mercoledì 31 marzo 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) “OGNI QUESTIONE SOCIALE È SEMPRE ANCHE QUESTIONE ANTROPOLOGICA” - I Vescovi italiani mettono al centro i “valori non negoziabili”
2) Mentire sapendo di mentire - Autore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 30 marzo 2010
3) Le meditazioni scritte dal cardinale Camillo Ruini per la Via Crucis che sarà presieduta da Benedetto XVI al Colosseo la sera di Venerdì Santo - Non chiudiamo gli occhi di fronte alla sofferenza - L'Osservatore Romano - 31 marzo 2010
4) 30/03/2010 – INDIA - Settimana Santa: L’amore di Cristo vicino ai dolori del mondo - di Brother Yesu Das* - Una meditazione pasquale fra le sofferenze dei malati di Aids, le donne morenti della Shanti Dan a Calcutta, i terremotati di Haiti. In tutte le sofferenze c’è sempre qualcuno che consola, come Maria, che ha unto i piedi di Gesù e ha visto per prima il Signore risorto.
5) ATTACCO AL PAPA/ John Allen: così il New York Times ha stravolto fatti e documenti - John L. Allen - mercoledì 31 marzo 2010 – ilsussidiario.net
6) Non paura, ma perdono - Lorenzo Albacete - mercoledì 31 marzo 2010 – ilsussidiario.net
7) Avvenire.it, 31 Marzo 2010 - Le parole di Sofri, il vero impegno per la vita - Perché non basta definirsi «anti-abortisti» - Francesco D’Agostino
8) Avvenire.it, 31 Marzo 2010 -La pazienza e il fuoco - «Amici dei pedofili» ci dicono - Ma noi stiamo con Cristo - Davide Rondoni
9) Avvenire.it, 31 Marzo 2010 – INTERVISTA - Padre Scalfi, 50 anni di samizdat - Antonio Giuliano
10) Londra, no al crocifisso in corsia - Infermiera discriminata da clinica che consente il velo islamico - DA L ONDRA E LISABETTA D EL S OLDATO – Avvenire, 31 marzo 2010

“OGNI QUESTIONE SOCIALE È SEMPRE ANCHE QUESTIONE ANTROPOLOGICA” - I Vescovi italiani mettono al centro i “valori non negoziabili”
ROMA, martedì, 30 marzo 2010 (ZENIT.org).- Dopo aver analizzato la situazione del nostro Paese, i Vescovi italiani hanno ribadito il primato dei “valori non negoziabili” e che “ogni questione sociale è sempre anche questione antropologica”.
Nel comunicato finale del recente Consiglio episcopale permanente riunitosi a Roma la scorsa settimana si legge che nel prendere visione della bozza del Documento preparatorio dell’ormai imminente Settimana Sociale di Reggio Calabria (14-17 ottobre 2010), la cui pubblicazione avverrà nei prossimi mesi, i presuli hanno dato rilievo all’impostazione e ai contenuti dell’Enciclica Caritas in veritate.
A questo proposito – continua il comunicato – , sono chiare ed esplicite le parole di Benedetto XVI: 'Non può avere solide basi una società, che – mentre afferma valori quali la dignità della persona, la giustizia e la pace – si contraddice radicalmente accettando e tollerando le più diverse forme di disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole ed emarginata' (Caritas in veritate, n. 15).
In tale contesto, si spiega come i “valori non negoziabili”, richiamati nella sua prolusione dal Presidente della CEI, il Cardinale Angleo Bagnasco, “rappresentino la ragione e la missione dell’impegno dei cattolici nell’azione politica e sociale”.
Essi sono: “la dignità della persona umana, incomprimibile rispetto a qualsiasi condizionamento; l’indisponibilità della vita, dal concepimento fino alla morte naturale; la libertà religiosa e la libertà educativa e scolastica; la famiglia fondata sul matrimonio fra un uomo e una donna”.
“È solo su questo fondamento – continua la prolusione – che si impiantano e vengono garantiti altri indispensabili valori come il diritto al lavoro e alla casa; la libertà di impresa finalizzata al bene comune; l’accoglienza verso gli immigrati, rispettosa delle leggi e volta a favorire l’integrazione; il rispetto del creato; la libertà dalla malavita, in particolare quella organizzata”.
“Si tratta – affermava il Cardinale Bagnasco – di un complesso indivisibile di beni, dislocati sulla frontiera della vita e della solidarietà, che costituisce l’orizzonte stabile del giudizio e dell’impegno nella società. Quale solidarietà sociale, infatti, se si rifiuta o sopprime la vita, specialmente la più debole?”.


Mentire sapendo di mentire - Autore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 30 marzo 2010
Siamo alle solite: chissà perché i nostri giornalisti ci costringono a ritenere attuale quel proverbio «Fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio»? Ieri [29 marzo 2010] tutte le agenzie battevano la notizia del Card. Martini che avrebbe detto (e la citazione era virgolettata) che la soluzione al problema della pedofilia e degli abusi sessuali dei preti stava nel ripensare all’istituto del celibato ecclesiastico.

Oggi, con una nota che riportiamo in calce [1], il Card. Martini smentisce queste affermazioni a lui attribuite, e mette i puntini sugli «i». E afferma che «occorrerebbe ripensare alla forma di vita del prete». Come non essere d’accordo? È quello che continuiamo a dire sul sito, e nei luoghi che ci vedono protagonisti. E fa parte di questa «forma di vita» anche l’esperienza di fraternità sacerdotali, che sono una bellissima caratteristica delle esperienze dei vari movimenti ecclesiali.

Già nell’editoriale accennavamo alla possibile manipolazione da parte dei mass-media della notizia diffusa a tamburo battente. Oggi ne abbiamo conferma, e ne siamo lieti.
Certo però che – francamente – non ne possiamo più di una stampa e di una informazione che hanno smarrito le più elementari forme di correttezza professionale e che usano del loro potere per creare una mentalità (o servire interessi di parte) piuttosto che aiutare a leggere la realtà.

Ricordo di avere letto, tempo fa, un libro di Pansa che, a proposito di notizie diffuse sulla guerra in Vietnam, affermava che: «mentivamo sapendo di mentire». Ora in lui si è attuato un processo di purificazione e di ripensamento degno di stima e augurio per molti. Ma quando questa posizione sarà vissuta dalla maggioranza degli operatori della comunicazione?
Assistiamo da tempo a una strana situazione: mentre ai sacerdoti che si sono macchiati di indegni atteggiamenti si chiede (e giustamente) conto, senza troppi sconti, a magistrati e giornalisti si garantisce ogni forma di impunità. Che almeno sappiano riconoscere di avere «mentito sapendo di mentire», e si facciano testimoni di verità. Se no che si ritirino in buon ordine.

Noi ora siamo col Papa che nella splendida riflessione di domenica delle Palme ha detto che «essere cristiani significa considerare la via di Gesù Cristo come la via giusta per l’essere uomini – come quella via che conduce alla meta, ad una umanità pienamente realizzata e autentica… l’essere cristiani è un cammino, o meglio: un pellegrinaggio, un andare insieme con Gesù Cristo. Un andare in quella direzione che Egli ci ha indicato e ci indica.
Ma di quale direzione si tratta? Come la si trova?... L’uomo può scegliere una via comoda e scansare ogni fatica. Può anche scendere verso il basso, il volgare. Può sprofondare nella palude della menzogna e della disonestà. Gesù cammina avanti a noi, e va verso l’alto.
Egli ci conduce verso ciò che è grande, puro, ci conduce verso l’aria salubre delle altezze: verso la vita secondo verità; verso il coraggio che non si lascia intimidire dal chiacchiericcio delle opinioni dominanti; verso la pazienza che sopporta e sostiene l’altro».

In questa via giusta che rifugge dal «chiacchiericcio» sappiamo di avere tanti compagni di strada. E di trovarci tra amici, come i nostri lettori di CulturaCattolica.it. La Pasqua del Signore ci trovi al lavoro, in cammino, con nuovo coraggio. Ne siamo certi.

