martedì 23 marzo 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Avvenire.it, 22 Marzo 2010 - CONSIGLIO PERMANENTE CEI - Il cardinale Bagnasco: «Riconciliamoci con la Verità»
2) “VALORI NON NEGOZIABILI”, CARTINA DI TORNASOLE PER LE ELEZIONI REGIONALI - Il Cardinale Bagnasco apre i lavori del Consiglio Episcopale Permanente - di Antonio Gaspari
3) Avvenire.it, 22 Marzo 2010 - PROLUSIONE AL CONSIGLIO PERMANENTE -«Lasciatevi riconciliare con Dio» - S.E. Card. Angelo Bagnasco
4) COSA SONO DISPOSTI A FARE I GOVERNATORI DELLE REGIONI PER LA FAMIGLIA? - CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 22 marzo 2010 (ZENIT.org).- Il Forum delle associazioni familiari ha pubblicato e diffuso un manifesto in cui chiede ai candidati ai Consigli regionali delle 13 Regioni che voteranno i prossimi 28 e 29 marzo di prendere posizione sui temi familiari che incrociano le competenze regionali.
5) Corsera 21-3-2010 - Un'Italia anticristiana - di Ernesto Galli Della Loggia - Sempre più di frequente il discorso pubblico delle società occidentali mostra un atteggiamento sprezzante, quando non apertamente ostile, verso il Cristianesimo.
6) Avvenire.it, 23 Marzo 2010 - La presunta Italia «anticristiana», la realtà della Chiesa - La fede non si misura col bilancino della sociologia di Davide Rondoni
7) Cristiani pakistani rifiutano di convertirsi: marito bruciato vivo, moglie stuprata dalla polizia - La coppia lavorava alle dipendenze di un ricco uomo d’affari musulmano a Rawalpindi. I tre figli – dai 7 ai 12 anni – costretti con la forza ad assistere alle violenze. L’uomo, di 38 anni, è ricoverato con ustioni sull’80% del corpo. I sanitari: “non sopravviverà”. Organizzazioni cristiane hanno indetto marce di protesta…
8) Avvenire. It, 23 Marzo 2010 - CHIESA PERSEGUITATA - Pakistan, cristiano arso vivo - Non voleva convertirsi
9) 24 Marzo. Oscar Romero; una morte annunciata - Autore: Restelli, Silvio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it E-mail: silvio.restelli@poste.it - lunedì 22 marzo 2010
10) Israele.net, 17-03-2010 - Ma perché tanto chiasso? - di Barry Rubin, da: Jerusalem Post, 14.3.10 - Si sono scritte un sacco di sciocchezze circa l’annuncio del governo israeliano che verranno costruiti 1.600 nuovi appartamenti in un quartiere di Gerusalemme est…
11) Avvenire.it, 22 Marzo 2010 - MEDIO ORIENTE - Clinton: «Israele deve fare scelte difficili per la pace»
12) Israele.net, 22-03-2010 - Il mito dell’assedio di Gaza - Da un articolo di Jacob Shrybman - Da: YnetNews, israele.net, 18-21.03.10
13) Israele.net, 9-03-2010 - Alla tv per bambini palestinesi, Israele non esiste - Da: Jerusalem Post, 18.3.10


Avvenire.it, 22 Marzo 2010 - CONSIGLIO PERMANENTE CEI - Il cardinale Bagnasco: «Riconciliamoci con la Verità»
“Vi supplico in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio”: questo versetto della seconda Lettera di S. Paolo ai Corinti fa da pensiero unificante della prolusione che il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, ha presentato oggi ai partecipanti al Consiglio permanente dei vescovi, che proseguirà fino a giovedì 25 marzo a Roma. Tutto il testo è segnato dalla “consapevolezza di una conversione necessaria e irrevocabile”, in riferimento a molteplici fattori ed eventi che segnano la vita della Chiesa come quella della società nel suo complesso. Il cardinale fa riferimento anzitutto agli attacchi a quel “mistagogo formidabile del nostro tempo che è Benedetto XVI”, notando come “quanto più, da qualche parte, si tenta inutilmente di sfiorare la sua limpida e amabile persona, tanto più il popolo di Dio a lui guarda commosso e fiero”. Circa il ruolo e il comportamento di vescovi e preti, aggiunge, “non ci sono incarichi o ruoli da interpretare come ‘un privilegio personale’, o da trasformare in occasioni per ‘una brillante carriera’, quando c’è solo ‘un servizio da rendere con dedizione e umiltà’”. Il presidente cita, a questo proposito, recenti parole del Papa: “Le cose nella società civile e, non di rado, nella Chiesa, soffrono per il fatto che molti di coloro ai quali è stata conferita una responsabilità, lavorano per se stessi e non per la comunità”.

La Lettera ai cattolici d'Irlanda. Nei passaggi iniziali della sua prolusione, il card. Bagnasco dedica ampio spazio alla Lettera ai Cattolici d’Irlanda scritta dal Papa nei giorni scorsi, dopo l’esplodere dello scandalo della pedofilia, notando come questi fatti rappresentino un “crimine odioso, ma anche peccato scandalosamente grave che tradisce il patto di fiducia iscritto nel rapporto educativo”. “Senza dubbio la pedofilia è sempre qualcosa di aberrante – prosegue - e, se commessa da una persona consacrata, acquista una gravità morale ancora maggiore. Per questo, insieme al profondo dolore e ad un insopprimibile senso di vergogna, noi Vescovi ci uniamo al Pastore universale nell’esprimere tutto il nostro rammarico e la nostra vicinanza a chi ha subìto il tradimento di un’infanzia violata”. Il cardinale nota quindi che “Benedetto XVI non lascia margini all’incertezza o alle minimizzazioni” e prosegue citando passi della Lettera del Papa: “nonostante l’indegnità, ‘i peccati, i fallimenti di alcuni membri della Chiesa, particolarmente di coloro che furono scelti in modo speciale per guidare e servire i giovani’”, rimane la verità che “‘è nella Chiesa che voi troverete Gesù Cristo, che è lo stesso ieri, oggi e sempre’”. Chiede quindi ai Vescovi italiani un “intensificato sforzo educativo dei candidati al sacerdozio, il rigore del discernimento, la vigilanza per prevenire situazioni e fatti non compatibili con la scelta di Dio, una formazione permanente del nostro clero adeguata alle sfide”.

Strategie di discredito generalizzato. Dopo aver notato come “non da ora il fenomeno della pedofilia appaia tragicamente diffuso in diversi ambienti e in varie categorie di persone”, il cardinale afferma che “questo, però, non significa subire – qualora ci fossero – strategie di discredito generalizzato. Dobbiamo in realtà tutti interrogarci, senza più alibi, a proposito di una cultura che ai nostri giorni impera incontrastata e vezzeggiata, e che tende progressivamente a sfrangiare il tessuto connettivo dell’intera società, irridendo magari chi resiste e tenta di opporsi: l’atteggiamento cioè di chi coltiva l’assoluta autonomia dai criteri del giudizio morale e veicola come buoni e seducenti i comportamenti ritagliati anche su voglie individuali e su istinti magari sfrenati”. Secondo il presidente dei Vescovi “l’esasperazione della sessualità sganciata dal suo significato antropologico, l’edonismo a tutto campo e il relativismo che non ammette né argini né sussulti fanno un gran male perché capziosi e talora insospettabilmente pervasivi”. “Conviene allora – afferma il presidente della Cei - che torniamo tutti a chiamare le cose con il loro nome sempre e ovunque, a identificare il male nella sua progressiva gravità e nella molteplicità delle sue manifestazioni, per non trovarci col tempo dinanzi alla pretesa di una aberrazione rivendicata sul piano dei principi”.

L'interesse religioso nella popolazione. “Sacerdoti di convinzione, capaci di autonomia pensante”: è quanto il presidente dei Vescovi chiede al clero, per essere all’altezza dei tempi, senza “indulgere in ingenua condiscendenza allo spirito del tempo”, rilevando tra l’altro un crescente interesse religioso nella popolazione, come ad esempio nel caso delle “ostensioni” (quella di Sant’Antonio, a Padova, e presto quella della Sindone a Torino). Rilancia quindi l’esigenza dell’ “educazione”, che sarà oggetto degli orientamenti pastorali per il prossimo decennio, discussi nel Consiglio permanente, richiamando a questo proposito la XXV Giornata Mondiale della Gioventù che verrà celebrata la Domenica delle Palme. Il cardinale Bagnasco passa poi a trattare i temi internazionali, a partire dai due recenti terremoti di Haiti e del Cile, notando l’esigenza di “attrezzarsi per rispondere in modo non improvvisato né episodico alle tragedie che si presentano” e anche la generosità della risposta della popolazione italiana. Un altro tema all’attenzione è quello degli attacchi alla “libertà religiosa” e in particolare “la recrudescenza degli attacchi ai cattolici”. Su questo argomento nota come “la mitezza che contrassegna in generale la risposta cattolica non può essere fraintesa: nessuno ha il diritto di farsi padrone degli altri in nome di Dio”.

Italia, società vivace. Passando a riflettere sulla situazione italiana, il card. Bagnasco ha sottolineato che “la nostra è una società vivace, che in vari campi ha delle punte di eccellenza” anche se con venature di pessimismo. Ha infatti affermato: “Da più parti si parla di un declino che sarebbe incombente sul nostro amato Paese. Perché nei paragoni, che talora si avanzano, dove l’Italia è messa per l’uno o l’altro dei suoi parametri a confronto con altri contesti nazionali, si finisce puntualmente per concludere – magari con un sottile compiacimento intellettuale – che siamo in svantaggio?”. Il presidente dei Vescovi si pone le domande: “Si tratta di irriducibile pessimismo o di cronico snobismo? Rimestare sistematicamente nel fango, fino a far apparire l’insieme opaco, se non addirittura sporco, a cosa serve? E a sospingere verso analisi fin troppo crudeli, è l’amore per la verità o qualcos’altro di meno confessabile?”. Si interroga anche su un altro fenomeno, legato alla crisi economica: quello dei suicidi di dipendenti e anche di imprenditori, “in particolare del Nordest, che nell’impossibilità a far fronte agli impegni”, “disperatamente non scorgono alternative diverse dal tragico gesto”. Di fronte a questi fatti, il presidente dei Vescovi afferma che “la crisi la si supera sforzandosi di immaginare il nuovo”.

Difesa della vita e valori non negoziabili. Gli ultimi argomenti affrontati dal card. Bagnasco nella prolusione al Consiglio permanente dei Vescovi, hanno riguardato i temi della difesa della vita, della riaffermazione dei “valori non negoziabili” in politica e della esigenza che a rappresentare i cittadini ci siano cittadini onesti e possibilmente pervasi dei valori cristiani. Circa il primo aspetto ha rilevato che in Europa nel solo 2008 “quasi tre milioni di bambini non sono nati” a causa dell’aborto, “ossia uno ogni undici secondi”. Ha collegato questa tendenza alla introduzione nel nostro Paese della pillola Ru486, che “banalizzerà l’aborto (...) giacché l’idea di pillola è associata a gesti semplici”. Quanto alle imminenti elezioni ha ricordato valori quali “dignità della persona umana”, “indisponibilità della vita dal concepimento alla morte naturale”, “libertà educativa e scolastica”, “famiglia fondata sul matrimonio fra un uomo e una donna”, come anche “accoglienza verso gli immigrati”, “libertà dalla malavita”. “Si tratta – ha detto – di un complesso indivisibile di beni, dislocati sulla frontiera della vita e della solidarietà”. Quanto, infine, alla onestà nella vita politica, ha ammonito: “non è vero che tutti rubano”, ma se anche ciò accadesse “non si attenuerebbe in nulla l’imperativo dell’onestà”.


“VALORI NON NEGOZIABILI”, CARTINA DI TORNASOLE PER LE ELEZIONI REGIONALI - Il Cardinale Bagnasco apre i lavori del Consiglio Episcopale Permanente - di Antonio Gaspari
ROMA, lunedì, 22 marzo 2010 (ZENIT.org).- Il ‘primordiale diritto alla vita’ e i ‘valori non negoziabili’ sono la cartina di tornasole indicata dal Cardinale Angelo Bagnasco per le imminenti elezioni regionali.
Nel corso della prolusione svolta lunedì 22 marzo al Consiglio Episcopale Permanente riunito a Roma, il presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) ha rilevato che è sul “primordiale diritto alla vita che all’alba di questo terzo millennio l’intera società si trova a dover fare ancora l’esame di coscienza”.
“Da qualche tempo - ha spiegato l’Arcivescovo di Genova -, nella mentalità di persone che si ritengono per lo più evolute, si è insediato un singolare ribaltamento di prospettive nei riguardi di situazioni e segmenti di vita poco appariscenti, quasi che l’esistenza dei già garantiti, di chi dispone di strumenti per la propria salvaguardia, valga di più della vita degli ‘invisibili”.
“Come non capire che si consuma qui un delitto incommensurabile, e che lo si può fare solo in forza di una tacita convenzione culturale che è abbastanza prossima alla ipocrisia?”, ha chiesto il porporato.
Il Cardinale Bagnasco ha quindi fatto riferimento al rapporto, predisposto dall’Istituto per le politiche familiari da cui risulta che a proposito dell’aborto in Europa sono stati quasi tre milioni i concepiti che non hanno visto la luce del sole nel 2008, ossia un aborto ogni undici secondi, venti milioni negli ultimi quindici anni.
Il porporato ha quindi constatato che “l’aborto ha ormai perso l’immagine di una pratica eccezionale e dolorosa, compiuta per motivi gravi di salute della madre o del piccolo, per diventare un metodo ‘normale’ di controllo delle nascite”.
Il presidente della CEI ha poi lanciato l’allarme per la diffusione di nuovi metodi abortivi.
“Dalla ‘pillola del giorno dopo’ - ha detto - al nuovo ritrovato, chiamato sui giornali ‘pillola dei cinque giorni’, è un continuum farmacologico che, annullando il confine tra prodotti anticoncezionali e abortivi, ha già indotto ad una crasi linguistica (…) minimizzando probabilmente l’urto del gesto abortivo, anzitutto sul piano personale, e poi anche su quello cultural-sociale”.
“In questo contesto,- ha sottolineato l’Arcivescovo di Genova -, inevitabilmente denso di significati, sarà bene che la cittadinanza inquadri con molta attenzione ogni singola verifica elettorale, sia nazionale sia locale e quindi regionale”.
“L’evento del voto – ha aggiunto - è un fatto qualitativamente importante che in nessun caso converrà trascurare” giacché “il voto avviene sulla base dei programmi sempre più chiaramente dichiarati e assunti dinanzi all’opinione pubblica, e rispetto ai quali la stessa opinione pubblica si è abituata ad esercitare un discrimine sempre meno ingenuo, sottratto agli schematismi ideologici e massmediatici”.
Per chiarire i principi che sono alla base del discernimento politico per i cattolici, il presidente della CEI ha fatto riferimento a quella piattaforma di contenuti che, “insieme a Benedetto XVI, chiamiamo ‘valori non negoziabili”, e che “emergono alla luce del Vangelo, ma anche per l’evidenza della ragione e del senso comune”.
Essi sono: “la dignità della persona umana, incomprimibile rispetto a qualsiasi condizionamento; l’indisponibilità della vita, dal concepimento fino alla morte naturale; la libertà religiosa e la libertà educativa e scolastica; la famiglia fondata sul matrimonio fra un uomo e una donna”.
L’Arcivescovo di Genova ha spiegato che sui “valori non negoziabili” si impiantano e vengono garantiti altri indispensabili valori come: il diritto al lavoro e alla casa; la libertà di impresa finalizzata al bene comune; l’accoglienza verso gli immigrati, rispettosa delle leggi e volta a favorire l’integrazione; il rispetto del creato; la libertà dalla malavita, in particolare quella organizzata.
Si tratta di un complesso indivisibile di beni, dislocati sulla frontiera della vita e della solidarietà, che costituisce l’orizzonte stabile del giudizio e dell’impegno nella società.
Ma “quale solidarietà sociale, se si rifiuta o si sopprime la vita, specialmente la più debole?”, ha concluso il porporato.


