martedì 9 marzo 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Pubblicità ingannevole - Autore: Amato, Gianfranco Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 8 marzo 2010
2) Perché nel benestante Giappone la vita vale così poco - Un suicidio ogni 15 minuti, nel paese più efficiente del mondo. Un'inchiesta esclusiva ne analizza i motivi. Il vescovo e il nunzio: manca la fede in un Dio personale, in un popolo che onora otto milioni di dei - di Sandro Magister
3) S.E. Card. Carlo Caffarra - LA CONVERSIONE: un uomo affascinato - Paray-Le-Monial, 7 marzo 2010
4) Avvenire.it - 7 Marzo 2010 – STORIE - L’eremita che vive al cimitero
5) UCCISI 500 CRISTIANI/ Gheddo: così l’educazione può salvare l’Africa da miseria e odio - INT. Piero Gheddo - martedì 9 marzo 2010 – ilsussidiario.net
6) Avvenire.it, 9 Marzo 2010 - Valori ultimi (e penultimi) del diritto - Sì a forme e regole - Doppio sì alla giustizia, di Francesco D’Agostino
7) Avvenire.it, 9 Marzo 2010 - Impuniti i burattinai delle stragi a colpi di machete - Chi soffia sul fuoco delle fedi nella terra dove avanza la sharia - Giulio Albanese

Pubblicità ingannevole - Autore: Amato, Gianfranco Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 8 marzo 2010
Sta per irrompere sul mercato italiano EllaOne la pillola dei cinque giorni dopo.
Spacciata per anticoncezionale d’emergenza, EllaOne sarà un nuovo rimedio per impedire una gravidanza indesiderata entro 120 ore da un rapporto sessuale potenzialmente fertile.
Vediamo di cosa si tratta esattamente. Questa pillola contiene una molecola che si chiama ulipristal acetato, un antiprogestinico di seconda generazione. Per i profani è sufficiente sapere che quel composto sintetico si lega ai recettori del progesterone (ormone prodotto dalle ovaie) esattamente come la pillola abortiva RU486. L’azione del progesterone è fondamentale per l’iniziale sviluppo della gravidanza poiché prepara l’utero ad accogliere l’embrione ed EllaOne, legandosi appunto ai recettori di quell’ormone ne inibisce l’azione. Poiché, quindi, contrasta l’annidamento dell’embrione, quella pillola svolge in realtà un’azione intercettiva-abortiva. E non contraccettiva. Non è un caso, infatti, che i primi studi sulla EllaOne siano stati realizzati proprio confrontando la sua azione con quella della RU486.
E’ interessante anche analizzare la differenza tra EllaOne e la cosiddetta “pillola del giorno dopo”, ovvero la contraccezione a base di levonorgestrel.
Il più rilevante tratto distintivo si riferisce al periodo di assunzione dei due prodotti.
Mentre il levonorgestrel, infatti, deve essere assunto entro 72 ore, la posologia di EllaOne prevede un arco temporale maggiore, ovvero un’assunzione entro le 120 ore (5 giorni). Peccato, però, che nella fisiologia della riproduzione, l’embrione a cinque giorni dal concepimento sia già in utero per annidarsi.
Più interessante appare la correlazione tra EllaOne e la RU486.
Entrambe le molecole, infatti, appartengono al gruppo degli antiprogestinici, i quali svolgono la loro azione inibitoria dell’annidamento dell’embrione. La farmacodinamica dell’ulipristal acetato è, peraltro, pressoché identica a quella del mifepristone (Ru486).
Parole complicate per dire che si sta spacciando per contraccettivo un prodotto che, invece, ha effetti abortivi.
Tutto regolare? Non direi proprio.
Com’è noto, la Direttiva europea 2005/29/CE dell’11 maggio 2005, relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno, prevede una severa disciplina in materia. E l’Italia è stato il primo Paese dell’Unione a recepire integralmente quella direttiva, attraverso il Decreto Legislativo 2 agosto 2007, n. 146, il cui art.21, primo comma, lett. a) e b), espressamente prevede che debba considerarsi ingannevole una pratica commerciale non solo quando contiene «informazioni false» ma pure quando «in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, inganni o possa ingannare il consumatore medio», e ciò «anche se l’informazione è di fatto corretta». L’inganno deve riguardare «l’esistenza o la natura del prodotto», ovvero «le caratteristiche principali del prodotto», quali, tra l’altro, «la composizione», «l’idoneità allo scopo» ed i «risultati che si possono attendere dal suo uso».
EllaOne, come si è visto, agisce impedendo il proseguimento dello sviluppo dell’embrione, giacché rende impossibile il suo annidamento nella parete uterina. Non si tratta, dunque, di un effetto contraccettivo bensì di un meccanismo prevalentemente abortivo qual è quello antinidatorio, che si estrinseca dopo l’avvenuta fecondazione, quando è già iniziato il processo di sviluppo di una nuova vita umana.
Sul punto, lo stesso Prof. Baulieu – padre della pillola abortiva RU486, e quindi insospettabile sotto il profilo bioetico - ha affermato che «l’interruzione della gravidanza dopo la fecondazione può essere considerata alla stregua di un aborto» (Il Punto sulla RU486, in «JAMA ed. italiana», 1990, 2,12).
Anche la logica, del resto, vuole la sua parte. Dal punto di vista etimologico il termine “contraccezione” deriva dall’inglese contra-conception e sta ad indicare l’attività volta ad impedire la concezione, la fecondazione. Ora come può EllaOne pretendere, logicamente, di impedire qualcosa che in realtà è già avvenuto, ovvero la fecondazione? Dopo il concepimento, in realtà, non si è più nell’ambito della contraccezione ma in quello contragestazione, cioè dell’attività che contrasta la gestazione. Impedire l’annidamento significa impedire lo sviluppo di una vita già iniziata.
Sempre in tema di logica, è interessante notare che il punto 4.1 delle istruzioni per l’uso di EllaOne, relativo alle «indicazioni terapeutiche», includa tra i casi in cui assumere la pillola anche la «contraceptive failure», ovvero l’ipotesi di mancato funzionamento di un contraccettivo. Come si può, quindi, logicamente immaginare che il rimedio al fallimento di un contraccettivo possa essere un altro contraccettivo? Alla “contraceptive failure” non può che seguire un’azione contragestatoria, ovvero abortiva.
Ora, da quanto fin qui evidenziato, risulta evidente che presentare EllaOne come un contraccettivo d’emergenza anziché come un prodotto abortivo, rappresenti una grave manipolazione semantica, tale da integrare una vera e propria pratica commerciale ingannevole, in palese violazione dell’art. 6, primo comma, lett. a) e b) della Direttiva 2005/29/CE, e dell’art.21, primo comma, lett. a) e b) del Decreto Legislativo 2 agosto 2007 n.146, violazione sulla quale, peraltro, dovrebbe intervenire l’Autorità Garante della concorrenza e del mercato.
Né si può tacere sulla natura e sull’oggetto dell’inganno.
La posta in gioco, in realtà, assume rilievi non indifferenti di natura morale, etica, filosofica, culturale.
Usare un contraccettivo non è come abortire.
Per questo l’informazione deve essere chiara e obiettiva, affinché una donna possa acquisire la piena consapevolezza della sua scelta e sappia che qualora opti per l’uso della pillola EllaOne non sta evitando un aborto. Lo sta praticando.


Perché nel benestante Giappone la vita vale così poco - Un suicidio ogni 15 minuti, nel paese più efficiente del mondo. Un'inchiesta esclusiva ne analizza i motivi. Il vescovo e il nunzio: manca la fede in un Dio personale, in un popolo che onora otto milioni di dei - di Sandro Magister
ROMA, 8 marzo 2010 – Si moltiplicano, tra l'Italia e la Cina, le celebrazioni e le mostre in onore del gesuita Matteo Ricci, per i cinesi Li Madou, geniale annunciatore della fede cristiana nel celeste impero di quattro secoli fa.

La genialità di Matteo Ricci fu di capire ed accogliere quanto della cultura cinese poteva essere assunto come propedeutico alla fede cristiana. Egli vide nel confucianesimo – e non nel buddismo e nel taoismo da lui fermamente avversati – le tavole di quella legge universale a cui l'annuncio cristiano poteva aggiungere la sua novità inaudita. E a questo annuncio, quando Matteo Ricci era in Cina, seguirono importanti conversioni ai livelli alti della società e della cultura.