Nota

[1] Martini: è una forzatura coniugare obbligo del celibato sacerdotale e abusi sessuali dei preti
Il cardinale Carlo Martini ieri ha smentito le parole attribuitegli in questi giorni in materia di celibato sacerdotale e abusi sessuali commessi da preti. «Alcuni organi di stampa hanno riportato il contenuto di un mio intervento pubblicato dal settimanale tedesco “Presse am Sonntag”. In esso avrei dichiarato che tra le strade da perseguire per evitare in futuro nuovi casi di violenza e abusi a sfondo sessuale ci sarebbe la seguente: “Il celibato obbligatorio come forma di vita dei preti dovrebbe essere ripensato”». Il settimanale tedesco «non ha interloquito con me direttamente - ha spiegato l’Arcivescovo emerito di Milano nel suo intervento sul portale della diocesi ambrosiana -: ha piuttosto ripreso una mia lettera ai giovani austriaci. Ma il testo di tale lettera diceva: “occorrerebbe ripensare alla forma di vita del prete” intendendo sottolineare l’importanza di promuovere forme di maggiore comunione di vita e di fraternità tra i preti affinché siano evitati il più possibile situazioni di solitudine anche interiore». Martini si dice «sorpreso» e ribadisce che è «una forzatura coniugare l’obbligo del celibato per i preti con gli scandali di violenza e abusi sfondo sessuale». (A.Gug.) Avvenire, 30 marzo 2010


Le meditazioni scritte dal cardinale Camillo Ruini per la Via Crucis che sarà presieduta da Benedetto XVI al Colosseo la sera di Venerdì Santo - Non chiudiamo gli occhi di fronte alla sofferenza - L'Osservatore Romano - 31 marzo 2010

Le meditazioni sulle quattordici stazioni della Via Crucis saranno introdotte dalla seguente meditazione e dalla successiva preghiera che sarà recitata da Benedetto XVI.
Quando l'Apostolo Filippo gli chiese: "Signore, mostraci il Padre", Gesù rispose: "Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto...? Chi ha visto me, ha visto il Padre" (Giovanni, 14, 8-9). Questa sera, mentre accompagniamo nel nostro cuore Gesù che cammina sotto la croce, non dimentichiamoci di queste sue parole. Anche quando porta la croce, anche quando muore sulla croce, Gesù è il Figlio che è una cosa sola con Dio Padre. Guardando il suo volto distrutto dalle percosse, dalla fatica, dalla sofferenza interiore, noi vediamo il volto del Padre. Anzi, proprio in questo momento la gloria di Dio, la sua luce troppo forte per ogni occhio umano, si fa maggiormente visibile sul volto di Gesù. Qui, in questo povero essere che Pilato ha mostrato ai Giudei, nella speranza di indurli a pietà, con le parole "Ecco l'uomo!" (Giovanni, 19, 5), si manifesta la vera grandezza di Dio, quella grandezza misteriosa che nessun uomo poteva immaginare.
Ma in Gesù crocifisso si rivela anche un'altra grandezza, la nostra grandezza, la grandezza che appartiene a ogni uomo per il fatto stesso di avere un volto e un cuore umano. Scrive Sant'Antonio di Padova: "Cristo, che è la tua vita, sta appeso davanti a te, perché tu guardi nella croce come in uno specchio (...) Se guarderai lui, potrai renderti conto di quanto grandi siano la tua dignità (...) e il tuo valore (...) In nessun altro luogo l'uomo può meglio rendersi conto di quanto egli valga, che guardandosi nello specchio della croce" (Sermones Dominicales et Festivi, iii, pp. 213-214). Sì, Gesù, il Figlio di Dio, è morto per te, per me, per ciascuno di noi, e così ci ha dato la prova concreta di quanto grandi e preziosi noi siamo agli occhi di Dio, gli unici occhi che superano tutte le apparenze e vedono fino in fondo la realtà delle cose.
Partecipando alla Via Crucis, chiediamo a Dio di dare anche a noi questo suo sguardo di verità e di amore, per diventare, uniti a lui, liberi e buoni.
Preghiera

Signore, Dio Padre onnipotente, tu sai tutto, tu vedi l'enorme bisogno di te che si nasconde nel nostro cuore. Dona a ciascuno di noi l'umiltà di riconoscere questo bisogno.
Libera la nostra intelligenza dalla pretesa, sbagliata e un poco ridicola, di poter dominare il mistero che ci circonda da ogni parte.
Libera la nostra volontà dalla presunzione, altrettanto ingenua e infondata, di poter costruire da soli la nostra felicità e il senso della nostra vita.
Rendi penetrante e sincero il nostro occhio interiore, in modo da riconoscere, senza ipocrisie, il male che è dentro di noi. Ma donaci anche, nella luce della croce e della risurrezione del tuo unico Figlio, la certezza che, uniti a lui e sostenuti da lui, potremo anche noi vincere il male con il bene. Signore Gesù, aiutaci a camminare con questo animo dietro alla tua croce.

Prima Stazione

Gesù è condannato a morte

Meditazione

Perché Gesù è stato condannato a morte, lui, che "passò facendo del bene" (Atti degli Apostoli, 10, 38)? Questa domanda ci accompagnerà lungo la Via Crucis come ci accompagna per tutta la vita.
Nei Vangeli troviamo una risposta vera: i capi dei Giudei hanno voluto la sua morte perché hanno compreso che Gesù si riteneva il Figlio di Dio. E troviamo anche una risposta che i Giudei hanno usato come pretesto, per ottenere da Pilato la sua condanna: Gesù avrebbe preteso di essere un re di questo mondo, il re dei Giudei.
Ma dietro a queste risposte si spalanca un abisso, sul quale gli stessi Vangeli e tutta la Sacra Scrittura ci fanno aprire lo sguardo: Gesù è morto per i nostri peccati. E ancora più profondamente, è morto per noi, è morto perché Dio ci ama e ci ama al punto di dare il suo Figlio unigenito, affinché noi abbiamo la vita per mezzo di lui (cfr. Giovanni, 3, 16-17).
È a noi stessi, dunque, che dobbiamo guardare: al male e al peccato che abitano dentro di noi e che troppo spesso fingiamo di ignorare. Ma ancora di più dobbiamo volgere lo sguardo al Dio ricco di misericordia che ci ha chiamato amici (cfr. Giovanni, 15, 15). Così il cammino della Via Crucis e tutto il cammino della vita diventa un itinerario di penitenza, di dolore e di conversione, ma anche di gratitudine, di fede e di gioia.
Seconda Stazione


Gesù è caricato della Croce

Meditazione

Dopo la condanna viene l'umiliazione. Quello che i soldati fanno a Gesù ci sembra disumano. Anzi, è senz'altro disumano: sono atti di scherno e di disprezzo nei quali si esprime una oscura ferocia, incurante della sofferenza, anche fisica, che viene inflitta senza motivo a una persona già condannata al supplizio tremendo della croce. Tuttavia questo comportamento dei soldati è anche, malauguratamente, fin troppo umano. Mille pagine della storia dell'umanità e della cronaca quotidiana confermano che azioni di questo genere non sono affatto estranee all'uomo. L'Apostolo Paolo ha messo bene in luce questo paradosso: "Io so (...) che in me, (...) nella mia carne, non abita il bene: ... infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio" (Romani, 7, 18-19).
È proprio così: nella nostra coscienza è accesa la luce del bene, una luce che in molti casi diventa evidente e dalla quale, fortunatamente, ci lasciamo guidare nelle nostre scelte. Ma spesso accade il contrario: quella luce viene oscurata dai risentimenti, da desideri inconfessabili, dalla perversione del cuore. E allora diventiamo crudeli, capaci delle cose peggiori, perfino di cose incredibili.
Signore Gesù, ci sono anch'io tra quelli che ti hanno deriso e percosso. Tu hai detto infatti: "tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me" (Matteo, 25, 40). Signore Gesù, perdonami.
Terza Stazione


Gesù cade la prima volta sotto la Croce


Meditazione

I Vangeli non ci parlano delle cadute di Gesù sotto la croce, ma questa antica tradizione è profondamente verosimile. Ricordiamo soltanto che, prima di essere caricato della croce, Gesù era stato fatto flagellare da Pilato. Dopo tutto quello che gli era accaduto a partire dalla notte nell'orto degli ulivi, le sue forze dovevano essere praticamente esaurite.
Prima di soffermarci sugli aspetti più profondi e interiori della passione di Gesù, prendiamo atto semplicemente del dolore fisico che egli ha dovuto sopportare. Un dolore enorme e tremendo, fino all'ultimo respiro sulla croce, un dolore che non può non fare paura.
La sofferenza fisica è la più facile da sconfiggere, o almeno da attenuare, con le nostre attuali tecniche e metodologie, con le anestesie e le altre terapie del dolore. Anche se per molte cause, naturali o dipendenti da comportamenti umani, una gigantesca massa di sofferenze fisiche rimane presente nel mondo.
In ogni caso, Gesù non ha rifiutato il dolore fisico e così si è fatto solidale con tutta la famiglia umana, specialmente con quella grande parte di essa la cui vita, anche oggi, è segnata da questa forma di dolore. Mentre lo vediamo cadere sotto la croce, gli chiediamo umilmente il coraggio di allargare, con una solidarietà fatta non solo di parole, gli spazi troppo ristretti del nostro cuore.
Quarta Stazione