Avvenire.it, 22 Marzo 2010 - PROLUSIONE AL CONSIGLIO PERMANENTE -«Lasciatevi riconciliare con Dio» - S.E. Card. Angelo Bagnasco

Venerati e Cari Confratelli,
«Vi supplico in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20): insieme alle nostre comunità, ci siamo messi in cammino nella direzione indicata da queste parole per vivere come grazia il tempo forte della Quaresima, puntando alla Pasqua, cuore della nostra fede. Noi stessi, padri del Consiglio Permanente, conveniamo in questa sessione primaverile per rispondere in termini anche personali all’invito dell’apostolo Paolo. Il nostro ministero, al pari del lavoro che ci attende in questi giorni, vuol essere solcato dalla consapevolezza di una conversione necessaria e irrevocabile. Ci interrogheremo infatti sul già fatto e sul non ancora compiuto, e sulle condizioni del tempo in cui operiamo, dando così forma al «necessario discernimento, anche severo, del realismo sobrio e dell’apertura a nuovi carismi» (Benedetto XVI, All’Udienza del Mercoledì, 10 marzo 2010), ossia all’ispirazione divina che dal Risorto è stata garantita alla Chiesa, per cui il governare, da parte dei Pastori, è anzitutto e «soprattutto pensare e pregare» (ib).

1. «Vi supplico in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20): non c’è nulla di abitudinario né di ciclicamente scontato nella riproposta del tempo quaresimale. Non c’è anzitutto un nostro agitarci, ma c’è piuttosto l’iniziativa di Dio, c’è una misteriosa e gratuita «precedenza divina»: a noi rimane il compito di lasciarci raggiungere, di arrenderci all’amore e alla sua chiamata. Solo Dio infatti può attirarci, mentre a noi sta la responsabilità della risposta. Ecco la fede, che è il vero caso serio della vita: qui mettiamo a repentaglio noi stessi, lo spessore della nostra vita attuale, la beatitudine di quella futura (cfr Benedetto XVI, All’Udienza del Mercoledì, 17 febbraio 2010). Dio non ci ama per gioco, e il nostro corrispondergli non può essere affidato alla saltuarietà e ad uno spontaneismo vago quanto ingenuo. È piuttosto un lasciarci portare a livello di Dio, ed è evento ontologico che riguarda l’essere, cioè il fatto «che siamo uniti con Lui, che ci ha dato in anticipo se stesso, ci ha dato il suo amore» (Benedetto XVI, Lectio Divina con i Seminaristi del Seminario romano maggiore, 12 febbraio 2010). È, dunque, un restare al livello che Lui ci è ha guadagnato. Non basta rettificare un accidente, è tutta l’esistenza che va messa in asse con la chiamata: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2Cor 5,21). E il Papa commenta: grazie all’azione di Cristo, «noi possiamo entrare nella giustizia “più grande”, quella dell’amore, la giustizia di chi si sente in ogni caso sempre più debitore che creditore, perché ha ricevuto più di quanto si possa aspettare» (Messaggio per la Quaresima 2010). A quel punto, l’agire consegue all’essere, «come una realtà organica, perché ciò che siamo, possiamo anche esserlo nella nostra attività» (Lectio Divina cit.). Dunque − al di là del formalismo o del moralismo − non si tratta di consegnarci «ad una volontà tirannica» che sta fuori del nostro essere, o ad una legge estranea a noi stessi e che ci resterà esteriore. Dobbiamo piuttosto agire sul perno della nostra identità, dando realizzazione al «dono del nuovo essere» (ib). L’etica evangelica è essere fedeli a ciò che Gesù ha fatto per noi e di noi. È il dinamismo intrinseco e coerente con ciò che siamo per grazia. L’alienazione è in agguato quando ci si esclude dalla prospettiva di Dio, «perché in questo modo usciamo dal disegno del nostro essere», usciamo cioè da quella «volontà creatrice», crogiuolo dell’incandescenza, che porta l’uomo e la sua libertà al grado massimo della loro realizzazione (cfr Benedetto XVI, Lectio Divina con i Parroci di Roma, 18 febbraio 2010).

Ancora una volta, cari Confratelli, noi amiamo pensarci nell’ambito di quella scuola in cui mistagogo formidabile del nostro tempo è Benedetto XVI, e non per meramente ripetere ma per assumere emblematicamente questo magistero e per incastonarlo nel vissuto delle nostre Chiese, persuasi che la testimonianza pontificale oggi offerta, raccolta con ogni premura attorno ad uno speciale carisma della parola, accompagnata da una conoscenza singolare dei Padri, e da una sensibilità acuta per i bisogni dell’umanità, sia un provvido segno dei tempi, grazia che prova come il Signore non abbandoni mai il suo popolo e amabilmente lo guidi per i pascoli del suo amore. Quanto più, da qualche parte, si tenta inutilmente di sfiorare la sua limpida e amabile persona, tanto più il popolo di Dio a lui guarda commosso e fiero. Anche per questo gli rinnoviamo la nostra vicinanza ancora più forte e grata, l’affetto profondo e la nostra piena e concreta comunione.

2. «Vi supplico in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20). Ma per «lasciarci riconciliare» occorre, da una parte, che noi continuiamo ad avere una vera idea di Dio stesso. Quante volte infatti, dinanzi alle provocazioni del male abissalmente presenti nella storia e nella vita, si fa ricorso al concetto di kénosis, assegnando magari a questa parola un valore semantico sfuocato ed impreciso, intendendola cioè come ridimensionamento dell’onnipotenza di un Dio che così farebbe i conti con il principio a Lui contrario, quello del male? «Ma che povera apologia» di Dio è questa, osserva il Papa. «Come potremmo affidarci a questo Dio? Come potremmo essere sicuri nel suo amore […]?». Credere a Dio vuol dire non ignorare il volto del Cristo Crocifisso: lì «vediamo la vera onnipotenza, non il mito dell’onnipotenza. […]. In Lui la vera onnipotenza è amare fino al punto che Dio può soffrire […] fino al punto di un amore che soffre per noi. E così vediamo che Lui è il vero Dio e il vero Dio, che è amore, è potere: il potere dell’amore» (Lectio Divina con i Seminaristi, cit.). Ecco perché non ci stancheremo mai di sollecitare le nostre comunità ad approfittare quanto meno dei momenti forti dell’anno, come la Quaresima, per proporre ad adulti e giovani, oltre che ai bambini e ai ragazzi, degli itinerari catechistici in grado di far acquisire il senso autentico del messaggio cristiano.
Dall’altra parte, è necessario che tutta la pastorale si concentri, per così dire si essenzializzi, in quel «Gesù solo» apparso ai discepoli nel momento della Trasfigurazione. Guai a noi se cessassimo di contemplare il volto di Gesù, «vangelo vivente e personale», se pensassimo di saper reggere il lavoro ecclesiale staccando lo sguardo da Lui. Questo vuol dire, ad esempio, che per noi ecclesiastici non ci sono incarichi o ruoli da interpretare come «un privilegio personale», o da trasformare in occasioni per «una brillante carriera», quando c’è solo «un servizio da rendere con dedizione e umiltà» (Benedetto XVI, All’Udienza generale, 3 febbraio 2010). Il Papa l'aveva già detto, e di recente l’ha ripetuto, che «le cose nella società civile e, non di rado, nella Chiesa, soffrono per il fatto che molti di coloro ai quali è stata conferita una responsabilità, lavorano per se stessi e non per la comunità» (ib).

Ma la concentrazione su Cristo vuol dire soprattutto che la trasparenza è un punto d’onore della nostra azione pastorale. Indirizzando sabato scorso la sua Lettera ai Cattolici d’Irlanda, e affrontando con loro a cuore aperto il problema, ovunque doloroso là dove si verifica, degli abusi sessuali compiuti su minori da ecclesiastici – crimine odioso, ma anche peccato scandalosamente grave che tradisce il patto di fiducia iscritto nel rapporto educativo – il Papa ha posto un limite invalicabile alla perniciosa tendenza a cercare scuse in attenuanti e condizionamenti. Egli invece ha affermato con vigore che occorre assumere «una posizione più forte per portare avanti il compito di riparare alle ingiustizie del passato e per affrontare le tematiche […] secondo modalità conformi alle esigenze della giustizia e agli insegnamenti del Vangelo» (n. 1). Senza dubbio la pedofilia è sempre qualcosa di aberrante e, se commessa da una persona consacrata, acquista una gravità morale ancora maggiore. Per questo, insieme al profondo dolore e ad un insopprimibile senso di vergogna, noi Vescovi ci uniamo al Pastore universale nell’esprimere tutto il nostro rammarico e la nostra vicinanza a chi ha subìto il tradimento di un’infanzia violata. La Lettera papale è interamente pervasa da un accorato spirito di contrizione ed è testimonianza indubitabile di una Chiesa che non sta sulla difensiva quando deve assumere su di sé lo «sgomento», «il senso di tradimento» e «il rimorso» per ciò che è stato fatto da alcuni suoi ministri. Benedetto XVI non lascia margini all’incertezza o alle minimizzazioni: «rendiamo conto – esorta – delle nostre azioni senza nascondere nulla», «riconoscete apertamente la vostra colpa, sottomettetevi alle esigenze della giustizia», «dovete rispondere davanti a Dio onnipotente come pure davanti a tribunali debitamente costituiti» (n. 7). E lui, a sua volta, si mette in gioco con la sua autorità: «Vi chiedo con umiltà di riflettere su quanto ho detto» (n. 6). Anche nella bufera, tuttavia, egli è Pietro ed indica la strada, propone a tutti, senza indulgenze, lo scatto in avanti necessario: nonostante l’indegnità, «i peccati, i fallimenti di alcuni membri della Chiesa, particolarmente di coloro che furono scelti in modo speciale per guidare e servire i giovani», ecco tutto questo è vero, «ma è nella Chiesa che voi troverete Gesù Cristo, che è lo stesso ieri, oggi e sempre» (n. 9). Le direttive chiare e incalzanti già da anni impartite dalla Santa Sede confermano tutta la determinazione di fare verità fino ai necessari provvedimenti, una volta accertati i fatti. I Vescovi italiani prontamente ne hanno preso atto e hanno intensificato lo sforzo educativo dei candidati al sacerdozio, il rigore del discernimento, la vigilanza per prevenire situazioni e fatti non compatibili con la scelta di Dio, una formazione permanente del nostro clero adeguata alle sfide. Siamo riconoscenti alla Congregazione per la Dottrina della Fede per l’indirizzo e il sostegno nell’inderogabile compito di fare giustizia nella verità, consapevoli che anche un solo caso in questo ambito è sempre troppo, specie – ripeto – se chi lo compie è un sacerdote.

Da varie parti, anche non cattoliche, si rileva come non da ora il fenomeno della pedofilia appaia tragicamente diffuso in diversi ambienti e in varie categorie di persone: ma questo, lungi dall’essere qui evocato per sminuire o relativizzare la specifica gravità dei fatti segnalati in ambito ecclesiastico, è piuttosto un monito a voler cogliere l’obiettivo spessore della tragedia. Nel momento stesso in cui sente su di sé l’umiliazione, la Chiesa impara dal Papa a non avere paura della verità, anche quando è dolorosa e odiosa, a non tacerla o coprirla. Questo, però, non significa subire – qualora ci fossero – strategie di discredito generalizzato. Dobbiamo in realtà tutti interrogarci, senza più alibi, a proposito di una cultura che ai nostri giorni impera incontrastata e vezzeggiata, e che tende progressivamente a sfrangiare il tessuto connettivo dell’intera società, irridendo magari chi resiste e tenta di opporsi: l’atteggiamento cioè di chi coltiva l’assoluta autonomia dai criteri del giudizio morale e veicola come buoni e seducenti i comportamenti ritagliati anche su voglie individuali e su istinti magari sfrenati. Ma l’esasperazione della sessualità sganciata dal suo significato antropologico, l’edonismo a tutto campo e il relativismo che non ammette né argini né sussulti fanno un gran male perché capziosi e talora insospettabilmente pervasivi. Conviene allora che torniamo tutti a chiamare le cose con il loro nome sempre e ovunque, a identificare il male nella sua progressiva gravità e nella molteplicità delle sue manifestazioni, per non trovarci col tempo dinanzi alla pretesa di una aberrazione rivendicata sul piano dei principi.

Tenendo fisso lo sguardo a Gesù, siamo abilitati a riconoscerlo in tutti, in particolare nei piccoli e nei poveri. È, dunque, a partire dal riferimento a Lui, che si concretizza il contributo che, insieme ai Confratelli della Comece, intendiamo dare alla campagna approntata per l’Anno europeo della lotta alla povertà e all’esclusione sociale. Più in generale, in questa circostanza vorremmo osservare che c’è tanta, troppa sofferenza nel mondo, e che attenuare il carico di dolore prodotto è una missione cui tutti devono partecipare, quale che sia la loro competenza. E tuttavia, consapevoli che mai riusciremo a cancellare il male dalla nostra condizione umana, ci sia consentito ricordare che il dolore, per quanto scandaloso, non è mai del tutto eccedente: in ogni sua goccia infatti è fin d’ora deposto un seme di eternità e di salvezza.

3. «Vi supplico in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20): vorrei che questa perorazione raggiungesse in particolare i nostri cari sacerdoti, e li interpretasse nel loro desiderio di autenticità e di rinnovamento della propria testimonianza di vita e di missione. L’Anno Sacerdotale che stiamo celebrando conoscerà, in ogni Chiesa locale, proprio giovedì della prossima settimana – giovedì santo – una tappa particolarmente significativa sul fronte della coscienza di sé, in rapporto agli altri, alle rispettive comunità, e soprattutto in rapporto a Gesù Cristo, «il sempre chiamante». In un certo senso, potrà rappresentare il fulcro, ossia il punto di caduta dell’intero Anno Sacerdotale, il momento nel quale meglio cogliere quella «continuità sacerdotale» che, partendo da Gesù di Nazareth, si è presto esplicata lungo i secoli nei nostri territori, e fino ad oggi (cfr Benedetto XVI, Discorso al Convegno della Congregazione per il Clero, 12 marzo 2010). Il tema dell’identità sacerdotale resta «determinante» per l’esercizio del sacerdozio ministeriale: in un’epoca come la nostra − «policentrica» e «polimorfa» e perciò stesso «incline a sfumare ogni concezione identitaria» come avversa al sentimento democratico − «è importante avere ben chiara la peculiarità teologica del ministero ordinato» (ib). Sarebbe bello che l’impegno profuso in questi mesi fosse coinciso, per ciascun confratello, con uno scavo attorno alle radici della propria vocazione, per riscoprirne la bellezza e rinforzare in lui la propria umanità: come diceva di recente il Papa, egli «deve vivere una vera umanità, un vero umanesimo; deve avere un’educazione, una formazione umana, delle virtù umane; deve sviluppare la sua intelligenza, la sua volontà, i suoi sentimenti, i suoi affetti; deve essere realmente uomo, uomo secondo la volontà del Creatore e del Redentore…» (Lectio Divina con i Parroci cit.). Non un disagiato, né uno scompensato, benché il clima culturale odierno non faciliti certo la crescita armonica di alcuno. Il sacerdote è un uomo che – non solo nel tempo del seminario – coltiva la propria umanità nel fuoco dell’amore di Gesù. E in questo orizzonte la nutre, la pota, la orienta, diventando a quel punto capace di amare in maniera matura la vocazione donatagli.