Non altrettanto è avvenuto per un'altra grande nazione e civiltà dell'oriente: il Giappone.

La storia del cristianesimo in Giappone è una storia di martiri. Nessun'altra civiltà al mondo si è mostrata più impermeabile al cristianesimo della giapponese. In passato uccidendone gli annunciatori. In epoche più recenti ospitandoli cortesemente, ma senza mai farvi corrispondere ondate di conversioni.

A loro volta, però, anche gli annunciatori del cristianesimo in Giappone non hanno saputo penetrare a fondo, finora, il mistero di quella civiltà, per "inculturare" il loro annuncio.

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Un impressionante indizio del mistero della cultura giapponese è il primato dei suicidi.

In media ogni 15 minuti un giapponese si toglie la vita. In un anno sono più di 30.000. "Kamikaze" e "harakiri" sono le parole della lingua giapponese più conosciute nel resto del mondo.

Perché ciò avvenga è oggi discusso molto più pubblicamente che in passato, in Giappone. E l'inchiesta che segue dà conto proprio di questa discussione.

L'autore dell'inchiesta, Silvio Piersanti, è un giornalista italiano di grande esperienza internazionale, che vive a Tokyo ed è sposato con una scrittrice giapponese. Ha interpellato sull'argomento, tra gli altri, il vescovo cattolico della capitale e il nunzio vaticano in Giappone.

I quali concordano nell'indicare nella questione di Dio la radice ultima della facilità con cui i giapponesi si tolgono la vita.

I giapponesi, dicono, "hanno otto milioni di dei, migliaia di templi e due religioni ufficiali, il buddismo e lo shintoismo", ma mancano di una fede in un Dio personale, onnipotente e misericordioso, vicino e amorevole con ogni uomo.

Ancora una volta, ha visto giusto Benedetto XVI quando ha indicato nella questione di Dio la "priorità" del suo pontificato, sotto ogni cielo.

Ecco l'inchiesta, da Tokyo.

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SUICIDI IN GIAPPONE. LA SPINA NEL CRISANTEMO - di Silvio Piersanti
Non è raro che all’ingresso di una stazione della metropolitana di Tokyo si veda l'annuncio di un ritardo a causa di un "ginshinjico", ossia un “incidente con una persona”: è la formula eufemistica con cui si definisce il suicidio di chi si è gettato tra i binari al passaggio di un treno. L’annuncio è ormai di routine. Il corpo viene rapidamente portato via, i moduli di polizia riempiti in tutta fretta e la circolazione riprende in tempi brevi, frenetica ed efficiente come sempre.

Ogni 15 minuti un giapponese si toglie la vita. Secondo dati ufficiali resi pubblici dal comando centrale di polizia, ormai da dodici anni consecutivi, ogni anno in Giappone si uccidono oltre 30.000 persone e i primi dati statistici dell’anno in corso fanno presagire che nel 2010 si potrebbe arrivare a 35.000: il più alto numero di suicidi nel paese più socialmente avanzato del mondo.

Yukio Hatoyama, capo del partito democratico e dell'attuale governo di centro-sinistra che ha interrotto decenni di governi di coalizioni di centro-destra, ha detto che quello dei suicidi è un grave problema sociale che deve essere affrontato con decisione, trovando i mezzi sia finanziari che strategici per arginarlo. Ha cominciato il suo discorso di inizio anno alla nazione con le parole: “Voglio proteggere la vita della gente, la vita di quelli che sono nati, che crescono e diventano adulti". Ed ha proseguito pronunciando la parola “vita” 24 volte, affermando che lo scopo principale del suo governo è appunto quello di “proteggere la vita umana”.

In cinque mesi, la task force creata dal governo per affrontare la questione dei suicidi ha assegnato alle agenzie del lavoro qualche migliaio di psicologi specializzati nel trattamento di depressioni dovute a problemi di lavoro o di soldi, e si è ampliata l’assistenza temporanea ai senza tetto, con alloggio, cibo e vestiario forniti nelle due settimane del periodo natalizio e di fine d’anno, un periodo in cui generalmente il numero di suicidi sale drammaticamente. L’anno scorso a Tokyo ne beneficiarono in 800, quest’anno in 230.000. Ha distribuito opuscoli, ha istituito linee telefoniche amiche, ha predisposto un tirocinio specifico per gruppi di volontari. Ma nessuna di queste misure sembra aver effetto.

Un suicida ogni 15 minuti è un dato agghiacciante, ma se si analizzano i dati statistici l’angoscia aumenta. Si vede infatti che un terzo dei suicidi è di età tra i 20 ed i 49 anni, uomini e donne nel pieno della vita che non vedono nel loro presente e nel loro futuro alcuna ragione per non gettarla via. E se si scende nella fascia dell’età, si scopre che il Giappone ha il primato mondiale di studenti suicidi: 552 nel 2009. Ogni giorno dell’anno scolastico, quindi, due studenti decidono di togliersi la vita, vittime di un sistema scolastico aspramente competitivo e di atti di bullismo di spietata crudeltà.

Forse il risultato più importante ottenuto dal governo è stato quello di mettere il problema dei suicidi davanti agli occhi di tutti. Questo sembra essere in sintesi il messaggio del governo: vediamo insieme cosa si può fare, fateci capire cosa spinge tanta gente a rifiutare la vita in questa nostra società pur così affluente.

Prima d'ora, infatti, il suicidio non era visto dall’opinione pubblica come un problema sociale dell’intero paese. Ognuno lo considerava una disgrazia occorsa alla propria famiglia, su cui era più dignitoso tacere. Ora invece, dopo la divulgazione dei dati statistici e la promessa del premier Hatoyama di farne una priorità del suo programma di governo, televisione, giornali, libri, università discutono apertamente il problema e cercano di capire perché uno dei paesi più ricchi e sviluppati, dove il tasso di criminalità è tra i più bassi del mondo, dove l'elevata longevità dovrebbe testimoniare una vita sociale serena, sia invece il paese con il più alto numero di suicidi.

I giapponesi non sono felici. Dati ufficiali pubblicati recentemente dall’associazione nazionale degli psichiatri e neurologi rivelano che dal 30 al 40 per cento dei pazienti ricoverati negli ospedali giapponesi soffrono di disturbi psichiatrici e che i 13.000 psichiatri in servizio nel paese non bastano a far fronte alla grande richiesta di aiuto da parte di malati mentali.

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Nel messaggio con cui ha introdotto la Quaresima di quest'anno, Benedetto XVI ha ricordato come il principio del giurista latino Ulpiano, secondo cui ”dare cuique suum” era la formula per assicurare la giustizia nel mondo, in realtà si è rivelato fallace. Per essere felice l’uomo ha bisogno di qualcosa che non può essergli garantito dalla legge: ha bisogno dell’amore gratuito di Dio. Il Giappone che, ignaro di un Dio trascendente, è diventato un paese-guida della giustizia sociale è piagato da questa profonda pulsione suicida. Sembra quindi essere una prova lampante e drammatica della verità del pensiero di Ratzinger: senza Dio l’uomo non può essere felice. I beni materiali sono necessari, ma non garantiscono la felicità, il pieno godimento della vita.

Sarebbe forse semplice legare l’impennata dei suicidi alla crisi economica in cui si dibatte il paese dalla fine della cosidetta "bubble economy" nella seconda meta degli anni ’80, ma quello dei fallimenti e dei disoccupati è solo una, e forse non la principale, delle cause di questa ondata di disperazione che colpisce il paese.

Naturalmente ci sono cause universali come malattie incurabili, delusioni d’amore, crisi di depressione, ecc. Ma quello che si vuole appurare è cosa c’è dietro la apparente facilità con cui il giapponese arriva alla decisione di togliersi la vita. Sociologi e psicologi ritengono che una spinta al suicidio potrebbe trovarsi nella cultura e nella tradizione dei "samurai", ossia di "coloro che servono", il cui suicidio – "seppuku", più conosciuto in occidente con il sinonimo "harakiri" – compiuto con dignità rituale, indossando un kimono da cerimonia ed affondando una lama nel proprio ventre, era considerato l’unico modo onorevole di cancellare l’onta di una sconfitta o di un’umiliazione.