Gesù incontra sua Madre

Meditazione

Nei Vangeli non si parla direttamente di un incontro di Gesù con sua Madre lungo il cammino della croce, ma della presenza di Maria sotto la croce. E qui Gesù si rivolge a lei e al discepolo prediletto, l'evangelista Giovanni. Le sue parole hanno un senso immediato: affidare Maria a Giovanni, perché si prenda cura di lei. E un senso molto più ampio e profondo: sotto la croce Maria è chiamata a dire un secondo "sì", dopo il sì dell'Annunciazione, con il quale è diventata Madre di Gesù, aprendo così la porta alla nostra salvezza.
Con questo secondo sì Maria diventa madre di tutti noi, di ogni uomo e di ogni donna per i quali Gesù ha versato il suo sangue. Una maternità che è segno vivente dell'amore e della misericordia di Dio per noi. Per questo sono tanto profondi e tenaci i vincoli di affetto e di fiducia che uniscono a Maria il popolo cristiano; per questo ricorriamo spontaneamente a lei, soprattutto nelle circostanze più difficili della vita.
Maria, però, ha pagato a caro prezzo questa sua universale maternità. Come ha profetizzato su di lei Simeone nel tempio di Gerusalemme, "a te una spada trafiggerà l'anima" (Luca, 2, 35).
Maria, Madre di Gesù e madre nostra, aiutaci a sperimentare nelle nostre anime, questa sera e sempre, quella sofferenza piena di amore che ti ha unito alla croce del tuo Figlio.
Quinta Stazione

Gesù è aiutato dal Cireneo a portare la Croce

Meditazione
Gesù doveva essere veramente sfinito e così i soldati rimediano prendendo il primo malcapitato che incontrano e caricandolo della croce. Anche nella vita di ogni giorno la croce, sotto tante diverse forme - da una malattia a un grave incidente alla perdita di una persona cara o del lavoro - si abbatte, spesso improvvisa, su di noi. E noi vediamo in essa soltanto una sfortuna, o nei casi peggiori una disgrazia.
Gesù però ha detto ai suoi discepoli: "Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua" (Matteo, 16, 24). Non sono parole facili; anzi, nella vita concreta sono le parole più difficili del Vangelo. Tutto il nostro essere, tutto ciò che vi è dentro di noi, si ribella contro simili parole.
Gesù tuttavia continua dicendo: "chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà" (Matteo, 16, 25). Fermiamoci su questo "per causa mia": qui c'è tutta la pretesa di Gesù, la coscienza che egli aveva di se stesso e la richiesta che rivolge a noi. Lui sta al centro di tutto, lui è il Figlio di Dio che è una cosa sola con Dio Padre (cfr. Giovanni, 10, 30), lui è il nostro unico Salvatore (cfr. Atti degli Apostoli, 4, 12).
Effettivamente, quella che all'inizio sembrava solo una sfortuna o una disgrazia si rivela poi, non di rado, una porta che si è aperta nella nostra vita e ci ha portato un bene più grande. Ma non sempre è così: tante volte, in questo mondo, le disgrazie rimangono soltanto perdite dolorose. Qui di nuovo Gesù ha qualcosa da dirci. O meglio, a lui è accaduto qualcosa: dopo la croce, egli è risorto dai morti, ed è risorto come primogenito di molti fratelli (cfr. Romani, 8, 29; 1 Corinzi, 15, 20). Sì, la sua croce non può essere separata dalla sua risurrezione. Solo credendo nella risurrezione possiamo percorrere in maniera sensata il cammino della croce.
Sesta Stazione

La Veronica asciuga il volto di Gesù

Meditazione

Quando la Veronica ha asciugato il volto di Gesù con una pezzuola, quel volto non doveva certo essere attraente: era un volto sfigurato. Però, quel volto non poteva lasciare indifferenti, quel volto turbava. Poteva provocare scherno e disprezzo, ma anche compassione e perfino amore, desiderio di venire in aiuto. La Veronica è il simbolo di questi sentimenti.
Per quanto sfigurato, il volto di Gesù è pur sempre il volto del Figlio di Dio. È un volto sfigurato da noi, dal cumulo enorme della malvagità umana. Ma è anche un volto sfigurato per noi, che esprime l'amore e la donazione di Gesù e che è specchio della misericordia infinita di Dio Padre.
Nel volto sofferente di Gesù vediamo, inoltre, un altro cumulo gigantesco, quello delle sofferenze umane. E così il gesto di pietà della Veronica diventa per noi una provocazione, una sollecitazione urgente: diventa la richiesta, dolce ma imperiosa, di non voltarci dall'altra parte, di guardare anche noi coloro che soffrono, vicini e lontani. E non solo di guardare, ma di aiutare. La Via Crucis di questa sera non sarà passata invano se ci porterà a gesti concreti di amore e di solidarietà operosa.
Settima Stazione

Gesù cade per la seconda volta

Meditazione

Gesù cade di nuovo sotto la croce. Certo era sfinito fisicamente, ma era anche ferito a morte nel suo cuore. Pesava su di lui il rifiuto di coloro che, fin dall'inizio, si erano opposti ostinatamente alla sua missione. Pesava il rifiuto che, alla fine, gli aveva opposto quel popolo che era sembrato pieno di ammirazione e anche di entusiasmo per lui. Perciò, guardando la città santa che tanto amava, Gesù aveva esclamato: "Gerusalemme, Gerusalemme, (...) quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto!" (Matteo, 23, 37). Pesava terribilmente il tradimento di Giuda, l'abbandono dei discepoli nel momento della prova suprema, pesava in particolare il triplice rinnegamento di Pietro.
Sappiamo bene che pesava su di lui anche la massa innumerevole dei nostri peccati, delle colpe che accompagnano attraverso i millenni l'intera vicenda umana.
Perciò chiediamo a Dio, con umiltà ma anche con fiducia: Padre ricco di misericordia, aiutaci a non rendere ancora più pesante la croce di Gesù. Infatti, come ha scritto Giovanni Paolo II del quale questa sera ricorre il quinto anniversario della morte: "il limite imposto al male, di cui l'uomo è artefice e vittima, è in definitiva la Divina Misericordia" (Memoria e identità, p. 70).

Ottava Stazione

Gesù incontra le donne di Gerusalemme che piangono su di lui

Meditazione

Gesù, dunque, è lui ad avere compassione delle donne di Gerusalemme, e di tutti noi. Anche mentre porta la croce, Gesù rimane l'uomo che ha compassione delle folle (Marco, 8, 2), che scoppia in pianto davanti alla tomba di Lazzaro (cfr. Giovanni, 11, 35), che proclama beati coloro che piangono, perché saranno consolati (cfr. Matteo, 5, 4).
Proprio così Gesù si mostra l'unico che conosce davvero il cuore di Dio Padre e che può farlo conoscere anche a noi: "nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo" (Matteo, 11, 27).
Fin dai tempi più remoti l'umanità si è domandata, spesso con angoscia, quale sia veramente l'atteggiamento di Dio verso di noi: un atteggiamento di sollecitudine provvidenziale, o invece di sovrana indifferenza, o perfino di sdegno e di odio? A una domanda di questo genere non possiamo dare una risposta certa con le sole risorse della nostra intelligenza, della nostra esperienza e nemmeno del nostro cuore.
Per questo Gesù - la sua vita e la sua parola, la sua croce e la sua risurrezione - è la realtà di gran lunga più importante di tutta la vicenda umana, la luce che brilla sul nostro destino.
Nona Stazione

Gesù cade per la terza volta

Meditazione

Ecco il motivo più profondo delle ripetute cadute di Gesù: non solo le sofferenze fisiche, non solo i tradimenti umani, ma la volontà del Padre. Quella volontà misteriosa e umanamente incomprensibile, ma infinitamente buona e generosa, per la quale Gesù si è fatto "peccato per noi", su di lui sono trasferite tutte le colpe dell'umanità e si compie quel misterioso scambio che rende noi peccatori "giustizia di Dio".
Mentre cerchiamo di immedesimarci in Gesù che cammina e cade sotto la croce, è ben giusto che proviamo in noi sentimenti di pentimento e di dolore. Ma ancora più forte deve essere la gratitudine che invade la nostra anima.
Sì, o Signore, tu ci hai riscattato, tu ci hai liberato, con la tua croce ci hai resi giusti davanti a Dio. Anzi, ci hai unito così intimamente a te da fare anche di noi, in te, i figli di Dio, i suoi familiari e amici. Grazie, Signore, fa' che la gratitudine verso di te sia la nota dominante della nostra vita.


