Nella rassegna stampa di oggi:
1) Il Demonio: Colui che divide - Autore: Brichetti Messori, Rosanna Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: Il Timone, marzo 2010 - martedì 16 marzo 2010 - Era un sacerdote che non credeva al potere del demonio. Poi un’esperienza scioccante. Oggi è esorcista ufficiale della diocesi di Verona. Conosciamo don Gino Oliosi.
2) I moralisti dalla vita bassa che mettono la chiesa sotto assedio - Autore: Ferrara, Giuliano Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: Il Foglio, 15 marzo 2010 - martedì 16 marzo 2010
3) In risposta a Ferrara - Autore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 16 marzo 2010
4) 16/03/2010 – VIETNAM - Liberazione a metà: p. Van Ly dovrà tornare in prigione dopo le cure - di J.B. An Dang - Il sacerdote cattolico e attivista democratico ha un tumore al cervello ed è semi-paralizzato dopo tre ictus. Dopo le cure dovrebbe scontare il resto della pena. È stato minacciato di non compiere “attività antigovernative” mentre è fuori della prigione.
5) LA ‘BELLEZZA’ DELLA CROCE, PARADOSSO DEL MISTERO CRISTIANO - Intervento di mons. Timothy Verdon presso la Basilica Cattedrale di Trieste - di Antonio Gaspari
6) IDEE/ La lezione di McIntyre ai "maestri del sospetto" che considerano il bene comune un'ideologia - Sante Maletta – ilsussidiario.net - mercoledì 17 marzo 2010
7) Avvenire.it, 17 Marzo 2010 - CONTINUANO I MASSACRI - Nigeria, attacco a villaggio cristiano: almeno 11 morti
Il Demonio: Colui che divide - Autore: Brichetti Messori, Rosanna Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: Il Timone, marzo 2010 - martedì 16 marzo 2010 - Era un sacerdote che non credeva al potere del demonio. Poi un’esperienza scioccante. Oggi è esorcista ufficiale della diocesi di Verona. Conosciamo don Gino Oliosi.
Monsignor Gino Oliosi: un sacerdote avanti con gli anni, dal quale emanano un equilibrio e una pace che si colgono subito, appena lo contatti. Due qualità importanti che, però, sulle prime possono sembrare opposte al ruolo che egli svolge per incarico del vescovo di Verona: quello di esorcista. Una persona, cioè, che ha a che fare con quel mondo oscuro, perverso, delle manifestazioni diaboliche che, diciamo la verità, ci si creda o meno, fa paura a tutti.
Perché, se è vero che possiamo anche scherzare sulla esistenza del Maligno fino quando resta più o meno celato, è ben più difficile ignorarlo quando si manifesta in quelle forme eclatanti che sono la vessazione, l’infestazione, l’ossessione o, addirittura, la possessione. Ciò che mi incuriosisce è la sua esperienza di prima mano in un campo, come quello del demoniaco, oggi messo in discussione da tanti anche all’interno della Chiesa. Voglio capire e sentire che cosa ha da dire al proposito a noi tutti, ma anche a tanti suoi fratelli nel sacerdozio che, in questo anno sacerdotale, sono stati chiamati a riflettere in modo particolare sul loro ruolo e a riscoprire con pienezza la loro identità.
Quando gli chiedo come si sia avvicinato a questo mondo, mi racconta che egli stesso ha percorso un cammino di presa di coscienza progressiva del problema. Al proposito, ha bene impressa nella memoria la prima tappa. Giovane sacerdote, studioso di teologia nei fermenti del Concilio, nel 1964 era stato chiamato a reggere uno dei più venerati e noti santuari della diocesi di Verona, quello della Madonna della Corona, incastonato, a strapiombo, nelle rocce del monte Baldo. Era questo un ruolo che comprendeva in contemporanea, per tradizione, anche quello di esorcista. Ma poiché egli aveva rifiutato quest’ultimo, il vescovo aveva assegnato il ruolo ad un altro sacerdote che esercitava, quando era necessario, in una cappellina costruita appositamente all’esterno del santuario. Qui, un giorno, per sottoporsi al rito, era giunto un giovane, inviato dal famoso psichiatra prof. Trabucchi. Il tutto era iniziato alle nove e mezzo, ma poiché alle undici ancora non era finito, don Gino aveva preso la strada della cappellina per curiosare come andasse. Ricorda bene come, camminando, dentro di sé se la prendesse con quelle “manie” di credere ancora che il demonio compisse cose di quel genere. Ma ricorda altrettanto bene quale sia stata la sua sorpresa quando, appena messo piede in cappellina, il cosiddetto indemoniato - che non lo poteva vedere perché dava la schiena all’ingresso - con voce alta e rauca aveva iniziato a gridare: «Quel prete che entra vuole sapere se io esisto o no!». È facile immaginare quale shock gli abbiano provocato quelle parole che avevano letto nel suo pensiero. Un tarlo che non lo avrebbe più abbandonato, una spinta ad approfondire negli anni, fino alla chiamata ufficiale, nel 2001 a sessantotto anni, da parte del vescovo, prima in cattedrale, ed ora nel Santuario della Madonna di Dossobuono.