Questa tradizione è stata poi recepita dai piloti "kamikaze", ossia "vento di dio", che durante il secondo conflitto mondiale si sfracellavano con i loro caccia contro le navi da guerra americane. Forse l’ultima manifestazione pubblica di questo stoicismo esasperato è stato il doppio "seppuku" inscenato dal famoso scrittore Yukio Mishima e dal suo più fedele seguace Morita il 25 novembre 1970, davanti a un migliaio di soldati e a decine di telecamere dopo aver occupato con un manipolo di suoi fedelissimi il ministero dell’interno. Era l’estrema protesta di Mishima e del suo piccolo esercito privato contro il patto con cui il Giappone accettava di non avere un proprio esercito ed affidava la difesa del proprio suolo alle forze armate americane.

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Ci dice il nunzio apostolico in Giappone, l’arcivescovo Alberto Bottari de Castello, a capo della nunziatura di Tokyo da 5 anni: “I giapponesi non hanno un rapporto personale con Dio. Il concetto dell’individuo, che è al centro della cultura occidentale, non fa parte del loro Dna culturale. Si identificano con il gruppo, la società, l'azienda, la nazione. Quando un cristiano arriva alla decisione di togliersi la vita sa che sta per infrangere una regola sacra: la vita gliel’ha data Dio e solo Dio gliela può togliere. Il giapponese tentato dal suicidio non ha questo freno. Non ha il concetto del peccato. Non ha nessuno, non ha niente, all’infuori del proprio mondo materiale e culturale, a cui chiedere aiuto. Ma nel suo mondo chiedere aiuto è disonorevole, e allora deve risolvere all’interno di se stesso il dramma della propria infelicità, divenuta insopportabile. I cristiani, anche nei momenti più bui, possono sempre tendere la mano verso Dio. I giapponesi no. Hanno otto milioni di dei, migliaia di meravigliosi templi, santuari, altari, altarini, due religioni ufficiali, il buddismo e lo shintoismo, ma vivono senza il Dio unico onnipotente e misericordioso, senza il concetto di Dio padre di tutta l’umanità e presente in ciascuno di noi, sempre".

Hiroko Nakamura, apprezzata traduttrice di libri di narrativa italiani, non crede che la relativa facilità con cui i giapponesi giungono alla decisione di rinunciare alla vita sia da imputarsi al loro apparente ateismo: “Al contrario, penso che sia proprio il nostro credo religioso più diffuso, il buddismo, che ci rende più facilmente accettabile l’idea del suicidio come soluzione estrema dei nostri problemi terreni, sia materiali che spirituali. Il buddismo predica la reincarnazione, ossia il trasferimento dell’anima di un individuo in un altro corpo fisico, non necessariamente umano. La vita è considerata una prova d’esame per guadagnarsi una nuova vita, salendo di esistenza in esistenza, verso il nirvana, l'eterna beatitudine celeste. Con questa fede, quando la pressione dei problemi della vita sembra insostenibile, è più facile cedere alla tentazione di lasciarsi tutto dietro le spalle, e tentare di fare meglio nell'esistenza successiva. Buddha, Gesù, san Francesco, Gandhi, li abbiamo conosciuti nella loro ultima esistenza, prima del loro ingresso nel nirvana".

Il vescovo cattolico di Tokyo, Paul Kazuhiro Mori, concorda con il nunzio Bottari de Castello nel ritenere che ai giapponesi manchi il concetto di Dio e quello del peccato. Quando il giapponese decide di togliersi la vita non pensa di infrangere una legge divina, non sente rimorso per il suo atto. Non vi vede nulla di condannabile, di eticamente negativo. Al contrario, con il suicidio il giapponese salva il suo onore e quello della sua famiglia, se ne ha ancora una. “Quando voi giornalisti venite in Giappone”, ci dice il vescovo Mori, “ ammirate i traguardi straordinari nel campo sociale. Scuole, ospedali, abbondanza di beni materiali, stipendi alti, basso tasso di criminalità, sicurezza nelle strade, trasporti pubblici ammirati in tutto il mondo, industrie fiorenti, ordine pubblico molto stabile. Se voi credete che sia il benessere sociale a dare la felicità, allora potete concludere che il nostro è un paese felice, nei limiti umani. Ma se vorrete guardare sotto questa crosta di abbondanza materiale, allora vi troverete di fronte a uno dei paesi più poveri, quanto al rispetto dell’individuo ed al suo nutrimento spirituale".

Le cifre ufficiali, pur nella loro agghiacciante crudezza, sono nulla rispetto a quanto esse nascondono. C’è chi afferma che in realtà i suicidi siano almeno il doppio di quelli denunciati e i tentativi falliti siano almeno una dozzina di volte più numerosi di quelli portati a compimento, e altrettanti siano coloro che stanno pianificando il loro suicidio. "Vivere in Giappone è come vivere in prima linea in guerra", disse una volta il famoso scrittore buddhista Hiroyuki Itsukio. E si chiedeva: se è stata chiamata "una selvaggia guerra civile" quella tra cattolici e protestanti nell’Irlanda del nord che in 40 anni è costata la vita a 5.000 persone, allora come dovremmo chiamare la realtà giapponese che ha visto nello stesso periodo uccidersi almeno un milione di persone? “Sono completamente d’accordo con Itsukio”, commenta il vescovo Mori. “L’opinione pubblica si indignava per le notizie che giungevano da quella guerra fratricida. Ma nessuno sembrava preoccuparsi per questa carneficina che si compie tutti i giorni da tanti anni davanti ai nostri occhi”.

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Il reverendo Samuel Koji Arai, 80 anni benissimo portati, è pastore della Chiesa protestante interdenominazionale del quartiere di Mabashi. Ha circa mille fedeli in gran parte del ceto medio-alto. “Ma erano solo una dozzina quando sono arrivato 46 anni fa” ci dice. Per darci il benvenuto, ha interrotto una fuga di Bach che stava suonando all’organo. Accanto all’organo ci sono due pianoforti ed un violoncello. “Facciamo molta musica dal vivo”, sorride, “classica per gli anziani, rock per i giovani. Anche quando parlo ai miei fedeli debbo usare due lingue, una per i giovani e una per gli anziani. Vivono in mondi diversi. Per i giovani è più facile capire il messaggio del Vangelo, perché il Vangelo è rivoluzione. Mentre i vecchi hanno radici così profonde nella tradizione giapponese che per loro il Vangelo è spesso incomprensibile. I suicidi? Non ho il minimo dubbio sul perché: è la mancanza di Dio nella vita dei giapponesi. La loro vita frenetica, consumistica, edonistica, mi ricorda gli ebrei che danzavano attorno al vitello d’oro, dimentichi di Dio. Sfumata l’ebbrezza dell’alcol, l’eccitazione della danza, ci si ritrova soli, senza uno scopo, senza un valore che trascenda il benessere fisico. Si vede la vita come una corsa a chi arriva all’ultimo traguardo. Dietro il traguardo, il buio. E ci si domanda se valga la pena di continuare a lottare per guadagnare sempre di più, per spendere sempre di più, per curarsi sempre di più per poi finire comunque soli in qualche residence per anziani benestanti o in qualche ospizio. E allora l’idea di gettarsi sotto un treno comincia a entrare in testa sempre piu spesso fino a che un giorno si scendono le scale della metropolitana per l’ultima volta. Sarebbe bastato poter dire 'Gesù, aiutami', sarebbe bastato alzare gli occhi al cielo, senza bisogno di dire neanche quelle due parole e la vita avrebbe avuto tutto un altro sapore, tutto un altro senso. Quattro volte ogni ora io mi sento in colpa, quattro volte ogni ora sento un pugno nello stomaco. Quei quattro fratelli che ogni ora del giorno e della notte se ne vanno senza conoscere Dio, li sento come quattro fallimenti della mia missione di pastore. Noi Chiesa dovremmo fare molto di più".

“La Chiesa cattolica ha fatto molto in Giappone, ma certamente può fare di più". ci dice il nunzio Bottari. “Abbiamo costruito scuole, ospedali, collegi, università. Le nostre scuole sono molto apprezzate. L’Università Sophia di Tokyo è una delle più prestigiose della nazione. Stiamo anche finanziando un telefono amico gestito da protestanti per fornire assistenza psicologica a chi ha deciso di togliersi la vita. Ma qui siamo di fronte a un grande dramma nazionale. Per incidere positivamente sul fenomeno dei suicidi dobbiamo far penetrare il concetto di Dio e della sacralità della vita all’interno della cultura giapponese. Per ora è un obiettivo ancora lontano. Ci sono poco più di un milione di cattolici in Giappone, di cui più della metà sono immigrati. Abbiamo ogni anno circa 4 mila conversioni, la nostra visione di Dio avanza, ma lentamente. C'è una domanda che mi pongo da anni senza trovare una risposta soddisfacente. Perchè i giapponesi, che hanno fatto della cortesia e del rispetto del prossimo la base del loro comportamento sociale, sono così refrattari al messaggio di amore universale del Vangelo? Perché non si convertono? Credo che l’ostacolo principale sia il profondo radicamento nella loro millenaria cultura, che fa loro apparire la conversione a una fede monoteistica occidentale come un tradimento delle tradizioni, della patria e dell’intera civiltà orientale in generale".