Decima Stazione

Gesù è spogliato delle sue vesti

Meditazione

Gesù è spogliato delle sue vesti: siamo all'atto finale di quel dramma, iniziato con l'arresto nell'orto degli ulivi, attraverso il quale Gesù è spogliato della sua dignità di uomo, prima ancora che di Figlio di Dio.
Gesù, dunque, è offerto nudo allo sguardo della gente di Gerusalemme e allo sguardo dell'intera umanità. In un senso profondo, è giusto che sia così: egli infatti si è spogliato completamente di se stesso, per sacrificarsi per noi. Perciò il gesto di spogliarlo delle vesti è anche l'adempimento di una parola della Sacra Scrittura.
Guardando Gesù nudo sulla croce avvertiamo dentro di noi una necessità impellente: guardare senza veli dentro a noi stessi; denudarci spiritualmente davanti a noi, ma ancor prima davanti a Dio, e anche davanti ai nostri fratelli in umanità. Spogliarci della pretesa di apparire migliori di quello che siamo, per cercare invece di essere sinceri e trasparenti.
Il comportamento che, forse più di ogni altro, provocava lo sdegno di Gesù era infatti l'ipocrisia. Quante volte egli ha detto ai suoi discepoli: non fate "come fanno gli ipocriti" (Matteo, 6, 2.5.16), o a coloro che contestavano le sue buone azioni: "guai a voi ipocriti" (Matteo, 23, 13.15.23.25.27.29).
Signore Gesù nudo sulla croce, aiutami ad essere anch'io nudo davanti a te.
Undicesima Stazione

Gesù è inchiodato sulla Croce

Meditazione

Gesù è inchiodato sulla croce. Una tortura tremenda. E mentre è appeso alla croce sono in molti a deriderlo e anche a provocarlo: "Ha salvato altri e non può salvare se stesso! (...) Ha confidato in Dio; lo liberi lui, ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: "Sono Figlio di Dio"!" (Matteo, 27, 42-43). Così è derisa non solo la sua persona ma anche la sua missione di salvezza, quella missione che Gesù proprio sulla croce stava portando a compimento.
Ma, nel suo intimo, Gesù conosce una sofferenza incomparabilmente maggiore, che lo fa prorompere in un grido: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" (Marco, 15, 34). Si tratta certo delle parole di inizio di un Salmo, che si conclude con la riaffermazione della piena fiducia in Dio. E tuttavia sono parole da prendersi totalmente sul serio, che esprimono la prova più grande a cui è stato sottoposto Gesù.
Quante volte, di fronte a una prova, pensiamo di essere stati dimenticati o abbandonati da Dio. O perfino siamo tentati di concludere che Dio non c'è.
Il Figlio di Dio, che ha bevuto fino in fondo il suo amaro calice e poi è risorto dai morti, ci dice invece, con tutto se stesso, con la sua vita e la sua morte, che dobbiamo fidarci di Dio. A lui possiamo credere.
Dodicesima Stazione

Gesù muore sulla Croce

Meditazione

Quando la morte giunge dopo una dolorosa malattia, si usa dire con sollievo: "Ha finito di soffrire". In certo senso, queste parole valgono anche per Gesù. Sono però parole troppo limitate e superficiali, di fronte alla morte di qualsiasi uomo e ben di più di fronte alla morte di quell'uomo che è il Figlio di Dio.
Infatti, quando Gesù muore, il velo del tempio di Gerusalemme si squarcia in due e accadono altri segni, che fanno esclamare al centurione romano che stava di guardia alla croce: "Davvero costui era Figlio di Dio!" (cfr. Matteo, 27, 51-54).
In realtà, nulla è così oscuro e misterioso come la morte del Figlio di Dio, che insieme a Dio Padre è la sorgente e la pienezza della vita. Ma nulla è anche così luminoso, perché qui risplende la gloria di Dio, la gloria dell'Amore onnipotente e misericordioso.
Di fronte alla morte di Gesù la nostra risposta è il silenzio dell'adorazione. Così ci affidiamo a lui, ci mettiamo nelle sue mani, chiedendogli che niente, nella nostra vita come nella nostra morte, ci possa mai separare da lui (cfr. Romani, 8, 38-39).

Tredicesima Stazione

Gesù è deposto dalla Croce e consegnato alla Madre

Meditazione

Adesso l'ora di Gesù si è compiuta e Gesù è deposto dalla croce. Puntuali, ad accoglierlo, vi sono le braccia di sua Madre. Dopo aver assaporato fino in fondo la solitudine della morte, subito Gesù ritrova - nel suo corpo esanime - il più forte e il più dolce dei suoi legami umani, il calore dell'affetto di sua Madre. I più grandi artisti, pensiamo alla Pietà di Michelangelo, hanno saputo intuire ed esprimere la profondità e la tenacia indistruttibile di questo legame.
Ricordando che Maria, ai piedi della croce, è diventata madre anche di ciascuno di noi, le chiediamo di mettere nel nostro cuore i sentimenti che la uniscono a Gesù. Per essere veramente cristiani, infatti, per poter seguire davvero Gesù, bisogna essere legati a lui con tutto quello che c'è dentro di noi: la mente, la volontà, il cuore, le nostre piccole e grandi scelte quotidiane.
Soltanto così Dio potrà stare al centro della nostra vita, non ridursi a una consolazione che dovrebbe essere sempre disponibile, senza interferire però con gli interessi concreti in base ai quali operiamo.
Quattordicesima Stazione

Gesù è deposto nel sepolcro

Meditazione

Con la pietra che chiude l'ingresso del sepolcro tutto sembra davvero terminato. Poteva però rimanere prigioniero della morte l'Autore della vita? Perciò il sepolcro di Gesù, da allora fino ad oggi, non è solo diventato l'oggetto della più commossa devozione, ma ha anche provocato la più profonda divisione delle intelligenze e dei cuori: qui si dividono le strade tra i credenti in Cristo e coloro che invece in lui non credono, anche se spesso lo ritengono un uomo meraviglioso.
Quel sepolcro, infatti, ben presto è rimasto vuoto e mai si è potuto trovare una spiegazione convincente del perché sia rimasto vuoto, se non quella che hanno dato, da Maria di Magdala a Pietro agli altri Apostoli, i testimoni di Gesù risorto dai morti.
Davanti al sepolcro di Gesù sostiamo in preghiera, chiedendo a Dio quegli occhi della fede che ci consentano di unirci ai testimoni della sua risurrezione. Così il cammino della croce diventa anche per noi sorgente di vita.
(©L'Osservatore Romano - 31 marzo 2010)


30/03/2010 – INDIA - Settimana Santa: L’amore di Cristo vicino ai dolori del mondo - di Brother Yesu Das* - Una meditazione pasquale fra le sofferenze dei malati di Aids, le donne morenti della Shanti Dan a Calcutta, i terremotati di Haiti. In tutte le sofferenze c’è sempre qualcuno che consola, come Maria, che ha unto i piedi di Gesù e ha visto per prima il Signore risorto.
Kolkata (AsiaNews) – In questi giorni della Settimana santa i miei pensieri sono sempre con un paziente malato di meningite da criptococco. Questo tipo di meningite è tipica delle complicazioni che avvengono con l’Hiv ed è la più comune infezione del sistema nervoso centrale con l’Aids. Nella mia vita ho incontrato molti malati di Aids che soffrivano di questa meningite.

Questo malato soffre in modo terribile di mal di testa, confusione, irritabilità, quasi cecità, instabilità. Ogni giorno, visitandolo all’ospedale e vedendo il suo corpo sofferente mi accorgo che lui è il Cristo sofferente oggi.

Davanti alle sue sofferenze e al suo abbandono l’azione più immediata è quella che ha fatto Maria di Betania, ungendo i piedi di Gesù, per dire: Tu sei voluto, tu sei amato, io voglio che tu viva e abbia la vita.

Un’azione buona e piena di amore non viene dimenticata. Anzi, essa dona la vita. C’è un proverbio rabbinico che dice: [Il profumo di] Un buon unguento si diffonde dalla stanza da letto fino al salotto, ma un buon nome si diffonde da un confine all’altro del mondo.
L’amore di Maria di Betania e la sua azione per Gesù non è stata dimenticata, ma premiata con la grazia della rivelazione del Signore risorto. Essa è stata la prima donna pasquale a incontrare Gesù risorto.

Ho cominciato il 2010 stando fra le sofferenze di molte persone attorno a me. Ho incontrato così tanti uomini e donne che soffrono. Acuni di loro sono morti e altri sono ancora in vita. Ma stando con loro ho anche scoperto che vi sono uomini e donne desiderosi di stare vicini a coloro che soffrono.

Il 9 marzo scorso, a tarda sera, ho fato visita a Rinku, che stava morendo nella nostra casa di Shanti Dan” per le donne. Rinku soffriva da lungo tempo. Mi ha colpito che altre donne, anch’esse malate, si sono offerte di prendersi cura dei suoi bisogni. Tutte amavano Rinku e si sono sedute vicino a lei, vigilando ogni suo respiro. Sono rimaste vicine a Rinku con la loro impotenza e la loro profonda tristezza. Non hanno permesso a Rinku di morire da sola. Erano come le pie donne sotto la croce, che guardavano Gesù morire. Rinku è morta il 10 di marzo, in compagnia delle sue amiche.