È un ministero, mi dice don Gino, che va esercitato in seno alla Chiesa e con molta prudenza. In collaborazione, poi, con medici esperti della psiche umana per operare un discernimento corretto e non scambiare per possessione disturbi di altro genere. Ma anche con il sostegno di credenti - una decina - che si preparano con preghiera e digiuno e che sostengono il sacerdote durante il non facile esorcismo ufficiale. Sette sono i posseduti che ha incontrato in questi anni. Per quattro di questi c’è stata una liberazione totale. Tra di essi, una giovane mamma di due bambini che aveva avuto contatti con sette sataniche durante l’università e che ha ritrovato, insieme alla sua famiglia, la pace e la gioia di vivere.
Ma in realtà, questo aspetto più eclatante del suo ministero non è ciò che a don Gino sta più a cuore comunicarmi. Tutto ciò, sottolinea, non è che la punta di un iceberg che attira l’attenzione ma che distrae da ciò che è più importante e che consiste nella massa sommersa. Il vero guaio è la perdita della credenza, anche di molti cattolici, sacerdoti compresi, nella esistenza del demonio come essere personale che crea grandi pericoli e apre voragini nelle quali rischiamo di precipitare.
C’è, infatti, tutto un filone della teologia e anche della esegesi che vorrebbe vedere nel demonio della Tradizione solo una personificazione del male presente nell’uomo. Ma non è questa la posizione ufficiale della Chiesa, come dimostrano i documenti conciliari che contengono ben diciotto volte il riferimento a Satana come essere personale e influente sugli uomini. E come attesta anche il Catechismo della Chiesa, sia nella versione più ampia, sia nel compendio. Il demonio è un angelo, cioè una creatura spirituale creata libera di scegliere l’amore di Dio oppure di rifiutarlo come purtroppo ha fatto, ribellandosi a Lui. E come purtroppo continua a fare anche con l’altra creatura libera a cui Dio ha dato vita: e, cioè, l’uomo. Nei confronti del quale il diavolo opera, cercando di indurlo al medesimo peccato di superbia e di ribellione. Creare divisione è il suo obiettivo. Divisione tra l’uomo e Dio, divisione dell’uomo in se stesso, divisione dagli altri uomini. E, dunque, portare odio al posto dell’amore, individualismo al posto dell’unità, caos al posto dell’armonia, morte al posto della vita. Disgregare la personalità, chiuderla a Dio e ai fratelli. Dietro il peccato originale, rammenta don Gino, non c’è solo la volontà dell’uomo e il gioco della sua libertà; ci sono anche l’istigazione e l’influsso di Satana. Una antica storia che, in realtà, si ripete ogni volta che l’uomo si trova ad esercitare la sua libertà.
Certo, rispetto ad allora, oggi, nel tempo della Chiesa, c’è un fatto nuovo e straordinario: la venuta di Gesù, la sua morte e la sua risurrezione. Questa sua incarnazione, infatti, ha avuto proprio lo scopo di portare alla luce il male, di stanarlo, di svelarne l’origine - che è il cuore dell’uomo, ma anche Satana, costretto a fuggire davanti a lui molte volte nei Vangeli - e di sconfiggerlo con un gesto d’amore tale da operare la redenzione. Quest’ultima, tuttavia, mentre ci apre i canali della Grazia salvifica e ci reintegra nuovamente e fin da ora nelle file del Regno di Dio, non ci sottrae alla lotta e al possibile influsso di Satana e dei suoi satelliti.