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In effetti, i giapponesi hanno un classico rapporto di odio e amore per l’occidente. Sono attratti dai valori espressi dalla cultura occidentale in ogni campo: scienze, arti, letteratura, architettura, musica, medicina, ricerca spaziale, ma allo stesso tempo si sentono vittime di una colonizzazione intellettuale. “In ogni campo siete voi che stabilite le regole, i criteri di giudizio, l’estetica e anche l’etica”, ci dice la scrittrice giapponese Kyoko Asada. “ Siete voi che da secoli vi arrogate il diritto di stabilire cosa è bene e cosa è male, cosa è bello e cosa è brutto, qual è il dio vero e qual è quello falso".

Il vescovo Mori le dà in parte ragione, quando ci dice: "In Giappone c’è in realtà un grande bisogno di valori religiosi, ci sono fedeli che praticano anche due diverse religioni. Ma la Chiesa non riesce a soddisfare questa sete di religiosità perche sbaglia strategia: la Chiesa non deve limitarsi a far conoscere la dottrina, la fede e le tradizioni cattoliche, ma deve trovare il modo di coniugarle con la cultura ed i problemi della vita quotidiana dei giapponesi, evitando la frattura tra l’insegnamento della dottrina e la quotidianità della vita in Giappone. Ovviamente è un compito difficilissimo, reso ancora più arduo dalla diminuzione di vocazioni e dall’invecchiamento dei preti locali".

C’è speranza, vescovo Mori? “Sì, credo di sì. Mi basta pensare all’esempio di madre Teresa che ha saputo trovare il modo di parlare al cuore degli indiani al di sopra delle differenze di fede, con il semplice linguaggio delle sue azioni. Se riusciremo anche noi a dare una così grande testimonianza dell’amore di Gesù, penso che potremo anche rallentare in modo significativo la valanga di suicidi che affligge questo paese".

In un recente dibattito televisivo a cui hanno partecipato tre giovani donne che avevano tentato il suicidio, una di esse, la 26nne Shinohara Eiji, ha raccontato il suo dramma, iniziato alle scuole medie superiori dove era presa in giro peeché grassa. La continua umiliazione, anno dopo anno, la portò alla decisione di togliersi la vita. Al ritorno a casa dall’ospedale dove era stata ricoverata con le vene dei polsi tagliate, fu accolta dal padre che l’abbracciò. Era la prima volta in tutta la sua vita che riceveva un abbraccio da suo padre. “Non ci siamo detti una parola, ma in quel momento, tra le sue braccia, ho capito che la vita era bella e degna di essere vissuta".

Tutte e tre le giovani si sono trovate d’accordo nel ritenere che ciò di cui avrebbero avuto bisogno per vincere la disperazione era “ai o kometa osekkai”. "Ai o kometa” significa “essere accompagnate, motivate, dall’amore”, mentre “osekkai” vuol dire “essere oggetto di interesse e di cura”: un modo giapponese per far capire che avrebbero avuto bisogno di qualcuno che si fosse interessato con amore dei loro problemi. In parole più semplici, un po’ di amore le avrebbe trattenute da quel gesto estremo. E non ci sono beni materiali ed eque ridistribuzioni di ricchezze che possano garantire quell’amore. Dio lo può.


S.E. Card. Carlo Caffarra - LA CONVERSIONE: un uomo affascinato - Paray-Le-Monial, 7 marzo 2010
Il tema più ricorrente nelle settimane di quaresima è il tema della conversione. Nei testi liturgici è talmente costante il richiamo ad essa che possiamo pensare e vivere il cammino quaresimale come cammino di conversione. Vorrei dunque riflettere con voi su questo grande tema.

Per introdurvi in esso vorrei partire dalla descrizione di due esperienze umane, nelle quali sono sicuro che molti di voi sentiranno narrare un pezzo della loro storia.

Prima esperienza: l’arrivo del primo figlio a una coppia sposata. Che cosa succede quando ad una coppia nasce il primo bambino? È sostanzialmente l’ingresso e l’instaurarsi di una nuova presenza dentro la loro vita. E’ arrivata una nuova persona! Di conseguenza la vita dei due sposi non può più essere come prima: ormai devono "fare i conti" con lui. Abitudini che forse duravano da anni dovranno essere cambiate; il lavoro acquista un nuovo senso: lavorano soprattutto per lui, per assicurare il suo futuro. Potremmo dire che la loro giornata viene vissuta e la loro vita interpretata alla luce della presenza del bambino.

Seconda esperienza: un giovane si innamora di una ragazza o viceversa. Che cosa succede nella vita del giovane/della giovane? Ancora una volta: una persona entra con inaspettata potenza nella vita. C’è come un "urto": i latini parlavano di "passio", di passione. E’ un avvenimento che accade e che ti colpisce: ne sei "preso". Ed in modo tale che tutte le energie – intelligenza e libertà – ne sono coinvolte, perché la persona intuisce che le si apre davanti una nuova possibilità di esistenza. E’ una presenza carica di attrattiva che la spinge ad una risposta.

Queste due esperienze così umane possono essere la porta che ci introduce dentro alla comprensione del fatto della conversione.

1. [Natura della conversione]. La Chiesa, come vi ho detto, in queste settimane di quaresima parla spesso di conversione. Non solo, ma pone spesso sulle nostre labbra la preghiera per ottenere la conversione. Ma che cosa significa "convertirsi"? A questa domanda siamo tentati di rispondere subito: cambiare la propria vita, in senso morale. E pensiamo alla vita immorale e sregolata di una persona che decide di … rientrare nell’ordine della legge morale. Pensare la conversione in questi termini non è sbagliato. Anzi, come vedremo, questo modo di pensarla ne coglie un aspetto imprescindibile. Ma non è questo il "nucleo esistenziale" della conversione.

Fra le molte pagine bibliche che potremmo leggere, due mi sembrano particolarmente adeguate: il racconto dell’incontro di Zaccheo con Gesù [Lc 19,1-10], e una pagina autobiografica di Paolo [Fil 3,4-14]. E’ vero che Zaccheo cambia la sua vita dal punto di vista morale: decide non solo di non rubare più, ma restituisce il mal tolto con una misura superiore a quella richiesta dalla legge. Ma se guardiamo alla storia di Paolo, le cose non stanno proprio in questi termini. Egli, prima dell’avvenimento decisivo [quello appunto che definisce la sua conversione cristiana], non teneva – a differenza di Zaccheo – condotte moralmente riprovevoli. Anzi, egli dice di se stesso che era "irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge" (Fil. 3,6b). Dunque: si può essere malfattori e ladri, come Zaccheo, e non essere ancora convertiti [e questo è abbastanza facile da capire]; si può essere persone oneste e molto giuste, come Paolo, e non essere ancora convertiti [e questo è abbastanza difficile da capire]. E non è neppure sempre vero che i secondi siano più vicini alla conversione dei primi. Gesù una volta disse a chi era o si riteneva giusto: "i pubblicani e le prostitute vi precederanno nel Regno di Dio". Ed allora che cosa significa "convertirsi"?

Qualcuno a questa domanda potrebbe essere tentato di rispondere: cambiare il proprio modo di pensare, di valutare le cose cioè, e di interpretare la realtà. Ancora una volta, devo dire che sicuramente non esiste vera conversione senza questo cambiamento. Anzi, quando la comunità greca dovette tradurre nella sua lingua la parola usata da Gesù per indicare la conversione, essa – particolarmente sensibile a questo aspetto – usò il termine "meta-noia" che letteralmente significa "cambiamento di mentalità". E’ questo dunque un aspetto della conversione assai importante. Ma non è esso il "nucleo centrale". Abbiamo anche al riguardo un esempio nella storia della Chiesa. La conversione di Agostino, come è noto a tutti, fu lunga ed assai faticosa. Egli dovette superare due enormi difficoltà [assai attuali!]: la difficoltà di una visione materialista; la difficoltà di una visione fatalista. Egli pensava che esistessero solo realtà materiali; egli pensava, da manicheo quale era, che l’uomo non fosse libero. Egli superò questi due formidabili errori, soprattutto attraverso la lettura di libri neo-platonici. Fu la sua conversione? Non proprio. Essa può accadere quando incontra Ambrogio che, scrive egli stesso, lo "accolse come un padre e gradì il mio pellegrinaggio proprio come un vescovo" (Confessioni V, 13,23).

