mesi o anni dal parto il caso è 'mortale'? Chi sposta il paletto? Se la prima parte della serata faceva meditare, la seconda mostrava cosa acca de senza punti fermi. Lo comprende la Gabanelli, che ri sposte in tasca non ne ha e di una cosa sola è certa: «Que sto business non ci può lasciare indifferenti».