Al centro della vita del cristiano, dunque sia ben chiaro, sottolinea don Gino - non c’è il demonio ma c’è Gesù Cristo, con la luce della sua risurrezione. Luce alla quale noi possiamo accedere non solo nel ricordo, tramite la Scrittura, ma nella realtà, tramite i sacramenti. Questo tuttavia non deve farci dimenticare la Croce e, cioè, la lotta contro il male che ha anche un nome - Satana - che Gesù stesso ha dovuto affrontare e sconfiggere. E noi, con lui, al suo seguito.
È tutto questo scenario cristiano, mi fa osservare, che ha liberato l’Occidente dalla paura dei demoni. Ma ora è questo stesso Occidente che, secolarizzandosi, favorisce il riemergere collettivo della paura.
La quale, cercando soluzioni nell’esoterismo, nella magia, in una scienza idolatrata, finisce per indebolire la coscienza e la libertà di decisione, favorendo l’influenza satanica.
Nessuna paura, dunque, del diavolo, nessuna predica che minacci castighi e inferno, perché la signoria alla fine è di Dio e perché l’uomo che vive in rapporto d’amore con il suo Creatore e Padre è anch’egli certo della vittoria. Però, al contempo, piena consapevolezza dell’ostacolo costante che egli cerca di frapporre alla espansione del Regno di Dio e alla conversione di ogni uomo. Piena consapevolezza che, evidentemente, devono per primi raggiungere i sacerdoti destinati a guidare e a formare il Popolo di Dio. Non si possono prendere le cose alla leggera in questo campo: «Non riconoscere l’esistenza del demonio e, di conseguenza, non presentarlo adeguatamente nella catechesi, significa correre il rischio di perdere la consapevolezza della natura profonda della fede e di non avere una visione adeguata su chi è Dio e chi è ogni uomo, ma anche su che cosa è la storia, con i suoi conflitti e le sue contraddizioni».
Per questo è buona cosa che ogni sacerdote conosca bene il testo del Nuovo Rituale. Perché se è vero che, per la parte che riguarda gli “esorcismi ufficiali”, è riservata a coloro che il vescovo ha prescelto, è anche vero che esso esorta a promuovere quelli che vengono chiamati “esorcismi invocativi”, cioè tutto quell’insieme di iniziative che fanno prevenzione, mantenendo il cuore in contatto con Dio. Tra cui, per esempio, il valore della preghiera in generale e del Padre Nostro in particolare: “liberaci dal male”. E poi, ancora in un serio ricupero del percorso sacramentale: battesimo e cresima frequentemente richiamati alla coscienza, sostenuti dalla confessione almeno mensile e dalla eucaristia. È quello che don Gino con semplicità, ma con fermezza, propone ai tanti che vanno da lui sempre più numerosi, spinti dalla paura del male fisico e morale dal quale si sentono assediati. E che, seguiti con amore e pazienza, avviati sulla via della Tradizione, ricuperano lucidità mentale e capacità progressiva di esercitare al bene la loro libertà. In una parola, ottengono quella guarigione del cuore che il Vangelo ci assicura.
Bibliografia
Don Gino Oliosi, Il demonio come essere personale. Una verità di fede, Fede & Cultura, Verona 2009.
I moralisti dalla vita bassa che mettono la chiesa sotto assedio - Autore: Ferrara, Giuliano Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: Il Foglio, 15 marzo 2010 - martedì 16 marzo 2010
Abbiamo letto questo interessante articolo di Giuliano Ferrara, e lo riproponiamo con un nostro commento
La vita bassa di ragazzini e ragazzine e la guardia alta contro la pedofilia, il preservativo a scuola e il rigore nei seminari: il secolo propone alla chiesa i suoi ridicoli, grotteschi paradossi, e noi dovremmo bere quest’abbondanza di menzogna, spettatori inebetiti dell’assedio.
La più straordinaria turlupinatura si presenta come un discorso prepotente, allusivo, temerario e inquisitivo intorno al sesso. Il secolo dice alla più forte istituzione cristiana, la chiesa cattolica, e alle altre denominazioni che ancora non abbiano deciso di ordinare le donne, di spegnere il sacerdozio consacrato nel sacerdozio universale, di autorizzare i matrimoni christian-gay: la vostra carne è debole, siete perversi, la vostra castità è lo schermo dietro il quale si scatena l’inconscio freudiano, la chiesa è la tenutaria di un bordello pedofilo mascherato, e nemmeno il Papa è immune da responsabilità.