Ed allora che cosa è la "conversione"? riascoltiamo nel cuore la pagina evangelica. Che cosa succede a Zaccheo di così diverso dalla sua vita ordinaria? Incontrò Cristo che chiese di entrare in casa sua. Che cosa è successo a Paolo di così straordinario che cominciò da quel momento a considerare una perdita tutto ciò che fino a quel momento poteva essere per lui un guadagno? Abbiamo due testi che in maniera molto suggestiva ce lo dicono. Il primo dice: "E Dio che disse: rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo" (2 Cor. 4,6). L’altro testo dice: "Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunciassi in mezzo ai pagani… " (Gal. 1,15-16). Ha avuto un incontro con Cristo nel quale egli, Paolo, ha visto la Presenza: la presenza stessa di Dio, colla gloria del suo amore. Il profeta (Is. 9,1) aveva preannunciato: "Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce: voi che abitate nella regione dell’ombra della morte, una luce splenderà su di voi". Nella vita di Paolo questa parola si è compiuta: una luce si è accesa nella sua esistenza perché ha visto Cristo, perché ha visto in Lui la presenza stessa di Dio.

Per capire meglio che cosa significa qui la parola "incontro", è necessario tener presente che quando esso accade veramente, sono le radici stesse della nostra esistenza ad essere coinvolte. E quali sono le radici della nostra vita? Che cosa cioè nutre il nostro quotidiano esistere: ciò che ci fa lavorare, che ci fa prendere moglie/marito, che ci fa desiderare e pensare? Come ha visto bene Agostino: è il desiderio di beatitudine, di pienezza di essere. Le nostre scelte sono sempre in vista di un bene particolare; ma alla fine ciascuna di esse si inscrive e si radica nel desiderio di un bene che sia tale da dare piena soddisfazione alla nostra fame e sete di beatitudine, al nostro sconfinato desiderio di verità, di bontà, di bellezza. Solo una cultura disumana e superficiale come la nostra poteva tentare di estenuare nell’uomo questo suo desiderio, insegnandogli che è possibile ben navigare anche se si naviga sempre a vista senza avere nessun porto a cui dirigersi; che è possibile ben camminare anche senza sapere dove andare.

L’incontro con Cristo pesca in questa profondità dell’essere: Cristo è "sentito" come la risposta vera e totale al proprio desiderio illimitato di beatitudine: "mio Signore e mio tutto" [pregava S. Francesco]. Zaccheo ha capito che non nel denaro, ottenuto con tutti i mezzi, era la risposta al suo desiderio, ma la risposta era Lui, lo stare a tavola con Lui. Paolo ha capito che la glorificazione di Dio non consisteva in primo luogo nello sforzo morale dell’uomo, ma che tutta la sua felicità ormai era nel conoscere Lui, nell’essere con Lui. Pietro ha capito che non sarebbe più riuscito ad andare da nessun’altra parte, poiché sapeva che solo Lui aveva parole di vita eterna.

L’incontro con Cristo è un fatto che ha tutti i connotati propri dei fatti che accadono in questo mondo: in un tempo preciso ed in un luogo determinato. Mentre Zaccheo è su una pianta; mentre Andrea e Pietro stavano pescando; mentre una donna samaritana va ad attingere acqua al pozzo, e così via. Ma nello stesso tempo è un fatto che è imprevedibile [Zaccheo mai si sarebbe aspettato!], incalcolabile [proprio nel momento in cui Paolo andava ad imprigionare i cristiani!], non programmato [la samaritana faceva ciò tutti i giorni] ma così corrispondente alle attese più profonde della persona da farle esclamare: "tardi ti ho amato, o Bellezza tanto nuova e tanto antica!".

Ed ancora. L’incontro con Cristo è improvviso perché Egli solo ne ha l’iniziativa: il primato della grazia! Ma nello stesso tempo, esso mette in movimento tutta la persona incontrata. L’apostolo Paolo lo esprime in modo stupendo: "mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo". E’ una persona protesa verso il futuro, un futuro che è la pienezza della comunione con Cristo. Ma questo movimento è la risposta ad un’esperienza che sta all’origine della corsa: è stato afferrato da Cristo.

Ecco: questa è la conversione cristiana. E’ questo incontro con Cristo.

2. [Conseguenze della conversione]. Consentitemi ora di dire alcune parole su ciò che accade in Zaccheo, in Paolo, in ciascuno di noi quando in noi accade la conversione, quando cioè incontriamo Cristo.

Succedono fondamentalmente due cose, rispettivamente nei due dinamismi spirituali fondamentali della nostra persona: l’intelligenza e la libertà.

A livello di intelligenza, è soprattutto la pagina paolina ad illuminarci. Sarebbe necessario fare un lungo discorso sulla conversione della intelligenza a Cristo: soprattutto oggi. Mi limito ad una sola riflessione.

Due sono le domande fondamentali che l’intelligenza umana, posta di fronte al reale, si pone: che cosa è [domanda sulla verità]? quale è il suo valore [domanda sul bene]? L’incontro con Cristo mette in moto la tua intelligenza perché tu vuoi sapere la verità e il valore di ciò che è e di ciò che fai alla luce di Cristo. Ti chiedi: che cosa è l’amore umano? Quale è il valore della sofferenza? E così via. Il "convertito" cerca colla sua ragione la risposta nella luce di Cristo, della Sapienza stessa di Dio. Ecco perché la ragione del credente è spinta ad esercitarsi al massimo, senza precludersi nulla. Nasce una nuova cultura.

A livello di libertà, è soprattutto la pagina evangelica ad illuminarci. Anche su questo sarebbe necessario un lungo discorso, perché penetriamo nella chiave di volta di ogni umana esistenza: l’idea e l’esperienza che ciascuno ha della propria libertà. Mi limito ad una sola riflessione.

Zaccheo ha radicalmente cambiato il suo modo di essere libero: dal possesso al dono. Tutto qui! La sua libertà è stata liberata, perché è stata resa capace di amare. Ha acquistato la libertà del dono. Nasce l’amore e l’amicizia. E Paolo con Giovanni dirà che questo è tutto.

Ma c’è un’altra dimensione dell’avvenimento della conversione: il convertito, colui che ha incontrato Cristo non può tacere. "Perché lo annunciassi in mezzo ai pagani", dice Paolo; la samaritana corre in città a narrare a tutti ciò che le è successo. Non si può tacere!

Conclusione

Ha senso oggi parlare di conversione? Prima di rispondere a questa domanda consentitemi di dirvi quale è, a mio giudizio, il bisogno spirituale più profondo dell’uomo che vive in Occidente, prendendo le mosse un po’ alla larga.

L’itinerario mentis in Deum è sempre partito in Occidente da un presupposto, poggiava i piedi su una terra ferma: l’intelligibilità del reale di cui ho esperienza. E pertanto la convinzione che il desiderio insonne della ragione di scoprire l’intelligibilità del reale, non era da considerare un desiderio vacuo che non poteva trovare risposta definitiva ma solo provvisoria. L’incontro fra l’intelligibilità del reale e la ragione che cerca è la verità. Come scrisse C. Fabro in due aforismi: "la verità è una qualità fondamentale del reale e una qualità fondamentale dell’essere", e "la verità è un atteggiamento radicale esistenziale: di stare in attesa della rivelazione dell’essere" [Libro dell’esistenza e della libertà vagabonda, Piemme, Casale M. 2000, pag. 116].

Ne deriva che la ricerca di Dio e l’esistenza della verità simul stant et simul cadunt.

Secondo studiosi competenti chi ha scalzato questa base è stato Nietzsche, e la piena accettazione, fino ai suoi esiti finali, di quella demolizione è diventato a mio giudizio la temperie spirituale del tempo attuale. In che senso? Almeno in due significati.

È accettato, come in dato di fatto, come una sorta di destino, che l’universo degli enti non nasconda, non rimandi, non significhi una Presenza eccedente la misura dell’ente stesso. Esiste solo la verità propria dei progetti tecnici dell’uomo. Un esempio. L’atto di porre le condizioni della venuta all’esistenza di una nuova persona non ha in se stesso una verità che rimanda ad una Presenza. È un mero fatto che può essere anche tecnicamente riprodotto in laboratorio.