Ogni sacerdote è consapevole di essere stato preso per mano dal suo Signore e chiamato a stare con Lui come amico: per questo è vitale conoscere Dio da vicino, frequentarlo, accompagnarsi a Lui cuore a cuore. La celebrazione quotidiana della Messa, la preghiera regolare della Liturgia delle Ore e quella dei momenti più intimi e personali, l’adorazione eucaristica, la pratica del sacramento della penitenza, lo studio anche sistematico che permette di penetrare meglio le sfide del tempo, sono tutti elementi che vanno nell’unica direzione, quella della comunione stabile con Dio in Cristo Gesù (cfr Benedetto XVI, Discorso al Convegno sul foro interno promosso dalla Penitenzieria Apostolica, 11 marzo 2010). La secolarizzazione diventa l’ambiente di cui si coglie il portato, ma senza ingenuità o illusioni, per diventare sacerdoti di convinzione, sacerdoti capaci di autonomia pensante, senza lasciarsi sopraffare dall’estensione delle cose da sapere o da fare perché si punta sulla profondità, sulla sintesi più che sui dettagli, sulle arcate più che sulla decorazione. Un’insistente proiezione esterna, una parcellizzazione degli impegni, un attivismo esasperato non possono diventare l’ancoraggio della vita interiore; questa si nutre anzitutto nel rapporto con Dio, coltivato, preservato, amato. C’è un’industriosità del sacerdote che, se dapprima galvanizza e inebria, molto presto svuota e appesantisce. L’apertura al mondo, ai fatti della vita, alla contemporaneità, non va scambiata con l’ingenua condiscendenza allo spirito del tempo, quasi dovesse tradursi in un’auspicabile e progressiva auto-secolarizzazione (cfr Benedetto XVI, Lettera cit., n. 4) Allora, l’intorpidimento dell’anima apparirà per quello che è, un inaridimento scaturito da auto-esenzioni circa i doveri del proprio stato. Essere preti è qualcosa di più di una semplice decisione morale, affidata ad una pur adeguata condotta di vita; è anzitutto una risposta d’amore ad una dichiarazione d’amore.

La missione «non è una cosa aggiunta alla fede, ma è il dinamismo della fede stessa» (Lectio Divina con i Seminaristi cit.), e diventerà il nostro modo di essere, di porci fra gli altri, senza finti distacchi, ma anche senza ignorare le differenze. Si diventerà capaci di appassionamento, di com-passione, per soffrire con gli altri, e caricarsi addosso il patire del nostro tempo, il patire della nostra stessa comunità, senza tuttavia lasciarsene sopraffare. Serve per questo non concentrarsi sui propri limiti, «ma tenere lo sguardo fisso sul Signore e sulla sua sorprendente misericordia, per convertire il cuore, e continuare con gioia a lasciare tutto per Lui» (Benedetto XVI, Saluto all’Angelus, 7 febbraio 2010). Si scoprirà, a quel punto, che «la testimonianza suscita vocazioni» come recita il tema scelto per la Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni in calendario per il prossimo 25 aprile. C’è una sorta di contagio tra chi vive gratuitamente e gioiosamente il proprio essere prete e quanti attorno a lui si interrogano sul proprio destino, sulla propria personale chiamata, fuori dai burocraticismi e dalle mimetizzazioni indotte dal clima culturale. Siamo certi che come non si è accorciato il braccio di Dio, né affievolita la sua voce, così non ha perso trazione nei cuori di oggi il linguaggio del dono. C’è piuttosto una fascinazione esercitata dai testimoni che sarebbe sciocco deprezzare. L’accorrere sorprendente di tanta gente, in occasione di «ostensioni» – da poco si è svolta a Padova quella di Sant’Antonio, presto sarà la volta della Sindone a Torino – o per appuntamenti religiosi anche non eccezionali, è un fenomeno da trattare non con sufficienza né con snobismo. Occorre invece saperlo attraversare, per interpretarne le tracce, raccogliere segnali, purificare linguaggi.

In quest’ora delicata, una parola ci sentiamo in dovere di rivolgere a voi, amati Sacerdoti che fate il vostro dovere con fede, amore e dignità. Noi Vescovi, insieme al Papa (cfr Lettera cit. n. 10), onoriamo la vostra dedizione limpida e generosa per il bene autentico della gente, a cominciare dai bambini e dai ragazzi. Nessun caso tragico può oscurare la bellezza del vostro ministero e del sacerdozio che sacramentalmente ci unisce, né mettere in discussione il sacro celibato che ci scalda il cuore e ispira la vita. Nell'appartenenza radicale e fedele a Gesù noi sappiamo che la nostra umanità si realizza e diventa feconda nella paternità dello spirito. Non sentitevi mai guardati con diffidenza o abbandonati, e non scoraggiatevi; siate sereni sapendo che le nostre comunità hanno fiducia in voi e vi affiancano con lo sguardo della fede e le esigenze dell'amore evangelico.

4. Proprio la declinazione educativa del compito sacerdotale ci interessa in questo momento. I lineamenti del nuovo decennio che sono in gestazione, e prenderemo in esame nel corso di questo Consiglio Permanente in vista dell’approvazione all’ordine del giorno della prossima Assemblea, ci impongono una sottolineatura che valorizzi la riflessione in atto con l’Anno Sacerdotale. Pensiamo al grande tema dell’Apostolo quale padre che rigenera colui che vuole credere (cfr 1Ts 2,7.11; Gal 4,19; 2Cor 12,15, Fm 10). E in Rom 6,17-18 contrappone due condizioni esistenziali, evocando dapprima gli «schiavi del peccato», e poi i «servi della giustizia». Il passaggio da un modo di esistere all’altro è dovuto ad almeno due fattori: l’insegnamento come viene trasmesso e l’obbedienza compiuta dal cuore. La natura di questa operazione è identificata niente meno che con la categoria della liberazione: è un’esperienza vissuta dalla libertà e attraverso la libertà. Ebbene, facile è desumere da qui lo spessore che la Parola di Dio attribuisce alla dimensione educativa. Paolo parla di «cuore» che ubbidisce. Cioè non basta che l’insegnamento trasmesso venga assentito razionalmente in quanto ritenuto vero, bisogna che si acconsenta ad esso perché valutato affettivamente come qualcosa di desiderabile. Ne discende che la predicazione della Parola di Dio non deve essere solo fedele alla verità, ma anche significativa per la persona. Una proposta su Cristo, che fosse poco significativa per il soggetto, sarebbe molto probabilmente incapace di ottenere l’assenso del cuore. Ecco allora l’educare, delicata operazione affidata non ad un prestigiatore ma a chi per vocazione conosce i segreti dell’animo umano: l’immagine di Dio lì impressa è incancellabile. Saperlo, facendovi conto, è la risorsa più importante. Non solo: il sacerdote è l’uomo della Parola, la quale ha in sé una potenza invincibile. Nella misura in cui è immessa nel processo educativo – al catechismo, in oratorio, nella scuola, ai campi estivi, insomma nella comunità cristiana – e la si serve per quello che è, senza spadroneggiarla e senza piegarla ai propri gusti, non può non produrre frutto. Allora il sacerdote-educatore saprà di essere colui che introduce alla conoscenza della realtà riconosciuta nel suo valore obiettivo, accompagnando nel contempo la persona verso la verità di ciò che è, e verso il suo senso. C’è bisogno che venga più sistematicamente esplicitata la dimensione educativa intrinseca alla carità pastorale, così che «una nuova visione» possa «ispirare la generazione presente e quelle future a far tesoro del dono della nostra comune fede» (Benedetto XVI, Lettera cit., n. 12). Mai l’investimento educativo può essere valutato con sufficienza, quasi fosse un’opzione storica minore, quella non solo meno importante ma anche meno incisiva. Per quel che ci riguarda, con il recente documento «Per un Paese solidale: Chiesa italiana e Mezzogiorno», abbiamo inteso affermare alla coscienza del Paese che educare è piuttosto una priorità ineludibile per affrontare problemi antichi e nuovi che sfidano la società, ed è la strada più redditizia e decisiva per far emergere in modo strutturato ed efficace le potenzialità di mente e di cuore in serbo al nostro popolo.

Al termine della settimana che oggi inizia, la domenica delle Palme, è in calendario la XXV Giornata mondiale della Gioventù, «iniziativa profetica» del grande Papa Giovanni Paolo II, dichiarato da poco «venerabile» e che i giovani nella loro spontaneità hanno da subito acclamato santo (cfr Benedetto XVI, Messaggio per la XXV Giornata mondiale della Gioventù, 22 marzo 2010). Noi Vescovi italiani siamo testimoni privilegiati del gran bene, anzi dei «frutti abbondanti» (ib) che questa intuizione ha generato nelle nostre Chiese particolari. Desideriamo che si continui con determinazione e creatività lungo questa strada, che non è mai ripetitiva perché deve coinvolgere le ondate sempre nuove di giovani che si affacciano alla vita. Il tema scelto e illustrato da Benedetto XVI: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?», e che si riallaccia alle origini stesse della Giornata, suona davvero come l’indicazione più promettente per quell’Incontro mondiale, in programma a Madrid nell’agosto 2011, verso cui i nostri giovani sono già rivolti.

5. «Vi supplico in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20). Non raramente si affacciano alla cronaca del mondo eventi che per la loro imponderabilità, come per l’impatto che sono destinati ad avere tra le popolazioni, contengono in sé un poderoso invito alla conversione. Pensiamo ai fatti calamitosi che nell’arco di poche settimane sono accaduti prima ad Haiti e poi in Cile. Due terremoti di proporzioni disastrose, dagli esiti tuttavia parzialmente differenti per la diversa connotazione degli habitat investiti. Possiamo dire che in entrambe le circostanze la nostra gente è sembrata non poco turbata. Bisogna operare perché le emozioni vengano elaborate e approdino a posizioni più consapevoli, ad atteggiamenti ragionati, e infine a scelte coinvolgenti (cfr Benedetto XVI, Discorso alla Protezione civile italiana, 6 marzo 2010). Nei drammi che scaturiscono da eventi naturali solitamente ci sono delle «lezioni» da apprendere, di ordine per così dire logistico, ed anche sul piano civico. Ma resta la quota parte di imponderabilità che va saggiamente ricondotta alla intrinseca precarietà della nostra esistenza, senza lasciarsi sedurre dalla «illusione di poter vivere senza Dio», per leggere piuttosto la storia dell’uomo e del mondo secondo quel ribaltamento di prospettiva suggerito dallo sguardo di Dio stesso (cfr Benedetto XVI, Saluto all’Angelus, 7 marzo 2010).

C’è bisogno allora di conversione e di preghiera per raccogliere i messaggi intrinseci agli accadimenti, per maturare ogni volta comportamenti più congrui e solidali, in grado di creare sintonia con chi soffre, e per essere meno indegni nella domanda di intercessione. Ebbene, mentre comincia qua e là a farsi largo la convinzione che la comunità internazionale debba attrezzarsi per rispondere in modo non improvvisato né episodico alle tragedie che si presentano in questa o quella parte del mondo, va sottolineato come la nostra comunità nazionale e la sua opinione pubblica in occasione degli eventi menzionati siano state in debita allerta, e certo sollecite negli interventi. Non di meno la nostra comunità ecclesiale ha prontamente reagito con stanziamenti sostenuti e poi rafforzati attraverso raccolte assai significative di mezzi indispensabili per offrire – in via diretta e attraverso la Caritas – l’aiuto che serve nell’immediato e quello, forse più meritorio ancora, del post-emergenza. I credenti, le loro famiglie, le nostre comunità continuino a sentire il morso della disperazione altrui e si facciano prossimi ai loro bisogni. L’aver noi, come popolo italiano, ripetutamente sperimentato in prima persona le conseguenze di dolore e disagi collegate alle calamità naturali, come l’essere tuttora sotto sforzo per il terremoto che un anno fa ha colpito l’Aquila e l’Abruzzo, mentre gravi smottamenti hanno, nell’ultimo inverno e fino ad oggi, colpito numerose località in particolare del Meridione, fa sì che non possiamo farci trovare mai estenuati, bensì attenti e solleciti quando un fratello è nel bisogno.

Ma c’è un’altra tipologia di situazioni dolenti, che ci interpella anzitutto sul piano interiore, ed è quella delle popolazioni tormentate perché sono calpestati i diritti umani fondamentali, primo dei quali la libertà religiosa. Nelle ultime stagioni si registra una recrudescenza degli attacchi ai cattolici. Non sono finiti ad esempio in India, paese in cui nonostante tutto la comunità cattolica cresce grazie alla stima di cui gode, ma dove ultimamente si è giunti a manifestazioni blasfeme dell’immagine di Gesù, così da umiliare e forse anche provocare i nostri fratelli di fede, già sotto tiro con chiese bruciate e sacerdoti e credenti fatti oggetto di persecuzione. Ma pensiamo anche agli scontri molto gravi avvenuti in Nigeria e in precedenza in Malaysia, in Egitto e in Algeria. Nelle ultime settimane, in vista delle elezioni locali, era tornata a salire la tensione in Iraq, e i cristiani sono scesi in piazza per manifestare la loro mite resistenza a fronte di incursioni condotte a loro danno. A motivo delle perduranti discriminazioni, costituiscono oggi una ancor più ridotta minoranza, senza tuttavia che possa mutare lo status di componente religiosa certo non estranea a quella regione, avendo lì il cristianesimo radici quasi bimillenarie. La mitezza che contrassegna in generale la risposta cattolica non può essere però fraintesa: nessuno ha il diritto di farsi padrone degli altri in nome di Dio. Noi siamo effettivamente vicini a questi nostri fratelli di fede, solidali con il loro patire, ammirati della loro perseveranza, impegnati a far sì che la politica a livello internazionale voglia assumere con crescente autorevolezza iniziative urgenti ed efficaci per assicurare a tutti gli uomini, entro qualunque confine, il sacrosanto rispetto della libertà di credo e di culto. Ai missionari, alle suore, ai volontari laici che, come è accaduto anche di recente, di fronte a discriminazioni e violenze di ogni tipo non si staccano dalla terra in cui operano, va la nostra assidua vicinanza: sono nel cuore della nostra preghiera. Vogliamo, anzi, essere degni di loro, e per questo non cesseremo di interrogarci sul nostro vivere la fede, perché crescano in noi la testimonianza e l’annuncio evangelico nel segno di una gioia più limpida e di una convinzione più coraggiosa.