Capisco la reazione malcerta della gerarchia. Capisco le esitazioni, le divisioni, l’incapacità di alzare il tono della voce, di difendersi contrattaccando, di mettere alla frusta i viziosi argomenti di chi disprezza senza ragioni castità, celibato, morale sessuale della chiesa sui temi del matrimonio e della famiglia. Hanno vivo il senso del peccato. Considerano santa la chiesa stessa. Conoscono la debolezza della natura umana. Sanno i rischi di una vita consacrata e di istituzioni monosessuali improntate al voto di castità. Hanno letto san Paolo e sant’Agostino, ma anche Bernanos e Mauriac. Oltre tutto hanno deciso di abbracciare i tempi, di consegnarsi alle loro indagini e ai loro verdetti, e la reazione giovanpaolina, proseguita e intensificata da Benedetto con i suoi mezzi, è insufficiente a ribaltare di segno la grande ritirata psicologica e pastorale, oltre che teologica, della chiesa del Novecento. Li capisco perché sono ormai da molti anni l’obiettivo di una vasta, forte, sistematica campagna di diffamazione e di colpevolizzazione che ha un solo obiettivo: scardinare la tradizione e la dottrina della chiesa, demolire il sacro e il suo recinto, introdurre nella chiesa una parodia di democrazia secolare e di eguaglianza ideologica, ma soprattutto sostituire anche tra i cristiani, tra i cattolici, l’ideologia del sesso sicuro, del sesso ginnastico, del sesso come salute fuori da ogni complicazione di salvezza.
La chiesa è esposta perché è l’ultima istituzione ad avere una paideia, a credere nell’educazione alla libertà e nella cura d’anime. Il secolo la circonda con la sua vita banalmente erotizzata, butta sul mercato l’ideale giovanile di sisley, dolce & gabbana, calvin klein: i suoi modelli sono la danza di stupro con la ragazzina distesa e il machismo del branco che le si rannuvola d’intorno, o le patte gonfie delle mutande adolescenti. Dall’alto di questa cattedra, il secolo le imparte, senza nemmeno vergognarsene, la sua lezione di vita bassa e guardia alta. Se un problema pedofilo e di altro disordine sessuale sia nato in forma anomala, di gran lunga superiore alla routine del peccato carnale, e in quali anni e perché, lo si potrebbe appurare con mezzi semplici, d’indagine seria, e si vedrebbe che è la consunzione identitaria del sacerdote nel dopo Concilio Vaticano II ad aver prodotto limitati ma sicuri effetti anche in questo campo di vita morale. Ma il secolo non vuole purificare la chiesa dai peccati dei suoi figli, il secolo non crede nel peccato, vuole bensì depurarla di tutto ciò che le è caro e sacro, di ciò che la distingue e non la riconduce all’ideologia totalizzante del libertinismo moderno: mostrifica enfatizza e censura la pedofilia dei preti, la trasforma in una insopportabile colpa morale della chiesa casta. È una lotta ideologica, una caccia alle streghe.
In risposta a Ferrara - Autore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 16 marzo 2010
Ho letto con attenzione l’articolo di Giuliano Ferrara, e lo condivido: la «caccia alle streghe» che lui denuncia nei confronti della Chiesa cattolica è l’aspetto più evidente di questi sussulti moralistici dei mass-media. Sembra proprio che si usi di tutto solo per screditare la chiesa. E l’effetto è assicurato: basta andare nelle classi, a scuola, tra i più giovani, e respirare l’aria di scherno, di sospetto, di fastidio nei confronti di tutto ciò che attiene al cristianesimo in quanto presenza istituzionale.
È un gioco al massacro che renderà sempre di più i giovani preda del consumismo e dell’erotismo dilaganti. A questo proposito, non perdiamo la lezione di Del Noce, che trovate sul sito. Aveva letto profeticamente il dramma in cui oggi siamo immersi.