In mezzo alla sofferenza vi sono sempre persone che vengono a dare la vita. È un mistero come il dolore può avvicinare persone l’una all’altra. E molto spesso sono le donne a venire per prime in aiuto e consolare coloro che soffrono. Le donne sono benedette con il dono naturale della compassione.

Ho pensato anche al terremoto del 12 gennaio ad Haiti e a cosa significa questo per i missionari e le missionarie della Carità che sono là. Io penso che Dio ci stia parlando anche attraverso questo enorme disastro di vite umane e di beni.

Migliaia di persone sono morte e le loro case sono crollate. Sono morti anche molti sacerdoti e religiosi. Eppure nessuna delle suore o dei fratelli è stato ferito; e nemmeno quelli che erano sotto le loro cure al tempo del terremoto. Un sacerdote di Haiti ha detto: Dio ha preservato i missionari e le missionarie della Carità perché possano essere qui per il Suo popolo, in questo momento di grande bisogno.

Queste parole del sacerdote mi ricordano nell’Antico Testamento le parole che Giuseppe dice ai suoi fratelli: Dio mi ha mandato avanti a voi per conservarvi in vita (Cfr. Genesi, 45,7).

La Settimana santa è un periodo in cui stare con Gesù nelle sue sofferenze e nella sua resurrezione. È un mistero del rimanere nell’amore. Per amore Gesù ha sofferto e per amore Dio lo ha risuscitato dalla morte per preservare la vita di ognuno di noi. Lo stesso Gesù continua a preservare la vita dei bisognosi attraverso ognuno di noi. In questo modo egli ci rende il popolo della Pasqua.

Quelle donne che sono state così vicine a Rinku, che l’hanno accompagnata fino all’ultimo respiro; le missionarie e i missionari della Carità che stanno donando se stessi ai bisognosi di Haiti sono le donne e gli uomini della Pasqua. Essi conoscono la gioia di essere vicini alle persone che soffrono, sperimentano le meraviglie del Signore e cantano Alleluja.

Auguro a tutti voi una Pasqua piena di grazia, di pace e di gioia nel Signore risorto.


Fratel Yesu Das è un missionario della Carità, l’ordine maschile voluto da Madre Teresa di Calcutta. Lavora alla casa Shanti Dan (“Dono di pace”) a Calcutta Fratel Yesu Das, lo scorso settembre ha predicato gli esercizi spirituali a Cor Unum, radunato a Taipei (Taiwan).


ATTACCO AL PAPA/ John Allen: così il New York Times ha stravolto fatti e documenti - John L. Allen - mercoledì 31 marzo 2010 – ilsussidiario.net
La storia di Papa Benedetto XVI è sottoposta in questi giorni a un intenso esame in rapporto alla crisi derivante dagli abusi sessuali. Le rivelazioni arrivate dalla Germania hanno messo sotto il riflettore i suoi cinque anni come vescovo diocesano e, giovedì scorso, un pezzo del New York Times sul caso di Padre Lawrence Murphy di Milwaukee lo ha tirato in gioco per i suoi anni in Vaticano come prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede.
Anche se in alcuni ambienti si pensa che con tutto questo si voglia solo colpire il papa e/o la Chiesa, sollevare tali questioni è del tutto legittimo. Occorre innanzitutto fare chiarezza. Il mio giornale, il National Catholic Reporter, ha chiesto in un editoriale la più ampia trasparenza, perché sembra evidente che solo la trasparenza potrà aiutare a risolvere le gravi questioni che Benedetto deve affrontare.
Nell’attuale discussione ci sono almeno tre aspetti che riguardano Benedetto e che vengono fraintesi o trattati in modo negligente. Fare chiarezza su questi punti significa non tanto giustificare il Papa, ma piuttosto cercare di capire con precisione come siamo arrivati al punto in cui siamo. Di seguito, quindi, esporrò tre punti mirati a comprendere il comportamento di Benedetto di fronte alla crisi degli abusi sessuali.

1. Non è lui “l’uomo di punta”

In primo luogo, alcuni media hanno insinuato che l'allora cardinale Joseph Ratzinger ha presieduto per quasi un quarto di secolo, dal 1981 fino alla sua elezione al soglio pontificio nell'aprile 2005, l'ufficio vaticano responsabile per gli abusi sessuali e che quindi egli è responsabile per qualunque cosa il Vaticano abbia, o non abbia fatto, in questo periodo. Questo non è corretto.
In realtà, Ratzinger non ha avuto la responsabilità diretta della gestione globale della crisi fino al 2001, quattro anni prima di diventare Papa. Fino a questa data, i vescovi non erano tenuti a segnalare alla Congregazione per la Dottrina della Fede i casi di sacerdoti accusati di abusi sessuali, obbligo introdotto da Papa Giovanni Paolo II con il motu proprio intitolato Sacramentorum sanctitatis tutela, appunto nel 2001. Prima di allora, la maggior parte dei casi di abusi sessuali non erano mai arrivati a Roma. Nei rari casi in cui un vescovo avesse voluto ridurre allo stato laico, contro la sua volontà, un prete responsabile di abusi, il processo canonico sarebbe stato comunque condotto da uno dei tribunali del Vaticano, non dall'ufficio di Ratzinger.
Prima del 2001, la Congregazione per la Dottrina della Fede è stata coinvolta solo nei casi, estremamente infrequenti, di abusi sessuali avvenuti nel contesto della confessione, in quanto all’interno della Congregazione esisteva un tribunale canonico preposto agli abusi che coinvolgevano il sacramento della penitenza. In questo modo, ad esempio, è arrivato alla Congregazione il caso di padre Marcial Maciel Degollado, fondatore dei Legionari di Cristo, ed è questo il motivo per cui si sono rivolti alla Congregazione anche i funzionari dell'arcidiocesi di Milwaukee per il caso di padre Lawrence Murphy.
Ratzinger è stato un alto funzionario del Vaticano dal 1981 in poi, ma dire che è stato, per quasi venticinque anni, l’“uomo di punta” del Vaticano in materia di abusi sessuali, incolpandolo della cattiva gestione di ogni caso sorto tra il 1981 e il 2001, è fuorviante. Prima del 2001, Ratzinger non aveva personalmente nulla a che fare con la stragrande maggioranza dei casi di abuso sessuale, neppure con quella piccola percentuale che arrivava fino a Roma.

2. La lettera del 2001

Alcuni articoli e commenti citano una lettera del maggio 2001, dal titolo De delictis gravioribus, inviata da Ratzinger ai vescovi di tutto il mondo, come la “pistola fumante” che dimostrerebbe il tentativo di Ratzinger di contrastare la segnalazione alla polizia, o ad altre autorità civili, di abusi sessuali compiuti da sacerdoti, ordinando ai vescovi di mantenere il segreto.
La lettera dispone che certi reati gravi, compreso l'abuso sessuale di un minore, devono essere riferiti alla Congregazione per la Dottrina della Fede e che essi sono “soggetti al segreto pontificio”.

Il Vaticano ribadisce, tuttavia, che questa segretezza si riferiva solo alle procedure disciplinari interne alla Chiesa, ma non intendeva impedire ad alcuno di segnalare i casi di abuso anche alla polizia o ad altre autorità civili. Si tratta di un’osservazione tecnicamente corretta, poiché in nessuna parte della lettera del 2001 vi è alcun divieto di segnalare gli abusi sessuali alla polizia o ai magistrati civili.
In realtà, pochi vescovi avevano bisogno di un’ingiunzione da Roma per non parlare pubblicamente degli abusi sessuali: questa era semplicemente la cultura della Chiesa di quel tempo, il che rende illogica fin dall’inizio la caccia a una “pistola fumante”. Cambiare una cultura, nella quale il Vaticano era coinvolto quanto chiunque altro, una cultura diffusa e radicata ben oltre Roma, non è così semplice come abrogare una legge ed emanarne una nuova.
A parte questo, il punto chiave circa la lettera di Ratzinger del 2001 è che quando uscì, lungi dall'essere vista come parte del problema, fu salutata come un punto di svolta verso una sua soluzione. Essa ha significato il riconoscimento a Roma, per la prima volta, di quanto fosse realmente grave il problema degli abusi sessuali e ha impegnato il Vaticano a occuparsene direttamente. Prima del motu proprio e della lettera di Ratzinger del 2001, non era chiaro se a Roma vi fosse qualcuno con la riconosciuta responsabilità di gestire la crisi; da quel momento in poi, la Congregazione per la Dottrina della Fede avrebbe giocato il ruolo principale.
A partire dal 2001, Ratzinger ha dovuto riesaminare tutte le pratiche su ogni sacerdote accusato, con un minimo di credibilità, di abusi sessuali, ovunque nel mondo, acquistando una conoscenza sulla portata del problema che praticamente nessun altro nella Chiesa cattolica può vantare. Dopo aver visto tutti i documenti, ha cominciato a parlare apertamente di “sporcizia” nella Chiesa e il suo staff è diventato molto deciso nel perseguire chi commetteva abusi.
Per coloro che hanno seguito la risposta della Chiesa alla crisi, la lettera di Ratzinger nel 2001 è perciò vista come una assunzione, pur ritardata, di responsabilità da parte del Vaticano e l'inizio di una risposta molto più energica. Che la risposta sia sufficiente o meno è naturalmente argomento di discussione, ma interpretare la lettera di Ratzinger del 2001 come l'ultimo dei vecchi tentativi di negazione e copertura dei misfatti significherebbe stravolgere i fatti.