6. «Vi supplico in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5, 20): questo invito accorato vorremmo con affetto rivolgerlo specialmente al nostro Paese. Sappiamo bene che oggi c’è una certa allergia a parlare di conversione; e talora anche il semplice suggerimento finisce per suonare paradossalmente sgradito. Certo, la conversione, come l’auto-rinnovamento, è tra le decisioni più intime, che comprensibilmente suscitano pudore. Il fatto è però che una società non si rinnova per legge, o per qualche automatismo generale o in forza di un’indagine sociologica. La conversione è scelta personalissima, che nessuno può fare per altri. Ne risulta che una società si rinnova solo a condizione che più soggetti decidano consapevolmente di farlo. Se uno invece passa la mano, e attende che altri facciano quello da cui egli si auto-esonera, allora davvero si finisce in una stagnazione etica che fatalmente indebolisce e logora l’intera convivenza. La nostra è una società vivace, e che in vari campi ha delle punte di eccellenza che sono motivo di comune soddisfazione; a dispiacere semmai è la rapidità con cui spesso ci si dimentica di quello che gioverebbe ricordare e sotto ogni latitudine concorre a formare il patrimonio tipico di ogni popolo. Nello stesso tempo, la nostra è una società molto sensibile, con un’alta propensione a immedesimarsi nei problemi come nei disagi degli altri. Siamo un popolo esuberante che, in un arco di tempo limitato, ha coperto un tratto lungo di strada in ordine al progresso, distanza magari che altri hanno impiegato assai di più a percorrere, ma che in questa sua corsa entusiasmante e talora persino affannosa, rischia di lasciarsi indietro regole e remore introiettate quando era più povero e meno evoluto.

Non so dire se la società italiana sarebbe nel suo insieme disposta ad accogliere da noi Vescovi una parola, anche una sola, peraltro umile, e comunque schietta. Se penso alle nostre singole città, e alla società che si esprime nelle singole diocesi, sarei indotto a immaginare senz’altro di sì. E a quel punto direi: sostiamo un attimo e proviamo a pensare. Pensare a noi stessi, a quello che eravamo, ed oggi – dopo esserci lanciati in una maratona incredibile, e aver raccolto non pochi risultati – rischiamo nonostante tutto di compromettere. Da più parti si parla di un declino che sarebbe incombente sul nostro amato Paese. Perché nei paragoni, che talora si avanzano, dove l’Italia è messa per l’uno o l’altro dei suoi parametri a confronto con altri contesti nazionali, si finisce puntualmente per concludere – magari con un sottile compiacimento intellettuale – che siamo in svantaggio? Si tratta di irriducibile pessimismo o di cronico snobismo? Rimestare sistematicamente nel fango, fino a far apparire l’insieme opaco, se non addirittura sporco, a cosa serve? E a sospingere verso analisi fin troppo crudeli, è l’amore per la verità o qualcos’altro di meno confessabile? O è più attendibile invece il fatto che stiamo progressivamente perdendo la fiducia in noi stessi, assumendo con ciò stati d’animo che finiscono col destrutturare la società intera? Quella energia morale che avevamo dentro ed ha consentito ad una nazione, uscita dalla guerra in condizioni del tutto penose, di ritrovarsi in qualche decennio tra le prime al mondo, quella forza vitale che fine ha fatto? Perché il vincolo che ci aveva legato nella stagione della ricostruzione post-bellica e del lancio del Paese stesso sulla scena internazionale, ed aveva retto nonostante profondi dislivelli sociali e serie fratture ideologiche, è sembrato da un certo punto in avanti non unirci più?

7. Ci sono tuttavia dei motivi di contingente quanto seria preoccupazione, dovuti in gran parte alla crisi economica internazionale, che sprigiona ora sul territorio i suoi frutti più amari. Mi riferisco in particolare alla realtà del lavoro, il lavoro che è «bene per l’uomo, per la famiglia e per la società, ed è fonte di libertà e responsabilità» (Benedetto XVI, Discorso all’Unione degli Industriali del Lazio, 18 marzo 2010). Per un popolo abituato a far leva sostanzialmente sulla propria intraprendenza e sulla propria fatica, trovarsi spiazzato sul fronte dell’occupazione è una sofferenza acuta. In non poche aree assistiamo ad industrie che fermano la produzione. Dove la competizione internazionale già aveva ridotto i margini di guadagno, la gelata sugli ordinativi sembra far giungere al pettine tutti i nodi in un colpo solo. Alcune antiche debolezze si rivelano fatali. E quando poi le imprese industriali più consistenti ricorrono massicciamente alla cassa integrazione, ipotizzano ristrutturazioni o addirittura avviano chiusure, subito una corona di piccole aziende a cascata ne risentono. Rallentando i volani dislocati sul territorio, s’inceppano le imprese artigianali, ansimano i piccoli esercizi commerciali. I giovani che già costituivano la fascia di popolazione più in sofferenza perché meno garantiti e poco sussidiati nel loro tuffo verso la vita, oggi rischiano di demoralizzarsi definitivamente. Se sono meridionali tendono a trasferirsi al Settentrione, ma già è iniziato il fenomeno inverso, quello della gente del Sud che, perdendo il lavoro al Nord, torna a casa. Mentre un numero crescente di giovani – del Sud come del Nord – guarda oltre il confine nazionale: un dinamismo interessante nella misura in cui non è unidirezionale e obbligato. Sappiamo che resiste da noi una cultura forte del lavoro ma anche dell’impresa: ci si riconosce nella fabbrica e se ne trae vincoli non semplicemente strumentali. I casi di suicidi verificatisi negli ultimi mesi tra i lavoratori minacciati dalla crisi, ma anche tra i piccoli imprenditori, in particolare del Nordest, che nell’impossibilità a far fronte agli impegni nei confronti dei propri dipendenti disperatamente non scorgono alternative diverse dal tragico gesto, che cosa dicono infatti, se non che si è dinanzi ad una coscienziosità tirata allo spasimo, fino ad essere inaccettabilmente indirizzata contro se stessi? Come Vescovi, ci scopriamo talora il terminale ultimo di una filiera di preoccupazioni: nessuno evidentemente ci carica di responsabilità che non possiamo avere, ma tutti o quasi finiscono ad un certo punto per rivolgersi a noi in nome di ciò che rappresentiamo.

Ebbene, in questa veste, pur non disponendo di inedite soluzioni tecniche, avremmo un metodo di comportamento da ricordare, quello della responsabilità sociale, da esercitare anzitutto evitando la fuga dai problemi, e illudendosi di trovare riparo dietro a soluzioni unilaterali e drastiche. Nell’economia globalizzata infatti ci sarà sempre un altrove più conveniente, un territorio nel quale i costi sono minori e il ricavo più alto. Ma proprio la genesi di questa terribile recessione conferma che non ha senso ritenere la persona del lavoratore una variabile rispetto agli altri fattori di produzione. Un’impresa realizza davvero la propria missione quando riesce, grazie ad uno sforzo collettivo, ad un impegno ripartito tra i contraenti, a raggiungere i propri obiettivi industriali in concomitanza al benessere delle persone che vi lavorano e dunque del territorio e dell’ambiente in cui essa è inserita (cfr Benedetto XVI, Discorso ai Dirigenti e al Personale dell’Acea, 6 febbraio 2010). Per questo risulta necessario, all’insorgere delle difficoltà, ricercare un dialogo inesausto tra le parti, ed esplorare tutte le possibili soluzioni, avendo come riferimento costante il vero interesse di quanti formano la comunità d’impresa. Le crisi non si superano tagliando semplicemente i posti di lavoro e arrendendosi alla logica della remunerazione di breve periodo, ma anzitutto sforzandosi di immaginare il nuovo, ricercando innovazione di prodotto insieme a strategie di sistema, in una parola perseguendo senza ingenuità ciò che da sempre connota il progresso autentico di un’economia. Siamo testimoni che questo sforzo coscienzioso ispira non pochi, ma è necessario si allarghi e, soprattutto, sia sostenuto da tutti.
L’accorato appello che da mille rivoli ci perviene, noi non possiamo – a nostra volta – esimerci dal presentarlo a imprenditori e sindacati, alle associazioni di categoria e alle camere di commercio, agli istituti bancari e alle pubbliche amministrazioni: oggi troppe famiglie sono in ansia. I problemi – chi non lo sa? –sono certamente complessi, per questo bisogna in coscienza non alzare mai bandiera bianca prima di aver esperito tutte, proprio tutte le vie che possono portare ad una ragionevole soluzione. Ciò va fatto territorio per territorio, attraverso la messa in comune delle competenze che lì sono in gioco, così che nessuna situazione critica deperisca nel disinteresse sociale. E per ottenere – allorché tutto è stato tentato – quegli ammortizzatori che permettono di non far sentire alcuno abbandonato dalla collettività. Resistiamo insieme, pensiamo insieme, industriamoci insieme. E insieme, dopo la crisi, ripartiamo più forti.

Su un altro fronte la nostra società è chiamata a interrogarsi per tempo, prima che altre situazioni critiche arrivino ad esplosione: quello di una fondamentale strategia di integrazione degli immigrati presenti sul territorio italiano. Dopo i fatti di Rosarno – a cui i confratelli Vescovi della Calabria hanno riservato parole chiare specie sullo sfruttamento criminale cavalcato dalle cosche – altre situazioni sono venute alla ribalta, come ad esempio a Milano, nei fatti incresciosi di via Padova, dopo che c’era stata purtroppo una vittima. Un altro ragazzo successivamente ha trovato una morte atroce, bruciato mentre dormiva in un campo rom della periferia milanese. Da varie parti ormai si riconosce che, tra le opzioni da perseguire avendo per obiettivo l’accoglienza dei nuovi arrivati, non possono più figurare le cosiddette «isole etniche». Noi Vescovi ci eravamo già permessi di dirlo in precedenti occasioni, e torniamo ora a ribadirlo con la fiducia che si voglia finalmente procedere attraverso una mappatura graduata delle diverse situazioni a rischio e si inizi subito ad agire con determinazione e lungimiranza, sapendo che la questione ha innegabili implicanze con la politica immobiliare e quella fiscale. Se si vuole evitare che una determinata zona di città (o del territorio) diventi, anche in breve tempo, un ambiente separato che dà il senso di estraneità a chi ci vive, occorre muoversi per tempo e attrezzarsi mediante un sapiente monitoraggio urbano che consenta per tempo iniziative di ricomposizione, così da mantenere ragionevolmente miscelate le provenienze e sufficientemente coesa la cittadinanza. Ma per questo è indispensabile una presenza sul territorio di figure di riferimento, educatori e assistenti sociali che, insieme a forze dell’ordine, garantiscano interventi preventivi, in grado tra l’altro di far rispettare il diritto alla famiglia che è proprio anche dei poveri. Nello stesso tempo, è indispensabile che dai quartieri e dalle parrocchie si dispieghino esperienze di animazione che possano configurare quella che l’Azione cattolica ha chiamato «una nuova alleanza civile» sul territorio. Nessuna persona ha il diritto di ritenersi superiore ad altre: gli immigrati sono donne e uomini come noi. L’uguaglianza, prima di essere un principio sancito dalla Costituzione, è una consapevolezza attinta da una cultura che ha potuto sedimentarsi grazie anche all’influsso esercitato lungo i secoli dal Vangelo.
Con l’occasione vorremmo anche ricordare la difficile situazione in cui versa una serie di strutture sociali e sanitarie di ispirazione cristiana dislocate sul territorio e preziose quanto ad assistenza specifica, specie dei meno abbienti. Chiediamo alle Regioni che il diritto costituzionale alla salute sia effettivamente tutelato collocando le pur necessarie riforme in un contesto di promozione del bene comune.

8. «Vi supplico in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20): è sul primordiale diritto alla vita che all’alba di questo terzo millennio l’intera società si trova a dover fare ancora l’esame di coscienza, non per caricare fardelli sulle spalle altrui, né per provocare aggravi di pena a chi già è provato, ma per il dovere che essa ha, per se stessa, di guardare avanti in direzione del futuro. E nonostante le apparenze o le illusioni, non le riuscirà di farlo se non schierandosi col favor vitae, sempre e particolarmente quando le condizioni siano contrastate, difficili, incerte. Da qualche tempo, nella mentalità di persone che si ritengono per lo più evolute, si è insediato un singolare ribaltamento di prospettive nei riguardi di situazioni e segmenti di vita poco appariscenti, quasi che l’esistenza dei già garantiti, di chi dispone di strumenti per la propria salvaguardia, valga di più della vita degli «invisibili». Come non capire che si consuma qui un delitto incommensurabile, e che lo si può fare solo in forza di una tacita convenzione culturale che è abbastanza prossima alla ipocrisia? Il rapporto, predisposto dall’Istituto per le politiche familiari a proposito dell’aborto in Europa, illustrato di recente a Bruxelles, forniva dati agghiaccianti: quasi tre milioni di bimbi non nati solo nel 2008, ossia ogni undici secondi, venti milioni negli ultimi quindici anni.

E all’orizzonte nulla si muove che possa lasciar intravedere un qualsiasi contenimento di questa ecatombe progressiva, se si tiene conto che l’aborto ha ormai perso l’immagine di una pratica eccezionale e dolorosa, compiuta per motivi gravi di salute della madre o del piccolo, per diventare un metodo «normale» di controllo delle nascite. Intanto già è in incubazione un’ulteriore silente rivoluzione, compiuta grazie alla diffusione di nuovi metodi abortivi sempre più precoci che – variando la composizione chimica, a seconda della distanza di assunzione dal concepimento – hanno come effetto quello di «far scomparire» l'aborto, agendo nel dubbio di una gravidanza in atto che la donna sarà così in grado di coprire meglio, rispetto agli altri ma rispetto anche a se stessa. Se venisse effettuato in casa, magari in solitudine, da problema sociale diventerebbe un atto di alchimia domestica, che non interseca più in alcun modo la collettività, neppure sul residuale versante sanitario. Dalla «pillola del giorno dopo» al nuovo ritrovato, chiamato sui giornali «pillola dei cinque giorni», è un continuum farmacologico che, annullando il confine tra prodotti anticoncezionali e abortivi, ha già indotto ad una crasi linguistica – si chiamano infatti contraccettivi post-concezionali – che sfuma la precisione del momento per l’eventuale feto, e dunque l’esatta contezza dell’atto, minimizzando probabilmente l’urto del gesto abortivo, anzitutto sul piano personale, e poi anche su quello cultural-sociale. L'embrione, se c'è, non potrà annidarsi, e la donna non saprà mai che cosa effettivamente sia successo nel suo corpo, se una vita c’era ed è stata eliminata oppure no.

A completamento del fatto, queste pillole tendono a diventare un prodotto da banco, accessibile a tutti, anche alle minori. Diversa, di per sé, la logica della Ru486, che è prescritta quando c’è la certezza di una gravidanza in atto. Nella pratica reale però, l’aborto sarà prolungato e banalizzato, acquisendo connotazioni simboliche più leggere, giacché l’idea di pillola è associata a gesti semplici, che portano un sollievo immediato. E così la «rivoluzione» iniziata negli anni Settanta per sottrarre l’aborto alla clandestinità, al pericolo per la salute delle donne, al loro isolamento sociale, si chiude tornando esattamente là dove era cominciata, con il risultato finora acquisito dell’invisibilità sociale della pratica, preludio di quella invisibilità etica che è disconoscimento che ogni essere è per se stesso, fin dall’inizio della sua avventura umana. Domanda per nulla polemica: che cosa ci vorrà ancora per prendere atto che senza il principio fondativo della dignità intangibile di ogni pur iniziale vita umana, ogni scivolamento diviene a portata di mano?