Ma c’è un’altra considerazione che supera quanto il bell’articolo di Ferrara afferma: l’ho espressa nell’editoriale, ma voglio riprenderla ed approfondirla. C’è «un antidoto alla pedofilia» e agli abusi sessuali dei sacerdoti? Ritengo che la questione vada posta, e che la soluzione – che si fatica a delineare chiaramente – metta in discussione molta educazione cattolica, ma soprattutto il modo con cui si guarda al magistero del Papa, sia l’attuale che Giovanni Paolo II. Troppo mondo ecclesiastico non ha saputo imparare la lezione di «Amore e responsabilità» e le udienze sull’amore umano (raccolte nel bel volume Uomo e donna lo creò), preferendo leggere il suo altissimo magistero con gli occhiali deformanti di «progressismo o conservazione», e interpretando l’insegnamento del Concilio Vaticano II secondo la categoria della rottura, invece che secondo l’ermeneutica della continuità. Così si sono date in pasto ai giovani (se pure li si sono incontrati) analisi e riflessioni più «politically correct» che fedeli all’insegnamento della Chiesa, e si è dimenticata la grave «emergenza educativa» che ci avrebbe fatto vivere con senso di protagonismo la nostra presenza nel mondo. E si è disquisito di sacerdozio alle donne e di matrimonio dei preti, come se fossero la soluzione al problema della vocazione, riversando forse sui giovani più le proprie frustrazioni che l’autentica dottrina del Signore.
Quante volte i seminari sono stati preda di dottrine eterodosse, e quante volte i nemici conclamati sono stati i movimenti (in particolare CL), piuttosto che lo spirito del mondo!
Credo che sia giunto il momento più che di una autocritica, di una vera «metanoia», che vuol dire cambiamento di rotta, di direzione. E di saper valorizzare quanto lo Spirito ha suscitato tra noi. A cominciare dai movimenti. E che i movimenti stessi riscoprano la forza e la responsabilità della loro presenza. Non bisogna perdere l’invito accorato della lettera a Diogneto: «Ci è dato un compito che non possiamo disertare».
Solo così la Chiesa potrà «rinascere nelle anime», come diceva Guardini, e ritornare ad essere ciò che dà speranza ed entusiasmo ai giovani, come ancora quel grande educatore di schiere di giovani affermava: «La Chiesa è l’intera realtà veduta, valutata, vissuta, dall'uomo totale. In lei soltanto c'è la totalità dell'essere; ciò che nell'essere è grande e ciò che è piccolo, la sua profondità e la sua superficie, la nobiltà e l'insufficienza, la miseria e la forza, lo straordinario e il quotidiano, l'armonia e la disarmonia. Tutti i beni nella loro graduatoria, conosciuti, affermati, valutati, vissuti. E non dal punto di vista di una individualità parziale, ma dell'umano integrale.
La totalità del reale, vissuta e dominata dalla totalità dell'umano: ecco, vista da questo lato, la chiesa» (Guardini, La realtà della Chiesa, Morcelliana).
16/03/2010 – VIETNAM - Liberazione a metà: p. Van Ly dovrà tornare in prigione dopo le cure - di J.B. An Dang - Il sacerdote cattolico e attivista democratico ha un tumore al cervello ed è semi-paralizzato dopo tre ictus. Dopo le cure dovrebbe scontare il resto della pena. È stato minacciato di non compiere “attività antigovernative” mentre è fuori della prigione.
Hanoi (AsiaNews) – P. Taddeo Nguyen Van Ly, il sacerdote cattolico liberato ieri per motivi di salute, dovrà tornare in prigione fra un anno, dopo le cure. P. Van Ly ha sofferto di ictus, che gli hanno paralizzato una parte del corpo e ha bisogno di cure contro un tumore al cervello. Era stato imprigionato nel 2007 con una condanna di 8 anni per la sua opera a favore della democrazia e per i diritti umani.
Liberato ieri pomeriggio, alle 17 è giunto all’arcivescovado di Hue, la diocesi in cui egli è incardinato, e accolto da alcuni familiari e sacerdoti (v. foto). Era stato rilasciato alle 4 del mattino dalla prigione di Ba Sao, nel Nord. È rimasto fermo in una stazione di polizia per oltre tre ore, dove lo hanno minacciato: durante la sua “liberazione temporanea” non deve in modo assoluto implicarsi in “attività anti-governative”.
Alla sua condanna nel 2007, il governo di Hanoi è stato oggetto di critiche da gruppi per i diritti umani e dai governi Usa e dell’Unione europea. La sua liberazione è stata perorata dalla famiglia e dall’arcidiocesi di Hue.