3. I processi canonici

Il vice di Ratzinger alla Congregazione per la Dottrina della Fede per i casi di abuso sessuale, il maltese monsignor Charles Scicluna, ha rilasciato di recente un'intervista a un giornale cattolico italiano, in cui afferma che degli oltre 3.000 casi pervenuti a Roma, solo il 20 per cento sono stati sottoposti ad un processo canonico completo. In alcuni articoli, tra cui il pezzo di giovedì scorso del New York Times, questa cifra è stata citata come prova della “mancanza di azione” del Vaticano. Ancora una volta, però, coloro che hanno seguito da vicino la storia hanno quasi esattamente l'impressione opposta.
Nel giugno 2002, nel proporre per la prima volta a Roma un insieme di nuove norme canoniche, al centro delle quali c’era la politica dell’“un colpo e sei fuori”, la volontà iniziale dei vescovi americani era di evitare del tutto i processi canonici, facendo invece affidamento sul potere amministrativo del vescovo di rimuovere in modo permanente un sacerdote dal ministero. Questo perché l’esperienza fatta nel corso degli anni con i tribunali romani aveva mostrato come fossero spesso lenti, macchinosi e portassero raramente a risultati certi.
A tal proposito, vescovi ed esperti citerebbero un caso famoso, quello di Don Anthony Cipolla a Pittsburgh, nel periodo in cui era vescovo Donald Wuerl, ora Arcivescovo di Washington. Wuerl rimosse Cipolla dal ministero nel 1988, in seguito alle accuse di abusi sessuali. Cipolla ricorse a Roma e la Segnatura Apostolica, di fatto la corte suprema vaticana, ordinò al vescovo di reintegrarlo. Wuerl portò il caso a Roma in prima persona, prevalendo alla fine, ma l'esperienza ha lasciato in molti vescovi americani l'impressione che i lunghi processi canonici non fossero la modalità giusta per gestire questi casi.
Quando le nuove norme americane giunsero a Roma, incontrarono resistenza sulla base del principio che tutti hanno diritto ad un processo, un altro esempio questo, agli occhi dei critici, del fatto che il Vaticano fosse più preoccupato dei diritti dei persecutori che dei diritti delle vittime. Una commissione speciale, composta da vescovi americani e da alti funzionari del Vaticano, raggiunse poi un compromesso secondo il quale la Congregazione per la Dottrina della Fede avrebbe indagato i casi uno per uno per decidere quali sottoporre a un processo canonico.
A quel tempo si temeva che la Congregazione avrebbe insistito per il processo in quasi tutti i casi, rinviando così nel tempo l’amministrazione della giustizia e il risarcimento delle vittime. In realtà, solo il 20 per cento fu rinviato a giudizio, mentre per la maggior parte dei casi, il 60 per cento, i vescovi furono autorizzati ad adottare immediate misure amministrative, a seguito di prove schiaccianti.
Il fatto che solo il 20 per cento dei casi siano stati sottoposti a un completo processo canonico è stato salutato come una tardiva presa di coscienza di Roma della necessità di una giustizia rapida e sicura, e come una vittoria del più aggressivo approccio americano. Va anche osservato che il superamento della fase processuale è stato fortemente criticato, da alcuni canonisti e funzionari del Vaticano, come un tradimento del diritto a un giusto processo previsto dal diritto canonico.
Quindi, descrivere questo 20 per cento come segno di “ inerzia” non può che sembrare paradossale a chi ha seguito attentamente queste vicende: in realtà, la gestione del 60 per cento dei casi con un colpo di penna di un vescovo è stata, finora, piuttosto citata come prova di un comportamento draconiano da parte di Ratzinger e dei suoi collaboratori.
Perché l’analisi sia costruttiva e il Papa e con lui la Chiesa possano andare avanti, è importante che ci si attenga ai fatti, altrimenti si dà solo materia per ulteriori confusioni e polarizzazioni.
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Non paura, ma perdono - Lorenzo Albacete - mercoledì 31 marzo 2010 – ilsussidiario.net
Non importa quali altri importanti argomenti potessero attrarre l’attenzione dei media laici negli Stati Uniti la settimana scorsa, non vi è dubbio che lo scandalo degli abusi sessuali da parte di preti e il ruolo del Papa siano stati ogni giorno in cima alle notizie e alle cronache.

La “guida” nel perseguire questo argomento e dare lo schema con cui i media lo hanno affrontato è stato senz’altro The New York Times, anche se sarebbe sbagliato vedervi semplicemente la prova della ostilità del Times verso la Chiesa cattolica.

Molti cattolici, inclusi cattolici “conservatori e ultraortodossi” sono veramente scandalizzati dalla sorprendente ampiezza dei crimini commessi e non si sentono soddisfatti dal modo in cui i vescovi hanno trattato queste vicende. Molti cattolici mi hanno detto che The New York Times e i media stanno facendo il loro mestiere ed è fuori tema porsi il problema delle loro motivazioni.

Uno degli articoli, secondo me, più utili per capire cosa è successo è apparso su The New York Times domenica, 28 marzo, sulla prima pagina della sezione “Week in Review”. Nell’articolo (In Vaticano, alle prese con il mondo) di Frank Bruni, si sostiene che “la fondamentale e deliberata separazione della Chiesa dalla società civile, per come essa considera la sua missione, protegge se stessa e interpreta il comportamento umano, spiega parecchio della risposta, o della mancata risposta, dei suoi leader alla crisi provocata dagli abusi su minori”. La tesi di Bruni è che l’origine delle modalità di risposta della Chiesa è “dovuta in larga parte al timore della persecuzione, radicato nella stessa genesi della Chiesa.”

Da dove scaturisce questa paura della persecuzione? Secondo Bruni “è sostenuta da gran parte della sua storia ed evocata dal suo stesso simbolo: la crocifissione di Cristo”. Finalmente qualcuno nei media laici, nientemeno che sul New York Times, si rende conto che Gesù Cristo può avere qualcosa a che fare con il modo in cui la Chiesa risponde agli scandali provocati dal comportamento dei suoi membri, compresi i suoi capi.
Questo timore della persecuzione ispirato da come i Vangeli interpretano la morte di Gesù, scrive Bruni, porta con sé “una risposta decisamente non laica alle malefatte che hanno portato a una ripetizione degli abusi. Nel mondo laico, l’abuso di minori è definito un reato e un accorato chiedere scusa non fa evitare il carcere. Nella Chiesa cattolica, tutto ciò viene trattato come peccato, da confessare e poi essere perdonato, per la grazia di Dio. La penitenza può ben sostituire la punizione”.

Il resto dell’articolo sviluppa questo punto, ma per il momento può bastare. Ciò che voglio sottolineare è che la relazione tra Chiesa e mondo è molto legata alla attuale crisi; il che mi riporta al 1975, quando lo stesso argomento fu molto discusso sui media laici. Ho in mente la cosiddetta “Dichiarazione Hartford”, cioè le conclusioni di un convegno tenuto alla Hartford Seminary Foundation nel gennaio di quell’anno. Il documento discusso dai partecipanti al convegno è stato fatto circolare per circa un anno dagli organizzatori della riunione, cui parteciparono diciotto persone, tra cui studiosi, pastori e esponenti di diverse tradizioni e concezioni teologiche, e cui altre sette inviarono loro commenti.

Il testo finale è nella forma di tredici “proposizioni” respinte in quanto incompatibili con la fede cristiana e relative al rapporto Chiesa-mondo. Il testo completo è disponibile in internet, qui vorrei solo sottolineare alcuni temi particolarmente pertinenti all’attuale crisi:
Tema 1: Il pensiero moderno è superiore a tutte le forme passate di comprensione della realtà ed è perciò cogente per la fede e la vita cristiana.

Tema 2: Le affermazioni religiose non hanno nulla a che fare con un discorso ragionevole.

Tema 4: Gesù può essere compreso solo in rapporto ai modelli contemporanei di umanità.

Tema 7: Dato che ciò che è umano è buono, il male può essere correttamente considerato una mancata realizzazione del potenziale umano.

Tema 10: Il mondo deve dettare l’agenda alla Chiesa

Tema 13: La questione della speranza dopo la morte è irrilevante o al massimo marginale nella concezione cristiana del compimento dell’uomo.