In questo contesto, inevitabilmente denso di significati, sarà bene che la cittadinanza inquadri con molta attenzione ogni singola verifica elettorale, sia nazionale sia locale e quindi regionale. L’evento del voto è un fatto qualitativamente importante che in nessun caso converrà trascurare. In esso si trasferiscono non poche delle preoccupazioni cui si è fatto riferimento, giacché il voto avviene sulla base dei programmi sempre più chiaramente dichiarati e assunti dinanzi all’opinione pubblica, e rispetto ai quali la stessa opinione pubblica si è abituata ad esercitare un discrimine sempre meno ingenuo, sottratto agli schematismi ideologici e massmediatici. C’è una linea ormai consolidata che sinteticamente si articola su una piattaforma di contenuti che, insieme a Benedetto XVI, chiamiamo «valori non negoziabili», e che emergono alla luce del Vangelo, ma anche per l’evidenza della ragione e del senso comune. Essi sono: la dignità della persona umana, incomprimibile rispetto a qualsiasi condizionamento; l’indisponibilità della vita, dal concepimento fino alla morte naturale; la libertà religiosa e la libertà educativa e scolastica; la famiglia fondata sul matrimonio fra un uomo e una donna. È solo su questo fondamento che si impiantano e vengono garantiti altri indispensabili valori come il diritto al lavoro e alla casa; la libertà di impresa finalizzata al bene comune; l’accoglienza verso gli immigrati, rispettosa delle leggi e volta a favorire l’integrazione; il rispetto del creato; la libertà dalla malavita, in particolare quella organizzata. Si tratta di un complesso indivisibile di beni, dislocati sulla frontiera della vita e della solidarietà, che costituisce l’orizzonte stabile del giudizio e dell’impegno nella società. Quale solidarietà sociale infatti, se si rifiuta o si sopprime la vita, specialmente la più debole?

9. «Vi supplico in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare da Dio» (2Cor 5,20): vorrei infine pensare queste parole rivolte a quanti concretamente operano sulla scena politica. E per farlo con qualche efficacia torna forse interessante riferirsi a quella linea di studi antropologici che suggeriscono di scorgere qualcosa di sacro in ciò che fonda ogni società, ossia in quel supporto profondo che si trasmette di generazione in generazione, e che dunque va al di là dei singoli individui, consentendo tuttavia agli stessi di vivere insieme. Per questo, l’esplicarsi nel tempo di questo legame – cioè la politica – ha a sua volta in sé qualcosa di nobile che richiede, da parte di chi vi si dedica, un approccio consono. È una visione che non sorprende i cattolici, che infatti sulla scorta del citato Messaggio quaresimale del Papa, sono chiamati quest’anno a chiedersi che cosa sia la giustizia. Essa esprime sempre un profilo di gratuità che supera quel dare a ciascuno il suo, che è il minimo, per renderla espressiva di una opzione incondizionata per il bene non solo dinanzi al bene ma anche dinanzi al male. Così sperimenta la giustizia chi, andando realmente oltre la mera logica distributiva, viene trattato secondo la sua dignità. Si situa qui, in modo cioè non solo contingente, l’idea alta di politica cui ci permettemmo di fare cenno nell’ultimo Consiglio Permanente: una politica capace di rendere onore all’uomo in quanto uomo, sempre cioè figlio di Dio. «Per entrare nella giustizia – avverte Benedetto XVI – è pertanto necessario uscire da quella illusione di auto-sufficienza, da quello stato profondo di chiusura, che è all’origine stessa dell’ingiustizia.

Occorre in altre parole […] una liberazione del cuore» (Messaggio cit.). Ecco ciò che, dinanzi a quel che va emergendo anche dalle diverse inchieste in corso ad opera della Magistratura, e senza per questo anticiparne gli esiti finali, noi Vescovi ci sentiamo di dover chiedere a tutti, con umiltà, di uscire dagli incatenamenti prodotti dall’egoismo e dalla ricerca esasperata del tornaconto e innalzarsi sul piano della politica vera. Questa è liberazione dalle ristrettezze mentali, dai comportamenti iniqui, dalle contiguità affaristiche per riconoscere al prossimo tutto ciò di cui egli ha diritto, e innanzitutto la sua dignità di cittadino. Bisogna che, al di fuori delle vischiosità già intraviste e della morbosità per un certo accaparramento personale, si recuperi il senso di quello che è pubblico, che vuol dire di tutti e di cui nessuno deve approfittare mancando così alla giustizia e causando grave scandalo dei cittadini comuni, di chi vive del proprio stipendio o della propria pensione ed è abituato a farseli bastare, stagione dopo stagione. C’è un impegno che, a questo punto, non può non riguardare proporzionatamente tutti, politici e cittadini, e che ciascuno nel proprio ambito è chiamato ad onorare: mettere fine cioè a quella falsa indulgenza secondo la quale, poiché tutti sembrano rubare, ciascuno si ritiene autorizzato a sua volta a farlo senza più scrupoli. Anzitutto non è vero che tutti rubano, ma se per assurdo ciò accadesse, cosa che non è, non si attenuerebbe in nulla l’imperativo dell’onestà. «Si dice – annota il Papa – “ha mentito, è umano”; “ha rubato, è umano”; ma questo non è il vero essere umano. Umano è essere generoso, è essere buono, è essere uomo della giustizia […]» (Lectio Divina con i Parroci cit.). Non cerchiamo alibi preventivi né coperture impossibili: sottrarre qualcosa a ciò che fa parte della cosa pubblica non è rubare di meno; semmai, se fosse possibile, sarebbe un rubare di più. A qualunque livello si operi e in qualunque ambiente. Per i credenti poi, questo obbligo assurge alla dignità di comando del Signore, dunque non si può venir meno.

Concludo ricordando un laico cattolico, Vittorio Bachelet, che giusto trent’anni or sono – il 12 febbraio 1980 – veniva proditoriamente ma anche illusoriamente ucciso sulla gradinata della sua Università. Egli diceva: «In questa fase di passaggio, in questa svolta della civiltà alla quale ha voluto rispondere il Concilio Vaticano II nel cui solco fecondo noi abbiamo lavorato e ci impegniamo a lavorare, occorre soprattutto una forza spirituale che testimoni nella povertà dei mezzi umani la sua fedeltà a Cristo, in una carità aperta e libera verso tutti i fratelli facendosi trasparente al Suo volto. Però questo – aggiungeva – non si fa senza dare la propria vita: come ha fatto Padre Massimiliano Kolbe nel campo di concentramento, ma come ciascuno di noi può e deve fare ogni giorno perché un fratello, perché i fratelli abbiano un poco più di vita » (Vittorio Bachelet, Discorsi 1964-1973, a cura di Mario Casella, Ave 1980, pag. 259).

Conservando dinanzi agli occhi simili modelli, diamo avvio al nostro confronto per il quale voglio sperare che questa non breve – e me ne scuso – prolusione sia di qualche aiuto. L’ordine del giorno è quello che conosciamo, e su quella base affronteremo i singoli temi, affidandoci all’assistenza dello Spirito Santo, e all’intercessione di Maria Santissima, nostra madre, dei santi Francesco e Caterina, come dei Patroni delle nostre Chiese. Grazie.


COSA SONO DISPOSTI A FARE I GOVERNATORI DELLE REGIONI PER LA FAMIGLIA? - CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 22 marzo 2010 (ZENIT.org).- Il Forum delle associazioni familiari ha pubblicato e diffuso un manifesto in cui chiede ai candidati ai Consigli regionali delle 13 Regioni che voteranno i prossimi 28 e 29 marzo di prendere posizione sui temi familiari che incrociano le competenze regionali.
Le adesioni al manifesto verranno rese pubbliche e comunicate alle famiglie aderent alle 498 associazioni che costituiscono il Forum così da costituire un criterio di scelta elettorale.
Il testo del manifesto, i moduli per l’adesione e il materiale informativo è disponibile nel sito www.forumfamiglie.org.
Nel manifesto il Forum riporta gli articoli 29, 30, 31, 117 e 118 della Costituzione in cui la Repubblica italiana riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio e la privilegia “con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose”.
Il manifesto è diviso in sezioni e proposte. Per proteggere la relazione coniugale e genitoriale/iliale quali fondamenti della famiglia per esempio il Forum propone: percorsi di formazione propedeutici al matrimonio civile e concordatario; percorsi di sostegno alla genitorialità naturale, all’adozione e all’affido e promozione dell’associazionismo familiare.
Per intervenire a sostegno delle famiglie e della maternità nell’accoglienza della vita dal concepimento al termine naturale, per la piena realizzazione delle legittime aspirazioni di paternità, e maternità, per la salvaguardia del diritto di ogni uomo a nascere il Forum sostiene il diritto dei bambini a crescere con un padre e una madre legati da una unione stabile.
Per arrestare l’inverno demografico per lo sviluppo della nostra cultura e della nostra società, il manifesto del Forum propone: la prevenzione dell’aborto, la presa in carico dei minori 0-3 anni, la riforma e riqualificazione dei consultori e l’assistenza socio-sanitaria integrata e accudimento in famiglia per anziani, malati e disabili.
Per rafforzare la comunità educante composta da genitori e mondo scolastico il Forum chiede: buoni scuola o vaucher educativi per l’accesso alla scuola statale e paritaria; sostegno alle famiglie per il materiale didattico; sviluppo e sostegno a un sistema di istruzione e formazione professionale iniziale anche per contrastare la dispersione scolastica; una maggior interazione scuola-famiglia anche mediante l’istituzione di un Garante regionale dell’educazione.
Il manifesto del Forum tocca anche i temi della famiglia, del lavoro e del sociale. In merito al sistema fiscale il Forum chiede l’introduzione del quoziente familiare che consideri l’effettivo peso di ogni membro della famiglia nel computo delle aliquote delle imposte regionali e locali. E un nuovo computo delle tariffe dei servizi improntata ad una progressiva diminuzione delle tariffe stesse al crescere del numero dei componenti familiari (acqua, luce, trasporti).
In conclusione il Manifesto del Forum indica le priorità per la prossima legislatura, e cioè l’approvazione e - dove già esiste - piena applicazione della legge regionale sulla famiglia: che sia adeguatamente finanziata, preveda provvidenze per le singole famiglie, istituisca una consulta regionale delle associazioni familiari, realizzi un’effettiva sussidiarietà verso le famiglie e le associazioni familiari che si impegnano ad offrire servizi (albo delle associazioni familiari), e consideri un momento pubblico di verifica con cadenza annuale o biennale (conferenza regionale sulla famiglia).
Tra le priorità per la prossima legislatura, viene proposta l’istituzione della V.I.F. (Valutazione di Impatto Familiare) secondo cui ogni decisione che possa riguardare anche indirettamente la famiglia deve essere preceduta e corredata da una valutazione in grado – se negativa – di imporre la riprogrammazione del provvedimento ovvero la sua decadenza.
Infine, si evidenzia la necessità di una valutazione del nuovo regime di federalismo fiscale e delle sue ricadute sulla famiglia, cogliendo l’opportunità per giungere ad un fisco regionale a misura di famiglia e l’approvazione di specifici provvedimenti per sostenere la stabilità e arginare la crisi della famiglia, con percorsi di formazione per fidanzati e giovani coppie, servizi di consulenza e conciliazione coniugale e mediazione familiare.


Corsera 21-3-2010 - Un'Italia anticristiana - di Ernesto Galli Della Loggia - Sempre più di frequente il discorso pubblico delle società occidentali mostra un atteggiamento sprezzante, quando non apertamente ostile, verso il Cristianesimo.

All'indifferenza e alla lontananza che fino a qualche anno fa erano la regola, a una secolarizzazione per così dire silenziosa, vanno progressivamente sostituendosi un'irrisione impaziente, un'aperta aggressività che non è più solo appannaggio di ristrette cerchie di colti, come invece avveniva un tempo. Il bersaglio vero e maggiore è nella sostanza l’idea cristiana nel suo complesso, come dicevo, ma naturalmente, non foss'altro che per ragioni numeriche e di rappresentanza simbolica, sono poi quasi sempre il cattolicesimo e la sua Chiesa a essere presi in special modo di mira. Dappertutto, ma, come è ovvio, in Italia più che altrove.

Il celibato, il maschilismo, la pedofilia, l'autoritarismo gerarchico, la manipolazione della vera figura di Gesù, l'adulterazione dei testi fondativi, la complicità nella persecuzione degli ebrei, le speculazioni finanziarie, il disprezzo verso le donne e la conseguente negazione dei loro «diritti », il sessismo antiomosessuale, il disconoscimento del desiderio di paternità e maternità, il sostegno al fascismo, l'ostilità all'uso dei preservativi e dunque l'appoggio di fatto alla diffusione dell'Aids, la diffidenza verso la scienza, il dogmatismo e perciò l'intolleranza congenita: la lista dei capi d'accusa è pressoché infinita, come si vede, e se ne assommano di vecchi, di nuovi e di nuovissimi. Ma da un po' di tempo vi si aggiunge qualcosa che contribuisce a dare a quelle imputazioni un peso e un senso diversi, un impatto più largo e distruttivo, finendo per unirle tutte nel segno di un attacco solo complessivo. Questo qualcosa è un radicalismo enfatico nutrito d'acrimonia; è, insieme, una contestazione sul terreno dei principi, un chiedere conto dal tono oltraggiato e perentorio che dà tutta l'idea di voler preludere a una storica resa dei conti. Ciò che più colpisce, infatti, della situazione odierna — e non solo immagino chi è credente ma pure, e forse più, chi come il sottoscritto non lo è—è soprattutto l'ovvietà ideologico-culturale della posizione anticristiana, la sua facile diffusione, oramai, anche in ambienti e strati sociali non particolarmente colti ma «medi», anche «popolari». Ai preti, alla Chiesa, alla vicenda cristiana non viene più perdonato da nessuno più nulla. Si direbbe — esagero certo, ma appena un poco — che ormai nelle nostre società, a cominciare dall'Italia, lo stesso senso comune della maggioranza stia diventando di fatto anticristiano. Anche se esso preferisce perlopiù nascondersi dietro la polemica contro le «colpe» o i «ritardi» della Chiesa cattolica.

Tra i tanti e assai complessi motivi che stanno dietro questa grande trasformazione dello spirito pubblico del Paese ne cito tre che mi paiono particolarmente significativi.

Al primo posto l'ingenuità modernista, l'illuminismo divenuto chiacchiera da bar. Ci piace pensarci compiutamente moderni, e modernità sembra voler dire che gli unici limiti legittimi siano quelli che ci poniamo noi stessi.

Le vecchie autorità sono tutte morte e al loro posto ha diritto di sedere solo la Scienza. Siamo capaci di amministrarci finalmente da soli, non c'è bisogno d'alcuna trascendenza che c'insegni dov'è il bene e dov'è il male. Che cosa c'entrano dunque la religione con i suoi comandamenti, i preti con i loro divieti? Accade così che ogni cosa che getta ombra sull' una o sugli altri ci appaia allora come la rassicurante conferma della nostra superiorità: alla fin fine siamo migliori di chi pure vorrebbe farci continuamente la lezione.