La domanda quindi di senso è giudicata una domanda priva di senso o comunque inutile: si vive, e basta. E così si dica di ogni fondamentale vissuto umano. L’assenza di Dio – oggi molti pensano – è il destino dell’uomo; e, alla fine, si vive ugualmente bene. È questo il volto più tragico [per noi] del nichilismo, non tanto il relativismo morale conseguente.

Abbiamo così individuato il bisogno spirituale più profondo: il bisogno della Presenza. Nella lettera inviata da Benedetto XVI a tutti i vescovi nel marzo scorso, il S. Padre confida che attribuisce come compito supremo al suo pontificato quello di rendere presente Dio nella vita degli uomini.

Ritorno alla domanda iniziale. Ha senso parlare oggi di conversione? Sì, ma nel senso biblico precisamente: incontro con una Presenza che dimora dentro – non fuori! – alla realtà di cui ho quotidiana esperienza: non altro. La Chiesa può, deve ragionevolmente parlare di conversione, perché testimonia Cristo. E Cristo è supremamente interessante per la ricerca umana, perché è la possibilità dell’impossibile: il Verbo si è fatto carne ed abita fra noi.


Avvenire.it - 7 Marzo 2010 – STORIE - L’eremita che vive al cimitero
Quando al telefono ascolto la voce di suor Julia per la prima volta, l’unica cosa che si lascia facilmente percepire, dato lo spiccatissimo accento anglosassone, è la sua origine inglese. Per il resto, l’unica notizia avuta al suo riguardo non fa che circondare quest’eremita di un alone di mistero. So di lei che vive dentro a un cimitero.

Il cimitero nel quale vive suor Julia però è quello monumentale «degli Inglesi», in pieno centro a Firenze; un ovale situato nel bel mezzo di Piazzale Donatello, circondato ad ogni ora del giorno dal rumore intenso del traffico cittadino. In un luogo simile, senza dubbio, non si è lontani dal mondo né, con molta probabilità, si intende fuggirlo; lo intuisco quando lei, nel suo stentato italiano, mi informa che c’è un modo molto pratico di avere qualche notizia anche a distanza: visitare il suo sito web. Vengo così a sapere, prima di conoscerla di persona, che Julia Bolton Holloway, studiosa, scrittrice, ex monaca anglicana, è adesso custode del monumentale «Cimitero degli Inglesi»; che in questo spazio è responsabile di una biblioteca intitolata a Fioretta Mazzei, e che da essa promuove una gran quantità di iniziative culturali e spirituali.

Che eremita è questa donna che vive nel centro di Firenze circondata dal suo caos? E ancora: che eremita è chi si rende accessibile, conoscibile attraverso il mezzo di comunicazione più veloce dei nostri tempi? Il giorno della mia visita, la donna che mi viene incontro ha un aspetto molto normale e di immediato richiamo religioso; indossa una corta veste monastica di colore azzurro chiaro un po’ sbiadita che – come poi dirà – confeziona da sola con quello che capita. In testa ha un velo bianco.

È, questa di indossare una veste, una necessità che ha per lei il valore di una piccola riaffermazione; nel monachesimo americano, che conosce bene, si sta andando sempre più verso l’azzeramento di ogni segno distintivo, ma lei che nella sua vita, spesso in giro per il mondo, ne ha conosciuto i vantaggi, intende reagire così: «È stato bello quando sono stata in San Pietroburgo, all’Unesco e i musulmani sono venuti da me per dire: "Anche io sono religioso" e gli ortodossi sono venuti a dirmi: "Noi vogliamo l’unione con voi"; e si era in un contesto internazionale. Io trovo che è più facile vestirsi così per essere testimoni». Julia Bolton Holloway nasce a Londra nel 1937. Il padre, scrittore e uomo di spicco nel mondo della cultura anglosassone, desidera per lei la migliore istruzione possibile, per questo ella sarà tra le allieve di un collegio anglicano del Sussex.

La sua esperienza scolastica, molto promettente e attratta in particolare dallo studio del Medioevo, dopo le scuole superiori prosegue speditamente negli Stati Uniti dove, nel giro di pochi anni, si trova avviata all’insegnamento; dapprima ai francescani dell’Illinois, poi a Princeton: «Noi siamo state la prima generazione di donne a insegnare all’Università».

All’inizio degli anni Novanta Julia, nell’età in cui le scelte importanti si credono ormai fatte una volta per tutte, dopo l’esperienza di un matrimonio fallito e mentre dirige l’Istituto di Studi Medievali all’Università del Colorado, anticipa l’uscita dall’insegnamento a dieci anni dalla pensione: «Ho rinunciato a tutto per entrare nel mio convento». È così che Julia, cinquantatreenne, entra nel convento della sua vecchia scuola per diventare monaca anglicana. Però, passati 4 anni, accadono alcune cose che la disorientano: «Il vescovo ha voluto la proprietà del monastero ed è stata la fine della nostra comunità». Ma c’era anche di più: «Io sono stata lì 4 anni con il velo ma non ho potuto fare i voti perché loro non hanno accettato.

Allora ho detto: "Vado via"». Un’uscita che ha tutti i caratteri di una vera e propria fuga di fronte a un male che, una volta intravisto, è troppo doloroso per essere accettato: «Ero disperata perché a quel punto il male che vedevo era così grave che non ne ho potuto più. Mi ha fatto impressione perché quella era stata la mia scuola, il luogo dove avevo imparato la religione e percepire che c’era del male dentro quell’ideale per me era troppo...». Julia sceglie di andare molto lontano: «Sono fuggita qui in Italia; ho scelto di essere in un luogo bello». È il 1996 ed è Montebeni, sulle colline di Fiesole, il «luogo bello» nel quale, con un grande senso di desolazione, approda in attesa di risalire verso la gioia. «La cosa buona è stata che ho dovuto "fare l’edizione" della Giuliana».

La donna cui suor Julia spesso, nell’intercalare del discorso, si riferisce con tanta confidenza, chiamandola per nome come si fa con l’amica del cuore o con la vicina di casa, è Giuliana di Norwich, la celebre teologa e mistica inglese vissuta a cavallo tra il XIV e il XV secolo. Julia l’ha già studiata e conosciuta nel periodo dell’insegnamento e, appena giunta in Italia, ha la possibilità di curare l’edizione della sua opera più celebre. Nella sua lunga esperienza di medievista, tanti sono gli studi e i saggi pubblicati che portano la firma di Julia Bolton, ma questa volta la mistica lascia in lei un’impronta indelebile come nessun’altra: «Ogni volta che sono tornata alle pagine di questo lavoro, di questi manoscritti, la speranza è tornata; penso che questo viene da Dio; non c’era nessun’altra ragione altrimenti per continuare».

Altre cose buone accadono, ora che «la Giuliana» ha aperto la strada e, tra queste, una importantissima: «Nel giorno dell’Assunzione sono entrata in una chiesa di campagna in preghiera e ho presentato a Dio i miei voti di povertà, castità, obbedienza, nessun altro presente, e subito è tornata la gioia della mia vocazione».

La gioia di Julia, una volta trovata la fonte, avrebbe potuto solo crescere, come quella volta che le capitò di conoscere suor Maria Chiara della «Comunità dei Figli di Dio»; era bellissimo che fosse ancora una donna a indicarle come proseguire il cammino. Julia grazie a lei conoscerà don Divo Barsotti e sarà proprio il sacerdote fiorentino che, a seguito di una lettera scritta dal cardinale Piovanelli, con il sacramento della Confermazione, la accoglierà nella Chiesa cattolica. Poi la Chiesa evangelica svizzera le offrì il Cimitero degli Inglesi, nel centro di Firenze. Suor Julia si rivolge allora al proprio direttore spirituale. Il monaco, un benedettino, eremita lui stesso dentro a un cimitero, non fatica a consigliarla: «Accetta; anche Giuliana ha vissuto in un cimitero».