Quanto riportato dovrebbe essere sufficiente per valutare il tono della dichiarazione e la sua importanza per i punti sollevati nell’articolo di Bruni. Un aggiornamento della Dichiarazione Hartford che consideri le opinioni attuali sul rapporto Chiesa-mondo sarebbe molto utile. Ovviamente, questo è quanto Papa Benedetto XVI sta facendo dal giorno della sua elezione. Forse il documento “Più grande del peccato” rilasciato da Comunione e Liberazione può essere usato come base di discussione.
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Avvenire.it, 31 Marzo 2010 - Le parole di Sofri, il vero impegno per la vita - Perché non basta definirsi «anti-abortisti» - Francesco D’Agostino
Non so se quella dell’aborto possa essere ridotta a una questione "lessicale" e se etichette da tempo consolidate come "pro-vita" o come "abortista" meritino o no di essere lasciate cadere. Apprendo però con un certo interesse (mettendo tra parentesi il fatto che simili dichiarazioni sono state fatte nelle ultime ore di una campagna elettorale finalmente conclusasi) che Adriano Sofri si offende se lo si qualifica come "abortista" e che egli ritiene che anche Emma Bonino abbia buone ragioni per offendersi (vedi Il Foglio di sabato 27 marzo). Per quale ragione? Perché egli ritiene che merita di essere definito "abortista" solo chi apprezza l’aborto «in odio all’umanità e alla vita in genere» o «come strumento di limitazione delle nascite».

Sofri si dichiara invece contro l’aborto e ritiene auspicabile e lodevole tutto ciò che aiuta a sventarlo, «con l’unico limite di non coartare la libertà personale delle donne». Sembrerebbe coerente che Sofri (e la Bonino, se è vero che la pensa come lui) fossero allora ostili sia alla pillola del giorno dopo sia alla Ru486. Sappiamo bene che non è così. Eppure la piena disponibilità sia dell’una che dell’altra pillola (senza discutere dei loro specifici effetti, molto diversi tra loro) induce obiettivamente le donne a banalizzare le loro eventuali scelte abortive; cercare di ridurne l’uso, rispettando oltre tutto i ben precisi paletti previsti dalla legge sull’aborto, sarebbe indubbiamente un modo molto efficace per aiutare a "sventare" quelle scelte abortive che Sofri sembra deprecare. Ma la vera contraddizione di Sofri non è questa. Sappiamo che l’aborto oggi non ha (tranne ipotesi rarissime!) autentiche motivazioni "terapeutiche": esso è di fatto la più comune modalità utilizzata dalle donne per rifiutare una maternità non voluta.

Questo dato di fatto è la più grande piaga aperta del mondo contemporaneo, perché implica una sorta di rifiuto, da parte delle donne, di quanto di più specifico contrassegna la loro identità femminile. Presumo quindi che Sofri percepisca questo come un grande problema e in qualche modo ne soffra, proprio per il fatto che egli rifiuta come insultante la qualifica di "abortista". Egli però coniuga questo rifiuto con un altro esplicito rifiuto: quello di «coartare la libertà personale delle donne». È da più di trent’anni, da quando è entrata in vigore la legge sull’aborto, che la libertà delle donne non è più coartata dalla legge. A quanto mi risulta, non esiste oggi un partito o un movimento di opinione, nemmeno tra quelli che esplicitamente si considerano di ispirazione cristiana, che chiedano che si scelga la "criminalizzazione" legale di chi abortisce: su questo punto tutti – Sofri e Bonino in particolare – dovrebbero sentirsi tranquilli.

Ma chi, come Sofri, ritenga offensivo essere qualificato come "abortista", dovrebbe impegnare tutto se stesso in una campagna anti-abortista, di carattere non penale, ma intellettuale e morale: una campagna che operasse nella società civile a favore del rispetto per la vita e dell’identità femminile come identità (almeno potenzialmente) materna. Su questi temi il silenzio non solo dei radicali, ma di tutti i "laici", in Italia così come in altri Paesi, è assordante. Eppure, la questione è elementare: se è lodevole (lo scrive Sofri) sventare l’aborto, non può che essere lodevole la maternità. Siamo in grado di ribadire ad alta voce un concetto nello stesso tempo così profondo e così semplice? Chi voglia sinceramente non essere qualificato come "abortista" dovrebbe sentire il dovere di farlo.
Francesco D’Agostino


Avvenire.it, 31 Marzo 2010 -La pazienza e il fuoco - «Amici dei pedofili» ci dicono - Ma noi stiamo con Cristo - Davide Rondoni
Ora ci han detto di tutto. Non faccio la vittima, non è, nemmeno ora, il caso. Ma c’è da dire che noi cattolici collezioniamo ingiurie. Non me ne dolgo più di tanto. È un patimento che provoca una strana risorsa di allegria. Di pace, verrebbe da dire, in mezzo alle contumelie. Come se il dolore che duramente colpisce in tutta questa vicenda purificasse, togliesse l’aspro dalle offese che in tanti stanno costruendoci sopra. Insomma, siamo in una vicenda così dolente, così piena di amarezza da rendere più stupide, più ottusamente ridicole le offese.

Sì, avete aggiunto questa ingiuria. Ma non ve ne verrà nessuna soddisfazione. Dico a voi che da tempo ne inventate sempre di nuove. L’avete messa tra le frecce del vostro millenario arco. La peggiore che si poteva immaginare. Lo fate attaccandovi ai fatti, certo, ma soprattutto mulinando i fatti con chiacchiere, polvere e veleno in un unico gesto offensivo. In uno strano gesto di disprezzo, che sembra avere a cuore di colpire qualcuno più che compatire il male e rispettarlo con la chiarezza.

Non ho ancora una vita lunga. Però ho fatto in tempo a prendermi di tutto. Mi è stato dato di tutto. Dal corrotto al politicante, dall’impietoso all’integralista. Dal fascista al comunista. Dall’oscurantista al retrogrado. Mi è stato dato, detto di tutto. E ora pure questo. Amico dei pedofili, appartenente a una specie di associazione pedofila. Una specie di concorso esterno. Un’accusa enorme. Che può schiacciare chiunque. Che fa del male a tanti, e che in modo canagliesco distorce fatti e sfregia il viso della gente. Lo dicono, si sente dire. Ma non lo dicono le persone del popolo. Che sanno e distinguono la disgrazia e il crimine, e hanno compassione per le dure vicende che toccano gli uomini. Lo dicono i giornali, lo titolano tendenziosi quei giornali come quello femminile italiano popolare che grida in copertina: "Preti pedofili. E adesso lo manderesti tuo figlio all’oratorio?". Violenza banale di un giornalismo scorretto e tendenzioso.

Ora che non si può offendere più nessuno né per il colore della pelle, né per le tendenze sessuali (e giustamente) si possono almeno offendere i cattolici. E con la maggior infamia. Non lo fa la gente del popolo, se non come battuta semmai, con la trivialità che però innocua passa via. Ma lo suggeriscono, lo ripetono con il sorrisetto sulle labbra coloro che guidano i media. Animati da una specie di gusto oscuro per lo sfascio, per il peggio. Come se un problema enorme, vasto e diffuso in ambienti di ogni genere come la pedofilia venisse travisato per orientarne la cattiva ombra solo in un senso, solo contro qualcuno. Certo, un antipatico moralismo cattolico diviene ora un comodo bersaglio. Ma il cattolicesimo non è quella riduzione ad antipatico moralismo operata a volte anche da uomini di Chiesa a corto di argomenti e di cuore.

Eppure, ecco, ora che davvero ho preso di tutto e che mi trattano peggio della minoranza più offesa, e con più lividume, resta e quasi fiorisce in fondo una specie di strana quiete. Che non è solo quella di chi, avendo ricevuto ogni genere di offesa, non ha più nulla da temere e va sereno della propria coscienza e della realtà dei fatti. È quella quiete profonda di chi tieni gli occhi sulla realtà, dura e drammatica e però piena di bene, mentre altri si avvelenano il sangue tra livori e offese che come fuochi d’artificio ricadono spente.

Sì, non ci viene risparmiato niente. Ma nulla, diceva l’apostolo delle genti che raccolse offese di ogni genere girando ad annunciare il Vangelo, ci può separare dall’amore di Cristo. Che proprio in questi frangenti mostra più forti la sua pazienza e il suo fuoco.
Davide Rondoni


Avvenire.it, 31 Marzo 2010 – INTERVISTA - Padre Scalfi, 50 anni di samizdat - Antonio Giuliano
«Solov’ëv diceva che per capire non basta soltanto la ragione, occorre anche il cuore, l’esperienza». Le parole del grande pensatore russo sono da sempre la bussola per padre Romano Scalfi, l’uomo che negli anni Sessanta valicò la Cortina di ferro comunista e dimostrò all’Occidente la fede sotterranea dei credenti dell’ex Unione Sovietica. Da Tione di Trento dove è nato nel 1923, ne ha fatta di strada l’indomito cattolico altoatesino che nel 1957 a Milano ha fondato il centro studi Russia Cristiana. Un’organizzazione ponte con i territori dell’ex Urss che ha dato voce al «samizdat» (l’autoeditoria clandestina) e continua a far conoscere la tradizione dell’ortodossia russa per incoraggiare il dialogo ecumenico. Il filo con Mosca è costante. Dal quartier generale di Seriate, vicino Bergamo, padre Scalfi a 87 anni ogni giorno sin dalle prime luci dell’alba prega e si collega on line con l’amata Russia.