“Questa non è una liberazione”, ha detto p. Van Ly ad alcuni giornalisti. “le autorità – ha continuato – hanno sospeso la mia sentenza perché io mi prenda cura della salute. Dopo le cure dovrò tornare in prigione”.
Il sacerdote, fra i membri fondatori del “Blocco 8406”, un movimento che domanda la fine del Partito unico in Vietnam, ha subito diversi ictus negli anni scorsi, che l’hanno lasciato paralizzato in parte. Ai giornalisti ha confidato che quattro mesi fa gli hanno scoperto un tumore al cervello di 2 centimetri e mezzo.
“Non sono soddisfatto – ha detto p. van Ly - con quello che le autorità chiamano ‘ sospensione temporanea’ della mia pena. Se accetto il termine ‘sospensione temporanea’, significa che io accetto la sentenza che mi hanno dato. E non accetto nemmeno una ‘sospensione permanente’, perché questo significa accettare la sentenza”.
Il sacerdote non ha mai accettato la sentenza di 8 anni a lui comminata, né la definizione di “criminale” data dai giudici alla sua attività. Egli insiste a definirsi “prigioniero di guerra”.
P. Va Ly ha già subito 14 anni in carcere – tra il 1977 e il 2004 – per le sue battaglie in difesa della libertà di religione e dei diritti umani nel Paese comunista.
Secondo osservatori, in Vietnam si assiste a una recrudescenza dell’oppressione contro gruppi democratici, chiese e minoranze, dovuta a un rafforzamento dell’ala dura del Partito.
LA ‘BELLEZZA’ DELLA CROCE, PARADOSSO DEL MISTERO CRISTIANO - Intervento di mons. Timothy Verdon presso la Basilica Cattedrale di Trieste - di Antonio Gaspari
ROMA, martedì, 16 marzo 2010 (ZENIT.org).- “I cristiani riescono a vedere la bellezza di Gesù sofferente e sfigurato che ha accettato la morte perchè noi potessimo vivere”. Con queste parole monsignor Timothy Verdon ha dato inizio alla sua relazione su “Il Dio dei cristiani e la bellezza”.
Un intervento svolto presso la Basilica Cattedrale di Trieste il 10 marzo scorso nell’ambito degli Incontri quaresimali alla Cattedra di San Giusto.
Monsignor Verdon è uno storico dell'arte formatosi alla Yale University. Dal 1994 è sacerdote a Firenze, dove dirige l'Ufficio diocesano per la catechesi attraverso l'arte.
Autore di libri e articoli in italiano e inglese sul tema dell'arte sacra, è stato Consultore della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e Fellow della Harvard University Center for Renaissance Studies; tuttora insegna presso la Stanford University e la Facoltà Teologica dell'Italia Centrale.
E’ anche Presidente della Commissione per l'Ecumenismo ed il Dialogo Interreligioso dell'Arcidiocesi fiorentina oltre che canonico della Cattedrale di Firenze e membro del Consiglio d'amministrazione della fabbriceria.
Il Cristo è bello, ha sottolineato il religioso, perchè è “promessa per il nostro avvenire; cifra del mistero pasquale che, sì, è sofferenza ma che è soprattutto gloria”.
E “l’arte offre un sostegno alla nostra fede”, ha spiegato monsignor Verdon, anche se “questo Dio bello in cui crediamo, facendosi uomo in Gesù Cristo, si è lasciato abbrutire”.
Ma come ha compreso san Cirillo d’Alessandria, nell’accettare e vivere la Croce Gesù ha redento il mondo e qui sta la bellezza.
Facendo riferimento ad una celebre tela del maestro spagnolo Diego Velasquez, il professore statunitense ha sottolineato “la bellezza paradossale del Signore Crocifisso, il cui segno visivo è oggi contestato in Europa”.
Monsignor Verdon ha quindi ricordato una piccola placchetta votiva rinvenuta sotto l’altare papale di San Pietro negli scavi voluti da Pio XII – un’opera forse del IV secolo – ed ha sottolineato “l’antica mistagogia cristiana che ha visto tutta la vita di Cristo nel segno della croce”.