E poi — ecco un secondo motivo — la Chiesa e tutto ciò che la riguarda (religione inclusa) ricadono nella condanna liquidatoria del passato, di qualsiasi passato, che in Italia si manifesta con un'ampiezza che non ha eguali. Il che significa non solo che tutto ciò che è antico, che sta in una tradizione, è perciò stesso sempre più sentito come lontano ed estraneo (unica eccezione l'eno-gastronomia: l'ideologia dello slow food è la sola tradizione in cui gli italiani di oggi si riconoscono realmente), ma significa anche, questa messa in mora del passato, che il pensare in termini storici sta ormai diventando una rarità. Sempre più diffusi, invece, l'ignoranza della storia, dei contenuti reali delle questioni, e l'antistoricismo, l'applicazione dei criteri di oggi ai fatti di ieri: da cui la ridicola condanna di tutte le malefatte, le uccisioni e le incomprensioni addebitabili al Cristianesimo, a maggior gloria di un eticismo presuntuoso che pensa di avere l'ultima parola su tutto.

E da ultimo il cinismo della secolare antropologia italiana, e cioè il fondo limaccioso che si agita al di sotto dell'appena sopraggiunta ingenuità modernista. Il cinismo che sa come va il mondo e dunque non se la beve; che appena sente predicare il bene sospetta subito il male; che ha il piacere dello sporco, del proclamarne l'ubiquità e la forza. Quel feroce tratto nazionale che per principio non può credere in alcuna cosa che cerchi la luce, che miri oltre e tenga lo sguardo rivolto in alto, perché ha sempre bisogno di abbassare tutto alla sua bassezza.
Ernesto Galli Della Loggia
21 marzo 2010


Avvenire.it, 23 Marzo 2010 - La presunta Italia «anticristiana», la realtà della Chiesa - La fede non si misura col bilancino della sociologia di Davide Rondoni
Ha ragione Galli della Loggia sul Corriere della Sera. Ma non del tutto. In un editoriale di domenica sosteneva che l’Italia sta diventando sempre più anticristiana. E passava in rassegna le accuse che, spesso con argomenti da bar, si rivolgono alla Chiesa, concludendo che questo fenomeno si registra non più solo a livello delle classi colte e intellettuali, ma largamente anche tra le cosiddette fasce popolari. Certo, Galli non può non vedere quanto un’élite culturale accanita e spregiudicata stia usando i mezzi di comunicazione di massa per inculcare sentimenti anticristiani tra il popolo.

In questo uso fazioso e molto spesso banale dei mezzi che parlano a tutti ci sono responsabilità gravi anche tra coloro che si etichettano come cattolici o amici della Chiesa magari per ottenere un ruolo di comando in quei media. Ci sono avversari travestiti da colombe, e come diceva Eliot, serpenti sui gradini di casa.

Dunque Galli sa e potrà con coraggio, dalla platea di cui dispone, indicare modi e responsabilità di questo continuo attacco che viene portato ogni giorno da élite che pretenderebbero loro d’essere, invece di Dio, la salvezza della vita.

La costruzione di idoli, per quanto grotteschi e fatui, continua a pieno regime, e il tentativo di far fuori Dio dalla scena della vita eliminandone i segni di presenza storica è più violento e ha più munizioni di ieri. Il rivolgimento in senso anticristiano d’Italia, a dire dello storico, va di pari passo con altri, come ad esempio la perdita di rispetto e di onestà nel valutare il passato. In altre parole, il preteso distacco dalla Chiesa e dal cristianesimo s’accompagnerebbe a una maggiore superficialità di giudizio. Questa discussione procede da molto tempo. Già Charles Péguy avvertiva i francesi, nel 1910, che quella generazione era la prima che viveva in una società che veniva "dopo" il cristianesimo. In una società non più cristiana. E furbescamente, violentemente anticristiana.

Quindi Galli ha delle ragioni. Del resto la storia di Gesù mostra che a livello di consenso popolare non gli andò benissimo nell’ora della crocifissione. Il cristianesimo non è innanzitutto una cultura o un certo tipo di società. La fede, come ci testimoniano oggi tanti, troppi fratelli martiri, splende in società anche violentemente contrarie all’annuncio cristiano. Nella storia dei santi il cui volto la Chiesa ci invita a guardare tutti i giorni si trova la gioia di vivere e testimoniare la fede tra gli altri uomini, non necessariamente in una "società cristiana". Anche perché l’aggettivo "cristiano" applicato sociologicamente non è risolutivo. Non ci si salva l’anima e non si vive il gusto del centuplo quaggiù per il fatto di vivere in una "società cristiana". Ma per amore sperduto e contento di Gesù.

E qui forse il ragionatore del Corriere della Sera fallisce il passo. Proprio questa tendenza a misurare la fede sociologicamente (presente fuori, ma anche tra le fila di uomini di Chiesa) rischia di non farci vedere come e quanto la gente del nostro Paese vive e cerca la fede. Molti segni tra il nostro popolo ci mostrano – se vogliamo vedere davvero – che la Chiesa resta e anzi aumenta come riferimento positivo per la vita reale delle persone. Nonostante i giudizi anche taglienti e critici su di essa. Un libro del cardinal Biffi si intitola "La Sposa chiacchierata".

Gli italiani, si sa, sono campioni mondiali di pettegolezzo e di maldicenza. Quindi magari ne parlano male o così così, poi la amano. E con gesti, con parole imparati da questa strana madre si rivolgono al Dio dei cieli e al suo Figlio bellissimo perché siano vicini, in vita e nell’ora della nostra morte. La Chiesa sa di essere anche il volto pieno di sputi di Gesù all’inizio della via Crucis. La sua gloria no, non è come quelle del mondo.
Davide Rondoni


Cristiani pakistani rifiutano di convertirsi: marito bruciato vivo, moglie stuprata dalla polizia - La coppia lavorava alle dipendenze di un ricco uomo d’affari musulmano a Rawalpindi. I tre figli – dai 7 ai 12 anni – costretti con la forza ad assistere alle violenze. L’uomo, di 38 anni, è ricoverato con ustioni sull’80% del corpo. I sanitari: “non sopravviverà”. Organizzazioni cristiane hanno indetto marce di protesta…

Islamabad (AsiaNews) – Combatte ancora fra la vita e la morte Arshed Masih, 38enne cristiano pakistano ricoverato da tre giorni all’ospedale della Sacra famiglia a Rawalpindi, cittadina poco distante dalla capitale Islamabad. Egli è stato bruciato vivo da un gruppo di estremisti musulmani, con la connivenza della polizia, perché si è rifiutato di convertirsi all’islam. Fonti locali rivelano ad AsiaNews che la moglie “è stata stuprata dagli agenti”. L’incidente è avvenuto il 19 marzo scorso, in una tenuta situata di fronte alla caserma di polizia.
Dal 2005 Mashid e la moglie lavoravano alle dipendenze di un ricco uomo d’affari musulmano della città, come autista l’uomo e domestica la moglie. Negli ultimi tempi erano emersi dei dissapori fra il datore di lavoro e la coppia, a causa della loro fede cristiana.
Fonti locali riferiscono che la donna, Martha Arshed, è stata “stuprata dagli agenti di polizia”. I tre figli della coppia, inoltre, di età fra i 7 e i 12 anni, hanno dovuto assistere – costretti con la forza – alle violenze commesse ai danni dei genitori. “Masih e la moglie sono attualmente sottoposti a trattamento sanitario” confermano fonti interne dell’ospedale della Sacra Famiglia. Il sito BosNewsLife aggiunge che “l’uomo è in condizioni gravissime, con ustioni sull’80% del corpo”.
Ieri il governo del Punjab ha ordinato l’apertura di un’inchiesta per far luce sulla vicenda. “Il caso è sottoinvestigazione – conferma Rana Sanaullah, Ministro della giustizia del governo del Punjab – e i colpevoli saranno arrestati”. Nel frattempo i sanitari dell’ospedale della Sacra famiglia, a Rawalpindi, sottolineano che Arshed Masih, 38 anni, presenta ustioni sull’80% del corpo e “non sopravviverà” all’incidente.
La coppia cristiana viveva con i figli nella tenuta di Sheikh Mohammad Sultan, ricco uomo d’affari musulmano, nella zona riservata ai domestici. Nel gennaio scorso leader religiosi locali e il datore di lavoro hanno imposto alla famiglia – genitori e figli – di convertirsi all’islam. Al rifiuto opposto da Mashid e la moglie, i fondamentalisti li hanno minacciati avvertendoli che avrebbero subito “conseguenze terribili”.
L’uomo ha proposto di lasciare il lavoro e la casa dell’uomo d’affari musulmano, ma questi gli ha risposto che lo avrebbe “ucciso” nel caso in cui fosse partito. La settimana scorsa le tensioni sono aumentate a causa di un furto subito da Sheikh Mohammad Sultan: dei ladri avrebbero fatto irruzione nella sua abitazione, rubando denaro contante per 500mila rupie (circa 6mila dollari).
La polizia ha aperto un’indagine sul furto, ma non ha iscritto la coppia cristiana nel registro degli indagati. Tuttavia, l’uomo d’affari musulmano ha offerto di lasciar cadere le accuse contro Masih nel caso in cui si fosse convertito all’islam. L’uomo ha inoltre aggiunto: “altrimenti non vedrete più i vostri figli”. Il resto è cronaca degli ultimi giorni: Arshed Masih è rimasto saldo nella fede cristiana; il 19 marzo scorso egli è stato bruciato vivo e la moglie stuprata dalla polizia.
Shahbaz Batti, cattolico, Ministro federale per le minoranze, ha rifiutato di commentare la vicenda dicendo di essere “impegnato”. Egli ha promesso di rilasciare dichiarazioni sul caso nei prossimi giorni. Oggi diverse organizzazioni cristiane a Rawalpindi e Lahore hanno indetto una serie di manifestazioni di protesta.
di Fareed Khan
AsiaNews 22/03/2010 13:02


Avvenire. It, 23 Marzo 2010 - CHIESA PERSEGUITATA - Pakistan, cristiano arso vivo - Non voleva convertirsi
È morto l'autista cristiano di una ricca famiglia della città pakistana di Rawalpindi che venerdì è stato bruciato vivo da un gruppo di estremisti musulmani per essersi rifiutato di convertirsi all'Islam. Lo riferisce il Pakistan Christian Post, giornale online affiliato a un partito cristiano locale. Arshad Masih, 38, anni aveva subito ustioni sull'80% del corpo e, secondo i medici dell'ospedale Sacra Famiglia dove era ricoverato, aveva poche probabilità di sopravvivere.

Sua moglie, Martha Bibi, aveva inoltre detto di essere stata stuprata da alcuni poliziotti della caserma dove era andata per denunciare il caso. La violenza è avvenuta davanti ai tre figli della coppia che hanno un'età fra 7 e 12 anni. La donna lavorava come domestica insieme al marito dal 2005 presso una benestante famiglia musulmana.

Negli ultimi tempi erano però emersi dissapori a causa della loro fede cristiana e di un sospetto furto avvenuto nella casa. Masih aveva ricevuto pressioni da parte del suo datore di lavoro per abbracciare la
religione mussulmana, ma lui si sarebbe rifiutato, secondo quanto riportato da AsiaNews, il sito internet del Pime (Pontificio istituto missioni esteri) che per primo ha dato notizia della brutale aggressione.

Negli ultimi tempi si sono ripetuti gli atti di violenza contro la minoranza cristiana pakistana che rappresenta l'1,6% della popolazione. Le organizzazioni cristiane locali si sono mobilitate ieri chiedendo al governo della provincia del Punjab di punire i responsabili dell'omicidio e avviare un'inchiesta sulla violenza sessuale.


24 Marzo. Oscar Romero; una morte annunciata - Autore: Restelli, Silvio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it E-mail: silvio.restelli@poste.it - lunedì 22 marzo 2010

Oscar Romero, una morte annunciata

“Il Vangelo di oggi ci conferma la tremenda dottrina di Cristo che ci invita a non aver paura della persecuzione, perché credete fratelli chi si scaglia contro i poveri condividerà il loro stesso destino e noi in Salvador sappiamo qual è il destino dei poveri: desaparecidos, essere catturati, essere torturati e riapparire cadaveri”. Mons. Romero

Le sue denunce contro la violenza, le torture e le sparizioni, le sue scarpe impolverate e il suo stare sempre dalla parte di chi ha bisogno, hanno fatto di lui un prete scomodo. Oggi per la Chiesa è un martire, per i campesinos sudamericani e per chi ama la sua figura un santo non ufficiale.
Per chi ha ordinato la sua morte la sua colpa è proprio questa: aver rotto il silenzio.
Ai poveri dell’America Latina Romero aveva promesso: “Se verrò ucciso, risorgerò nel mio popolo”.

Romero diventa vescovo di Santiago de Marìa
Oscar Arnulfo Romero y Galdámez nasce il 15 agosto 1917 a Ciudad Barrios un paese vicino alla città di San Miguel, ne El Salvador. Secondo di otto fratelli, la sua è una famiglia modesta. Suo padre è un telegrafista, mentre la madre è casalinga. Nel ’37 entra in seminario e pochi mesi dopo viene mandato a Roma per proseguire gli studi. Qui il 4 aprile del ‘42 viene ordinato sacerdote e inizia la tesi di dottorato, ma con lo scoppio della guerra si vede obbligato a tornare nel suo Paese.
Il suo impegno come sacerdote inizia nella parrocchia di Anamorós, per poi spostarsi a San Miguel, dove rimane per 20 anni. In seguito diviene segretario della Conferenza episcopale di El Salvador, fino a quando il 25 aprile del ’70 viene nominato Vescovo ausiliare di San Salvador ricevendo l’ordinazione episcopale il 21 giugno 1970: diventa così il collaboratore principale di Monsignor Luis Chàvez y Gonzàlez che, insieme a Rivera y Damas, è uno dei protagonisti della Conferenza dell’episcopato latinoamericano di Medellín (Colombia) del 1968 e sta realizzando i cambiamenti pastorali che il Concilio Vaticano II esige per lo sviluppo di un nuovo modo d’intendere il ruolo della Chiesa Cattolica in America Latina.
Questi però non vedono bene la nomina di Romero perché non in linea con il loro pensiero: egli è noto per essere un convinto conservatore. Intanto il 15 ottobre del ‘74 viene nominato Vescovo di Santiago de María, uno dei territori più poveri della nazione.
Il gesuita salvadoregno Salvador Carranza, racconta:
«Quando lo elessero come nuovo arcivescovo, elessero quello che probabilmente rappresentava la parte più conservatrice. L’esercito e i giornali de El Salvador si rallegrarono e così anche Roma. Dicevano: “Abbiamo eletto qualcuno che sta dalla nostra parte”». Gli fa eco un altro gesuita Rodolfo Cardenal: «È chiaro che noi non eravamo contenti della sua nomina. Fu il primo ad accusarci pubblicamente di marxismo per l’organizzazione del nostro clero e le nostre convinzioni. Attaccava la nostra stessa teologia della liberazione».

Negli anni ‘70 la violenza ne El Salvador diviene spietata e selvaggia e colpisce soprattutto i campesinos che chiedono sempre più ad alta voce giustizia. Lo stesso giorno della nomina di Romero l’esercito spara su cinquantamila persone riunite in piazza per protestare contro dei brogli elettorali. Un centinaio di persone che si erano rifugiate nella chiesa del Rosario muoiono soffocate dai lacrimogeni lanciati dai militari.