La prima cosa da realizzare fu proprio una biblioteca. Perché intitolarla a Fioretta Mazzei? «Perché negli ultimi anni della sua vita l’ho conosciuta per caso e lei ha sempre parlato del bisogno di continuare la cultura fiorentina in questo contesto religioso». Dopo Giuliana e suor Maria Chiara, la Mazzei è un’altra grande figura femminile sulla sua strada, anch’essa capace di aiutarla a capire che cosa sarebbe stato importante esprimere in questa sua nuova vita. Ora suor Julia lancia ininterrottamente in giro per il mondo i tesori grazie ad Internet: «Ho messo in rete tutti gli scritti di Brigida di Svezia, i testi in latino, le vite dei santi, molte delle cose che ho scritto ed edito io, cercando di dare in particolare alle donne il senso della dignità».


E poi «la domenica alle 5 del pomeriggio leggiamo il Vangelo, diciamo i Vespri insieme e poi ceniamo. "Giuliana di Norwich" è il nome scelto per il cenacolo che si è formato. Ci sono persone bravissime, anche con una forma di potere in Firenze, ma qui vengono semplicemente con il loro vino. Questa esperienza è buona perché è un’amicizia profonda che abbiamo con la preghiera. Condividiamo anche i libri».

C’è una stanza dell’eremo nella quale si svolge la parte segreta e privata della sua vita; è la sua cella e, in un piccolo spazio separato dal resto della stanza, c’è l’angolo per la sua preghiera solitaria, «semplice ma dedicato a questo». Lì, alle 4 e 30 del mattino, con l’Ufficio delle Letture, la recita delle Lodi ed il canto dell’Angelus, inizia la sua giornata. Poi una corsa veloce in bici e, nella città ancora sonnolenta, la messa mattutina nella chiesa della Santissima Annunziata. Gli altri momenti, sempre nel suo angolo solitario, quasi rubati tra l’una e l’altra delle mille attività che ruotano attorno alla biblioteca, nella ricerca di un silenzio che essa può trovare solo nella propria interiorità: «È un po’ artificiale, lo so, ma non ho il diritto di chiedere altro. Io sono fuori dalle strutture e penso di doverlo accettare».
Cristina Saviozzi


UCCISI 500 CRISTIANI/ Gheddo: così l’educazione può salvare l’Africa da miseria e odio - INT. Piero Gheddo - martedì 9 marzo 2010 – ilsussidiario.net
Centinaia di morti. Ancora una mattanza in Africa, dove gli odi religiosi, politici e tribali questa volta insanguinano la Nigeria. Sarebbe di almeno 500 morti, stando alle fonti della Croce rossa, il bilancio della spietata aggressione condotta domenica notte da gruppi fanatici musulmani contro gli abitanti, in maggioranza cristiani, del villaggio di Dogo Nahawa, a sud di Jos, nella parte centrale del paese. Proprio là dove gli stati musulmani, in cui vige la sharia, toccano quelli meridionali, l’equilibrio fragilissimo della convivenza rischia ogni volta di saltare. Ma non si deve cadere nell’errore di dar la colpa solo alla religione. «La gente è strumentalizzata dalla politica - dice Piero Gheddo, missionario del Pime - che porta alle estreme conseguenze la differenza religiosa».

Padre Gheddo, perché questo massacro? È odio anticristiano, etnico o politico?

Questi elementi ci sono tutti. Ma per spiegare questa violenza bisogna fare un passo indietro. La Nigeria risente di una somma di problemi che si trascinano dal periodo coloniale. Gli inglesi l’hanno creata a tavolino unendo il nord del paese, fortemente islamizzato, con il sud a maggioranza cristiana. La storia successiva del paese ha fatto il resto e ha acuito le divisioni, che prima non erano sentite.

Si spieghi.

Mentre nel nord i musulmani hanno progressivamente conquistato spazio e si sono imposti, anche per aver mandato via molto cristiani, diventando la quasi totalità, nel sud molti indigeni si sono convertiti al cristianesimo, protestante o cattolico. Questo divisione territoriale ha creato i presupposti per l’acuirsi delle differenze che sono esplose in seguito.

In che modo?

La Nigeria del sud è diventata la parte più sviluppata del paese, e non solo per la maggiore presenza di risorse naturali e di materie prime. Il fattore religioso ha giocato un ruolo fondamentale: il sud si è sviluppato passando dall’animismo al cristianesimo, mentre il nord a maggioranza islamica è rimasto fermo. Non dimentichiamo che il 70-80 per cento delle scuole in Nigeria è tenuto dalle missioni cristiane. Le scuole missionarie hanno creato un popolo che «risponde» al mondo moderno. Ma questa differenza non giustifica ancora la contrapposizione radicale che c’è oggi.

Da dove tra origine allora l’odio che alimenta i massacri?
La gente è strumentalizzata dalla politica, che porta alle estreme conseguenze la differenza religiosa. Ma i massacri non sono causati dalla diversità di fede. Pensiamo soltanto alla frattura politica che divide i vertici del paese, il presidente ad interim Goodluck Jonathan, cristiano, e il presidente musulmano Umaru Yar’Adua. Nella zona centrale del paese in cui le parti si incontrano, come a Jos, l’odio diventa generalizzato: politico, etnico e religioso. Il paese è precipitato in una spirale di massacri reciproci, di parte cristiana e di parte musulmana. 12 stati su 36 sono oggi basati sulla sharia.

Cosa può dire della componente religiosa cristiana?

A parte le azioni o le reazioni di rappresaglia, che sono da condannare, da parte cristiana c’è uno sbaglio enorme. Il dramma è che le chiese protestanti hanno generato i cosiddetti pentecostali, che non sono un problema solo in Nigeria ma in tutta l’Africa. Per i pentecostali esiste solo la Bibbia. Il cristianesimo produce sempre una rivoluzione nel mondo pagano. Se il seme cristiano è gettato dai cattolici, crea la chiesa, basata non solo sul libro ma sulla tradizione e sull’autorità; gettato nell’humus dominato dal protestantesimo genera, spesso e volentieri, sette pagane con infarinatura cristiana e fanatica, che combattono i musulmani facendo propaganda esattamente come loro. È così in Nigeria, in Algeria, in Marocco.

Dunque la fede dei pentecostali com’è vista dagli altri?

Come un’aggressione alle loro tradizioni. Battezzano e convertono diffondendo fanatismo religioso, attitudine alla violenza e alla conversione forzata. Questo urta tremendamente il mondo islamico, che già vive un conflitto drammatico con la politica moderna. Un conflitto che pone molte domande, alle quali l’estremismo è la risposta più semplice.

Qual è la posizione dei cattolici?

Le rispondo facendo mio quel che ha detto mons. Ignatius Ayau Kaigama, arcivescovo di Jos. Ha negato come motivazione principale degli scontri che una chiesa sia stata attaccata e bruciata. Questo può essere generalizzato. Molti vescovi sono convinti che i contrasti non siano da attribuire alle religioni come tali, ma che vadano ricondotti a cause precise. Nel caso, i musulmani di etnia Hausa che arrivano da nord. La realtà è che la fede cattolica contiene una capacità di convivenza pacifica e di costruzione che le altre religioni non conoscono, se non dopo una lunga e difficile maturazione.

Come spiega questa differenza del cattolicesimo?
La fede cattolica favorisce l’educazione. Non parlo qui del dogma, ma dell’approccio critico che essa sviluppa in noi. Non c’è solo il libro, ma la parola viva, Cristo presente ieri come oggi. La fede forma in chi la incontra una nuova personalità. Insegna che la coscienza va sempre rispettata. La chiesa cattolica non è un gruppo autonomo che decide cosa pensare e cosa fare, ma ha un’autorità. C’è il papa, ci sono i vescovi, c’è la conferenza episcopale. E molto in Africa sta cambiando.

Cosa intende dire?

Qualche anno fa ho incontrato in Senegal il capo degli anglicani locali. «Non intendiamo più stare con la nostra chiesa di Londra - mi ha detto -. Da quando l’Inghilterra ha ammesso al sacerdozio le donne e da quando queste possono anche diventare vescovi, ci stiamo federando con le chiese protestanti anglicane della Nigeria». In Africa molte chiese riformate si stanno allontanando dall’anglicanesimo e si riavvicinano alla chiesa cattolica.

Tornando alla Nigeria. Cosa serve per uscire dal dramma di questi conflitti che sembrano senza fine?

Occorre essere testimoni. E poi fare opera di educazione. Solo l’educazione porta sviluppo e costruisce. È l’esatto opposto di quello che fa la Cina, che arriva in Africa con migliaia di operai, fa grandi opere per i governi, prende le materie prime e se ne va senza lasciare nulla, senza trasmettere nessuna tecnologia, senza fare alcuna alfabetizzazione.