Padre Scalfi com’è stato il primo impatto in terra sovietica?
«Sono andato lì nel 1960, partimmo con due automobili. Appena passato il confine sovietico ci assegnarono un "angelo custode", che ci controllasse di continuo. Con vari stratagemmi e finti malintesi riuscimmo a visitare dei villaggi e a parlare con la gente, e capimmo da tanti piccoli segni che la fede era ancora presente. Certo si respirava l’ideologia marxista. Non riuscivano a spiegarsi come io, laureato, potessi credere in Dio: per i comunisti la scienza aveva dimostrato l’inesistenza di Dio».

Alla fine degli anni ’50 in Occidente si pensava che il cristianesimo fosse ormai un relitto del passato e invece spuntò il «samizdat» che lei ha definito «uno dei più grossi miracoli del XX secolo»…
«Fu un fiore sbocciato in pieno inverno per grazia di Dio. Proprio negli anni in cui l’Unione Sovietica si avviava alla piena realizzazione della società comunista. I foglietti del "samizdat" erano la prova che la Chiesa parlava. Migliaia di dissidenti russi, anche non credenti, testimoniavano valori cristiani: dal "samizdat" abbiamo imparato che la persona è il protagonista della storia e non le forze produttive come dicevano Marx e Lenin. Abbiamo imparato la venerazione per la verità, il "vivere senza menzogna" di Solzenicyn. Noi andavamo in Russia, conoscevamo le persone e portavamo i "samizdat" in Italia. I "samizdat" erano russi. Solo in Italia qualcuno anche tra i cattolici ha pensato in modo stolto che fossero un’invenzione della Cia».

Per quasi 20 anni le è stato impedito di mettere piede in Russia. Perché c’è stato un così grande accanimento verso i credenti?
«Lo Stato sovietico è stato il primo a proporsi come compito fondamentale quello di eliminare la religione. Mai nella storia c’è stato un impegno così grande per eliminare Dio dalle coscienze. Lenin infatti diceva che la lotta contro la religione è l’Abc del comunismo. Alla vigilia del 1917 in Russia si contavano 54.692 chiese parrocchiali e 1.025 monasteri. Alla fine degli anni ’30 erano stati chiusi tutti i monasteri e restavano poco più di un centinaio tra cattedrali e chiese parrocchiali. Tra il 1937 e il 1941 furono arrestati 175.800 sacerdoti dei quali 110.700 furono fucilati».

Nel libro «Testimoni dell’Agnello. Martiri per la fede in Urss» (La casa di Matriona) lei ha raccolto le storie di migliaia di credenti perseguitati.
«Tra tutti ricordo Veniamin, il metropolita di Leningrado. Nel 1922 diede l’ordine di usare i calici d’oro per aiutare le vittime della carestia; ma lo fece di propria iniziativa, senza chiedere permessi al Partito, per questo fu arrestato e condannato alla fucilazione. Prima di fucilarlo in un bosco fuori città, gli concessero cinque minuti per pregare. Lui si inginocchiò, pregò, e benedisse quelli che lo avrebbero ucciso dicendo: "Signore perdona loro perché non sanno quello che fanno"».

Ma oltre 70 anni di comunismo non sono riusciti a estirpare la fede…
«No, perché il senso religioso è innato nell’uomo. Tuttavia se settanta anni di martellamento contro la fede non sono riusciti a distruggere completamente l’uomo, hanno permesso l’insinuarsi di tante forme di superstizione che stanno seriamente minacciando quella che una volta era la mentalità ortodossa. Anche a 20 anni dalla fine dell’Unione Sovietica c’è ancora moltissimo da fare per il recupero di una coscienza autenticamente religiosa».

Oggi ci sono passi avanti nel dialogo con gli ortodossi?
«Sì, soprattutto guardando la realtà dal nostro "osservatorio", la Biblioteca dello Spirito di Mosca, dove lavorano insieme cattolici e ortodossi. Senza compromessi, perché una chiara identità cattolica è il requisito necessario per dialogare. Dall’incontro con don Giussani ho capito che per fare ecumenismo non basta specializzarsi sui libri, è l’esperienza della comunità, dell’unità con i propri amici ciò che conta».

Sta pensando a nuovi viaggi in Russia?
«Ci sono stato l’anno scorso e spero di tornarci ancora se Dio mi dà la forza. Meglio non far progetti, importante è aderire a quello che Dio combina nella nostra storia. Io sono un peccatore come tanti che ha sperimentato la misericordia e la grazia di Dio più di quanto potesse immaginare. Un giorno dissi al nostro padre spirituale Eugenio Bernardi che sarei diventato santo in quattro mesi e gli consegnai il mio programma. Lui lo lesse, sorrise e lo strappò e mi disse che è il Signore che ci fa santi e non noi. Una delusione, ma una grande lezione che non ho mai dimenticato».
Antonio Giuliano


Londra, no al crocifisso in corsia - Infermiera discriminata da clinica che consente il velo islamico - DA L ONDRA E LISABETTA D EL S OLDATO – Avvenire, 31 marzo 2010
P er trentun anni Shirley Chaplin, un’in fermiera di 54 anni, ha indossato sul posto di lavoro una catenina con una piccola croce al collo. Ma un anno fa i suoi su periori al Royal Devon and Exter Hospital, un ospedale nel sud dell’Inghilterra, le hanno chiesto di rimuoverla. Nello stesso ospedale ai medici e alle infermiere musulmane è per messo di indossare il velo. «Mi hanno detto che un paziente avrebbe potuto strapparmela dal collo e farmi male – ha dichiarato qual che giorno fa l’infermiera – . Che la catenina rappresentava un rischio alla mia salute. La porto da quando ho fatto la Cresima, lavoro in ospedale da oltre trent’anni e nessuno si è mai azzardato a tirarmela dal collo».
Non è una questione di sicurezza, è andata avanti la Chaplin, che appoggiata dal Chri stian Legal Centre e da un gruppo di vescovi della Chiesa d’Inghilterra, ha ora deciso di portare il suo caso di fronte al tribunale del lavoro di Exeter. «Il problema è che i cristia ni sono sempre più discriminati. Non capi sco perché io non posso indossare la mia mo­desta catenina quando nello stesso ospeda le diverse infermiere e medici musulmane possono indossare il velo». Che il fattore si curezza fosse una scusa, la Chaplin lo capì quando alla sua proposta di indossare la cro ce come spilla e non come catenina, i suoi superiori le rifiutarono ancora una volta il permesso. «A quel punto capii di essere sta ta messa di fronte a una scelta: il lavoro o la fede. Non esitai».
Non è il primo caso in cui dipendenti cristia ni vengono discriminati sul posto di lavoro in Gran Bretagna. Poco più di un anno fa un’im piegata della British Airways, minacciata di li cenziamento perché si era rifiutata di sepa rarsi dalla sua catenina con croce, riuscì a vin cere una lunga battaglia legale ed è di qual che mese fa la notizia che un’altra infermie ra è stata redarguita sul posto di lavoro per ché aveva chiesto ai pazienti se poteva pre gare per loro. «Stiamo superando ogni limite – scriveva ieri il quotidiano The Daily Mail – . Per paura di offendere le persone di altre fe di stiamo rinnegando la nostra». La Chaplin non ha alcun dubbio di essere stata vittima di discriminazione. «Il crocifisso è un’e spressione importantissima della mia fede e della mia devozione a Gesù Cristo. Se lo na scondessi metterei seriamente in dubbio le ragioni per cui lo indosso».
L’infermiera, che è nonna di due bambine, sostiene che dopo essersi rifiutata di sbaraz zarsi della catenina i suoi superiori l’hanno spostata di ruolo e relegata a un lavoro di uf ficio, lontana dai contatti con i pazienti. Ha confessato che spera di andare in pensione alla fine di quest’anno ma prima di andarse ne desidera che l’ospedale cambi il regola mento e permetta ai cristiani di indossare i simboli della loro fede.
La vicenda ha sollevato preoccupazioni in Gran Bretagna al punto che sette vescovi an glicani, tra cui l’ex arcivescovo di Canterbury George Carey, hanno pubblicato una lettera di supporto sui giornali di domenica scorsa in cui hanno scritto che il caso della Chaplin «è un altro esempio di discriminazione con tro la nostra fede» e in cui chiedono al gover no «più azioni per proteggere i cristiani».