Romero si dà anima e corpo alla causa dei poveri
Quella che da tutti viene chiamata la conversione, l’illuminazione di Romero avviene pochi mesi dopo la sua nomina e precisamente il 12 marzo del ’77 quando viene ucciso il gesuita Rutilio Grande da parte delle squadre della morte che lo trucidano con diversi colpi di mitra insieme ad altri due uomini. Il gesuita aveva fatto della sua vita una missione in aiuto dei poveri, soprattutto attraverso la creazione dei gruppi di auto-aiuto dei campesinos.

Giunto sul luogo del delitto Romero impone subito la sua volontà: verrà fatta una sola messa, un solo funerale. E all’opposizione dell’annunziatura, risponde:
“Questi sacerdoti e il popolo stanno aspettando la messa unificata e la messa si farà”. Da questo momento Romero, come un cieco che improvvisamente riacquista la vista, vede chiaramente le ingiustizie, le repressioni, le torture (anche mentali) e gli omicidi che fino a quel momento avevano subito i poveri salvadoregni. Inizia quindi la sua azione di denuncia che pagherà poi con la morte.

La domenica seguente, il 9 marzo, nella Basilica di santa Marta, c’è moltissima gente: è venuta da diverse parti del Paese per assistere al funerale di Rutilio Grande. Nel corso della cerimonia viene trovato un sacchetto con vari candelotti di dinamite, fortunatamente però non esplodono e gli artificieri della polizia li disinnescano.

Nella sua omelia Romero parla chiaramente delle responsabilità dello Stato e del potere giuridico, nonché delle ingiustizie subite dal popolo salvadoregno. Riguardo al suo “cambiamento” Salvador Carranza racconta:
«In quella messa di fronte ai cadaveri Romero era molto commosso; da quel momento ci rendemmo conto giorno dopo giorno che ci trovavamo di fronte a un Romero nuovo che iniziava a denunciare e a parlar chiaro».
Apre quindi un’inchiesta su padre Rutilio Grande e chiude per tre giorni scuole e collegi. Istituisce inoltre una commissione permanente in difesa dei diritti umani.

Da questo momento condividere la strada degli umili, ascoltare il grido degli oppressi e lasciarsi evangelizzare da loro, sono i suoi imperativi.
Le sue omelie diventano sempre più famose e arrivano alle orecchie di migliaia di persone che vedono in lui la speranza. Una parte della Chiesa comincia però a lasciarlo solo, additandolo come un “istigatore della lotta di classe e del socialismo”.


L’assedio di Aguilares
La situazione politica si fa sempre più critica e intanto il 1 luglio del ‘77, il generale Carlos Humberto Romero leader del PCN (Partito di Conciliazione Nazionale), ovvero il centro-destra dei militari nazionalisti, sale al potere con un colpo di Stato. Romero rifiuta di presenziare alla cerimonia d’insediamento perché non era ancora stata fatta luce sulla morte di padre Grande.
Un anno dopo, il 21 giugno del ’78, a Roma Papa Paolo VI lo incoraggia a continuare sulla via intrapresa.

Intanto l’esercito, guidato dal governo, diviene sempre più violento e arriva anche a occupare le chiese, tra cui quella di Aguilares. È mattino presto e nella città iniziano a suonare le campane. Tutta la gente viene svegliata e viene dato loro l’ordine di non uscire di casa. I soldati sterminano più di 200 fedeli e occupano la città a cominciare dalla chiesa che viene profanata, in quanto “covo di marxisti infiltrati”, calpestando le ostie con gli scarponi. Viene sparso il terrore: molti sono i cittadini picchiati o incarcerati solo perché in casa tenevano una foto di padre Rutilio Grande. I militari per tre mesi non fanno avvicinare nessuno al paese fino a quando finalmente ricevono l’ordine di restituire la parrocchia ai fedeli. «A me tocca il destino di andar raccogliendo violenze e cadaveri e tutto quello che lascia dietro la persecuzione della Chiesa», dice Romero quando lo chiamano ad Aguilares. Arrivato con un gruppo di religiosi e sacerdoti afferma: “Ci troviamo qui oggi per riprendere possesso di questa chiesa parrocchiale e per ridare forza a tutti coloro che i nemici della Chiesa hanno calpestato. Voglio che sappiate che voi non avete sofferto da soli, perché la Chiesa siete voi. Siete voi il popolo di Dio; Gesù, oggi su questa terra”.

El Salvador subisce un nuovo colpo di Stato ad opera dei colonnelli Majano e Gutierrez, il 15 ottobre del ’79.

Romero chiede aiuto
In questi anni la repressione conto la Chiesa non si scatena solamente contro Romero: sei sono i preti uccisi nei tre anni dell’episcopato di mons. Romero a San Salvador con una progressione di violenza sino alla strage della UCA del 1989 quando altri sei gesuiti vengono uccisi insieme alla loro cuoca e a sua figlia. Sui muri delle città si legge: “Haga patria, mate a un cura” (sii patriottico, uccidi un prete), è lo slogan della destra estrema. In tutto i preti che perderanno la vita in quegli anni sono 40.
Nel mondo cattolico più impegnato, a cui Romero presta le sue forze, benché si affermi di non avere ideologie politiche proprie, si preme per un impegno politico per la “liberazione” in partiti e guerriglie di sinistra, non avendo più fiducia in soluzioni terze, come quelle proposte dalla Democrazia Cristiana. Romero, comunque, cerca più che altro di mantenere il difficile equilibrio tra il messaggio evangelico e l’impegno politico-sociale senza far coincidere il primo con il secondo. Per questo viene definito reazionario.

Nel 1979 le omelie di Monsignor Romero ormai hanno raggiunto tutto il mondo, viene quindi candidato al premio Nobel per la pace. L’anno seguente, è il febbraio dell’‘80, riceve la laurea Honoris Causa dall’Università di Lovanio. In occasione del viaggio in Europa per ritirare la laurea, incontra Giovanni Paolo II e gli comunica le proprie preoccupazioni di fronte alla terribile situazione che il suo Paese sta attraversando. Con sé ha portato un copioso dossier. Ma in quell’occasione riceverà dal Papa solo un paternale rimbrotto: “Lei, signor arcivescovo, deve sforzarsi di avere una relazione migliore con il governo del suo Paese…” e il consiglio di non opporsi in quel modo alla lotta contro la sovversione.
Ma Romero vuole continuare a seguire la sua strada: il 17 febbraio dell’‘80 scrive al Presidente degli Stati Uniti, James Earl Carter, per chiedere di non inviare più aiuti militari in Salvador. Ma la sua richiesta non verrà esaurita. Durante l’omelia domenicale denuncia di aver ricevuto serie minacce di morte.

Oggi il gesuita Jose Maria Tojeira, dice di Romero:
«È stata la cosa più impressionante della mia vita conoscere una persona non solo attraverso quello che vede la gente ma attraverso quello che la gente sente. Questa gente che soffriva terribilmente trovava in Romero la forza per sopportare l’assassinio dei suo figli, la guerra, per sopportare la fame e lottare con tanta speranza. Nella mia vita questo è un caso unico».

La morte
Nelle ore in cui Romero cerca di dare forza agli oppressi, infatti, qualcuno decide per il suo assassinio in una riunione segreta ricostruita da Oliver Stone nel suo film “Salvador” (1986).

Al “National Security Archive” americano di Washington che contiene tutti i documenti della CIA e del FBI resi noti c’è un rapporto datato 21 dicembre 1981, sull’assassinio di Romero. Si legge:
“La decisione di assassinare l’arcivescovo fu presa in una riunione presieduta da Roberto d’Aubuisson. Durante al riunione tirarono a sorte il nome di colui che avrebbe premuto il grilletto”.

Romero sa che prima o poi lo uccideranno, ha molta paura ma a tutti dice:
“Spero solo che quando ci proveranno non verranno colpiti degli innocenti”.
Intanto in quei giorni le religiose che gestiscono l’ospedale della Divina Provvidenza, dove vive l’arcivescovo, ricevono chiamate telefoniche anonime che lo minacciano ancora una volta di morte.
Il 23 marzo del 1980, durante la sua omelia Romero afferma:
«Desidero fare un appello agli uomini dell’esercito e in concreto alla guardia nazionale della polizia della caserme: fratelli, siete dello stesso popolo, ammazzate i vostri fratelli campesinos. Davanti all’ordine di ammazzare dato da un uomo deve prevalere la legge di Dio che dice “non ammazzare”. Nessun soldato è tenuto ad obbedire a un ordine che va contro la legge di Dio!».
Forse è proprio con questo discorso che firma la sua condanna a morte.

La mattina del 24 marzo i seminaristi vanno a prenderlo per farlo distrarre un po’, sanno che è molto preoccupato e lo portano a fare una passeggiata al mare. Un suo amico, Salvador Barraza, racconta di quella giornata: «Andai a prendere Monsignore alle tre e mezza per andare dal medico, ricordo che era molto stanco e glielo dissi. Lui si fece una risata e disse:
“Il cuore tra una pulsazione e l’altra riposa. E più ne ha più si riposa».
Alla sei del pomeriggio, mentre il sole inizia a tramontare, Romero comincia la consueta messa nell’ospedale della Divina Provvidenza. Ha il volto rivolto verso l’uscita mentre dice l’omelia: “Vi supplico, vi chiedo, vi ordino, che in nome di Dio cessi la repressione”.
Terminate le sue parole si sposta nella parte centrale della chiesa per l’offertorio, stende il corporale e appena si trova al centro dell’altare si sente uno sparo. Una pallottola partita dalla porta lo colpisce in pieno petto. Romero cadendo a terra afferra il corporale facendo spargere tutte le ostie; alcune si macchiano del suo sangue.

«Corsi ad aiutarlo – racconta una suora - ma vidi che era impossibile, perché l’emorragia era così forte, il sangue gli usciva dalla bocca, dalle narici, dalle orecchie. Non potevo fare nulla. La mia prima reazione non fu di paura, ma di rabbia. Guardai fuori per vedere chi lo aveva ucciso».
Alla sua morte seguì una vera e propria guerra civile, durata sino al 1992, con circa 80.000 vittime.

Il funerale
Romero, per le sue posizioni apparentemente vicine alla Teologia della liberazione, ebbe sempre un rapporto difficile con la curia romana, tanto da non ottenere l’appoggio del nuovo Papa Giovanni Paolo II anche perché nei suoi primi mesi di pontificato non riusciva ad avere un chiaro quadro della situazione politica salvadoregna, soprattutto a causa delle scarse notizie, talvolta filtrate, che giungevano sulla sua scrivania.

A presenziare il funerale non c’è Giovanni Paolo II, ma il cardinal Corripio Ahumada arcivescovo di Città del Messico. Alla cerimonia partecipano circa 50.000 persone, colpite a loro volta da un’esplosione di cui non è mai stata chiaramente accertata l’origine. I morti sono 30, dovuti più alla folla in preda al panico (che calpesta anche le vittime), che non all’esplosione stessa.
Il Papa, nonostante le pressioni del governo salvadoregno volte a persuaderlo, si recherà a rendere omaggio a Monsignor Romero tre anni dopo, il 6 marzo del 1983 durante un viaggio in Sudamerica.

Nel 1997 viene aperta la causa di beatificazione di Romero della quale è stato nominato postulatore il Vescovo di Terni, Monsignor Vincenzo Paglia.

Giovanni Paolo II il 7 maggio del 2000 ha catalogato Romero tra i «nuovi martiri» del Novecento, facendone una commossa evocazione al Colosseo: «Ricordati, Padre, dei poveri e degli emarginati, di quanti hanno testimoniato la vita: pastori zelanti, come l’indimenticabile arcivescovo Oscar Romero, ucciso all’altare durante la celebrazione del sacrificio eucaristico».

Ma chi lo ha ucciso?
La sua morte diviene un caso internazionale che coinvolge anche la CIA. Roberto White, ambasciatore americano in Salvador nel 1980, racconta: «Sapevamo della sua morte immediatamente, nel giro di un’ora e in 48 ore avevamo già individuato i responsabili del suo omicidio. Si trattava dell’estrema destra del gruppo di d’Aubuisson». FBI e CIA dunque servono assistenza agli investigatori salvadoregni, e la CIA in particolare apre un’inchiesta che però negli archivi di Washington è ancora piena di omissioni. Anche sulle squadre della morte ci sono moltissime censure, l’unico nome reso noto è proprio quello di Roberto d’Aubuisson.
Queste censure fanno capire quanto sia guardata a vista dagli americani tutta la situazione salvadoregna.

Ne El Salvador gli squadroni della morte si sviluppano tra il ‘67 e il ‘79: nascono come organizzazioni paramilitari di destra che hanno come scopo quello di identificare ed eliminare quelli che vengono considerati comunisti, e sono formati da militari, agenti di polizia in borghese e civili. Le loro attività cominciano in modo più violento a partire dalla fine degli anni ‘70 per poi diffondersi durante la Guerra Civile (1979-1992).
L’inchiesta della CIA mette in luce come si siano sviluppati in seno all’Agenzia Nazionale di Sicurezza Salvadoreña (ANSESAL) di cui era a capo proprio d’Aubuisson. Gli squadroni della morte agiscono clandestinamente e firmano i cadaveri mozzando le loro teste e legandogli i pollici dietro alla schiena; agiscono per runa precisa volontà politica: mantenere il Paese in uno stato di terrore e soggezione mediante l’uso della violenza.