Avvenire.it, 9 Marzo 2010 - Valori ultimi (e penultimi) del diritto - Sì a forme e regole - Doppio sì alla giustizia, di Francesco D’Agostino
«Non si cambiano le regole del gioco durante la partita». Questa frase riassume nel modo migliore l’opinione di coloro che ritengono scandaloso il decreto-legge varato dal Governo per sanare il pasticcio creatosi in occasione della presentazione delle liste di candidati alle prossime elezioni regionali di Roma e Milano. Voci molto autorevoli, non solo di politici, ma anche di ex-presidenti della Corte Costituzionale, chiedono agli uomini di cultura e in particolare ai giuristi di protestare contro un’iniziativa governativa, ritenuta come minimo arrogante o addirittura lesiva della democrazia.

Per quel che mi concerne, non ho alcuna intenzione di associarmi a nessuna protesta, di nessun tipo. E questo non perché non ritenga assurda, fino al limite del ridicolo, tutta la vicenda, divenuta ormai l’ emblema del pressappochismo con il quale si gestiscono procedure che meriterebbero il massimo della serietà e del rigore, ma perché ritengo giusta (anche se formalisticamente forzata) la soluzione che si è giunti a individuare. Su Avvenire si è già commentato ripetutamente e a dovere ciò che sta accadendo. Qui, ora, mi preme sottolineare che in questa storia sta emergendo molto bene ciò che differenzia chi legge il diritto in una prospettiva formale e procedurale e chi, come il sottoscritto, pensa che per quanto le forme e le procedure siano importantissime, esse vadano ritenute come valori non ultimi, ma penultimi.

Il vero valore, il valore ultimo del diritto non è il rispetto delle forme, ma la giustizia: e giustizia vuole che in una competizione elettorale gli elettori di un partito radicato e a vocazione maggioritaria nel Paese non possano essere esclusi dal voto. Sì, mi sento rispondere, ma le norme che regolano le elezioni esigono un rigido rispetto. Non si possono cambiare le regole del gioco durante la partita! Verissimo. Ma nel nostro caso le partite in senso proprio (cioè le votazioni) non sono ancora iniziate. Stiamo ancora nella fase preliminare in cui si deve stabilire chi potrà o no partecipare al gioco. Escludere dal gioco un giocatore, non per ragioni di sostanza, ma per ragioni di forma, è assurdo, perché toglie senso al gioco in quanto tale (che senso avrebbe una partita in cui ci fosse un solo giocatore?).

Il formalista questo non lo capisce: per lui l’applicazione rigorosa delle regole è comunque doverosa, anche se da esse dovesse derivare l’impossibilità di giocare. Questo è il paradosso eterno del formalismo in tutte le sue varianti (dal fariseismo al legalismo): per i formalisti l’ amore delle norme è tale, che non esitano a chiudere gli occhi davanti alla realtà. Viene da pensare che essi ritengano che si debba giocare non per amore del gioco in quanto tale, ma perché è bello applicarne le regole; che si debba vivere non per amore della vita, ma per poter rispettare le norme del codice.

Ma la democrazia non vive forse di regole e di procedure? Certamente e guai se così non fosse. Ma, ripeto, regole e procedure vanno lette, sempre tenendo presente che il diritto esiste per garantire la vita sociale e non viceversa; che il diritto è per l’uomo e non l’uomo per il diritto. Le regole di presentazione delle liste esistono per far sì che vengano ammessi alla competizione solo quei partiti che possiedano una consistenza "reale" e per evitare che sulla scheda elettorale finiscano per comparire i nomi di candidati del tutto occasionali o pretestuosi. Ecco perché l’esclusione, per ragioni formali, di una lista minore, politicamente "irreale", può essere dolorosa e (pur dovendosi cercare tutti i modi per sanarla) tollerabile, mentre l’esclusione della lista di un partito "principale" è semplicemente intollerabile.

So bene che i formalisti non accetteranno mai questo modo di pensare; ma so anche bene che ragionando in tal modo i formalisti perdono inevitabilmente il contatto con la realtà e – cosa infinitamente più grave – fanno perdere tale contatto anche al diritto.
Francesco D'Agostino


Avvenire.it, 9 Marzo 2010 - Impuniti i burattinai delle stragi a colpi di machete - Chi soffia sul fuoco delle fedi nella terra dove avanza la sharia - Giulio Albanese
Il massacro di oltre cinquecento persone, per la stragrande maggioranza cristiane, nello Stato nigeriano del Plateau è aberrante e va condannato senza alcun distinguo. Non solo perché si tratta dell’ennesimo affronto alla sacralità della vita umana, ma anche per l’uso scellerato che menti perverse hanno fatto della religione. In meno di un anno e mezzo è già la terza volta che lo Stato della Nigeria centrale assurge all’onore delle cronache per atti criminosi che vedono coinvolti esponenti di fede musulmana e cristiana.

È difficile risalire alle precise responsabilità iniziali di questi massacri, in cui si uccidono all’arma bianca masse inermi, essendo la realtà nigeriana un crogiolo di etnie e culture, in un contesto geo-politico caratterizzato da forti disparità sociali. Un mosaico nel quale è facile manipolare l’insoddisfazione dei ceti meno abbienti in nome dell’appartenenza a questa o a quella etnia, o anche in nome della fede. Eppure, tutti sanno che dietro le quinte si celano interessi politici di parte, giochi di potere e antiche rivalità, sia a livello regionale sia nazionale. Fenomeni che hanno a che fare con le negligenze di un governo centrale, quello di Abuja, che da circa un decennio tollera l’applicazione della sharìa, la legge islamica, negli Stati del Nord, peraltro in flagrante violazione del dettato costituzionale di una Repubblica Federale che non dovrebbe rinnegare la propria laicità.

Stiamo parlando di un Paese dove l’1% della popolazione ha il controllo quasi assoluto della ricchezza nazionale e in cui i fondi destinati alla spesa pubblica sono una misera manciata di spiccioli rispetto al volume complessivo di denari generati dal business petrolifero. Un sistema corrotto nel quale il diritto di cittadinanza sembra essere ancora una nozione astratta per la stragrande maggioranza della popolazione. E mentre le autorità intervengono ancora una volta in ritardo, mobilitando legioni di poliziotti e militari per riaffermare l’ordine pubblico, in queste ore si sta consumando il macabro rito del riconoscimento dei parenti e congiunti caduti nell’orribile mattanza nei villaggi di Dogo-Na-Hawa, Rasat e Jeji a sud della città di Jos.

Questa volta gli attori delle violenze sono stati pastori musulmani dell’etnia fulani, la volta precedente, nel gennaio scorso, gli scontri erano iniziati per colpa di cristiani "pseudo-evangelici". Sarebbe comunque fuorviante dividere lo scenario tra "buoni" e "cattivi". Indubbiamente, vi sono in Nigeria frange estremiste che seminano il terrore su procura, ma i veri mandanti sono personaggi il cui unico fine è quello di indebolire lo Stato di diritto. Ecco che allora quanto sta avvenendo nel Plateau è la cartina al tornasole di un Paese in cui la politica delle alte sfere finora ha dato il cattivo esempio. La dicono lunga i giochi di potere a livello locale e le evidenti tensioni tra il vice presidente Goodluck Jonathan, di fede cristiana, cui il Parlamento ha trasferito i poteri, e presidente Umaru Yar’adua, gravemente malato, appartenente alla comunità islamica.

Peccato che il braccio di ferro, per induzione, contamini questa o quella fazione, acuendo peraltro l’insicurezza. Secondo autorevoli fonti della società civile, gli assassini e i mandanti, poco importa se musulmani o cristiani, delle stragi occorse nello Stato del Plateau nel 2001, 2004, 2008 e nel gennaio 2010, sono praticamente tutti a piede libero. Non c’è dunque da meravigliarsi se gli sterminatori sono tornati a usare il machete.

Si sa bene che la Nigeria potrebbe garantire a tutti migliori condizioni di vita, non foss’altro perché galleggia sugli idrocarburi; eppure, continua a essere metafora delle ingiustizie di oligarchie che godono della connivenza di potentati stranieri. Non a caso la Chiesa Cattolica, attraverso il suo episcopato, ha sempre stigmatizzato la pesante sperequazione tra i ceti più ricchi e quelli meno abbienti, da cui dipende la cronica instabilità della nazione. La comunità internazionale non può continuare a rimanere inerte, perché la vita umana vale più dell’oro nero.
Giulio Albanese