Richiamando poi l’esempio della croce di Papa Pasquale I, un capolavoro di smalto cloisonné su lamina d’oro realizzato forse da un maestro siriaco attivo a Costantinopoli nei primi decenni del IX secolo e conservata nel Museo Sacro della Biblioteca Vaticana, ne ha descritto il programma iconografico focalizzato sul mistero natalizio.
“La croce in oggetto è in realtà di una stauroteca, cioè un contenitore per frammenti della vera croce, e così - ha commentato il professore americano - l’impatto dell’oggetto non era solo intellettuale ma anche viscerale”.
Poiché l’oggetto cruciforme conteneva il legno su cui Cristo era morto, il credente contemplava queste scene della sua nascita con profonda commozione; non a caso il centro, corrispondente alla testa di Cristo in un crocifisso, è occupato dalla Natività stessa, col bambino in una mangiatoia allusiva alla futura offerta del corpicino come alimento.
Monsignor Verdon ha quindi fatto riferimento anche ai riquadri musivi di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, dove il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci viene raccontato con Cristo che estende le braccia a destra e a sinistra per dare i pani e i pesci agli apostoli.
“Ma la posa – ha spiegato – è quella che egli assumerà successivamente sulla croce, come se l’anonimo artista avesse intuito che, nel Nuovo Testamento, ogni racconto di un pasto in qualche modo prepara il lettore a comprendere il senso del pasto decisivo in cui, la notte prima di morire, Cristo offrì il proprio corpo nel segno del pane, e il sangue nel vino, per soddisfare la fame spirituale dell’umanità”.
Monsignor Verdon ha detto che il mistero della Croce è presente ovunque nell’arte cristiana, come in uno straordinario dipinto del XIV secolo, opera di un maestro greco attivo in Italia, Nicoletto Semitecolo, che fa vedere Cristo crocifisso senza la croce lignea, inchiodato alle mani del Padre.
“E’ una raffigurazione della Trinità - ha rilevato il canonico della Cattedrale di Firenze- in cui l’affermazione di Cristo di essere ‘una cosa sola’ con il Padre significa lasciarsi crocifiggere alla volontà di Dio di offrire un segno materiale ed indiscutibile del suo amore per gli uomini”.
In questo contesto monsignor Verdon ha inserito un’opera trecentesca del maestro veronese Turone de Maxio, una miniatura in un antifonale conservato nell’Archivio del Capitolo del Duomo di Verona.
In quest’opera, ha spiegato, “l’immagine, che ha per tema la Trinità, fa vedere Cristo in croce nel seno di Dio Padre che gli alita lo Spirito, più o meno come farà ancora Masaccio nel Quattrocento: era questo infatti il modo di visualizzare il mistero del Dio uno e trino nell’arte occidentale della fine del Medioevo”.
“Il Dio che è ‘Bellezza antica e nuova’, sin dall’eternità è bellezza crocifissa per noi!”, ha infine concluso monsignor Verdon.
IDEE/ La lezione di McIntyre ai "maestri del sospetto" che considerano il bene comune un'ideologia - Sante Maletta – ilsussidiario.net - mercoledì 17 marzo 2010
Parlare di bene comune oggi suona quasi come un’eresia. Cosa c’è di più evidente della sua inesistenza? E chi usa ancora tale espressione se non coloro che mirano a presentare come generali – "comuni" appunto - i loro propri interessi. I "maestri del sospetto" lo hanno insegnato a intere generazioni che quella di "bene comune" è un’espressione ideologica.
Eppure le cose non stanno così. Non si tratta solo del fatto che occorre anteporre gli interessi "comuni" a quelli "privati" se vogliamo vivere assieme – come sa qualunque assemblea di condòmini. E’ che di fatto non è così. Nessun gruppo musicale, nessun team di ricerca, nessuna azienda familiare esisterebbero senza bene comune. Ed è evidente che di queste cose, grazie a Dio, è piena la società.
Ma cos’è questo (benedetto) bene comune? A me lo ha insegnato il filosofo americano di origine scozzese Alasdair MacIntyre. Si fa esperienza del bene comune ogni qual volta ci si pone il problema eminentemente pratico: cosa devo fare (per compiermi come essere umano, per essere "felice"? Che posto devo dare nella mia vita ai beni di ciascuna delle attività in cui sono coinvolto? E’ giusto che lavori quattordici ore al giorno? E la famiglia? E la salute? Si tratta di questioni assai concrete, come ognuno può constatare…
Nei limiti in cui a questa domanda si cerca di dare una risposta (mai definitiva) in termini razionali, non lo si fa mai da soli. Ogni individuo che cerchi di dare una risposta a tali quesiti deve ammettere che non può evitare di coinvolgere altri individui. Può darsi che tale coinvolgimento sia solo potenziale, ma è inevitabile considerare l’opinione di altri che per me sono significativi, che esemplificano un modo di vita interessante, umanamente riuscito.