Israele.net, 17-03-2010 - Ma perché tanto chiasso? - di Barry Rubin, da: Jerusalem Post, 14.3.10 - Si sono scritte un sacco di sciocchezze circa l’annuncio del governo israeliano che verranno costruiti 1.600 nuovi appartamenti in un quartiere di Gerusalemme est…
Si sono scritte un sacco di sciocchezze circa l’annuncio del governo israeliano che verranno costruiti 1.600 nuovi appartamenti in un quartiere di Gerusalemme est. La scelta dei tempi è stata sicuramente stupida, dal momento che il vice presidente Usa Joe Biden si trovava in quel momento nella città, e non ha apprezzato la cosa. E poi, venirsene fuori con quell’annuncio proprio quando stavano per iniziare negoziati indiretti con l’Autorità Palestinese non ha fatto apparire Israele granché collaborativo.
Ma è tutto qui. Il gesto, certo non tempestivo, non era tuttavia né una provocazione, né la creazione di “un nuovo insediamento”, e nemmeno una prova che Israele non voglia la pace.
Chiunque conosca bene Israele capisce che si è trattato di quella che in lingua locale si definisce una “fashlà”, vale a dire una stupida cavolata del tipo che non di rado accade nelle faccende di governo. Israele combina infatti il candore di paese del vecchio mondo con una professionalità burocratica da paese del terzo mondo. L’ufficio competente ha agito con “rosh katan” (poco cervello o, se si preferisce, visione ristretta) senza prendere in considerazione l’impatto della cosa, né essersi consultato con coloro che si occupano di politica estera. Erano solo tutti entusiasti di far felice il loro elettorato annunciando la costruzione di nuove abitazioni. L’area in questione non è un qualche nuovo insediamento, bensì un quartiere a circa cinque isolati dalla vecchia linea pre-’67. Gli haredim (ultraortodossi) che vi vivono hanno il tasso di natalità più alto del paese e dunque hanno un disperato bisogno di nuovi appartamenti.
Al massimo, quello che l’annuncio dimostra è che Israele non vuole né intende cedere tutta Gerusalemme est, nel quadro di un futuro accordo di pace: il che non è certo una novità.
Sarebbe stato meglio per la posizione internazionale d’Israele se l’annuncio non fosse stato fatto? Sì, perché quell’annuncio permette ora all’amministrazione Obama (che ha bisogno di scusanti per il suo proprio insuccesso nel processo di peacemaking) e all’Autorità Palestinese e ai paesi arabi (che hanno bisogno di qualche giustificazione per le loro politiche) di dare tutta la colpa a Israele.
Ma si puà affermare che quell’annuncio cambi realmente il corso del processo di pace, che non sta andando da nessuna parte a causa dell’intransigenza dei palestinesi sulle vere questioni centrali? O che quell’annuncio fa cambiare idea e fa ripudiare la pace a quell’Autorità Palestinese e a quegli stati arabi che vengono descritti come smaniosi di arrivare a un accordo di pace? La risposta è chiaramente no.
Dunque, se l’annuncio in realtà non modifica nulla, la sua tempistica è stata sì stupida, ma non costituiva né un deliberato sabotaggio, né la prova di cattiva volontà israeliana verso la pace.
Si consideri piuttosto il vero sfondo si cui si sono prodotti i recenti avvenimenti.
Sin dal 1993, alla firma dell’Accordo di Oslo, Israele ha annunciato che avrebbe continuato a costruire negli insediamenti già esistenti. L’Olp accettò questo quadro, e per tutti i sedici anni successivi la questione delle attività edilizie negli insediamenti esistenti non ha mai avuto alcun effetto sui negoziati. Nel gennaio 2009 l’Autorità Palestinese ha bloccato i negoziati perché Hamas attaccava Israele dalla striscia di Gaza e Israele si difendeva. Naturalmente Hamas è nemica anche dell’Autorità Palestinese, e non solo di Israele, e l’Autorità Palestinese sarebbe contentissima se Israele la debellasse. Ma per le sue pubbliche relazioni, l’Autorità Palestinese doveva fingere una piena solidarietà fra palestinesi.
Poche settimane dopo, il nuovo presidente americano Barack Obama chiedeva lo stop di tutte le attività edilizie negli insediamenti. Alla fine Israele accettava, ma annunciando che avrebbe continuato a costruire a Gerusalemme est. Gli Stati Uniti accoglievano questo aggiustamento, addirittura lodando la scelta israeliana come un’importante concessione. Ma l’Autorità Palestinese continuava a rifiutarsi di tornare al tavolo negoziale. Si rifiutava perché le attività edilizie la offendevano così profondamente? No. Lo faceva perché i capi estremisti di Fatah non vogliono affatto arrivare a un accordo di pace definitivo, giacché ritengono di poter arrivare prima o poi alla vittoria totale, con la cancellazione di Israele. Allo stesso tempo, i più moderati fra loro sono troppo deboli per fare un accordo, a causa di Hamas e degli estremisti dentro la stessa Olp.
Nel settembre 2009 Obama annunciava che entro due mesi vi sarebbero stati a Washington negoziati di pace pieni e conclusivi. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu diceva di sì, il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) diceva di no. Alla fine, dopo altri sei mesi di sforzi estenuanti, l’Autorità Palestinese si degnava di accettare dei colloqui, ma solo indiretti.
Ma, alt un momento: se – come si dice – è Israele che non vuole un accordo mentre i palestinesi lo vogliono disperatamente giacché la loro situazione è – per dirla con le parole di Obama – “intollerabile”, allora come mai la realtà dei fatti è tutta il contrario? Dev’esserci qualcosa che non funziona in questa spiegazione.
Come Obama ha involontariamente intralciato i negoziati esigendo il congelamento totale degli insediamenti (giacché nessun leader palestinese potrebbe pretendere da Israele meno di ciò che esige il presidente Usa), così ora lui e Biden hanno fatto la stessa cosa con i colloqui indiretti.
Ma, in quest’ultimo caso, la colpa non è stata forse di Israele, per via di quella stupida tempistica di un annuncio burocratico? Certamente sì. E tuttavia, il modo in cui gli Stati Uniti hanno maneggiato la questione ha trasformato un problema seccante in un problema di per sé molto peggiore.
Perché i governi e i mass-media occidentali non dicono che il rifiuto dell’Autorità Palestinese di negoziare da quindici mesi dimostra che non vuole veramente la pace? Dopo tutto, secondo l’opinione corrente sul conflitto, dovrebbe essere l’Autorità Palestinese a chiedere immediati negoziati diretti per arrivare a un accordo di pace globale e all’agognato stato palestinese. E invece Abu Mazen ha subito colto l’occasione offerta dall’annuncio della costruzione di un po’ di appartenenti per dichiarare che non avrebbe più trattato, nemmeno indirettamente. È sdegnato? È sconvolto? Si sente tradito? No, al contrario, è contentissimo di avere un’altra scusa per fare quello che vuole: non negoziare con Israele.
E così Abu Mazen ottiene di bloccare i negoziati, si tiene le sue vittorie e dà la colpa a Israele. Sebbene Abu Mazen e Autorità Palestinese non vadano granché d’accordo col presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, su un punto la pensano allo stesso modo: entrambi sono (erroneamente) convinti che l’occidente stia abbandonando Israele. E dunque, perché mai non dovrebbero respingere la pace e tentare di distruggere questo indebolito Israele (nel caso di Ahmadinejad) o anche solo aspettare (nel caso di Abu Mazen) che l’occidente gli offra lo stato palestinese su un piatto d’argento senza dover fare nessuna concessione?
Come ha indicato lo stesso Obama, non ci sono vere speranze per un accordo globale. I colloqui sono più che altro un gesto di public relations di tutti quelli coinvolti. Ma finché il grosso dell’occidente continuerà a inviare i segnali sbagliati – è tutta colpa di Israele, non verrà fatta nessuna vera pressione sull’Autorità Palestinese – la sua politica non farà che ritardare ogni progresso verso la pace, a dispetto delle loro migliori intenzioni di promuoverla.
(Da: Jerusalem Post, 14.3.10)


Avvenire.it, 22 Marzo 2010 - MEDIO ORIENTE - Clinton: «Israele deve fare scelte difficili per la pace»
Il Segretario di Stato americano Hillary Clinton sostiene che Israele deve compiere «scelte difficili ma necessarie» nell'ambito del processo di pace in Medio Oriente, perché l'attuale situazione con i palestinesi non è sostenibile. C'è un'altra strada. Una strada che porta alla sicurezza e alla prosperità per tutte le persone nella regione. Richiederà che tutte le parti - Israele compreso - facciano «scelte difficili ma necessarie», si legge in un estratto del discorso che Clinton pronuncerà oggi alle 14 ora italiana (le 9 ora locale) all'Aipac, potente lobby filo-israeliana.

Anche il premier israeliano Benjamin Netanyahu - che ieri ha scritto a Clinton mettendo in chiaro che Israele non smetterà di costruire insediamenti intorno a Gerusalmme - parlerà oggi al gruppo, e il suo staff ha fatto sapere che domani incontrerà il presidente americano Barack Obama.

La questione degli insediamenti, insieme all'aumento delle violenze nella Cisgiordania occupata - dove l'esercito israeliano ha ucciso quattro palestinesi in due giorni -, sta rendendo più difficoltosi i rinnovati tentativi dell'inviato Usa George Mitchell per far ripartire i negoziati di pace.

Giovedì scorso Clinton e Netanyahu si sono parlati al telefono per cercare di risolvere la controversia sugli insediamenti a Gerusalemme Est - che Israele ha occupato nel 1967 - nata dopo che lo Stato ebraico ha annunciato che costruirà 1.600 nuove case nella zona mentre il vicepresidente americano Joe Biden era in visita.

Intanto gli Stati Uniti sono determinati nel fermare l'Iran dal dotarsi della bomba atomica, ma contemplano più tempo per elaborare sanzioni che siano efficaci.


Israele.net, 22-03-2010 - Il mito dell’assedio di Gaza - Da un articolo di Jacob Shrybman - Da: YnetNews, israele.net, 18-21.03.10
Quando il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon parla di “assedio della striscia di Gaza” (come se si trattasse di Sarajevo o di Leningrado), bisognerebbe chiedersi di quale assedio, o blocco, stia parlando visto che nella striscia di Gaza sono entrate, solo nel 2009, 738.576 tonnellate di aiuti umanitari.
Dopo la campagna militare israeliana anti-Hamas del gennaio 2009 (circa 1.300 morti), le Nazioni Unite hanno garantito al milione e mezzo di abitanti della striscia di Gaza aiuti per 200 milioni di dollari, mentre alla fine del gennaio scorso – nonostante tutti i piani per raccogliere più fondi – garantivano solo 10 milioni di dollari alle vittime del terremoto di Haiti (230.000 morti su 3 milioni di abitanti). Naturalmente senza considerare il fatto che gli abitanti di Haiti non avevano attaccato nessuna popolazione civile vicina per quasi dieci anni.
La comunità internazionale ha accettato ciecamente un’impudente menzogna circa l’assedio israeliano alla striscia di Gaza, ignorando i dati di fatto reali. Da anni gli aiuti umanitari internazionali affluiscono speditamente nella striscia di Gaza, e non si sono in alcun modo fermati dopo l’operazione Piombo Fuso, visto che 30.576 autocarri di aiuti vi sono entrati nel 2009. Sempre nel 2009 sono state trasferite nella striscia di Gaza 4.883 di materiale mediche. Proprio il mese scorso è stata portata a Gaza una nuova macchina per la tomografia assiale computerizzata.
La striscia di Gaza viene anche spesso definita “la più grande prigione del mondo”, intendendo che gli abitanti vi sarebbero rinchiusi come in una gabbia a cielo aperto. Eppure, sempre nel 2009, sono stati 10.544 i pazienti e loro accompagnatori che sono usciti dalla striscia di Gaza per ricevere trattamento medico in Israele: solo la scorsa settimana quasi cinquecento pazienti e loro accompagnatori sono passati da Gaza in Israele per essere curati.
Ecco perché lo scorso 24 febbraio il coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il Medio Oriente, Robert Serry, nel corso di un incontro con il presidente israeliano Shimon Peres ha dichiarato che “non c'è una crisi umanitaria a Gaza”. Serry ha solo lamentato la penuria di alcuni materiali da costruzione che, ha spiegato il ministro degli esteri israeliano Avigdor Lieberman, Gerusalemme tende a bloccare perché sa per esperienza che Hamas spesso li sequestra e li utilizza per i propri scopi paramilitari (fabbricazione di razzi e bunker).
Invece due congressisti americani come Keith Ellison e Brian Baird, che hanno visitato Sderot con lo Sderot Media Center, hanno corroborato l’idea di un “assedio di Gaza”. Evidentemente ignorano il fatto che il loro segretario di stato Hillary Clinton ha stanziato 900 milioni di dollari in aiuti da mandare alla striscia di Gaza all’indomani dell’operazione Piombo Fuso. Un rapporto USAID e Dipartimento della Difesa che si è occupato di calcolare gli aiuti mandati ad Haiti dopo il devastante terremoto, ha rilevato che, alla fine del mese scorso, tutti i programmi di aiuti governativi americani inviati ad Haiti ammontavano a poco più di 700 milioni dollari, vale a dire quasi 200 milioni meno di quelli per la striscia di Gaza controllata da un’organizzazione terroristica.
È passato più di un anno dalla campagna israeliana anti-Hamas e la comunità internazionale ancora si dà credito alla frottola dell’“assedio di Gaza”. Intanto lo Sderot Media Center ha registrato più di 230 fra razzi e obici di mortaio che hanno raggiunto Israele in quest’ultimo anno.
Il segretario dell’Onu Ban Ki-moon dovrebbe visitare il kibbutz Nirim per vedere un edificio distrutto da un Qassam solo la settimana scorsa, o il moshav Netiv Haassara nelle cui serre, colpite da un Qassam giovedì scorso, è rimasto ucciso un lavoratore thailandese, anziché contribuire a promuovere il mito dell’assedio di Gaza andandovi in pellegrinaggio.

(Da: YnetNews, israele.net, 18-21.03.10)
Jacob Shrybman è vice direttore dello Sderot Media Cente:
http://www.sderotmedia.org.il


Israele.net, 9-03-2010 - Alla tv per bambini palestinesi, Israele non esiste - Da: Jerusalem Post, 18.3.10
La televisione dell’Autorità Palestinese sta mandando in onda un nuovo programma educativo per bambini in cui viene mostrata una carta della “Palestina” che copre l’intero territorio dello Stato d’Israele. Lo ha reso noto martedì l’organizzazione Palestinian Media Watch.
Secondo Palestinian Media Watch, il programma “Pulcini” presenta una rubrica ricorrente che insegna ai bambini le varie regioni della Palestinese usando una mappa che comprende tutto Israele, etichettato con la sola scritta “Palestina”. Accanto alla mappa figura la scritta, in arabo e in inglese: “Explore Your Country” (esplora il tuo paese).
Itamar Marcus, fondatore e direttore di Palestinian Media Watch, spiega che il rapporto della sua organizzazione è stato diffuso nel quadro di una campagna volta ad evidenziare e documentare il rafforzamento di questi messaggi di delegittimazione Israele, e che sono endemici nelle trasmissioni dell’Autorità Palestinese.
Marcus sottolinea come le carte geografiche usate da enti ufficiali dell’Autorità Palestinese non sono diverse da quelle usate dai gruppi terroristici: “Se si guarda a Hamas, Jihad Islamica, Brigate Martiri di al-Aqsa – dice - tutti questi gruppi terroristici usano esattamente le stesse mappe che usa l’Autorità Palestinese, con l’unica differenza che a quelle dell’Autorità Palestinese non sono sovrapposti dei fucili”.
Secondo Marcus, tali rappresentazioni della Palestina esprimono “sicuramente” una negazione del diritto di esistere di Israele, rafforzato dall’uso di queste mappe praticamente in tutti i settori e a tutti i livelli della società palestinese. Marcus cita anche un programma per bambini sulla tv dell’Autorità Palestinese intitolato “La casa migliore” che si rivolge ai bambini arabi israeliani chiamandoli palestinesi, dicendo ai bambini che vivono in città israeliane a popolazione mista come Lod, Ramle e Beersheba che vivono “nella Palestina occupata”.
Riferisce Palestinian Media Watch che la conduttrice dello show dice ai piccoli spettatori arabi israeliani: “Cari bambini, noi resteremo sempre in contatto con voi perché ne avete il diritto, e questo programma certamente è anche vostro esattamente come appartiene ad ogni bambino palestinese, giacché voi siete parte della Palestina occupata”.
Marcus ricorda che Palestinian Media Watch ha analizzato anche decine di libri di testo usati nelle scuole palestinesi che rafforzano questo messaggio.
Il video diffuso martedì rientra in una campagna condotta da Palestinian Media Watch per evidenziare la negazione dell’esistenza di Israele in molti diversi settori della società palestinese, sia civile che governativa.

(Da: Jerusalem Post, 18.3.10)

Altri esempi forniti (in inglese) da Palestinian Media Watch del tentativo dell’Autorità Palestinese di rappresentare il mondo senza Israele:
http://palwatch.org/main.aspx?fi=466