Si tratta della scoperta di un’appartenenza reciproca che riguarda il livello stesso della pratica della razionalità. Per dirla con Gaber: «l’appartenenza è avere gli altri dentro di sé». Ne consegue che le mie domande divengono: "che posto dobbiamo dare nella nostra vita ai beni di ciascuna delle attività in cui siamo impegnati? Qual è la vita migliore per noi?".
Ecco allora dov’è innanzitutto il bene comune. L’ordinamento dei beni, processo interiore ma allo stesso tempo intersoggettivo, costituisce esso stesso il bene comune. E’ così che nasce il legame civile. Si tratta di una comunità non fondata su una comune origine etnica o linguistica o religiosa. E’ una comunità costituita da un tessuto di tipo discorsivo, da un legame di tipo razionale che precede e genera la sfera politica.
La crisi del bene comune oggi è data dal fatto che il discorso in merito a tali questioni decisive per ogni individuo è falsato dal linguaggio distorto dei mass media, da un dibattito pubblico che non mette a tema le esigenze e le evidenze fondamentali della vita, colte dai molteplici punti di vista individuali, ma si concentra su ciò che fa più comodo al Potere.
L’attenzione oramai ossessiva sulla corruzione vera o presunta di chi si occupa della cosa pubblica (a qualsiasi colore politico appartenga) impedisce che si sviluppi quel discorso che riguarda ciò che interessa maggiormente le nostre esistenze individuali. Le evidenze e le esigenze fondamentali vanno a farsi benedire quando il problema diviene quello di individuare il capro espiatorio di turno cui addossare la responsabilità dell’inautenticità e della insoddisfazione della nostra vita.
Occorre invece che i responsabili della cosa pubblica proteggano l’autentico bene comune sostenendo sussidiariamente quelle forme di vita e quelle attività dove di esso si fa esperienza: comunità, scuole, associazioni no profit, aziende familiari.
Alla fine della sua opera più celebre, Dopo la virtù (1981), parlando della nscita del monachesimo occidentale all’inizio del Medioevo, MacIntyre scrisse: «Un punto di svolta decisivo in quella storia più antica si ebbe quando uomini e donne di buona volontà si distolsero dal compito di puntellare l’imperium romano e smisero di identificare la continuazione della civiltà e della comunità morale con la conservazione di tale imperium. Il compito invece che si prefissero (spesso senza rendersi conto pienamente di ciò che stavano facendo) fu la costruzione di nuove forme di comunità entro cui la vita morale potesse essere sostenuta, in modo che sia la civiltà sia la morale avessero la possibilità di sopravvivere all’epoca incipiente di barbarie e di oscurità».
Mutatis mutandis siamo in una situazione per certi versi simile. Per rendere possibile la salvaguardia e lo sviluppo di forme di comunità simili, in cui vive e opera il bene comune, vale la pena persino impegnarsi in una campagna elettorale.
Avvenire.it, 17 Marzo 2010 - CONTINUANO I MASSACRI - Nigeria, attacco a villaggio cristiano: almeno 11 morti
Cristiani di nuovo nel mirino delle violenze confessionali in Nigeria. Undici persone sono rimasti uccisi in un'incursione notturna a un villaggio cristiani in Nigeria centrale, nello Stato dell'Altopiano (la regione del "Middle Blet", al confine tra le comunità a maggioranza islamica degli Stati settentrionali e quelle cristiane del sud del Paese).
Secondo la Radio Stato Plateau, l'incursione al villaggio nell'area di Riyom è avvenuta intorno all'1:20 ora locale (quando in Italia era mezzanotte e meza). Lo Stato dell'Altipiano (Stato Plateau), capitale la città di Jos, è stato teatro quest'anno di altri eccidi: a gennaio, in quattro giorni di violenze tra musulmani e cristiani morirono più di 400 persone.